“Attesa” è una parola pulita. Eppure decisamente incisiva: infinite cose possono succedere, e quindi incidersi in noi, tra il momento in cui è fissato un appuntamento e il momento in cui si verifica.
L’attesa è un tempo vuoto, in cui però siamo messi in forte trazione. Per di più non sempre possiamo essere consapevoli della vera meta che ci aspetta.
Attendere è quindi una situazione paradossale: si attende qualcosa di indefinito.
Nicola Russo
E qui in “Acanto” Nicola Russo – che dello spettacolo è autore e regista – dimostra una fine capacità nel restituirci fascinosamente tutte quelle sfumature, relative alle tensioni contenute nella parola “attesa”.
Lo fa oltre che con una raffinata drammaturgia – intrigantemente banale – sia attraverso un efficace uso della prossemica, sia attraverso un sapiente lavoro sulle posture dei personaggi.
Personaggi fatti inconcontrare in uno spazio scenico – una sala d’attesa anch’essa misteriosa nella sua apparente banalità – che allude a qualcosa che prenderà una non banale direzione (le scene sono curate da Giovanni De Francesco).
Alessandro Mor – Gabriele Graham Gasco
C’è tutto in questa sala d’attesa: c’è il tabellone del codice numerico (con il quale attendere il proprio turno), ci sono le sedie dove sedersi e ci sono le strisce a terra, diversamente colorate, che accompagnano i pazienti verso i vari percorsi terapeutici.
Ma stranamente le sedie non sono rivolte verso il tabellone: non se ne curano. Stanno aspettando qualcuno che – credendo di essere interessato a un controllo medico o al risultato di analisi – si scoprirà interessato a conoscere “il risultato di un incontro” con un (apparente) sconosciuto. Un sano imprevisto, che rivela la sotterranea attesa di conoscere meglio se stessi.
Alessandro Mor
In questa sala – luogo spaziale ma anche mentale – si palesa allora un uomo adulto (interpretato in florida sottrazione da Alessandro Mor) preoccupato, più che per l’appuntamento medico, per l’eventualità di essere visto, scoperto. Apparentemente dagli altri.
Un uomo senza nome: felice scelta drammaturgica che se da un lato ci aiuta a sentire il suo isolamento, dall’altro riesce a farci avvertire come il suo sentirsi fragile lo accomuni a ognuno di noi.
Lì in quella sala d’attesa sente, infatti, da qualche parte della propria anima, la tensione propria di un presentimento: quel luogo lo agita per essere così aperto e privo di difese. La prima battuta che pronuncia con sollievo spaventato è: “non ho nessuno davanti”. Come a rassicurarsi di non dover confrontarsi, come allo specchio, con qualcuno che lo ha preceduto nel tempo.
Anche al telefono dice di non aver bisogno né di compagnia, né di sostegno. Ma di una maschera (parrucca, occhiali): la sala d’attesa è come se lo mettesse a nudo con sé stesso. È come se lo portasse allo scoperto.
E invece lui, come quella casetta abbandonata e quasi “mangiata” dalla jungla vegetativa che la circonda – che vede guardando fuori dalla finestra della sala – vorrebbe solo mimetizzarsi, anzi nascondersi dal sole. Prediligendo l’ombra, come la pianta dell’acanto: splendida creatura riservata, dai confini spinosi.
Ed è ora che può – proprio quando sta sciogliendo gli ormeggi delle sue difese – entrare “un altro” nella sala d’attesa e nella sua comunicazione telefonica. Sintonizzandosi e invadendo il “suo spazio” e il “suo sentire”.
Un altro sé giovane (interpretato da un Gabriele Graham Gasco dalla fibra espressiva accesa, ricca in nerbo, e insieme soave) che gli fa notare tutto ciò che li differenzia: l’età, la gustosa attenzione ai dettagli, l’ebbrezza per il rischio.
Allora iniziano a “spiarsi” l’un l’altro.
L’essere così estroverso del giovane, inizialmente lo irrita. Ma poi se ne fa contagiare. E diventa reciproca l’interazione, dove chiedere all’altro di “vedere a occhi chiusi e poi raccontare” risulta una chiave per aprire le porte chiuse delle due individualità.
(ph. Nicola Russo)
A sottolineare questa poetica, cifra stilistica di Nicola Russo, entrano in scena anche dei video (la cui cura è di Matteo Tora Cellini), che interrogano e rivelano oniricamente lo stare al mondo intimamente segreto dei personaggi. Attraverso la creazione artistica, infatti, lo sguardo dello spettatore è guidato in un diverso microcosmo dove il dentro e il fuori, l’uno e l’altro trovano una loro armonia.
Splendido il lavoro sul corpo di entrambi gli interpreti in scena: corpi così fermi eppure così potentemente e in diversa maniera comunicativi. Nello specifico: tanto il se’ giovane interpretato da Gabriele Graham Gasco rompe continuamente i piani dello spazio in torsioni, muovendosi seducentemente tra la tensione comunicativa dello “spingersi verso l’altro” e il separarsene per imbarazzo, o per ritirarsi in una propria bolla immaginativa; quanto il sé adulto di Alessandro Mor risulta efficacissimo nella sua quasi totale assenza di azione fisica.
Gabriel Graham Gasco
Eppure arriva allo spettatore tutta la tensione che muove sotterraneamente la sua immobilità. E sebbene il suo corpo, e quindi i suoi gesti, non denotino trazione, eppure c’è. E si sente. Tutta incanalata com’è nella voce, nel modo di timbrarla, nel deglutire, nel modo di indirizzare lo sguardo. Ne parla anche il suo stesso modo di vestirsi: la ricchezza inquieta del panico del bianco con cui veste la parte superiore del suo corpo, viene stretta poi in un total black nella parte inferiore, che vorrebbe essere totale assenza di visibilità. Solo ombra di acanto.
Ma da giovane le cose stavano diversamente. L’altro da sé, che ora gli è difronte, sapeva aprire invece la confortevole felpa chiusa e lasciar vedere come ciò che il nero avrebbe voluto inghiottire sapeva darsi invece alla fangosità del marrone, fino ad arrivare a contattare il fertile femminile del rosa. Per poi ricominciare. Circolarmente (la cura dei costumi è di Giovanni De Francesco).
Di fulgente bellezza poetica è poi quel suo “posso venire con te ( immaginandomi nei tuoi ricordi anche traumatici)?” e quel “prova! (a immaginare di essere tu, me, in quella situazione e poi raccontamela) dell’altro. Varchi che aprono al contatto delle due aree dello stesso animo.
E’ il potere del riuscire a portare l’altro “con” noi. E’ il potere di una staffetta, in cui si gioca sul serio a passarsi il testimone.
Uno spettacolo dalla bellezza delicata e pungente: così com’è l’attesa. Così comè l’acanto.
Uno spettacolo dove il passato viene restituito al suo valore di memoria fondante il presente, nonché il futuro. Una memoria a cui si può tornare ad attingere ogni volta – grazie al racconto partecipativo dell’altro da sé – cogliendo in essa sempre qualcosa di nuovo. Che non si era colto precedentemente. Da soli.
Una memoria che ci sta sempre di fronte attraverso la traccia che ha inciso in noi, ma che si può guardare in maniera aperta: sapendo aspettare, ad esempio, un nuovo racconto di essa. Perché sono i racconti complementari al nostro di un testimone della nostra storia che, in uno sguardo lungo nel tempo, danno vita ad un’autentica biografia. Dove “con” lo sguardo di un altro possiamo rimettere insieme ciò che altrimenti andrebbe disperso.
Non è sola: ha eletto a compagna di viaggio, come un transumante, un animale.
Una gallina.
Animale che i Greci consideravano sacro e associavano alla dea della saggezza. Le galline cercano nutrimento sotto terra e questo, simbolicamente, allude ad una ricerca della verità non in superficie. La gallina poi è un animale che sa relazionarsi, sa vivere in gruppo e in quanto tale è capace di sostegno e collaborazione.
(ph. Piero Tauro)
Lei (una straordinaria Federica Rosellini) è invece una creatura transumante, che si lascia abitare da diverse identità. Una creatura dal sentore di sacro e di innocenza.
Insieme alla sua compagna di viaggio ci aspetta per partire alla volta di un misterioso viaggio. Un viaggio che inizia annunciandosi ai nostri occhi attraverso la prospettiva di lande immense, ricoperte di neve. Strade ghiacciate e spezzate in lastre, che trovano una prosecuzione anche sul palco, fino in platea. Gli avvincenti video, sospesi tra pathos e distanza emotiva, sono di Rä Di Martino.
Un mondo candido. Innocente. Sembrerebbe.
Ma “che cos’è la felicità – ci chiede voltandosi da un lato – ma voi avete amato? E’ stato doloroso?”.
Inizia lei a raccontare: in un tempo scandito per numeri che si dilatano in quadri, è lei che si dà cura di cucire frammenti di ricordi, di riflessioni intime e universali, di testimonianze mitologiche.
Frammenti che sono affiorati dal sottosuolo sulla pelle candida del suo corpo: in forma di tatuaggi e graffiti.
(ph. Andrea Macchia)
Il darsi di ogni quadro temporale è possibile attraverso l’inquadratura – e quindi il fare luce, il dedicare attenzione e il volgere lo sguardo – su un frammento che affiora sul suo derma.
E poi canta, si campiona e lascia che si sovrappongano più tracce: perché questo, noi umani, siamo. Delle stratificazioni. Degli enigmi che credono di potersi muovere liberamente. Ma sotto alla terra, sotto alla sabbia, che crediamo di calpestare e conquistare liberamente, si cela uno scacchiere di enigmi. E di atrocità.
(ph. Piero Tauro)
Siamo quindi il risultato anche della testarda Antigone: donna dalla lingua e dalla capacità argomentativa di un uomo. E così innamorata del “mondo di sotto”.
Siamo fatti anche di suo padre Edipo, che ha sofferto la peggiore delle ferite: l’abbandono di una madre attesa ma che non arrivava mai. “Se sopravvivo a questo dolore, distruggo tutto” – pensava mentre un chiodo d’argento gli bloccava i piedi: solo, sul Monte Citerone, all’addiaccio. Il problema dell’abbandono è che non ha una cittadinanza: è una ferita assoluta che niente potrà chiudere. Siamo gli aborti di Dio. E, allora, ho contaminato tutti quelli che potevo contaminare”. Ma forse non si tratta solo di contaminazione: forse è “la macchia, quella che seguiamo”. E non un ideale di pulizia.
(ph. Rä Di Martino)
Siamo fatti di Giocasta: “che lo sapeva e non lo sapeva che quello era suo figlio … era come una melma … era tutto così contorto”.
Siamo fatti di Giovanna d’Arco: così attratta dalle ali degli angeli e dai cespugli di lavanda, dove sapeva che li avrebbe trovati.
Ma noi, invece, ci riteniamo uomini sapienti e ci raccontiamo altre storie: ci piace consolarci con la logica.
E, invece, “torneremo mai così innocenti come i transumanti, che viaggiavano insieme agli animali?”. Loro, strati del nostro sé interno ed esterno. “Abbiamo il loro sangue, abbiamo fatto sesso con tutti quelli che avevano pelle e polmoni”. Ma diciamo di credere nel bene separato dal male. E di essere una versione distante dall’uomo di Neanderthal.
In verità, siamo preda dell’incertezza.
E cosa aiuta ad attraversare tempi di incertezza? Quando quello su cui sedevi trema e minaccia di andare in pezzi? Di cosa nutrirsi in quegli attimi, in quei mesi, in quegli anni? E cosa invece si può lasciare andare?
La condizione di incertezza in cui siamo ontologicamente immersi e che arriva a sommergerci in alcuni frangenti vitali, come ad esempio e’ successo nella scorsa pandemia – occasione di questa scrittura tremendamente seducente di Marina Carr – interroga e mette alla prova la qualità del nostro orientarci e del nostro saper trovare sempre nuovi equilibri esistenziali.
Marina Carr
L’incertezza infatti – se si riesce a sconfinare al di là di quel senso di confuso vuoto da eliminare assolutamente – si offre come terreno fertile per l’emergere di un desiderio autentico. Inconscio. Che si dà attraverso un’ “opacità” che resiste alla spiegazione razionale, ma che paradossalmente ci permette di trovare soluzioni proprio in questo non-sapere razionale. Di cui dobbiamo imparare a fidarci.
Come è accaduto qui a Marina Carr: nel riuscire ad attraversare la disperata incertezza dei tempi della pandemia, la drammaturga irlandese ci confida che ha sentito emergere in lei il desiderio, il richiamo, a ricollegarsi alla natura, al suo misterioso contatto. Perché “il mondo diventa ostile quando non si ha più un posto a tavola, intorno al fuoco della caverna”.
Lascia così emergere dal sottosuolo emotivo della sua incertezza, frammenti personali ed arcaici: un manto di risorse immateriali che ha cucito insieme, proprio in quanto frammenti. E – sprofondando in questo mondo fantasmatico, denso e misterioso, fatto di figure polimorfe e liminari – questi frammenti li ha tessuti in una tela misteriosa e caleidoscopica. Una tela in 21 quadri, che attraversa il tempo, per sconfinare in luoghi insondati e misteriosi. Opachi, appunto.
(ph. Andrea Macchia)
Federica Rosellini si lascia contattare intimamente da quella creatura indefinibilmente ferina narrata da Marina Carr, testo la cui traduzione è curata da Monica Capuani e da Valentina Rapetti. Ed è così che si origina in lei, per contagio creativo, un’entità che – rinunciando ad una coltre di pelliccia e al lungo crine – si propone in un total nude. Coperto solo di segni, che emergono dal suo derma (i tatuaggi sono di Simona D’Amico).
Il suo diviene un corpo-mondo, insieme microcosmo e macrocosmo: rappresentazione di un’identità individuale e collettiva, tesa tra rabbia e amore. Espressione di un processo creativo continuo, dove il “non finito” (il frammento) diventa il codice per cogliere la complessità.
(ph. Andrea Macchia)
Dono di questa performance – complici le musiche immersive di Daniela Pes e Gup Alcaro, che sfuggendo alle classificazioni favoriscono l’immersione dello spettatore nel flusso della multiforme narrazione – quello di aiutarci a sviluppare il nostro “sentire” certo e affidabile come un “sentore”, cioè come una vaga intuizione.
E lo fa in una maniera che è insieme sottile e di gusto forte: attraverso la riscoperta di quel grigiore proprio della “santa melanconia”, di quel lucore che si incontra solo in fondo alla discesa, di quella fulgente rabbia che sa aprirsi al nuovo. Atteggiamenti, questi, con un certo grado di indefinitezza, di sospensione, di impalpabilità, anche se radicati in una percezione sensoriale.
Mescolato e intrecciato, allora il sentore ci racconta la nostra finezza percettiva di un primo provvisorio sentire: quell’attitudine che riconosciamo in tanti altri animali. Potente come un presentimento.
(ph. Andrea Macchia)
Vigoroso e necessario questo rito della transumanza proposto dal corpo di Federica Rosellini.
Un rito insinuante, che arriva trasversalmente.
Un’iniziazione di cui, nel nostro sottosuolo, si sente gratitudine. Onorati verso chi, come lei, si fa veicolo per aiutare altri ad oltrepassare un confine: quello che ci porta un pò più in là delle nostre sicurezze.
con Gabriel Montesi e Iaia Forte /Francesca Cutolo
contralto Maurizio Aloisio Rippa
E’ al cospetto di un inquieto vento di libertà che lo spettatore – attratto in questa ammaliante esplorazione teatralizzata della Domus Aurea – sente fin dal principio di doversi relazionare.
Un inquieto vento che si versa anche nelle orecchie attraverso un accattivante brano musicale che poi finisce per caricarsi del potere della parola. Insistendo sulla più potente delle parole: “Immaginate!”
Con un piglio di fulgente poesia, qualcuno ci invita a guardare l’ingresso della Domus Aurea cercando oltre quello che l’apparenza ci suggerisce. La grazia della sua voce vagamente ipnotica, unita alla liricità delle sue parole, fanno sì che davanti ai nostri occhi di visitatori inizino a palesarsi laghi, pascoli, fiumi, leoni…
Un eden terrestre dove la Domus Aurea un tempo si inseriva, quale organismo di luce. L’appellativo “aurea” derivava infatti dalla straordinaria capacità plastica con cui la luce, qui, riusciva a modellare e a manipolare i pieni e i vuoti.
E poi un sussulto: quella voce esce dalle cuffie ed entra nei nostri occhi. Ma di lato: è necessaria una leggera torsione per localizzarla. Lui (interpretato da un sapientemente ambiguo Gabriel Montesi) è spavaldo e ritroso; sicuro e insieme affamato di attenzione.
Dice di chiamarsi Lucio (anche uno dei nomi di Nerone) e di essere una guida turistica. Ma la sua è sagacia e ne avvertiamo immediatamente l’acutezza. Lui è un ponte, un medium, tra noi e la sua anima più segreta. Sua, la capacità di trasformare l’esperienza turistica in un’immersione profonda nell’anima, oltre che nella storia, di un luogo. Un luogo che è specchio e incarnazione di un uomo; di un artista ancor più che di un imperatore. Di un artista incompreso.
Un luogo nato da necessarie ceneri – ci dice – perché occorre distruggere per ricostruire – ci confessa. E la cenere depositatasi in 9 giorni di fuoco diventò come una pagina bianca, in attesa di essere scritta. Come?
Come un Tempio dedicato alle Muse, custodi delle Arti; un tempio, la Domus Aurea, che ora lui sente il bisogno di restituirci attraverso “la sua personale” interpretazione, così da vederlo anche noi con nuovi occhi.
“Io sussurro, confesso, racconto e metto in scena per voi uno spettacolo”.
Uno spettacolo sotterraneo e luminoso, il suo, che riconsegna vitalità a ombre, coinvolgendo lo spettatore in esperienze e confessioni appassionate. Capitale umano intimissimo, che le fonti scritte non possono trasmettere.
(ph. Lorenzo Masotto)
Come il disvelamento della sua anima: così profondamente incline all’arte ma sempre “sotto copertura”, come troppo spesso destino di artisti inghiottiti dal proprio presente. Ora invece, in questo nuovo percorso tra le stanze della Domus – anche stanze della sua anima – lui cerca e trova l’occasione di regalare luce al suo sè artistico, ma anche a tutti quegli artisti “servi delle Muse” che ha incontrato nel corso della sua giovane esperienza di vita.
Incluso l’esercito di operatori che rendono possibile questo viaggio sotterraneo e subconscio.
Ed è così che noi visitatori si cammina e ci si incanta.
Attraverso il suo sguardo, custode segreto di tanta bellezza, possiamo godere della nuova vita riconsegnata alle Muse: ora tornate a far danzare i loro corpi, le loro mani, le loro voci. Come fantasmi. Grazie alla partecipazione degli Attori e Attrici dello Stap Brancaccio e della Compagnia di Danza e Circo Contemporaneo Claudio e Paolo Ladisa. E grazie agli interventi coreografici eseguiti dalle Danzatrici dell’Accademia Nazionale di Danza.
Musa tra le Muse, sua madre: “ in due sillabe l’invocazione a un Dio”.
E, insieme, “il mio sergente di ferro”.
In un rimando di specchi, ci confida che suo desiderio di bambino era farsi leggere da lei l’addio con cui Andromaca tenta appassionatamente di trattenere Ettore. Ed è un ricordo che Lucio vuole rivivere con noi, complice una fascinosa Agrippina, interpretata con superba delicatezza da Iaia Forte.
C’è poi un’altra scena da rivivere: quella che fa saltare il suo ingombrante legame con il padre e il suo fratello adottivi. Sua madre ne sarà l’artefice. Con un solo colpo, saltano i due uomini con i quali Lucio doveva condividere le attenzioni di sua madre. O meglio i due uomini la cui vista riempiva gli occhi di sua madre:
“ Io per farmi notare, dovevo fare il matto”.
Ma questa visita in un pianeta precedentemente dormiente, fuori e dentro la sua anima, restituisce finalmente dignità alla sua indole artistica:
“Io, Lucio, sono riuscito a fare quello che Nerone non è riuscito a fare”.
Attento com’era lui, Nerone, a muoversi in quella jungla che è la vita di sopra: una guerra per affermare se stessi. Ora però – attraverso questo suo “autoritratto con figure”, attraverso questa sua autofiction – Lucio coglie finalmente l’occasione per dare luce alla sua invisibilità di artista:
“Guardatemi, sono davvero speciale !”
La Sala Ottagona
E poi ci conduce nell’ultima stanza della sua anima, la Sala Ottagona, dove confessa – sulle note di un canto di struggente bellezza, interpretato dal contralto Maurizio Aloisio Rippa – il suo tremendo senso di colpa per l’uccisione di sua madre.
E qui si compie la parte finale di un rito di sublime incanto, che trova suggello in quel bacio – a lui così caro – che sua madre era solita regalargli da piccolo. Ancora una volta proprio lì, sul lato del collo: tra la bocca e la gola.
E’ un’esperienza magica questo percorso teatralizzato in Domus Aurea, ideato e diretto da Fabrizio Arcuri e scritto da Fabrizio Sinisi. Che porta alla scoperta di un Nerone bisognoso di farsi conoscere anche come Lucio, l’artista. Che qui si dà come uomo dei nostri giorni, eccezionale guida turistica di una parte della sua anima. Finora invisibile.
Che cosa ci fa sentire ricchi? E’ sufficiente avere molti soldi?
E la giustizia? Ci rende soddisfatti?
Ma allora, che cosa riesce a gratificare il nostro “senso di mancanza”?
Serve diventare tutti ricchi ?
O abbiamo bisogno di “andare oltre”, per riscoprirci comunità?
Come il Pluto di Aristofane andò in scena alle Feste Lenee del 388 a.C. – così chiamate perché celebrate nel Leneo, prima forma di teatro ospitata nel grande recinto dove si trovava il più antico tempio di Dioniso – così il Pluto. O il dono della fine del mondo di Anton Giulio Calenda e Valeria Chimenti per la regia di Alessandro Di Murro ha aperto questa nuova stagione del Teatro Basilica Mania. Così chiamata perché dedicata alla riscoperta del potere della “Mania”. Una stagione che prende avvio sul confine tra il settembre e l’ottobre romano e che profuma d’ambrosia, tanto l’entusiasmo fermentativo da cui sa lasciarsi contagiare.
Mania è l’essere posseduti da una follia sacra, che permette di “vedere oltre”. Mania è “farsi mancanza”, liberando il controllo di sé per riuscire a fluire. Aprendosi verso l’ altro da sé.
Quattro, secondo Platone, erano le forme in cui la mania poteva declinarsi, ciascuna ispirata da un diverso dio. Tra queste, la “Mania iniziatica” era quella ispirata da Dioniso e dai suoi culti. Come le Feste Lenee, appunto: occasioni di purificazione e di rinnovamento, che avvenivano anche attraverso la messa in scena di agoni comici e tragici. Dioniso è infatti simbolo di questa ambivalenza: in lui convivono elementi di vita, di morte e di rinascita, come testimoniato dal mito a lui legato.
Ad Atene, al tempo di Aristofane, andavano a teatro circa 20.000 persone: tutti, anche le donne, nonostante la società ateniese fosse decisamente maschilista. La vera partecipazione popolare si dava infatti a Teatro: un luogo necessario affinchè le persone potessero incontrarsi, imparando ad entrare in relazione con l’altro. Per dare vita ad una comunità.
I temi trattati dalle mordaci e geniali commedie di Aristofane (450 a.C. – 385 a.C.) erano quelli che affliggevano la vita quotidiana dei cittadini. Ma quando Aristofane mandò in scena il suo Pluto, la vita della polis stava attraversando un profondo cambiamento politico. Sconfitta nella guerra del Peloponneso (404 a.C.), Atene vive il declino della sua potenza e la fine della democrazia. Di conseguenza, dai bersagli politici ad personam – che caretterizzavano la satira politica delle commedie precedenti – si passò ad un cambiamento di tono, focalizzato ora su questioni sociali, morali e ideologiche. Come la distribuzione della ricchezza e la critica alla disuguaglianza, appunto.
La perdita della libertà politica e il conseguente interesse verso temi meno rischiosi (come quelli mitologici) portarono parallelamente anche un cambiamento nella struttura della commedia: la scomparsa della funzione della “parabasi” e la riduzione della funzione del “coro”. Nel Pluto aristofaneo infatti, dopo la parodo, il ruolo riservato al coro si riduce e, attraverso sporadici e limitati interventi, giunge fino alla sostituzione della parte testuale con la sigla ΧΟΡΟΥ, che rappresenta un elemento di forte vicinanza con il teatro menandreo.
Nell’esplorazione e rivisitazione del testo portato in scena dagli interpreti del Gruppo della Creta – che fin da subito riescono a stringere un effervescente rapporto con il pubblico – il coro non è più composto da vecchi e stanchi contadini ma, come Cremilo e Carione, da insoddisfatti borghesi, poveri in eros vitale.
La parabasi, assente nel Pluto aristofaneo, qui occhieggia per poi essere presa in mano dagli stessi personaggi. Che si limitano però ad invitare gli spettatori a fare offerte al dio e a sondare le tendenze del pubblico sul tema della ricchezza.
E poi c’è l’introduzione di un rockeggiante dio alato, forse Eros: cùpido di desiderio amoroso e non di cupidigia materiale. A lui è affidata la funzione tragica e grottesca di commento.
Perché Cremilo si preoccupa del futuro che vivrà suo figlio? Forse perché desidera per lui un destino migliore? O magari perché i figli riescono ad amare solo padri ricchi?
Quella del dio alato è una narrazione che utilizza anche un tono da parabola e che richiama, attraverso il sorriso, una profonda riflessione da parte del pubblico. Le parabole contengono infatti una verità. Ma questa è come un “mistero” da cercare e approfondire. Chi non si impegna e “non apre il proprio cuore” ne rimane fuori, senza capirne il significato profondo.
E per sottolineare con ridicolo contrasto il modo in cui Cremilo invece si impegna a “manipolare” il responso di Apollo, la regia di Alessandro Di Murro utilizza il dio alato per ammantare la figura di Pluto del profumo di “un messia”. Di un’entità cioè attesa come apportatrice di pace, perfezione e giustizia. Capace di inaugurare un tempo nuovo e definitivo.
Ma Apollo aveva consigliato a Cremilo di seguire colui che avrebbe incontrato all’uscita, non di ridargli la vista. Perché la sua cecità non è affatto un minus: è lì, il senso del responso. “Quando ci vedrai, la vita di tutti migliorerà” – dice invece Cremilo a Pluto – regneranno così la pace e il bene, perché la povertà sarà scomparsa”.
E così è in un ring – che registicamente prende forma da quegli eccessivi legami di sicurezza e di potere dai quali gli uomini fanno fatica a liberarsi – che viene condotta Penia, dea della Povertà: per combattere contro (e non “con”) Pluto, il dio della ricchezza. Nell’illusione di una comunità più giusta. Non è neanche immaginata una coesistenza delle due divinità: l’una deve necessariamente soccombere all’altra. Perché così (utopicamente) si pensa che la giustizia possa prendere forma: senza la paura della mancanza, della povertà.
Una ricchezza che poi viene distribuita dal Pluto vedente, senza fare differenze di merito. E che porta gli uomini, ormai tutti ricchi, a una vita spalmata a terra. Senza neanche più la tensione ad alzarsi, per provvedere al proprio sostentamento. Tutti ormai “padroni”, nessuno più “servo”.
“Possedere” etimologicamente significa infatti conquistare la postura esistenziale dello stare seduto, tipica di un padrone. Come opportunamente visualizzato dalla prossemica degli interpreti in scena che, solo una volta divenuti tutti ricchi cittadini ateniesi, assumono la postura da padroni.
Ma qualcosa è sfuggito in questa ricerca della ricchezza e della giustizia . E in una tragicamente comica eterogenesi dei fini, pur avendo eliminato la povertà, manca quel soddisfacimento che si era (utopicamente) immaginato. Ed è così che la vittoria assoluta di Pluto, dio della ricchezza, porta in dono ai suoi “fedeli” la fine del mondo. Perché la ricchezza può diventare una vera e propria s-mania distruttiva per gli uomini.
Nell’Atene del 388 a.C. , così come oggi, regna la tendenza a voler negare quel senso di perdita che abita le vite degli uomini. E che può stimolare un diverso “desiderare”: che non si accontenta del godimento immediato, ma che s’intriga a circumnavigare l’oggetto del desiderio, così da rendere questo diverso desiderare creativo. Donativo.
Ed è così che l’adattamento di Anton Giulio Calenda e Valeria Chimenti e la regia di Alessandro Di Murro accennano ad un possibile diverso finale, che si gioca intorno al concetto di “dono”.
Perché il “dono” è tale quando il valore dell’oggetto – al di là di quello di mercato – è dato dal suo essere rivolto all’altro.
Perché il dono porta le tracce di chi lo fa, ma poi è l’altro che lo riceve e che ne dispone liberamente.
Perché è in questo passaggio cruciale dalla logica del possesso a quella del dono, che si dà il superamento dell’individualismo verso l’apertura all’altro, il superamento della solitudine verso la relazione, il superamento della distruzione verso la creazione. Passaggio possibile perché sullo sfondo resta – e si ha cura di non cancellarla – la consapevolezza della mancanza ad essere e a poter avere tutto.
Abitare la mancanza, nel nostro tempo intossicato dal mito della ricchezza, è la vera sfida per l’essere umano: accettarla, farci i conti quotidianamente e renderla feconda. Uscendo dal guscio sterile e distruttivo della schiavitù dell’oggetto. Per riuscire a costruire e a sostenere quelle relazioni proprie di una comunità.
Il nostro ontologico senso di “mancanza” ( io abito con voi da sempre” – fa dire Aristofane a Penia, la dea della povertà) è molto più di un vuoto che si accontenta di essere chiuso dalla prospettiva di possedere sempre più soldi. E’ un mistero che chiede di essere attraversato, abitato, esplorato. E non fuggito, o scacciato.
Non a caso Platone nel “Simposio” fa della dea Penia la madre di Eros, il dio dell’amore. Il cui padre è Poros: il dio della via, del percorso. Eros, il dio del desiderio vitale, si origina quindi per Platone proprio attraverso la via (Poros) della mancanza (Penia).
Gli interpreti in scena – Matteo Baronchelli, Alessandro Di Murro, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia – che agiscono in una scena volutamente nuda, lasciata immaginare dalla ricca“scenografia verbale” dei dialoghi, brillano nel travolgere lo spettatore con divertenti provocazioni, che aprono profondi spunti di riflessione.
Poeticamente comiche le coreografie e i commenti canori del coro (che vedono in scena anche gli allievi attori del progetto “Aristofane nostro contemporaneo”). Efficacemente plastico l’uso dei corpi, la rottura dei piani, l’espressività mimica, il portare la voce.
Interessante la scelta drammaturgica dei costumi: Pluto e il rockeggiante dio alato, vestiti alla maniera del loro microcosmo mitico; la dea Penia e i cittadini ateniesi in abiti contemporanei, a vissualizzare la marcata attualità del messaggio della commedia.
Nello specifico, la dea Penia in quanto esiliata dalla vita, è vestita a lutto. Ma con il nero le cose sono sempre complicate. Il nero, così come il bianco, è una traduzione della luce: in questo caso una traduzione della sua assenza. Mai totale, però. Il bianco invece riflette tutte le onde luminose. Però tutte allo stesso modo. Una splendida metafora che visualizza assai efficacemente gli habiti (i modi di fare) dei personaggi.
I cittadini vestono infatti tutti in tailleur tutti uguali, dove il bianco della camicia resta quasi interamente avvolto in una sfumatura di grigio perla. Colore che parla di una saggezza data solo da evidenze oggettive (come ben suggerito anche dall’enfasi fittizia regalata alle spalle di Cremilo e Cairone). E, in quanto tale, mediocre: un compromesso di eccessiva prudenza.
Come quella che spinge a dover essere tutti ricchi.
Per non restare sordi al “gocciolio” di una rottura.
Per non smettere di “sprofondare dentro le storie degli altri”, temendo di non amarli più.
Per non sentirci al sicuro, solo se da soli.
Per parlare, per interrogarci, insieme.
Per fare, insieme.
Per non lasciarci fare.
Questo di “Microclima” è un accorato invito a indirizzare la nostra attenzione su ciò che agisce in noi dall’esterno, senza fare troppo rumore. Lentamente provocando condizionamenti sotterranei, capaci di stravolgere le nostre capacità di sentire e di agire.
Questo di “Microclima” è un lavoro – che nasce dalla fertile sinergia concertata tra la drammaturga e regista Alessia Cristofanilli, la Fondazione Friedrich-Ebert, Fragile Spazio e La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello – frutto di un’osservazione e di un’analisi, che hanno evidenziato come certe influenze del nostro macrocosmo socio-politico riescano a penetrare, quasi inavvertitamente, nelle nostre posture esistenziali più intime. Nello specifico, nei modi di stare dentro la nostra prima forma di comunità politica: il microcosmo familiare.
Questo di “Microclima” è un titolo che sapientemente già allude ad un possibile stare al mondo prossemicamente separato, con una particolare inclinazione-deviazione rispetto alle dinamiche del macrocosmo. Un “clima piccolo”, debole e quindi inoffensivo, che si fa fatica a definire ancora libero arbitrio. Perché a predominare è il sapore dell’astensionismo: qualcosa di simile ad un auto-esiliarsi in patria. Un’amputazione, in anestesia, del corpo organico della “comunità”: un deviare, rispetto al legame di partecipazione socialmente attiva. Rispetto alla funzione di “parte” di un tutto: legame politico-esistenziale che è legge e dono.
Ecco allora la scena darsi come una sorta di “luna park”, solo apparentemente nato dal desiderio di evasione dalla routine, per cimentarsi nell’esperienza sensoriale della vertigine e del movimento continuo. In realtà metafora della vita nel suo scorrere ciclico, rappresentato dalle rotazioni delle giostre, visualizzate genialmente dallo scorrere di uno skateboard. Vento di libertà – che sfida i limiti e incoraggia la perseveranza a cadere, a fallire e a rialzarsi – circoscritto qui ad un’unica traiettoria.
Perché la libertà è ebbrezza e angoscia; navigazione e nostalgia della terraferma. In questo dualismo esistenziale ciascuno cerca di trovare continue forme di equilibrio. Provando e riprovando. Ma in noi umani la tensione securitaria è così forte da portarci a preferire, spesso, un male conosciuto a un bene nuovo, tutto da scoprire. E con il quale non smettere mai di confrontarsi.
E così può accadere – come narrato in questo spettacolo – che due ex attivisti impegnati concretamente per un cambiamento politico e sociale, a seguito di delusioni e di subdoli condizionamenti socio-politici, preferiscano non riprovare ancora, e ancora, a dare vita ai propri ideali. Smettendo di sollevare l’ancoraggio dal fondo, per poter salpare. E finendo così per “serrarsi” in uno spazio protetto ma chiuso; sicuro ma asfissiante. Un microclima così sospeso e separato, da far perdere la cognizione del tempo.
Un’arca immobile, in cui portare in sicurezza tutte le piante del vivaio, altrimenti facile preda di parassiti. Quegli “stranieri” così inaccettabili, da immaginare un futuro “senza”. “Che cosa sono gli stranieri ?” – chiedono infatti i loro figli – “di chi è la terra?”. Figli per i quali si desidera un’educazione “intra moenia”: quella del microclima domestico. Almeno finché, come le piante, i figli non si saranno costruiti una solida struttura.
Ma mentre virtù delle piante è “il non farsi sentire”, lo stesso non si può pretendere per i giovani ragazzi loro figli. Perché “è un inferno non farsi sentire”. Soprattutto quando il cielo si fa sempre più povero di “stelle”: occasioni dell’attendere e del desiderare.
E può venire allora facile farsi tentare dalla postura esistenziale dell’“aderire” cieco, de-responsabilizzato. Smarrendo sempre più la propria sensibilità critica a “sintonizzarsi” o meno con l’altro. Ma soprattutto barattando, con un’illusione di “costante sicurezza”, il nostro potere di riuscire a cambiare, a re-iniziare, a ri-generarci. Anche quando in noi, provati dalle avversità, pulsa di vitalità solo una minima parte. Alcune piante riescono a farlo anche solo con un 15% di salute. Per noi è più complesso, perché più controversa è in noi la gestione contrastante delle spinte ad arginare e ad esplorare il mare del desiderare, del conoscere.
In scena gli interpreti – Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli – brillano nel restituirci quelle profondità subdolamente oscure, colonizzate da pregiudizi. Profondità eppure così umane, così vicine. Così confinanti le nostre. Un confine sul quale si va a finire insieme. Incontrandosi. Complice anche la decisa delicatezza di questo spettacolo, che “pota” orizzonti per permetterne una nuova fioritura.
Lo spazio scenico ci parla, infatti, di lussureggianti solitudini: di un habitat sospeso, dipinto di “un verde assoluto che – come era solito dire Kandinskij – è un elemento immobile, soddisfatto di sé, limitato in tutti i sensi”. Dove, a specchio, si esercita il diritto di gestire (manipolare) una comunità “muta” di piante. Da dove è esclusa ogni tentazione libertaria alla “manifestazione”, proprio perchè iper protette e quindi lasciate indebolire. Divenendo incapaci di misurarsi con inevitabili “infestazioni” parassitarie: “manifestazioni” del mondo vegetale. E non solo.
Perché il “manifestare” è parente dell’ “infestare”: quest’ultimo più subdolo, più strisciante: non si avvale dell’uso delle “mani”. Un fermento sotterraneo. Perché invece quando manifestiamo pubblicamente un’urgenza o una contrarietà, è come se acchiappassimo con le mani un fuggente tratto di realtà e lo presentassimo all’evidenza del pubblico, della piazza, degli altri. Con una concretezza che si stringe fra le dita.
“Microclima” è un’opera originale che intreccia intimità psicologica e riflessione civile, eleggendo il linguaggio del teatro, ricco in umana meraviglia, a leva capace di sollevare efficacemente l’attenzione al confronto, personale e collettivo, con una delle questioni più urgenti del presente: la fragilità della democrazia e la normalizzazione delle destre.
E lo fa attraverso una “manifestazione” poetica.
Senza proporre facili risposte, lo spettacolo riesce a gettare luce dove regna l’ombra, offrendo uno spazio di riflessione collettiva sulle contraddizioni della società contemporanea: sulla percezione di minaccia e sul significato – politico e personale – di crearsi un proprio “microclima”, in tempi di instabilità e radicalizzazioni.
Perché oggi, più che mai, serve interrogarsi su come e dove si stia muovendo l’ecosistema democratico.
Perché la cultura, in tutte le sue forme, è uno dei luoghi da cui ripartire.
Ma perché ci risulta così difficile “collegarci” con noi stessi dando voce a ciò che desideriamo!?
Quella intessuta dai tre talentuosi autori/attori Edoardo Trotta, Manuel Ficini, Erich Lopes – con la consulenza di Gabriele Di Luca – è una drammaturgia dove, in un sapiente gioco di cerchi concentrici, tutti cercano di evitare la forza di attrazione che li chiama ad entrare “in collegamento” con un fertile buco di buio: una fragilità dentro la quale però si nasconde sempre un’occasione da non sprecare.
Nello specifico: tre amici, apparentemente uniti dal sogno di aprire un buco, “il Buco dell’Aux” ovvero un locale per dare voce a sfoghi artistici e non solo, sono in verità separati dai lacci dei propri problemi personali, nel buco oscuro dei quali non riescono ad accedere.
C’è poi qualcuno, tra i tre amici, che protegge i piccoli invasori del loro locale dall’entrare nei buchi a loro destinati.
E ancora: le stesse persone del pubblico, avventori del locale, seppur calorosamente invitate si trattengono dall’entrare nel buco di buio creativamente liberatorio che il locale mette loro a disposizione, per dare voce agli sfoghi di tutti coloro che lo desiderano. E che prima non avevano un posto per farlo. Ma poi alla fine qualcosa succede…
Perché superando quella maledetta paura, che sta a guardia dell’ingresso del buco del nostro disagio, si può riuscire a sentirsi “a casa”: cioè veri, autentici. Nel bene e nel male: con i nostri pregi e con le nostre fragilità. La differenza la fa l’uso che riusciamo a fare del nostro disagio: se è ricco in compassione, dal disagio inaspettatamente zampillano preziose occasioni creative, vitali.
E quindi la domanda che i tre autori Edoardo Trotta, Manuel Ficini e Erich Lopes si rivolgono e ci rivolgono è: visto che per tutti è difficile entrare “in collegamento” con noi stessi e quindi con i nostri desideri, cosa siamo disposti a fare per accendere, più che riempire, il nostro buco di buio?
Una possibile soluzione potrebbe essere – come suggerito dallo sguardo registico dello spettacolo, la cui consulenza è di Silvio Peroni – quella di non focalizzarsi sul raggiungimento della perfezione della prestazione a tutti i costi, quanto piuttosto su quel sentirsi più liberi, regalato dalla fluidità balbuziente di un continuo “provare”.
E dallo “stare” – senza avere troppa fretta ad uscirne – proprio in quel velo bianco, così cromaticamente pieno di colori e di contraddizioni, ben suggerito dai costumi di scena.
Lo stesso spazio scenico è uno spazio in fieri, in costruzione e decostruzione: perché ogni sogno non è mai lineare. Perché ogni crescita è fatta anche di una ricerca sempre nuova di un’intimità, che non è facile condividere con gli altri senza rimanerne invasi.
In scena il ritmo è alto e non ci sono cedimenti, ma quello che più colpisce è il tempo musicale delle pause: profondi buchi di senso. Pause usate cioè per dare ritmo, espressività e respiro, ad un pensiero non esprimibile altrettanto efficacemente attraverso le parole.
Pause disegnate dalla drammaturgia delle luci – quali segni di interpunzione emotiva – che sanno andare oltre la semplice rappresentazione del silenzio, o dello scorrere del tempo. Per darsi invece come elementi attivi, capaci di creare attesa, enfasi, contrasto. Permettendo agli spettatori di riflettere e quindi di connettersi con quel particolare momento, fino ad apprezzarne il suono emozionale che produce.
Perché anche un calibrato uso delle pause può dare voce, proprio come un aux.
Ben concertati tra loro Edoardo Trotta, Manuel Ficini e Erich Lopes: continuamente alla ricerca di una spontaneità che ciascuno sa declinare sulle proprie corde avvitandosi a quelle dell’altro, imbastiscono uno spettacolo che profuma di “romanzo di formazione”.
E che racconta con grande sensibilità la complessità delle dinamiche relazionali, la difficoltà nel comunicare, la precarietà, l’arrivismo untuoso e la voglia di riscatto. Con una particolare attenzione ai dialoghi – e ancor più a ciò che non viene detto – capace di creare momenti di realismo commovente e ironico.
“La locusta non si alzerà più. Realtà aumentata e Archeologia politica”
il critico letterario Andrea Cortellessa riflette intorno ai temi dell’opera di Philip Dick
con la complicità del filosofo Dario Gentili
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IF/Invasioni (dal) Futuro_Legacy*2025
Dodicesima edizione
FESTIVAL
dedicato alle scritture e ai temi sempre più contemporanei della
FANTASCIENZA
Teatro India 25 – 31 agosto 2025
a cura di lacasadargilla / Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Alice Palazzi, Maddalena Parise e Gianluca Ruggeri / ARS Ludi in collaborazione con Roberto Scarpetti
con il sostegno di Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Guarda, sono arrivate ! Ma forse erano già qui perché le stavamo aspettando: ne temevamo e ne desideravamo ardentemente l’arrivo. Il ritorno. Che ogni volta è “come uno shock”: perché la loro e’ “una realtà potenziata”, è fantascienza!
Invasioni e aggregazioni narrative attratte da particolari habitat: in passato dalla bellezza nascosta del “triclivio estivo” di Mecenate; più recentemente da quel Teatro industrial style sul Lungotevere, appassionato dalle sperimentazioni artistiche: il Teatro India, il teatro del futuro. Un futuro che c’è , che è già qui.
Anche altri siti limitrofi sono stati avvistati, scelti e invasi: un centro anziani sul Lido di Ostia e una biblioteca, quella del quartiere Quarticciolo.
La cittadella spaziale di IF ha stazionato infatti al Teatro India da 25 al 31 Agosto. Poi dal 4 al 7 settembre si è spostata sul sito del Centro Anziani del Lido di Ostia, dove si è potuta visitare l’opera corale sonora“Here There and Everywhere”. Resa fruibile a tutte quelle voci antiche che hanno contribuito a crearla. E ancora dal 12 al 14 Settembre IF/INVASIONI (dal) FUTURO ultimerà le sue esplorazioni di quest’anno alla Biblioteca Quarticciolo con IF_ARrchive: una postazione d’ascolto delle migliori registrazioni dei melologhi sci-fi di IF/ Invasioni (dal) Futuro.
Quest’anno torna su Roma, e non solo – per il dodicesimo anno – titolandosi Legacy*2025 . Indagando cioè su come il mondo – per come lo conosciamo – ci si riveli, in fondo, un falso. E come invece la fantascienza, rinunciando al criterio di verosimiglianza, riesca a proporsi quale “realtà aumentata”. Le cui potenzialità si rintracciano già nel presente.
Il cartellone risulta ancora una volta ricchissimo di eventi, incentrati sulla fertilità dell’incontro con l’Altro, perché è attraverso l’Altro, ovvero il diverso da noi, che possiamo trovare tracce per conoscere meglio anche noi stessi.
Gli eventi in programma assumono svariate forme: installazioni, spettacoli multimediali e melologhi sci-fi, performance non frontali, workshop, installazioni immersive multimediali site specific, una conferenza tra letteratura e filosofia e un ricco palinsesto radiofonico quotidiano.
Nello specifico, nelle date del 30 e 31 Agosto u.s. la casadargilla ha presentato una nuova versione di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (Blade Runner) di Philip Dick.
Philip Dick (1928- 1982)
All’opera di Philip Dick, focus tematico dell’edizione di quest’anno, è stata dedicata anche la conferenza filosofico/scientifica dal titolo “La locusta non si alzerà più. Realtà aumentata e Archeologia politica”. Il 30 Agosto u.s. infatti il critico letterario e storico della letteratura Andrea Cortellessa ha riflettuto intorno ai temi dell’opera di Dick, con la complicità del filosofo Dario Gentili. Proprio dai microfoni di Radio IF: la radio dal vivo della cittadella stellare, curata da Silvio Impegnoso e ospitata negli spazi interni del Teatro India.
Dario Gentili, Andrea Cortellessa, Lisa Ferlazzo Natoli, Silvio Impegnoso
La metafora della “locusta” si presta acutamente a farsi preziosa traccia-legame con uno degli orizzonti del substrato, dal quale prende forma il romanzo di Dick : “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. La si rintraccia nel dodicesimo capitolo del “Qoèlet”:
“Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto»; prima che si oscurino il sole, la luce, la luna e le stelle e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre e si chiuderanno i battenti sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto; quando si avrà paura delle alture e terrore si proverà nel cammino; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada; prima che si spezzi il filo d’argento e la lucerna d’oro s’infranga e si rompa l’anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo, e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato”.
Siamo anche qui in uno scenario di progressiva desertificazione della vita: una vita dove arriveranno ad essere dominanti le tenebre e quindi quel “Non ci provo alcun gusto”. Che permea anche il romanzo di Dick e la rivisitazione dello stesso fatta da lacasadargilla, attraverso la forma aperta di un melologo sci/fi, ovvero di una lettura concertata con musica dal vivo ad esso ispirata.
Quel sapore pieno di “gusto” che manca, quando non si riescono più a vedere le stelle: quando si perde la spinta a desiderare che qualcosa avvenga o ritorni.
In uno scenario siffatto la locusta – metafora di una capacità di avanzare nella vita senza paura – qui in Qoèlet si dice che “si trascinerà a stento “ e nel titolo della conferenza si immagina che “non si alzerà più “.
Ma il pessimismo del Qoèlet e quello espresso dal titolo della conferenza sono davvero una rigida fatalità ? O la resilienza a desiderare della specie umana e la relativa capacità relazionale possono ancora vitalizzare la vita?
Magari includendo anche eventuali invasori, senza necessariamente fuggire in altri pianeti?
Perché questo scenario esistenziale allude anche ad uno scenario proprio della mente umana in alcuni frangenti vitali. L’oscurità in cui si convive con la polvere, ma anche con “la palta” (cumuli di oggetti in disuso), ci parla infatti di qualcosa che non è stato smaltito, ovvero rimosso.
Così come efficacemente visualizzato dall’istallazione scenica in cui viene immerso il melologo della casadargilla. Al quale lo spettatore fa accesso dopo aver varcato la soglia fluidamente osmotica, resa dalla restituzione di habitat visivi distopici, proiettati su tracce di presente (gli accattivanti paesaggi visivi sono curati da Maddalena Parise).
Habitat che continuano a riaffiorare e a mutarsi abitando il fondale dello spazio scenico interno, occupato prevalentemente da grovigli di materiale inutilizzato. Il cui invadente accumularsi riduce lo spazio vitale degli umani e degli androidi, confinandoli in un semicerchio lungo i margini del palco.
Perché “ quando non c’è più nessuno a controllarla, la palta si riproduce”.
Così come le cause delle guerra: evento traumatico che ha concorso a produrre questa situazione di desertificazione del paesaggio fisico e psichico, le cui ragioni scatenanti nessuno ricorda. Essendo state accantonate chissà in quale parte della psiche individuale e collettiva. E che alla Polizia di San Francisco non interessa ricercare: anzi. Preferibile è sostituire questa memoria – e più in generale quell’inconscio collettivo in cui tutti ci si ritrova preservando ciascuno la propria unicità – con un nuovo inconscio decisamente più controllabile e quindi manipolabile.
Come quello che si cela dietro al principio morale dell’empatia proprio del culto di Wiburn Mercer: “un’entità archetipica proveniente dalle stelle, sovrimposta alla nostra cultura attraverso una specie di matrice cosmica” dispensatore di un dono , quello dell’empatia, che “rende indistinti i confini tra vittima e carnefice, tra chi ha successo e chi è sconfitto”. Una simbiosi sterile che rende tutti dipendenti da uno strumento meccanico: “l’oggetto più personale che si possa avere, una prolunga del proprio corpo, lo strumento che ci mette in contatto con gli altri umani, che ci fa smettere di essere soli”.
Uno strumento che con perspicacia nel melologo della casadargilla prende il nome di “organo” dell’empatia. Un dispositivo che al di là dall’essere una “gioviale scossetta elettrica” mira a “fondere” tutto e tutti in un’indistinta “poltiglia umana” facilmente modellabile. Perché, proprio come la palta, toglie identità ad ogni dettaglio paesaggistico individuale.
“…con il tempo tutto ciò che c’era nel palazzo si sarebbe fuso: una cosa nell’altra avrebbe perso individualità, sarebbe diventata identica ad ogni altra cosa, un mero pasticcio di palta ammonticchiato dal pavimento al soffitto di ogni appartamento. E dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la manutenzione, avrebbe raggiunto uno stadio di equilibrio informe, sepolto dall’ubiquità della polvere”.
Una continua e inesorabile riduzione delle diversità ad un’unica identità, ad un unico sguardo sulle cose, ad un unico modo di stare al mondo. Una castrazione vitale facilmente gestibile.
“… la fusione fisica accompagnata dall’identificazione mentale e spirituale con Wibur Mercer aveva avuto di nuovo luogo. Ed era accaduto lo stesso a chiunque in quel momento stesse stringendo le maniglie (dell’organo dell’umore) sia qui sulla Terra che su uno dei pianeti colonizzati.… Isidore continuava a stringere le due maniglie e a provare l’esperienza di un io che conteneva ogni altro essere vivente…”.
Magnifica la restituzione di Isidore da parte di Marco Foschi, nella cui vocalità convoglia e dona tutte le disperate sfumature proprie di un blocco emotivo e insieme di una trattenuta ribellione e ancora il tentativo di mantenere un controllo di fronte ad un’esperienza ritenuta insostenibile.
Va anche detto, peraltro, che esiste ontologicamente un’inclinazione tutta umana a preferire non voler decidere, a preferire non voler scegliere: “ … almeno così aveva sentito dire. Aveva lasciato che quell’informazione rimanesse di seconda mano; come la maggior parte della gente, non ci teneva a farne esperienza diretta”. Lasciando così margine di manovra a chi di questa inclinazione è ben consapevole e pensa di poterne fare una leva di potere. Ad esempio riducendo le fertili contraddizioni insite in ogni scelta all’illusione di una facile semplificazione, raggiungibile attraverso l’utilizzo di algoritmi.
Molto interessante e’ stato a questo proposito il dialogo, in conferenza, tra il filosofo Dario Gentili e il critico letterario Andrea Cortellessa sulle due ossessioni di Philip Dick: la robotica e la cybernetica.
Lo stesso “organo dell’umore”, solo per fare un esempio, nasce come risposta manipolativa di questa inclinazione umana a delegare ad altri la propria libertà di scegliere. Preferendo all’esplorazione di un orizzonte aperto a varie possibilità – e che come tale potrebbe fertilmente rimanere ragionando di volta in volta “sull’alternativa” – la subdola somministrazione dall’esterno di una sola scelta.
In un certo senso anche dall’ Oracolo di Delfi si correva in soccorso quando ci si trovava nello stato di caos, tipico di un orizzonte ricco di angoscianti possibilità. E si finiva spesso per interpretare l’oracolo alla lettera, come un comando. Sebbene l’indicazione non si desse volutamente in una risposta netta e limpida, proprio per promuovere un lavoro su se stesso di colui che doveva scegliere. Analogo è il ricorso dei personaggi di Philip Dick alle carte dell’ I Ching: meglio interrogare e ubbidire, piuttosto che interrogarsi e sospendere per il tempo necessario la scelta sulle alternative.
Collegata a questa inclinazione a preferire non stare nell’orizzonte delle possibilità di scelta, esiste un’altra inclinazione che ci caratterizza: l’uomo non può vivere da solo. Ama vivere in compagnia: il nostro stare al mondo è “uno stare con”.
Ma troppo difficile, e quindi pericoloso, si rivelerebbe controllare uomini che si confrontino e si scontrino con le loro menti e con i loro corpi, per arricchire e modificare le proprie idee.
Meglio affidare la funzione di compagnia ad una macchina, ci fa notare Philip Dick: nello specifico ad un animale elettrico per chi ancora si attarda nel lasciare la Terra; ad un androide, per chi si è lasciato convincere ad emigrare su Marte. Con il fine ultimo di far diventare anche gli umani come animali elettrici o come androidi. Infatti nè gli uni nè gli altri sono in grado di rendersi conto dell’esistenza dell’ltro: dello “stare con l’altro”. E quindi della preziosità dell’altro per la propria vitalità. Ignorando per di più anche il piacere, pericolosamente generoso, di desiderare prendersene cura.
Anche per questo si fa di tutto nel romanzo di Dick per dissuadere coloro che tentennano ad emigrare su Marte: il loro “rincuorarsi” già solo per la reciproca presenza prossemica, può divenire troppo pericoloso per un’eventuale unione di gruppo verso il sistema – come ha sottolineato in conferenza il filosofo Dario Gentili.
Non solo: meglio sostituire le parole – soprattutto quelle relative alle emozioni – con dei numeri: così tiepidamente rassicuranti. La parola, invece, è pericolosamente evocativa: può far esistere ciò che viene pronunciato. E per di più apre a vari sottotesti, a varie sfumature di senso.
Ecco perché, ad esempio, sia nel romanzo di Dick che nel melologo sci-fi della casadargilla si evidenzia la propaganda verso un uso univoco dell’espressione “permettersi qualcosa”. Riducendolo cioè ad una mera valenza economica capitalistica, subdolamente etico-merceristica. Interessante in conferenza è stato il collegamento acceso da Andrea Cortellessa con lo scenario proprio del “Capitalismo come religione” di Walter Benjamin, scenario fondato sull’insinuante utilizzo della matrice comune esistente tra il concetto di “debito” e quello di “colpa”.
E poi c’è la TV ad evangelizzare determinati atteggiamenti per rendere gli umani sempre più innocui: un unico canale, un unico programma, un unico presentatore. Efficacissimo in scena il ciarlare allegro di Buster Friendly “ il più importante uomo vivente, certo se si eccettua Wiburn Mercer”. Entrambi in concorrenza per il controllo della psiche dei cittadini.
E se poi ci fossero ancora delle tentazioni verso un inspiegabile gusto per la diversità, basta digitare i tasti 888: il comando del “desiderio di guardare la TV, qualsiasi cosa trasmetta”.
Come spesso Rick Deckard consiglia a sua moglie Irene: riluttante a modificare il suo sottotono emotivo attraverso la fredda digitazione di comandi numerici compensativi.
Ma in verità lo stesso Rick Deckard – come l’avvincente interpretazione in doppia partitura di Marco Foschi è riuscito a far emergere – non ha soppresso del tutto il suo guizzo desiderante: quella “famelica e gioiosa sensazione di attesa”. Che convive con la sua tendenza alla desertificazione delle relazioni umane, in cui tanto si disciplina. Soprattutto anestetizzandosi attraverso un ossessivo senso del dovere per il lavoro. Fin dall’incipit il romanzo e il melologo ci fanno notare come questo personaggio, in apparenza diligentemente inserito nel meccanismo del sistema, sia abitato in realtà da una tensione di ricerca di sé stesso. Una riappropriazione che non è solo quella del passaggio dal sonno alla veglia – il testo si apre infatti con la descrizione di un risveglio – ma quella dell’uscita dallo stato di fusione indotto dal sistema, all’individuazione di sé come entità unica e irripetibile.
Apaticamente la moglie gli ricorda chi il sistema vuole che lui sia: “sei un assassino al soldo degli sbirri”. Ma qualcosa “stona” dentro Rick. E non basta più digitare i numeri giusti scegliendo di dare priorità al lavoro, rispetto a tutto il resto del suo sentire, per non sentire il turbamento di questa crepa. A compensazione trova però la possibilità di attaccarsi ad un oggetto del desiderio, come invita infidamente a fare ogni sistema capitalistico. Ecco allora che il desiderio di poter acquistare – ed esibire – un animale vero gli ridarà quell’autostima di sé stesso che non ha. Così crede. Ma l’autostima è un dono sociale. Sono gli altri a potercela riconoscere. Sinceramente o ambiguamente.
Succede però – come fertile invasione di un imprevisto – che Rick Deckard si ritrovi ad incontrare androidi inspiegabilmente interessanti, davvero difficili da “ritirare”. Perché innamorati del bello artistico (come Luba Luft), o disposti a confidargli la scandalosa permeabilità dei propri confini (come Phil Resch), che li porta a sognare “di essere riconosciuti capaci” (anche loro) di prendersi cura di un animale. E poi c’è Rachel (intensamente restituita anche in scena): l’adolescente dagli occhi di femmina, in equilibrio su una sola gamba, come uno splendido fenicottero. Costruita per pensare solo a ciò che serve e a ciò che non serve, non c’è la fa ad aderire totalmente alla seduzione attrattiva della terra. E si mantiene prevalentemente sulle punte. Lei, un apparente vuoto freddo, “un alito dal nulla”.
Perché gli androidi non si riconoscono da quello che fanno o dicono ma “da quello che non fanno e non dicono”: non colgono infatti quando l’altro getta verso di loro “ponti” d’empatia. Qualcosa di ben diverso dalla fusione mistica e annullante del Mercerianesimo
Ma allora che cosa rende “veri”? La fredda e rigida perfezione della macchina o la pulsante tortuosità del desiderare umano, resa accattivante dall’affacciarsi continuo dell’ imprevisto?
Cosa rende davvero “vivi”? La sicurezza di riuscire a domare il caos dei propri umori o sentire i morsi della fame di quell’attendere, necessario per conquistare qualcosa di contraddittoriamente avventuroso?
Anche gli androidi, almeno alcuni di essi, non sfuggono dal desiderare – e quindi dal sognare – di riuscire a prendersi cura di qualcuno diverso da sé stessi: un animale, almeno. Perché ciò che dà sapore alla vita è la difficile tessitura delle trame dell’entrare in relazione con l’Altro.
Isidore, ad esempio, lo scopre lasciandosi pervadere dal potere dell’amore: quella spinta vitale che lo porta a sentire piacere nell’aiutare un altro. Generosamente. “Io mi sto prendendo cura di loro”.
Rick Deckard ancora non lo sa. Ma sarà anche grazie alla complicità del commesso di un negozio di animali veri, che riuscirà a capire che per lui ci vuole un animale “fedele ma anche libero”. Un animale che gli faccia da specchio, insomma. Una capretta.
E poi ci sono gli androidi. Alcuni di essi si scoprono a “sognare” la vita degli umani: la loro generosità capace di altruismo; la loro cattitudine a provare misericordia verso l’altro, loro che sono invece così individualisti.
Addirittura c’è chi sceglie di avvicinarsi alla modalità di stare al mondo degli umani procurandosi deliberatamente un difetto di fabbricazione. Loro, troppo perfetti.
Desiderano sapere, infatti, cosa si sente a nascere, a crescere, a invecchiare.
Ma soprattutto “sognano” la resilienza degli umani: il nostro ostinarci a combattere per riuscire ad ottenere qualcosa che ci sta a cuore. Loro che invece conoscono prevalentemente la rassegnazione.
E l’egoismo: “ non si può dire – osservó Rick Deckard – che voi androidi siate molto bravi a proteggervi a vicenda quando la situazione si fa critica”.
Ma feconda si potrebbe rivelare la sinergia tra l’inclinazione a guardare le cose e le persone “da lontano”, propria degli androidi e l’inclinazione, tutta umana, a confondere la capacità di creare legami propria dell’empatia con la fusione simbiotica. Che riduce quella preziosa distanza, che invece permette di non fondersi in un unico stile di vita, ma di concertare – proprio come in un ensemble – le preziose diversità di ciascuno.
Allo spettatore ancor più che al lettore viene versato nelle orecchie questo messaggio. Il melologo sci-fi di casadargilla e’ infatti immerso in un universo di sonorità vibrazionali: calde e sintetiche; morbide e taglienti. Espressione di diversi modi di sentire, di diverse capacità relazionali; di diversi ritmi di stare al mondo. La scelta di utilizzare strumenti a percussione ci parla poi di un bisogno di entrare in contatto con se stessi, promuovendo una nuova percezione di sé: della propria fisicità’ e insieme di un’acuta urgenza di spiritualità. La cura delle musiche e dei paesaggi sonori è di Gianluca Ruggeri.
Ma quanto sono preziose queste continue ri-visitazioni di testi di fantascienza!?
Come risultano ricche di spunti nuovi, eppure già presenti, che ci solleticano ad interrogarci entrando in esplorazione dentro molteplici verità !
Lo sguardo lungo a cui ci allena da 12 anni lacasadargilla apre un orizzonte più ampio e più ricco di ospitalità verso sempre nuove forme di vita possibile. Verso sempre nuove forme di umanità. Verso sempre nuovi racconti. Tutti da non perdere, tutti da tenere insieme.
Non c’è infatti niente di peggio – come scopre nel finale Rick Deckard – di “una caduta senza fine e senza testimoni”. Avere dei testimoni significa infatti raccontarsi, potendo contare sul fatto che poi qualcuno continuerà a raccontare di noi.
Così da “non scomparire senza lasciare traccia” come gli animali del racconto del “Gigante nello stagno”. Racconto che dà il nome alla versione italiana della raccolta di racconti di fantascienza dello scrittore britannico J. G. Ballard (1930 – 2009). Racconto con il quale il melologo sci-fi de lacasadargilla sceglie di suggellare la propria rilettura del testo di Philip Dick.
spettacolo a cura di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
adattamento Silvana Natoli
musiche e paesaggi sonori Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise
con Marco Foschi, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Stefano Scialanga
L’esperienza della perdita attraversa le nostre esistenze. Ed ogni volta ci risulta traumatica: al di sopra delle nostre risorse individuali.
Per questo diventa prezioso tornare a focalizzare l’attenzione su come “il nostro essere comunità” può venirci in soccorso per affrontare tali frangenti esistenziali.
Come, con profonda sensibilità, avverte l’urgenza di fare Francesco Marilungo, attraverso questo suo lavoro sul lamento funebre, ideato proprio durante il lockdown pandemico.
Francesco Marilungo
Il titolo dello spettacolo “Stuporosa” allude alla condizione di profondo smarrimento dei sensi e della mente che si verifica in noi in risposta ad un evento traumatico.
Ci viene in aiuto, però, recuperare “il potere sociale del rito”: le stesse “condoglianze” ad esempio – ora confinate quasi esclusivamente dentro una vuota formalità – in passato conservavano il valore di una vera e propria “pratica”, che prevedeva un vasto spettro di partecipazioni al dolore dell’altro.
Ed è questo tipo di “cura reciproca”, che possiamo recuperare per affrontare meglio le inevitabili perdite che costellano la nostra vita.
Il rito sa conferire, infatti, significato a gesti che altrimenti risulterebbero privi di senso: trasformando il caos (disordine) in cosmos (ordine), ma soprattutto rafforzando i nostri legami sociali.
Attraverso il rito si possono cioè riaffermare valori, gestire cambiamenti vitali, esorcizzare paure. Creando connessioni profonde all’interno della comunità e rendendo tangibili e ripetibili esperienze che altrimenti resterebbero caotiche.
Come la morte. Che oggi è quasi un tabù: un argomento di cui non si deve parlare, un evento privato da vivere con freddo distacco.
Il rito, però, per essere efficace ha bisogno di una partecipazione emotiva profonda, possibile solo in presenza di una seducente componente artistico-estetica.
Che qui, nella proposta di Francesco Marilungo, è davvero assai coinvolgente.
Sono 5: sono ospitate in luttuosi abiti neri, romanticamente barocchi.
Sono avvolte da quell’aura di morte che vitalmente si dà in habiti (modi di essere) meravigliosamente abbondanti.
La voce di una di loro guida il rito in scena: è quella di Vera Di Lecce. Dall’allure di un pierrot nero, incanta i sensi e gli animi contaminando, in chiave contemporanea, antichi lamenti funebri: attraverso la musica techno, attraverso la trance.
Ma è solo una volta avvenuta la purificazione acquorea, che ci si può avvicinare alla dimensione sacra del rito funebre.
Il principio da cui tutto si origina è il respiro: da qui può zampillare il pianto.
Così necessario per facilitare l’elaborazione emotiva del dolore.
Così utile per un’umana connessione sociale.
Perché il pianto è un’apertura. Anche alla vulnerabilità, sì, ma indispensabile per un’autentica crescita personale, per una trasformazione.
Il pianto – a cui si abbandona una delle performer in scena – è una melodia dolcemente straziante ma anche dolorosamente sensuale. Che diviene una sorta di base musicale, capace di muovere in una danza le altre performer.
Si odono prendere forma parole quasi indecifrabili, che sanno di sussurro: “ Me la sono vista in sogno, vicina ad una pianta …”. Ed è così che la dimensione individuale del dolore si apre ad una condivisione che accompagna e che contiene.
La loro danza si muove tra le tensioni della nuda terra e quelle del cielo, dalla cui forza di gravità riescono a ritagliarsi uno spiraglio di libertà tale che sembrano, in alcune delle loro circonvoluzioni, lievemente riuscire a sollevarsi da terra.
La fluido-dinamica dei corpi, la leggerezza della materia, la capacità propulsiva con le quali Francesco Marilungo riesce con insolita maestria a plasmare i corpi delle performer, fanno pensare a tracce dei suoi primi studi in Ingegneria Termo-meccanica e di ricerca nel settore aerospaziale.
Ora il lamento-danza raggiunge lo stadio dell’estasi: la forma dei loro silenzi, unita a quella dei loro corpi, plasma le performer scolpendole come un gruppo plastico. E’ bellezza.
Torna a scorrere il pianto ma adesso è divenuto simile al riso: un pianto che appaga, che conforta. Finendo per sconfinare in una danza, che sa insieme di apollineo e di dionisiaco. E che si visualizza in una sorta di composizione floreale.
E’ una pioggia di lacrime quella scatenata dai movimenti delle loro braccia, necessaria per poter osare tentativi di volo. Tutto di loro danza: finanche i capelli raccolti.
E’, la loro, una tensione che pigia e che poi si libera nel furore di un pianto danzato dove sempre, a seconda delle circostanze, la più provata dal dolore diviene oggetto di cura da parte delle altre.
Il cuore pulsa, il battito aumenta: dalla console è Vera Di Lecce a manipolare gli animi, che ora si aprono ad un rituale di corteggiamento: una danza col fazzoletto.
Una meraviglia: la solennità naturale dell’inquietudine delle loro mani; la grazia impaziente dei loro piedi nudi; l’aria che vorticosamente si impossessa dei loro abiti e ne fa un paesaggio di cupole.
E poi una di loro crolla: le altre la spogliano liberandola da quello che resta del suo vecchio habitus (modo di essere, di stare). E, nel sorreggerla, danno vita ad un tableau vivant: la deposizione di Cristo dalla croce.
Quindi la vestono di un nuovo habitus: bianco, ora. Leggero.
Qualcosa è avvenuto. Qualcosa è cambiato in lei.
La scena si copre di bianco: il colore che riesce a tenere insieme tutti i colori. Tutte le emozioni.
Danzando, si legano tra loro con una lunga treccia di ciocche di capelli. E il loro ballare, ricorda una di quelle scene di danza dipinte su antiche anfore.
Ormai hanno tutte mutato habitus: una trasformazione del dolore è iniziata ; il lutto si sta elaborando.
Insieme.
Anticamente era affidato al vestito – inteso come seconda pelle – la testimonianza dello stato del proprio dolore. E l’uscita dal lutto corrispondeva ad un cambio di colore del vestito nero. Si passava così in maniera graduale al blu, poi al viola , fino ad arrivare al bianco.
Qui in “Stuporosa” lo spettatore può fare esperienza di questo rituale di trasformazione grazie alla splendida sinergia drammaturgica messa in campo tra la coreografia di Francesco Marilungo, i costumi curati da Lessico Familiare e la luce affidata a Gianni Staropoli.
Una luce che non si limita ad essere un contorno o un accessorio, ma un elemento fondante. Che, al pari dello studio coreografico e di quello sui costumi, contribuisce ad un fare e quindi ad un addentrarsi nel processo creativo di conoscenza, a cui si viene introdotti lavorando ad uno spettacolo.
Una luce pensata e pensante che non illumina, ma restituisce ad ogni scena quella luminosità che gli è propria.
Una luce cucita addosso come un panno luminoso, che appoggia su quella condizione originaria di buio, da cui tutto scaturisce.
E dal buio, da cui si originano la luce, il gesto, la parola, prende vita anche la costruzione del costume di scena: “nelle pieghe dei tessuti, nelle arricciature, nelle cuciture, esiste un linguaggio simile a quello delle parole, fatto di punti, tratti, segni, che compongono frasi / abiti” – dichiarano Riccardo Scaburri, Alberto Petillo e Alice Curti, i creativi di Lessico Familiare.
E’ la loro filosofia: raccontare usando gli abiti al posto delle parole; raccontare il contemporaneo attraverso le memorie del passato.
“Una grammatica vestimentaria” che fonde sperimentazione e artigianalità.
Uno spettacolo – questo di Francesco Marilungo – che tira dentro di sé, fin da subito, l’attenzione e la concentrazione dello spettatore. Immergendolo in una dimensione altra: un tempo come sospeso. Sognante.
Una stupefacente testimonianza su come si può trasformare la condizione di forte disagio provocata dal dolore di una perdita, in un furore sacro, generoso, solidale.
Dimostrazione del fatto che – insieme, sostenendoci – il nostro stare al mondo può essere colmo anche di umanità e di poesia.
Richiede delicatezza, una feroce delicatezza, portare in scena l’intimità sconfinata della parola-suono di Pier Vittorio Tondelli. E una passione viscerale per la vita. Incluso il suo peggio.
Inclinazioni vitali ben dosate in questo lavoro di Licia Lanera – che la vede attrice e regista – dove nella narrazione musicalmente postmoderna di Tondelli lei si specchia: per parlare di sè. Un raccontare e un raccontarsi, il suo, che trova e include le vite dei suoi compagni di viaggio: Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Roberto Magnani.
Ognuno di loro ha quel potere – ciascuno con una propria cromaticità emotiva dolce/amara e con uno stare al mondo così teneramente spietato da sconfinare nel debosciato – di far sentire lo spettatore sollevato per essere così come si è, incluse le proprie imperfezioni. Perché i quattro, di quel peggio esistenziale, ti restituiscono con onestà l’effetto che provoca su di loro. E viene facile anche per lo spettatore ritrovarsi in qualcosa.
Sono compagni di viaggio sparigliati : con quel disordine mentale biasimevole sì, ma non privo di una certa vitalità. E di un’ombra di simpatia.
Sono diversamente libertini: non si compiacciono dello strabordante tentativo di liberarsi dal conformismo, che fa spesso del loro furore una pulsione di morte.
“Siamo solo noi Che non abbiamo vita regolare Che non ci sappiamo limitare” – cantano.
E’ loro, il cercare di squinternare, di scompaginare, i miti della modernità. Ma loro è anche la consapevolezza che “si è giocato troppo forte per i nostri nervi” e che si è “pagato troppo alto il prezzo per la ricerca di una nostra autenticità“. E ancora: che tutto quello fatto era lecito perché voluto, ma che si continua ad avere difficoltà con “qualche super ego malamente digerito”: misura del peso ancora attivo di certi condizionamenti sociali e provinciali.
Cercano. E non trovano calore. Imbrigliati come sono in quel “maledetto inverno” che credono di disgelare in compagnia di “una bottiglia sempre piena, finché dura il fumo”.
Anche perchè, nel cercare una loro autenticità, sono incompresi e rifiutati dal contesto sociale e politico di fine anni ‘70. Dal cui conformismo cercano di affrancarsi.
Licia Lanera li ospita. E scopre di esserne ospitata: li riconosce quali compagni del suo viaggio interiore. Abitano non solo la sua casa, ma anche la sua anima. Sono tra loro uniti, come i racconti del libro. Unità così cara a Tondelli, che li definiva capitoli di un unico romanzo.
Racconta la Lanera di questa gioventù della provincia tondelliana, ma lo fa come davanti ad uno specchio. Ed è sapiente e colmo di intima lealtà il gioco che mette in scena: lei e i suoi compagni riescono infatti a rendere così efficacemente l’essenza del testo di Tondelli anche e proprio perché (e lo spettatore lo sente) dal primo incontro lei è stata, a qualche livello, letta da questo libro.
I suoi compagni, quelli che ritrova nel libro, parlano anche di lei: la completano, le restituiscono verità sconosciute. E lo stesso riescono a fare anche con noi, che li leggiamo e ne restiamo letti.
Alle sonorità del fiume di parole con il quale così efficacemente tutti in scena rendono il flusso di coscienza tipicamente tondelliano, la Lanera sceglie di associare il controluce fumoso di una luminosità magnificamente intima. Metafora di una volontà di comunicare qualcosa, che altrimenti resterebbe celato. La drammaturgia delle luci è curata da Martin Palma.
E’, il suo, un voler portare alla luce: un processo di rivelazione, di svelamento e di scoperta. Un tuffo e un’immersione nella luminosa oscurità di una conoscenza, precedentemente inespressa. E poi una progressiva risalita, verso la superficie della vita quotidiana.
Risalita così ben visualizzata anche attraverso il lento rivestirsi dei tre compagni di viaggio. Il loro, un coprirsi di strati non solo di tessuto, ma anche di habiti borghesi. Traccia estetica, ma non solo, del loro essere parte di un tutto con la Lanera, quella seconda pelle color arancio – che Kandinsky definiva “un rosso avvicinato all’umanità del giallo” – cromaticamente simbolo di un’intima espansione creativa. La cura dei costumi è di Angela Tomasicchio.
Lo spazio scenico sa mantenersi in felice bilico tra reale e surreale: dove ciò che è, riesce ad alludere anche a ciò che non è. Uno spazio che restituisce – e a qualche livello lega, accogliendola – la frammentarietà del sentire di questa generazione emiliana di fine anni ‘70, che della gioventù fa uno status: un modo di stare al mondo. Come veicolato assai efficacemente anche dal brano “Sono un ribelle mamma ” (suonato dai Sunday Beens), che allude a tutta l’ambiguità di questa loro forma di ribellione. La cura del sound design è di Francesco Curci.
Uno spazio scenico – habitat vitale della Lanera – il cui centro d’attrazione è rappresentato dal darsi eroticamente creativo, di una scrivania dove – grazie anche allo specchio offerto dal libro di Tondelli – Licia Lanera trova la modalità di restituire voce a parti di sé, grazie anche alla complicità dei suoi compagni di viaggio. Parti di sè che poi confluiscono in una drammaturgia e quindi in un copione. Quello dello spettacolo, appunto. Che lei ogni volta “rivive”: dentro e fuori di sè.
Celebrando così l’essenza della libertà cercata e trovata da Tondelli: quel furore del raccontare e dell’auto raccontarsi. Manifestando, proprio attraverso il potere della parola, la lotta al conformismo.
Ginesiofest, dal 20 al 25 Agosto 2025 , San Ginesio (MC)
“Il corpo è la nostra volontà”.
In assenza di uno scenario sociale che orienti nell’indicare “da dove veniamo”, ciò che può dar vita ad un paesaggio in cui ritrovarsi sono i nostri corpi, le nostre volontà.
E così l’appassionato sguardo politico di Leonardo Lidi, onorando la poetica, la vibrazione creativa e la pulsione dei corpi che percorre l’intera e immensa opera di Rainer Werner Fassbinder (1945-1982), sceglie di mettere in scena il DitticoKatzelmacher e Un anno con 13 lune immergendolo nel presente. Complice un’accattivante coreografia di movimenti scenici – curata da Riccardo Micheletti – dove il corpo degli interpreti è paesaggio a loro stessi.
Leonardo Lidi
Attraverso il moto dei corpi in scena e quella volontà che trasuda dai loro sguardi, allo spettatore arriva sempre più nettamente la sensazione di come il disagio dei ragazzi raccontati da Fassbinder riveli qui in Lidi non solo una subdola forma di violenza xenofoba ma anche un’ accorata richiesta d’aiuto.
Un disagio, il loro, che ci riguarda perché “questi corpi” sono il prodotto della società che li ha generati. E che, in determinati e ciclici periodi storici, torna a prendere tale forma.
Leonardo Lidi decide allora di lavorare proprio su questo dittico di Fassbinder – che ci parla della nostra inclinazione a non accogliere “lo straniero” che è fuori ma anche dentro di noi – quale iniziazione a un triennio di lavoro che coinvolge ragazze e ragazzi del Teatro Stabile di Torino. Sono loro che il 21 e il 22 Agosto u.s. hanno attraversato con entusiasmo il primo debutto nazionale, sul palcoscenico diffuso della Sesta edizione del Ginesiofest.
Sono già lì, in scena.
Forse sapevano di noi e ci aspettavano.
Sono tanti ma non sanno stare insieme: sono un branco, sono mani pronte a ghermire, avide.
Sembrano liberi ma sono soli: si muovono ma non si spostano. Sembrano addomesticati a non andare oltre un certo spazio.
Se gli abiti di scena alludono ad un elogio della diversità, lo stesso non può dirsi dei loro sguardi: mentre prendiamo posto in sala, ci annusano con occhi che stillano sospetto e supponenza.
Stiamo confinando il loro spazio e ora il loro moto ricorda quello di una ronda.
Vogliono capire se siamo come loro, se siamo disposti ad esserlo. Ad uniformarci. Acutamente Leonardo Lidi non materializza lo straniero katzelmacher Jorgos che viene dalla Grecia in un personaggio preciso. Perché ognuno di noi può essere Jorgos, lo straniero.
Il branco risponde con entusiasmo ossessivo al richiamo del ritmo dionisiaco di una batteria ma resta stregato anche dal richiamo apollineo di classiche melodie al pianoforte. Il branco è inconsapevolmente alla ricerca di uno spazio esistenziale, dove poter esprimere ciascuno la propria unicità. Insieme.
La loro è “una sete”. Non solo di violenza. Il loro è un profondo bisogno interiore da soddisfare: una necessità spirituale, emotiva, esistenziale. Che si dà come una mancanza, un vuoto, che loro credono di poter soddisfare colmandolo immediatamente con qualcosa di forte. E poi quella voglia di “ballare”, che parla del loro desiderio di riscoprire la capacità di esprimere emozioni, di creare comunità.
Al momento però la loro rudimentale forma di comunità si limita a fare barriera contro possibili “stranieri”. Come noi, come Jorgos, il greco. Al quale chiedono con fare investigativo: “ Dove vai? Dove vuoi andare?”.
Domanda in realtà a specchio, che loro inconsapevolmente rivolgono a se stessi. Alla ricerca come sono di “un’educazione che non si limiti alla formalità di dire grazie”.
Un’educazione che includa un concetto di lavoro che vada al di là del superamento dell’indolenza, in nome di un’efficienza dettata solo dalla velocità, sinonimo di guadagno.
Un’educazione indirizzata più che a riempire un vuoto, a tirar fuori, a scoprire, ciò che rende unico e speciale ognuno, proprio grazie alle sue fragilità.
E’ questo l’interessante sguardo con il quale la regia di Lidi onora e riscopre la pièce di Fassbinder. Un taglio registico che aiuta ad affacciarsi con più coraggio a guardare dentro di sè, così da imparare a divenire più tolleranti anche nel guardare gli altri. Riuscendo, sempre un po’ meglio e senza fretta, ad aprirci a quelle “maledette primavere”, così terribili ed irresistibili.
Uno sguardo registico che porta oltre quel venticello, oltre quell’
…“auretta
assai gentile
Che insensibile, sottile
Leggermente, dolcemente
Incomincia, incomincia a sussurrar
Piano piano, terra terra
Sottovoce, sibilando
Va scorrendo, va scorrendo
Va ronzando, va ronzando
Nelle orecchie della gente
S’introduce, s’introduce destramente
E le teste ed i cervelli, e le teste ed i cervelli
Fa stordire, fa stordire, fa stordire e fa gonfiar
…
E il meschino calunniato
Avvilito, calpestato
Sotto il pubblico flagello
Per gran sorte va a crepar”.
(Aria de La calunnia da “Il Barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini)
Leonardo Lidi invita infatti i suoi giovani e talentuosi allievi a lavorare sul testo e sui loro corpi per portare il furore, che si origina in risposta al disagio in cui sono immersi, oltre la sterile e feroce distruttività.
Distruttivita che inizia a palesarsi con quell’apparentemente banale volgere le spalle all’altro – come ben visualizzato dalla coreografia dei movimenti di scena – isolandolo dal nostro sguardo.
La proposta registica di Lidi punta invece al riappropriarsi “senza fretta” di se stessi, imparando a coltivare, in risposta allo smarrimento, il desiderio di “portare a casa la nostra anima”, il nostro furore creativo, che come un’ “ombra” non smette di seguirci “a piedi nudi, per la strada”.
-.-.-.-.-
Gli effetti dello smarrimento e quindi del disagio dovuto al non sentirsi parte di uno spazio sociale e di un proprio corpo desiderante, lega questa prima parte del Dittico – “Katzelmacher” – alla seconda parte: “Un anno con 13 lune”.
Qui infatti veniamo a conoscenza della storia autoimmune di Elvira, straniera a se stessa: ex uomo perdutamente innamorato di un altro uomo che, per essere accolto dal desiderio del corpo amato, abdica al suo corpo e alla sua volontà per farsi donna. Con il risultato di scoprirsi comunque abbandonata dal suo amato ma soprattutto ancora straniera al proprio corpo: disabitata da quel furore costruttivo che, solo, può spingerla a voler conoscere “il suo” desiderare. E a ricongiungervisi.
Ora, come fin dalla nascita: Erwin è infatti un figlio illegittimo abbandonato in orfanotrofio. E l’autostima, il senso di identità, il senso di appartenenza, sono doni che riceviamo dagli altri: dalla famiglia, dalla società. Su questo aspetto s’interroga la regia di Lidi, avvalendosi anche qui di un interessante lavoro sui movimenti scenici, per visualizzare l’importanza del “paesaggio sociale ed esistenziale” in cui veniamo gettati al mondo.
Qui, in Lidi, gli altri, gli amici, in parte provano a contenere in un abbraccio, che finisce per farsi morsa, il dissidio delle influenze masochistiche di Elvira. Che si dichiara disposta a tutto, pur di essere ospitata dal corpo del suo amato.
Elvira può contare in particolar modo sull’appartenenza ad Irene, sua moglie quando era Erwin. Lei, Irene, così attratta dalla terra – come descritto suggestivamente dalla prossemica – sa farsi lei stessa luogo di fertile ospitalità.
Ma non basta. Erwin, non avendo ricevuto la possibilità di conoscere qual è il suo autentico desiderare, è straniero a se stesso e si comporta necessariamente come emigrato e immigrato rispetto al suo stesso corpo. Anche una volta divenuto Elvira tende a lasciarsi andare, allontanandosi sempre più dalla sua anima.
La sua famiglia sono state le bestie del mattatoio, dove andò a lavorare una volta uscito dall’orfanatrofio. Da loro, a qualche livello, ha appreso l’imprinting dell’attrazione verso la morte, vista come realizzazione della vita. Realizzazione attesa con impazienza, perché la morte libera dalla “percezione della vita”.
Uno strano furore, il loro. E non solo, perché furore proprio anche di chi non ha avuto la possibilità di sapere “da dove viene”. E trova quindi più difficoltà a far tornare a casa la propria anima.
Non sa infatti – sottolinea la regia di Lidi – che la felicità non sta nel raggiungere un determinato risultato. Ma nel percorso che nel tempo porterà ad avvicinarvisi, riempiendo anche di fallimenti quella “pagina bianca” che riceviamo in sorte.
E che la Luna – dice Fassbinder – in determinati frangenti astrologici può, influenzando la volontà dei più smarriti, decidere di stracciare.