Lei ci attende con un sorriso enigmatico che ricorda quello de “La Gioconda” di Leonardo da Vinci. Splende come un’icona sacra: un quadro iconografico di lussureggiante bellezza.
Lui sembra non esserci, fuso com’è con il suo letto: dove pare rifugiarsi più che riposare.
La drammaturgia di Roberto Russo e la polimorfica seduzione interpretativa di Alessandra Ferro riescono a nutrire così acutamente la suspence nello spettatore, da riuscire a seminare dubbi sulla reale identità di questa “icona” per una lunga parte dello spettacolo.
E su chi invece la stessa drammaturgia – in sinergia con la randagia e sinceramente presuntuosa interpretazione di Gianni De Feo – ci porta a credere di sapere quasi tutto, subiamo uno scacco. Ammaliati anche dall’oscuro fare confidenziale del Nino Ceccarelli di De Feo, che si apre con generosità in “a parte” di natura confessionale.
Questo accade perché l’autore ci rende spettatori metateatrali del Teatro dell’Onirico, dove non trovano ospitalità né i principi della logica né quelli dell’etica, bensì il linguaggio creativamente enigmatico dell’inconscio.
La narrazione allude infatti alla forza eccedente di un desiderio che insiste nell’andare a cercare nel mondo onirico una certa soluzione, che non ha trovato accoglienza nel mondo del reale. Ma che poi qui, in questo mondo parallelo dell’inconscio, si rivelerà in altro, in conseguenza dell’ ambiguo manifestarsi di quel “pensiero frequente che diventa indecente”.
Con la complicità di un’efficace prossemica, di un sapiente uso simbolico prima ancora che estetico dei costumi di scena e di un intrigante disegno sia luminoso che musicale – la regia è curata da Gianni De Feo – lo spettatore si abbandona a spiare, e a lasciarsi spiare, da questa misteriosa complicità nella quale si ritrova aggrovigliato, quasi ancestralmente.
E che confluisce nella stupefacente bellezza del quadro iconografico conclusivo, che cita ”La pietà” di Michelangelo e sa andare oltre.
Perchè è lì, proprio nel sacro e oscuramente luminoso timore della morte, che lo spettacolo di Gianni De Feo intende – e riesce – ad immergerci.
I Mezzalira entrano in scena come in processione: vivono di ritualità e, si sa, le ritualità sono assai rassicuranti. E depurano così bene il peso di ciò che dobbiamo celare !
Ma la verità autentica è che siamo fatti di eccedenze: di un’energia così straripante che non riesce ad essere contenuta completamente dentro canoni e regole, un po’ troppo asfissianti.
E una famiglia che, come i Mezzalira, vive di preghiere e di fritture racconta molto di se stessa.
Agnese Fallongo, Tiziano Caputo
Friggere rende un cibo così succulento, così irresistibilmente buono, da risultare davvero appagante. Le nostre papille gustative sono solleticate dapprima dal sale, o dallo zucchero, con cui si spolvera la superficie, poi arriva la sensazione del croccante e a seguire quella del morbido. Insomma, un piacere molto ricco.
Dai Mezzalira si frigge per festeggiare ma anche per sopportare le avversità della vita: per far diventare buono e gradevole ciò che in purezza lo è molto meno. Si dice infatti: “fritto, diventa buono tutto!” Metaforicamente la frittura è un abito sotto al quale si cela qualcosa di diverso: il sottotitolo dello spettacolo “panni sporchi fritti” può alludere proprio a questo.
Tiziano Caputo, Agnese Fallongo
“Friggere è un lusso” – dice Crocefissa, la signora Mezzalira che si affida più volentieri alle preghiere, per lavare via la sporcizia dai panni. Pregare non costa niente e “più preghi più Dio ti ascolta”. Del friggere, però, la sua modalità di pregare ha il frigolare dell’olio che bolle in pentola: è, il suo, un pregare ad alte temperature. E l’interpretazione della Fallongo è irresistibile, almeno quanto il fritto.
Crocefissa è però un nome davvero invadente, che non può non influenzare il destino di chi lo riceve come nome proprio. Non a caso la ragazza sposa un giovane di nome Salvo che però, diversamente da lei, non ama pregare quanto piuttosto “conoscere se stesso” e quindi non sottomettersi. In quanto tale è per lei – così ossequiosa e che di cognome fa Martire – una croce e una delizia.
La coppia Mezzalira ha un figlio soprannominato Petrusino, che vuol dire “prezzemolo”, proprio per identificarlo con la sua indole curiosa. A lui, presente in scena – è un fascinoso Adriano Evangelisti a rappresentarlo – è affidata la narrazione esterna della storia della sua famiglia che, vista dall’interno con i suoi occhi, risulta davvero intrigante.
Pasqualina invece è la figlia più grande dei Mezzalira che, a differenza di Petrusino è molto appassionata dallo studio, dove ottiene ottimi risultati. Ma è una donna, e per sua mamma Crocefissa le donne devono cucire, non studiare. “Cucire” non allude solo ad una particolare attività manuale ma, metaforicamente, anche ad un particolare stare al mondo, dove si richiede a una donna quel saper imbastire e quel saper congiungere di cui qui né madre, né figlia riescono a dare il meglio. Perché nessuna delle due, in fondo, lo vuole. Crocefissa lo nasconde. Pasqualina no: lei non riesce – a differenza del destino affidatole anche dal nome – a “passare oltre”; non riesce “ad attraversare” questa delusione e ad accettare di ergersi ad agnello sacrificale. Non a caso, forse, il cuore della narrazione in scena si svolge proprio il giorno di Pasqua, occasione interessante per soppesare tradizioni e aprire la via a riflessioni sul rito.
Agnese Fallongo
Il quadro familiare trova completezza con una nonna viva e vibrante, dalla saggezza ancestrale, esperta in terapeutiche fritture. E’ interpretata da un sorprendente Tiziano Caputo che parla con lo sguardo, con quelle torsioni improvvise del busto ( così piene di sottotesti) e con quell’autentica ironia di chi la sa lunga. Davvero una restituzione felice di una saggezza che si ammanta di buon costume ma che conosce e sa percorrere anche altre vie, tutte umane.
Tiziano Caputo e Agnese Fallongo
Fallongo e Caputo, conosciuti e apprezzati qui a Roma la scorsa stagione grazie al Teatro Basilica che ha portato in scena il loro “Letizia va alla guerra: la suora, la sposa, la puttana”, con questo nuovo lavoro riescono a far entrare lo spettatore nelle dinamiche di una famiglia che, più che in una casa, sembra aver trovato alloggio in un gran calderone d’olio bollente, tanto le pluripartiture dei due sono ricche in crepitii e scoppiettii, propri di una gran bella frittura mista.
La recitazione così casta – eppure erotica – di Agnese Fallongo e Tiziano Caputo riesce a rendere efficacemente – complice anche un suggestivo disegno luci – lo shakespeariano darsi fritto dello sporco, che trova così spesso ospitalità nei nuclei familiari e nella vita stessa.
Agnese Fallongo, Adriano Evangelist
La qualità della loro recitazione è impreziosita da canti dal sapore ancestrale, che sanno rendere e veicolare il senso del “sacro” meglio delle parole. Va sottolineato, poi, un particolare uso degli oggetti di scena, che prima di essere tali sono scenografie polimorfiche. E poi che dire di quegli effetti ossessivi e piacevolmente pungenti – propri di alcune sonorità ambientali (esteriori e interiori) – resi con un contrappunto di sfriggimenti e di sfrigolii, ottenuti attraverso percussioni e sfregamenti materici e vocali ? Geniale !
Lo spettacolo resta in scena fino a domenica 20 Ottobre
E’ un invito a non dimenticare il valore dell’ospitalità, questo Racconto Musicale in 7 quadri di sublime bellezza, anche iconografica.
Un lavoro che nasce dalla fertile sinergia di autori che hanno scelto di “navigare insieme al protagonista sfidando le correnti”. Sono l’autrice della Musica Silvia Colasanti, il Direttore Enrico Pagano, l’autore del Libretto Fabrizio Sinisi, che si è ispirato liberamente a testi di Erri De Luca, il Regista Luca Micheletti.
Enrico Pagano, Luca Micheletti, Silvia Colasanti
Un invito, il loro, a ricontattare quell’ospitalità che delle differenze – di colori, di odori, di culture – sa fare occasioni d’incontro. Orientamento che la compositrice Colasanti fa suo, ad esempio, scegliendo di far dialogare con l’orchestra strumenti tradizionali di culture diverse. E aprendo la scrittura vocale alla comunicazione tra forme di origine operistica e inflessioni e risonanze popolari.
Un po’ come puntando a ripercorrere quel confine osmotico da cui tutti deriviamo: quello sul quale iniziano ad incontrarsi una madre e un figlio, corpo estraneo che la natura non combatte ma lascia che occupi una parte del corpo ospitante.
Quel confine osmotico che risulta antropologicamente così impegnativo continuare a lasciare aperto a nuovi scambi nel momento di ogni necessario distacco. Come quello che si trova a vivere la madre di Salvatore, che dal porto saluta con un grido disperato suo figlio appena imbarcato, alla ricerca di un destino migliore. Un destino iniziato con lei e che, per potersi evolvere, richiede un allontanamento da lei, sua Terra d’Origine.
Di questo ci parla, anche, il concetto di “confine”: di un donare un’identità per poi lasciare che quell’identità si arricchisca attraverso il dialogo con l’altro.
Il baritono Roberto Frontali è Sindbad
Un progressivo prender forma della capacità trasformativa ad entrare in dialogo con gli altri e con se stessi coinvolge il personaggio di Sindbad (interpretato dal baritono Roberto Frontali). Una figura del mito – anzi “il risultato della somma potenzialmente infinita delle sue varianti” – attraverso la quale gli autori di questo Racconto Musicale ci invitano a leggere la realtà. Perché volgere lo sguardo e tornare a porsi in ascolto di quella che è un’esperienza collettiva che ci costituisce nel nostro stare al mondo – il rituale archetipico del viaggio – può essere utile per affrontare con slancio il presente.
Sindbad nel corso del racconto vive un’evoluzione: dapprima si scopre incline a farsi feroce confine contro le contrastanti richieste dei migranti; successivamente riconosce un insolito piacere nel condividere con loro la malinconia delle comuni nostalgie umane; fino a che non arriva ad individuare nella potenza relazionale del racconto un antidoto al rancore: un canale di scambio, una salvezza.
Ed è così che Sindbad “fonda una comunità sull’acqua” intorno ad una Legge che riconosce ospitalità anche alla pietà. Perché lui crede nel potere della parola e quindi nel potere della relazione. Quest’ultimo lo ha appreso attraverso l’amore per sua moglie: una donna e, in quanto tale, il più straniero dei Paesi per un uomo. Sul confine tra se stesso e l’amata, Sindbad apprende allora quelle che Socrate nel “Simposio” di Platone definisce “le cose dell’amore”, di cui la donna, per natura, ha maggiore dimestichezza. Perché anche l’amore è un viaggio (interiore), in cui si incontrano tempeste che chiedono ospitalità: un po’ di quell’ ”intenerimento” che – come confida Sindbad al Nostromo (interpretato dal tenore Paolo Antognetti) – “sarebbe un giusto motivo per restare” a bordo.
Anche la scenografia (curata da Leila Fteita) è un invito all’inclusività, alla condivisione, al non restare indifferenti. Magnifico il suo gioco di pieni e di vuoti, dove raggi di luminosa speranza sfidano muri e riescono a filtrare fino a riscaldare le ombre degli animi (il disegno luci è di Marco Giusti). Una scenografia che, con la generosa precarietà dei suoi piani inclinati, è un pò come se chiamasse anche noi della platea a salire a bordo. Offrendo solidarietà.
Il soprano Alice Rossi è la seconda sorella (quella vedente)
Il soprano Elisa Balbo è la prima sorella (quella non vedente)
Con slancio. Un pò come avviene tra le due sorelle a bordo: quella vedente infatti (interpretata dal soprano Alice Rossi) sceglie di offrire la sua vista alla sorella divenuta non vedente (interpretata dal soprano Elisa Balbo) a seguito di una violenza subita in clima di guerra in patria. Lei, in stiva, ha paura del buio del mare e avverte il bisogno di salire sul ponte a sentire le stelle: “Io sono i suoi occhi, vedo al posto suo”- dichiara sua sorella. Solidale ospitalità difronte alla quale il rigore del capitano Sindbad si arrotonda in misericordia, concedendo loro di salire sul ponte solo per la notte, trasgredendo eccezionalmente una delle regole da lui fissate.
Il baritono Roberto Frontali è Sindbad
E poi ci sono i bambini: così numerosi, così innocenti, eppure così capaci di tramutare nel linguaggio del gioco anche le situazioni più avverse.
Commovente e insieme energizzante il loro racconto musicale di Ionà, in una coreografia in cui l’individualità del gioco della campana dona ospitalità alla coralità di un girotondo (è di Fabrizio Angelini la cura dei movimenti mimici delle coreografie).
Epico il loro saluto musicale – che la Colasanti sceglie acutamente di articolare su un ritmo rap – per ricordare un nuovo amico ormai perduto che, “passando da un’acqua all’altra, già tutto ha vissuto”: il figlio nato morto della donna che si era imbarcata già gravida (ad interpretare la Madre è il soprano Daniela Cappiello).
Il soprano Daniela Cappiello è la Madre
E’ il futuro che stenta a farsi strada e il passato che resiste a vivere: ora è Sindbad a chiedere perdono a nome di tutti gli adulti “per il piccolo che scompare nelle onde e il vecchio che avanza”.
Ma dolcissima, e ancora così piena di speranza, è l’ultima ninna nanna della Madre. Lei, che invita il suo piccolino morto a dimenticare l’orrore per poter sognare “seduti insieme, il lupo e l’agnello come fratelli, presso un ruscello”. L’orchestra, tramutata dalla Colasanti in una grande tiorba, avvolge la luminosa umanità di questo momento in una nuvola di densa speranza.
La mezzosoprano Annunziata Vestri è la Memoria
Una speranza che trova accoglienza nella Memoria (interpretata dal mezzosoprano Annunziata Vestri): è lei “l’angelo della storia”, colei che tiene insieme passato e presente, attraverso il potere del ricordo consapevole. Così ben descritto dal pulsare argomentato a cui dà forma la Colasanti attraverso un clima intimo di percussioni, arpa e coro di bambini.
Perché è il ricordo consapevole a rendere possibile un’altra Storia.
Ed è così che “l’acqua diventa cielo”.
Al coro dei bambini – “figli dell’orizzonte” pieni di fiera e tragica consapevolezza – è affidata una chiusura che prelude a un nuovo possibile inizio: quello edificabile sulle “tracce” di una riflessione consapevole, “tra ragione ed emozione”, intorno ad un fenomeno che ci oltrepassa, qual è quello del rituale archetipico del viaggio.
Ed è così che – con la complicità dei codici del Teatro e della Musica – i confini tra attori e spettatori vengono in contatto osmotico tra loro e lo spazio teatrale diventa esso stesso nave.
Meravigliosamente ostinato è questo racconto di Sandro Bonvissuto, raccolto nell’opera d’esordio “Dentro” (Einaudi 2012): una qualità dell’occhio e del cuore, la sua, capace di coinvolgere fino a far avvertire il nostro posto nel mondo.
Il suo è un cordiale insistere – autenticamente sincero, e quindi simpatico, mirabilmente incarnato dall’interpretazione di Valerio Aprea – che nella sua diretta limpidezza ci tocca il cuore.
Un insistere che si avvale della scrittura per andare a ricontattare quella “polvere” propria della stagione dell’infanzia, che non va via “neanche se ti lavi”: quella in cui si desidera un altrove, ovvero “un non stare dove si è”. E da qui, di nuovo “impolverato”, Bonvissuto arriva a fotografare quell’esigenza urgente dell’avvicinarsi al confine con una nuova consapevolezza di sé, rappresentato dal rituale dell’imparare ad andare in bicicletta.
Ecco allora che tutto il racconto risulta pervaso da una felice sinergia d’indagine sulla psiche umana, che rielabora echi di diversa provenienza. Shakespeariani, ad esempio: dal Prologo del “Riccardo III” sembra arrivare il riverbero di quello” scontento” della stagione dell’inverno che, per il suo “contrarsi” non è foriera di fertili accadimenti. E poi arriva anche il riverbero di quel feroce “dilatarsi” proprio dell’accecante “luminosa” estate, crogiolo invece di interessanti trasformazioni. La punteggiatura interpretativa di Aprea qui è superlativa.
Ma non solo: arrivano echi anche dalla concezione cosmologica dei filosofi presocratici, per il potere generativo attribuito ad alcuni elementi naturali quali il caldo, il freddo, il fuoco, il vento.
E poi c’è poesia. Tanta poesia.
Lo stile di Bonvissuto ha il pregio di essere ferocemente gradevole. Accattivante. Persino consolatorio. Qualità restituite credibilmente da Valerio Aprea, totalmente disponibile ad incarnare le diverse temperature della scrittura dell’autore. Il calore della sua voce sa farsi luce, delineandone tutte le variazioni. Incluse le ombre. Graffiante quel suo rendere l’ “invernale” paura di osare, asfissiata dai legami di causa-effetto, splendidamente cesellata dall’incipit “Non succede mai niente d’interessante d’inverno”.
Valerio Aprea
La dilatazione accecante che ci offre invece l’estate permette alla vita di “uscire fuori da un qualcosa”, proprio laddove l’inverno tenderebbe a ricacciarla dentro.
E una volta uscita fuori, la vita è “colla”: ti appiccica al bene. Il che non esclude il potersi incontrare con il male, con il pericolo. Come quando il padre del racconto sente – dalla perentorietà con cui il figlio glielo chiede – che è arrivato il momento giusto per insegnargli ad andare in bicicletta, nonostante la madre li inviti a desistere per evitare pericoli.
Ma far sì che non succeda nulla per eccessiva prudenza, è peggio – sottolinea il padre. Perché nemico del bene non è il male. Ma il Tempo. Cioè il rimpianto. Ecco perché è importante “cogliere” l’arrivo del momento in cui insegnare al proprio figlio a “guidare” un nuovo modo di desiderare: quello che non si lascia guidare. Perché continuamente va cercato e trovato un nuovo equilibrio. Come con la bicicletta. Come con la vita.
Valerio Aprea
Abbiamo a disposizione la nostra infanzia, ci confida Bonvissuto, per prepararci inconsapevolmente alla venuta del giorno in cui fare quel salto verso la consapevolezza di “osare scegliere”. E non più contare “sull’essere scelti”.
Abbiamo a disposizione ciascuno il nostro “piccolo deserto”, un tempo che appartiene ad un luogo che ogni anno inizia a prendere una diversa sembianza, perché ridisegnato dal vento di un desiderare che cambia, acquistando consapevolezza. Fino a che quel luogo e quel tempo sembrano finire improvvisamente, bruscamente. Come il giorno in cui ti accorgi di essere cresciuto.
Perché saper andare in bicicletta non è una di quelle cose che tutti acquisiamo per natura. Ma che occorre guadagnarsi individualmente. Non ci sono istruzioni, perché non si può spiegare con la logica un rituale di crescita. Possiamo avere un maestro però, un “testimone dell’incredibile”, capace di insegnarci senza parole. Un padre, ad esempio.
Immersi nell’ombra più che nella luce, con la sensazione che stia prendendo forma un rituale, ci viene versata nell’orecchio una confidenza che apre e poi chiuderà circolarmente questa cerimonia: “Provare a immaginare …”.
Due parole magiche che alludono alla nostra possibilità di essere capaci di dare vita a nuovi inizi, ispirati dal rispetto per l’habitat naturale che ci ospita. E che è la nostra prima casa, la nostra prima famiglia.
Protagonista principale di questo racconto – ma anche della vita – è infatti proprio l’habitat naturale. Qui, nello specifico, un bosco. Con i suoi alberi secolari, i cui rami e le cui chiome sono il primo grande abbraccio sul qual possiamo contare; con i suoi uccelli: creature dalla voce melodiosa, che sanno comporre così bene contrappunti ai nostri pensieri; con tutte le specie di animali che si muovono sulla terra.
E poi ci siamo noi: ospiti accolti in questa enorme famiglia da cui dipendiamo. Lei infatti può continuare ad esistere senza di noi. Lo stesso non possiamo dire noi. Questo è il primo imprinting che riceviamo ma dal quale poi siamo tentati ad allontanarci, fino ad abbandonarlo.
Di un nuovo inizio e quindi di una nuova possibilità sembra aver bisogno il piccolo habitat familiare, che gravita intorno ad una casa costruita in questo bosco. E poi abbandonata: una casa che è tornata a seguire l’imprinting della natura. Il tempo è tornato ad essere scandito dal diverso tipo di luce che bagna le varie fasi del giorno; i ritmi di vita sono di nuovo accoglienti, tolleranti. Un po’ trasandati, diremo noi ossessionati dal mito dell’efficienza a tutti i costi. Un imprinting naturale al quale si sta rieducando il fratello minore, di quel che resta di una famiglia.
Perché proprio dall’habitat naturale possiamo tornare a riscoprire l’importanza che nella vita rivestono la morte e il relativo periodo di lutto. Perché la vita per essere viva, vibrante, ricca in desiderio, ha bisogno di vicinanze e di distacchi. E fin dall’inizio ogni distacco necessario alla crescita è un po’ come un piccolo lutto: lo è il separarsi dall’utero materno; la fine della simbiosi tra mamma e bambino così necessaria nei primissimi anni; lo è l’inserimento in un’altra piccola comunità com’è quella del nido; lo è il confronto necessario per costruire relazioni con altri modi di essere bambino. E poi adolescente: piccolo-grande lutto che più degli altri pone l’attenzione sul succedersi delle generazioni. Qualcosa di simile regola la vita di ogni habitat.
Emiliano Masala, Francesco Villano
(ph. Claudia Pajewski)
Ma è l’habitat naturale il primo ad insegnarci l’arte della vita: quell’arte dell’ospitare che è una danza di vicinanze e di distacchi. Di cui si fanno testimoni i genitori, imparando ad ospitare nella loro vita quella dei figli. Proprio come il giorno ospita la notte e la notte il giorno.
In questa vita fatta di ospitalità diventa importante l’ascolto, l’attenzione a tutti i piccoli miracoli che si verificano generosamente ogni giorno e che sanno sedurci con pazienza: aspettando che la nostra consapevolezza arrivi quando nel distacco ci separiamo quel piccolo miracolo. Sono melodie come quelle che caratterizzano ciascuna famiglia di uccelli; sono odori come quello delle pere, ad esempio, che i due fratelli ricordano una volta ritrovatisi a reiniziare nella loro casa d’origine. Proprio quella casa che avevano solo voglia di dimenticare, di rimuovere, di bruciare addirittura.
Ma in nessun modo si può riuscire a bruciare quell’odore delle pere: quelle che si faceva a gara a possedere scommettendo su chi riusciva a contarle tutte. E nessuno vinceva. Ma in quel tendere a contarle, proprio lì, era il gusto, il sapore, il profumo. Delle pere. E della vita.
Francesco Villano, Emiliano Masala, Petra Valentini
(ph. Claudia Pajewski)
Arriva poi in questo habitat un’altra ospite: Anna. L’unica figura femminile, apparentemente l’unica in presenza ma, si sa, niente è più presente di un’assenza. E sarà grazie alla sua capacità femminile, più incline alla relazione, che riuscirà a fare da cassa di risonanza ai due fratelli verso la meraviglia della vita, colta nella sua essenza di ospitalità. Nel suo essere danza di vicinanze e di distacchi.
Sarà lei a dare avvio a un nuovo inizio, a un nuovo e rinnovato senso di ospitalità. A un nuovo nido da poter edificare in accordo con Matilde (la sorella dei due fratelli) proprio nella sua chioma.
A fare gli onori di casa ai nuovi ospiti, sarà poi un’altra presenza femminile, scesa dai boschi. O forse da sempre lì, attenta ad osservare tutto. Anche noi del pubblico.
Uno spettacolo, una meraviglia, a cui si partecipa con stupore. Sentendo come la vita nasca davvero da un “provare a immaginare …”.
Si apre con un prologo tratto dall’VIII canto dell’ “Orlando furioso” lo spettacolo di Caroline Pagani che – con fine sagacia – lancia un monito a guardarsi da coloro che si nascondono dietro l’incantesimo della parola – prima magia dell’uomo – per dare vita alla genesi dell’impossibile.
Una giovane attrice piena di entusiasmo si presenta ad una audizione. Trafelata arriva in teatro e sale sul palco con una valigia piena di costumi di scena. Non sa ancora che salire su un palco questa volta significa salire a bordo della nave di un ostinato Capitano Achab, ossessionato dall’idea di poter riuscire a “catturare” le ignote profondità di una Moby Dick attraverso l’esercizio del potere che il ruolo gli conferisce. E sebbene il tema affrontato sia serissimo, la Pagani riesce ad affrontarlo con la giusta dose di ironica comicità.
Cavallo di battaglia dell’attrice-esaminanda è Shakespeare, o meglio le figure femminili delle sue opere: donne di cui il Bardo analizza mirabilmente i diversi volti della psiche.
Convinta di essere opportunamente preparata e quindi pronta – “perché come dice Amleto essere pronti è tutto” – scoprirà che il vero fine dell’audizione è un altro. Ma ciò nonostante lei si dimostrerà comunque “pronta”.
Sebbene infatti il regista esaminante fin da subito semini dubbi sul suo autentico intento e l’attrice a qualche livello lo percepisca, lei continuerà a rispondere – senza smarrire coraggio e consapevolezza – alle richieste tendenziose del regista cambiando continuamente pelle.
E così, dall’ ambigua austerità monacale di Isabella (protagonista del dramma shakespeariano “Misura per misura”) approderà – attraverso continui cambi d’abito e d’ ”habitus” – alla dichiarata sensualità di Cleopatra. E da qui arriverà un finale di riscatto, tutto personale.
Uno spettacolo, questo che ci propone Caroline Pagani, che indirizza lo sguardo dello spettatore “sulla parte acquea del mondo”, non solo attoriale. Senza perdere il sorriso, però. Proprio come riesce a fare un’altra donna che il personaggio della Pagani porta sempre con sé: l’indipendente e autoironica Betty Boop, dall’irresistibile fascino surrealistico.
LA PELANDA, Ex Mattatoio di Testaccio – 8 e 9 Ottobre 2024
L’8 e il 9 Ottobre u.s. anche Roma è stata contagiata da spore di creatività che si sono liberate nell’aria: l’epicentro si è verificato in prossimità degli spazi della Pelanda, presso l’Ex Matttatoio di Testaccio ma poi il raggio di diffusione è stato tale da non essere quantificabile. Certo invece è che, per loro natura, le spore di creatività sono capaci di sopravvivere alle più avverse condizioni ambientali. E riprodursi.
Il Romaeuropa Festival ha ospitato infatti l’ultima tappa di Spores Project: trasformazioni artistiche tra poesia, scienza e nuove tecnologie.
Progetto vincitore di “Europa Creativa 2022” focalizzato sull’intersezione tra sperimentazione intermediale, arti performative, sostenibilità e innovazione audiovisiva.
Uno spettacolo itinerante composto da un collettivo di artisti di grande spessore come Federica Altieri, Flavia Mastrella, Antonio Rezza, Maria Letizia Gorga, ACRE+Michael Thieke, Eugenio Barba, Julia Varley, Valerio Magrelli, Paola Favoino, Ashai Lombardo Arop, Giovanna Zanchetta, Claudio Ammendola, Valerio Peroni e Alice Occhiali, i quali hanno performato insieme a giovani promesse come: Giuliano Logos, Gabriele Ratano, Riccardo Gadenzi, Cora Gasparotti, LOTTA, Sharxx, Gioia Perpetua, Sacha Piersanti, Daniele Torracca Oriana Cardaci, Valentina Pacifici, Carlo Ronzon i, Yurii Khadzhymiti, insieme ai ragazzi dei corsi di formazione “Spores” e insieme agli allievi della Palestra delle Emozioni (313).
A tutti gli artisti appartenenti ai diversi ambiti dell’arte performativa è stata chiesta una rielaborazione del concetto di Creatività.
La Pelanda dell’ex Mattatoio di Testaccio
Ecco allora che in questa due giorni di fertili contagi il viaggio dello spettatore nel “Paese della Creatività” ha avuto inizio con un’immersione sonora e il suo possibile riflesso visivo. Un po’ come se il ritmo e le sonorità sprigionate venissero creativamente visualizzate – oltre che sulle pareti del locale – anche sulla tela di possibili muri osmotici, in dialogo con i muri reali. E poi ci sono i corpi degli spettatori: anche loro superfici carnali coinvolte nel gioco del riverbero e della proiezione. Una splendida sinergia tra il suonare uno strumento e insieme l’essere uno strumento che si lascia suonare. Tra il possedere e l’essere posseduti. Tema comune – e diversamente declinato – di tutte gli incontri di contagio creativo della serata.
Lungo le vie di questo caleidoscopico Paese può capitare di incontrare chi in intimo dialogo con la luna intonasse un melanconico canto, seduto sul davanzale della propria finestra di casa e chi invece scegliesse di riportare in casa una protesta che prima aveva fatto girare lungo le vie del paese.
Si respira ovunque la bellezza di restare sospesi, di non avere necessariamente i piedi per terra: ed è inebriante tanto quanto angosciante. Perché la libertà creativa può spaventare, anche.
E’ il paese dell’interrogarsi: ovunque ci si chiede – tra il sedurre e l’essere sedotti; tra il sopraffare e l’essere sopraffatti – cosa valga la pena proteggere. O cosa fare del dono della parola, in un orizzonte “senza un cristo da inchiodare per dispetto”.
Soffiano per le vie venti di tragiche profezie; soffia ovunque la Poesia qui nel paese della creatività dove tutto trova accoglienza. Anche la violenza, in tutte le sue forme energetiche. Perché forte è la tentazione a brillare fino ad esplodere: a sapersi fino in fondo. Qualcosa che ci tenta irresistibilmente ma che poi, se raggiunto, non riusciamo a tollerare.
Ci siamo seduti in una delle piazze ad anfiteatro di questo Paese, rapiti e contagiati da un desiderio di volare, di spingerci più in alto possibile, e poi di vedere. Tutto.
E’ energia, è respiro, è voce: è ossigeno per le cellule della creatività.
Un desiderio di lasciarsi andare ad habitat onirici di stupefacente bellezza surreale, dove risiede la polivalenza, la polimorficità, l’ambiguità, l’incertezza.
Un desiderio di zummare lo sguardo fino ad avvicinarci così tanto, da esserne risucchiati; un desiderio di allargare l’orizzonte visivo, fino a perderci in esso. Un desiderio di tutto, dove è bandito ogni “senza”. Un desiderio di “fino in fondo”. Fino a sbagliare.
E ci si chiede: “di chi è la colpa?”.
E diventa una domanda ossessiva, che si fa eco. Un’eco che fa trapelare anche una possibile risposta: “bastava ascoltare”.
Basta pensare che non è tutto nostro.
Basta pensare che il piacere più grande è quello di condividere e non quello di possedere. E che “parlare” è anche una responsabilità.
Camminando ancora, abbiamo incontrato donne che parlavano danzando; vestite di abiti e di veli, come pareti scelte per proiettare e continuare a portare con sé il proprio passato. Per poi avanzare, crescere e spogliarsene, lasciando che la proiezione del passato diventasse consapevolezza.
Il Paese della creatività è sulla costa, bagnato dal mare. E così ci siamo fermati sulla spiaggia, attirati dall’inquietudine dell’habitat marino. E da una nave in difficoltà. Nella tempesta, luogo fisico e della mente, è tutto un chiedere e un chiedersi. L’ammiraglio diventa come l’amministratore di un condominio psichico: l’oracolo da cui tutti vanno in pellegrinaggio a chiedere cosa fare. E lui, con feroce sagacia, gestisce il panico della meraviglia del reale. Ascoltarlo ci fa sorridere, anche. Ci piace il suo piglio feroce e disincantato. L’incanto del suo disincanto. E’ una dissacrante forma di sublime creatività: quella propria di Antonio Rezza.
Lasciata la spiaggia ci avviciniamo ad una zona ricca in ritmo, sonorità, concitazione, eccitazione. Una zona di un’affascinante arcaicità, potentemente contagiosa. Come quella propria del legame viscerale di una madre con il proprio figlio, oppure quella che si libera in noi partorendo nuove rappresentazioni di noi stessi. Sonorità, ritmi, richiami che danno vita a un indomito linguaggio del corpo. E non solo. Sono corpi che sanno sprigionare luci, scritture luminose, disegni. Confini come riflessi specchianti. Ed è magia.
Voltandoci ci accorgiamo poi di un giovane che si sta prendendo cura del suo spazio vitale: lo sta liberando da scorie, rifiuti. Sono anche pensieri, i suoi, che si ripuliscono dall’egoismo, dal delirio di onnipotenza di credere di essere come un dio. Pensieri che ora, depurati, riescono a nutrirsi di vicinanza epidermica, di anse che ammorbidiscono ansie. Così l’attenzione creativa può indirizzandosi verso la ricerca di possibili soluzioni, anziché restare incastrata nell’ossessivo biasimo delle colpe, dove l’esistere entra in sterile conflitto con il vivere. Perché “la noncuranza ci uccide ma senza umanità il mondo comunque vive”.
Dietro di lui si fa spazio una giovane donna che fa coppia con il suo contrabbasso; la sua durezza sembra sposarsi con quella delle corde del suo partner musicale. Come un’amazzone indossa una faretra dove custodisce il suo archetto, quasi fosse un’arma. Ma questa non è musica: è qualcosa che si è allontanato dall’accoglienza generosa della creatività: dal suo bel caos, da cui “può nascere una stella danzante”. Ecco allora però che la giovane donna in crisi creativa ed esistenziale sa interrogarsi chiedendosi se ha ancora senso il suo voler fare musica. Se è disposta anche a essere musica e a lasciarsi suonare. Sì, perché la musica è un linguaggio di trasformazioni. Perché il mondo si può cambiare senza mostrare necessariamente l’arma della durezza ma facendosi musa di un’arte.
Con il ritorno circolare di questa splendida metafora sulla corrispondenza tra il possedere e l’essere posseduti l’esplorazione del Paese della Creatività ha raggiunto una momentanea conclusione. I saluti della coordinatrice anarchica Federica Altieri e della demiurga di habitat fantastici Flavia Mastrella sono stati un arrivederci, contaminato da quel senso di vuoto che contraddistingue ogni separazione. Vuoto che ci permette di continuare a desiderare, a voler ancora esplorare, contaminare, essere contaminati. Creativamente: come spore e da spore.
Cosa c’è di meno omologante – e quindi di più scandalosamente creativo – del colore giallo?
Già per Van Gogh e per tanti pensatori della sua epoca il giallo era il simbolo del rifiuto dei valori vittoriani di repressione del sé. Il giallo induce a una vita versatile e vagabonda e tale è anche la natura del pigmento stesso: instabile, facile ad annerirsi. Gli artisti sapevano bene quanto fosse insidioso questo colore. Più recentemente però è Claudio Parmiggiani ad offrirne un magnifico esempio in una sua opera – Senza Titolo, 1995 – dove brilla tutta la bellezza esplosiva del potere creativo del giallo. Opera non a caso scelta per vestire la copertina di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio: “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore, 2024).
Claudio Parmiggiani, “Senza titolo”, 1995
E di giallo si avvolgono i protagonisti in scena ieri sera sul palco del Teatro Le Maschere: Serena Abrami, Pietro Babina, Alberto Fiori. Per la parte inferiore del corpo scelgono il nero: un colore in perenne espansione, pronto ad inghiottire tutto. Come l’omologazione. Ma gialle sono anche le loro postazioni: luoghi fisici e della mente. E il fondale grigio alle loro spalle è sì metafora di un muro ma dove ogni blocco è in comunicazione con l’altro grazie a dei confini osmotici e quindi creativi. Gialli, appunto.
Questa tensione cromatica incarna perfettamente un tema portante di “Sole & Baleno” – l’opera originale di teatro musicale di Pietro Babina – e cioè quanto sia necessario, ma maledettamente complesso, resistere alla tentazione di restare inghiottiti in una paralizzante e mortifera omologazione.
Infatti nel tentare di superare la nostra inclinazione naturale alla sopraffazione, dobbiamo anche confrontarci con la paradossale tentazione di desiderare abdicare alla nostra libertà. Consegnandola nelle mani di chi ci promette di prendersene cura, sgravandoci dal peso della sua ebbrezza. Perché la libertà porta con sé anche l’angoscia legata alla sua grande apertura. Ma mentre noi fatichiamo a rendercene consapevoli, chi in società pretende di presiedere ai nostri desideri ne è così consapevole da approfittare, quasi come sciacalli, del fragile potere della libertà umana.
Pietro Babina e Serena Abrami ci veicolano attraverso la musicalità polimorfica della loro voce – prima ancora che con il significato delle parole – lo straniamento necessario per ridestarci da quell’eccessivo bisogno che per natura abbiamo di sentirci al sicuro. Perché sentirsi al sicuro spesso implica il lasciarsi manipolare da qualcuno. Ecco allora che allo straniamento vocale Babina concerta quello musicale prodotto dalle mutevoli, fluttuanti, instabili, incostanti, imprevedibili composizioni musicali di Alberto Fiori. Brecthianamente straniare aiuta infatti a “de-automatizzare” la nostra percezione, inducendo nel fruitore della percezione un’impressione insolitamente viva di un determinato contenuto.
L’occasione di quest’affascinante opera originale di teatro musicale viene da un fatto di cronaca di alcuni anni fa, passato in sordina dai media dell’informazione. Negli ultimi anni ’90 del Novecento, in una stagione di lotte e sabotaggi contro la costruzione della TAV Torino-Lione, furono arrestati due giovani attivisti: Soledad Rosas (qui Sole), ragazza argentina, e il suo compagno Edoardo Massari (qui Baleno, il suo soprannome) anarchico italiano. Imputati di associazione sovversiva e soggetti a reclusione preventiva, si suicidarono a breve distanza l’uno dall’altro. Dopo 4 anni, però, la Corte di Cassazione lasciò cadere per mancanza di prove l’accusa di sovversione e terrorismo.
Il lavoro drammaturgico di Pietro Babina parte da questo fatto di cronaca e va molto oltre. Attraverso la sua capacità di lettura e di interpretazione della realtà, Babina infatti indaga e fa emergere quelle che sono le grandi potenzialità insite nella realtà, provocando un’interessante interrogazione su che cosa sia umano e cosa vada oltre.
Un indagare il suo che è l’attitudine a non dare per consolidato né per esaurito nessun livello dell’agire umano e artistico, per poter restare curiosi verso sempre nuove letture. Così dall’osservazione dei mutamenti sociali, tecnologici, estetici nasce quel tipo di comprensione che porta Babina all’individuazione di potenzialità applicabili anche agli ambiti dell’arte.
Ad esempio il concetto di “occupazione”: un concetto che contiene una potenzialità preziosa che è quella del “non rimanere indifferenti”. E quindi quella di non limitarsi al lamento solipsistico, solo perché unica forma di pensiero (addomesticato) conciliabile con quell’omologarsi alla massa, così rassicurante ma così anonimo.
Un germe fecondo, quello della potenzialità insita nel concetto di occupazione, del quale Babina si è lasciato più volte fertilmente contagiare in gioventù: quando rimase affascinato da una fabbrica di scatolame abbandonata e occupata, nella quale riuscì a dare vita – concordando uno spazio con gli occupanti – a quella che fu la prima idea del suo “Teatrino clandestino”. E ancora quando, durante gli anni dell’Accademia, frequentò un laboratorio di Leo de Berardinis nel primissimo luogo occupato di Bologna.
E proprio durante gli ultimi anni dell’esperienza del “Teatrino clandestino” nasce “Candide”: una performance sui generis dove prende forma una evoluzione concertata tra scena, musica e personaggio. E dove al giovane Babina si affianca già il musicista Alberto Fiori. Una performance dove qualcosa del personaggio “Candide” sembra ora passare nella Sole di Serena Abrami: quel suo splendido “perdersi nel mondo” e quella certa necessita di “coltivare il proprio giardino”, così necessari anche oggi.
Obiettivo dell’indagine di Babina è infatti far sì che il Teatro e la Musica trovino il modo per essere efficaci – e quindi magnetici – nel ridare vitalità a posture ossidate della società, in concorrenza con la tensione manipolatrice dei mass media.
Ed effettivamente in questa opera originale di teatro musicale che è “Sole &Baleno” Pietro Babina cerca e trova in noi percorsi sotterranei e giacimenti emozionali preziosi per il nostro risveglio esistenziale.
Un taglio di luce l’annuncia, quasi come in un quadro del Caravaggio.
La sua è un’autentica vocazione: una dedizione senza riserve, solida, appassionata, trasformatrice, rara. Persino assurda.
Ci siamo riuniti a cerchio “segnando” – come in un rito – uno spazio sacro sul palco, all’interno del quale abbiamo desiderato e chiesto che si manifestasse lei: una testimonianza vitale, carismatica, di caratura eccezionale, alla quale chiedere direzione, consiglio, ispirazione.
Ecco allora che Giovanna arriva come un’epifania. E avanza tra noi. Ma non di moto proprio: il suo è più che un camminare un essere camminata da qualcuno o da qualcosa. Un essere attirata, calamitata, da una forza d’attrazione.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
(foto Claudia Pajewski)
Complici il netto disegnarsi della luce e il dolce incedere ossessivo delle note (composte da Antonio di Pofi), questa magnifica visione ci guida dentro di noi per condurci fuori, fino a contattare e ad esplorare una insolita consapevolezza.
Sì, il fulgente poema della Spaziani ci confida un’inedita versione del finale della storia di Giovanna D’Arco. Ma c’è molto di più.
E “il più resta da dire”.
Maria Luisa Spaziani
La stessa Spaziani, ha saputo rimanere in ascolto a lungo, prima che un opportuno vuoto tagliasse quel troppo pieno che stava ospitando. Fino a che non fosse pronto a dare alla luce un varco, dal quale potesse prendesse forma questo testo. Efficace proprio perché pieno, anche, di quei necessari spazi dove “il più” può continuare a dire. Proprio attraverso di noi.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
A questa affascinante consapevolezza sembra opportunamente ispirarsi anche l’interpretazione di Mersilia Sokoli, dalla carismatica natura narrativa. Perché è nei varchi che s’impongono nei suoi brevi momenti di silenzio – come in quelli necessari a certe deglutizioni, o a certe torsioni degli occhi prima ancora che del corpo – che ci arriva tutta la fascinazione delle parole. Perché in lei, come nella Spaziani, anche quello che tace, parla.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
(foto Claudia Pajewski)
Al termine del rito, e dopo aver applaudito gratitudine alla Giovanna d’Arco di Mersila Sokoli diretta sapientemente da Luca De Fusco, veniva quasi istintivo – forse favorito dalla nostra magica disposizione sul palco – desiderare cercare lo sguardo di qualcuno dei presenti. E scoprirvi, forse come nel proprio, tracce di un varco dal quale qualcosa era riuscito a palesarsi.
Perché, forse, c’è una Giovanna in ciascuno di noi. Una meravigliosa creatura, una poesia.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
“Le storie delle donne non possono essere solo storie invisibili”
Quale miglior luogo della Domus Aurea si rivela simbolicamente più appropriato per rappresentare questo lussureggiante racconto di Anna Banti, contenuto nella raccolta “Le donne muoiono” (1951) ?
Forse nessun luogo come questo è la testimonianza pulsante di cosa rappresenti una damnatio memoriae, un esilio che qui in “Lavinia fuggita” prende la forma dell’ “interrare” il ricordo di una donna eccessivamente dotata in capacità conoscitive.
Anna Banti
Tutta la produzione di Anna Banti, in verità, si nutre del grande tema della solitudine della donna che, alla ricerca di riconoscimento nel mondo degli uomini, si ritrova protagonista di umiliazioni. Ma, a volte, anche di riscatti.
E’, per certi versi, anche la solitudine che la stessa Banti ha cercato di fuggire “ri-nominandosi” (Anna Banti è uno pseudonimo di Lucia Lopresti) e ri-convertendosi ad un genere letterario (la narrativa) diverso da quello al quale lei avrebbe voluto dedicarsi e nel quale avrebbe desiderato essere riconosciuta: la critica d’arte.
E così anche Lavinia, la protagonista principale di questo racconto – che Cesare Garboli definì il più bello di tutto il Novecento – è costretta a fare esperienza di una “solitudine di merito” tipicamente femminile.
Fin da giovanissima infatti il suo brillare conoscitivo venne oscurato attraverso allontanamenti. Era dotata, ad esempio, di una particolare attitudine nel riuscire “a balzare” da uno strumento musicale all’altro: “che ci vuole?”- era solita rispondere a chi ne rimaneva incantato. Come per effetto di un sortilegio, infatti, ogni difficoltà si scioglieva al suo cospetto.
Ma anziché curarsi di valorizzare questa sua eccellenza – proprio lì all’Ospedale della Pietà dove si studiavano canto e musica – “la interrarono”, allontanando Lavinia dallo studio dove eccelleva, per confinarla tra le scartoffie di un’attività da maestra.
L’urgenza di comporre musica però – quando è davvero un’autentica passione – non trova argini: come si fa “a star zitti se ti chiama qualcuno che ti vuole bene “. E così’ Lavinia iniziò ad inserire dapprima, a sostituire poi, le sue partiture nelle partiture altrui: quelle che si doveva limitare a trascrivere. Consapevole che mai le avrebbero permesso di comporre musica, se non di nascosto. Fino a che una sua partitura arrivò nelle mani di Don Antonio Vivaldi. Fu la fine, o meglio, l’inizio di una nuova vita.
Perché proprio quel giorno in cui tutti all’Ospedale si usciva per andare “a merendare”, si rivelò un giorno di appassionati e appassionanti incontri: chi si sposò, chi s’innamorò e chi come Lavinia ricontattò le proprie origini, fino ad allora sconosciute. E così quando Don Antonio Vivaldi le intimò: “venga Lavinia !” – lei, come nel mito accadde a Dafne inseguita, fu dalla “sua terra d’oriente” accolta nel proprio seno. E lì, dal luogo dove la giovane disparve, crebbe l’alloro.
Ieri sera in Domus a scegliere di riportare l’attenzione su questo tema della solitudine femminile è stata Michela Cescon: attrice pluripremiata, produttrice e direttrice del Teatro di Dioniso di Torino.
E’ lei che ha avviato il racconto concertandolo con il canto e la musica di Tullio Visioli e di Livia Cangialosi. La sua interpretazione del testo della Banti – di una raffinatezza deliziosamente succulenta – è reso con una tavolozza di colori vocali, che acquistano una definizione a tutto tondo grazie ad una gestualità generosamente aperta ad un puntinismo cromatico da commedia dell’arte. Efficacissimo nel rendere il ventaglio di tonalità delle pennellate stilistiche che danno corpo alla scrittura della Banti, così ricca in lirismo metaforico e in scavo psicologico.
Gli intervalli di musica e di canto – oltre a definire il carisma di alcuni passaggi decisivi della narrazione – disegnano, con la complicità della Musa Polimnia, come nuove armonie ricche in sacralità. Intellegibili non solo attraverso l’ascolto ma percepibili ad un livello più alto, dove la libertà riscopre una nuova melodia fatta di continui inizi.
Lo spettacolo è stato dedicato a Eleonora Duse (1858 – 1924) – nell’occasione dei suoi 100 anni dalla morte – per la vibrante sfrontatezza nell’affrontare la vita così ben rappresentata dalla sua postura con le mani sui fianchi. Postura con la quale la Banti caratterizza anche la sua Lavinia .