Recensione dello spettacolo LA FABBRICA DELL’ATTORE: 50 ANNI DI (R)ESISTENZA – progetto, drammaturgia e regia di Manuela Kustermann –

TEATRO VASCELLO, dal 2 al 6 Ottobre 2024

E’ una meravigliosa “bimba” la Kustermann: una creatura che continua a far sua la magia dello stupore.

Quello di chi sa incantarsi di fronte al mondo e di questo incanto, incantare.

Quello che “la bimba K come Kustermann” alimenta in sé quale primitivo e prezioso linguaggio vitale, avendolo appreso incontrando e continuando ad amare Giancarlo Nanni: un uomo, un Paese delle Meraviglie.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore che – come fermento – si è ancora una volta sprigionato ieri sera tra le pareti del Teatro Vascello, fino a contagiare il pubblico in sala, trascinato come per incanto a bordo del viaggio-spettacolo. Una splendida rievocazione che ha celebrato i primi 50 anni di continua sperimentazione del Teatro Vascello. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore sapientemente restituito attraverso una scena caleidoscopica come un rullo fotografico; dinamica come un libro da sfogliare; segretamente doppia come uno specchio svobodiano.

Una scena dove luce e immagine si confermano elementi fondamentali della creazione dello spazio teatraleE dove – in un’immaginaria e potentissima continuità  – quel multiforme telo nero  che vestiva come “habitus” , prima ancora che come abito, i personaggi  allora in scena per “Il Gabbiano”, trova eco ora nella seconda pelle dei quattro testimoni in scena. Loro che sanno continuare ad “abitare” l’eredità di Nanni, facendo di un lutto “un risveglio”. Anzi, continui risvegli.

Una scena de “Il gabbiano” di A. Cechov regia di Giancarlo Nanni

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer

(ph. Tommaso le Pera)

Ecco allora che nella voce-corpo di Manuela Kusterman confluiscono – come colori di una stupefacente melodia – quelle di Massimo Fedele, di Gaia Benassi, di Paolo Lorimer e di Alkis Zanis. Voci che testimoniano e nutrono una memoria che suscita in noi del pubblico una grata e vibrante malinconia per quel rivoluzionario modo di fare teatro, il loro, che segnò un’epoca.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Loro la creazione di un nuovo linguaggio multidisciplinare che scelse di privilegiare “l’immagine” sulla “parola” e – proprio attraverso l’immagine – tenere insieme tutte le arti: teatro, musica, pittura, danza, cinema. Quella che Giuseppe Bertolucci definì “la scuola romana”.

Un teatro che sceglie di “provocare”: intellettualmente – ancor più che fisicamente – emozioni, turbamenti, domande. Lutti e risvegli. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che si nutre di immaginario e che lo restituisce in spettacoli che riescono a solleticare il linguaggio inconscio di giovani e di adulti. 

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che “si visualizza” in spettacoli storici come A come AliceRisveglio di primaveraL’imperatore della Cina, solo per citarne alcuni, nati dall’arte maieutica di Giancarlo Nanni, che riusciva a far liberare a ciascun interprete frammenti della propria singolarissima creatività. Solo così, attraverso continue improvvisazioni, venivano rilasciate tracce di un inconscio collettivo che Nanni componeva in immagini visionarie. A lui infatti – che veniva dalla pittura degli anni Sessanta e Settanta della “scuola di Piazza del Popolo” (Schifano, Festa, Angeli, Kounellis) – non interessava tanto la recitazione quanto piuttosto il tentativo di composizione di un quadro visivo. Senza la pretesa di “compiere” un’unificazione finale, quanto piuttosto di “evocarla” attraverso la ricerca di sempre nuovi frammenti.

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Evocazione che ieri sera ha raggiunto la Kustermann nel ricostruire i frammenti più significativi che hanno dato, e danno, vita a questo magnifico quadro esistenziale – ancor prima che artistico  – in continua evoluzione che è stato ed è il Teatro Vascello.  E che si è rivelata una testimonianza storica davvero preziosissima. 

Imperdibile soprattutto per i giovani, che a differenza degli adulti non hanno potuto contagiarsi di quell’aria carica di elettricità creativa che animava la Roma di quegli anni.  

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Contagio possibile però ora, proprio grazie a questa straordinaria testimonianza, che si impreziosisce anche del film girato allora da Mario Schifano – e che la Kustermann ha fatto restaurare – relativo alla forza dirompente liberata da uno spettacolo quale fu “Risveglio di primavera” .

Una memoria storica – quella ripercorsa per salienti frammenti dalla Kustermann – che meriterebbe di essere “accolta” in un vero e proprio documentario.

Grazie.

Paolo Lorimer, Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PENG di Marius von Mayenburg – regia di Giacomo Bisordi

TEATRO VASCELLO, dal 7 al 12 Marzo 2023 –

Un gorgoglio: questo è l’indizio che riceviamo prima di capire che siamo all’interno di un utero. È il  liquido amniotico a gorgogliare. Al suo suono si associa quello della voce  dei pensieri di uno strano neonato, che si presenta confidandoci il suo nome: Peng. Lo sa perché, sopra il sottofondo continuo della televisione che va, sente i suoi genitori fantasticare sulla scelta del destino da abbinare al suo nome proprio. E come ascoltando il mondo da un oblò (curatore dei suoni è Dario Felli), Peng si annoia un po’. 

Fausto Cabra (Peng neonato) nello spettacolo di Giacomo Bisordi

E allora per riempire l’attesa che lo separa dalla sua “uscita”, anche lui passa il  tempo a fantasticare sul suo nome. E lo fa derivare, etimologicamente, dal francese. In particolare, da quegli Ugonotti che sapevano, loro sì, come non annoiarsi: uccidendo migliaia di persone. In effetti questo sarà il destino collegato al suo nome: per poter essere l’ “unico”  figlio, Peng strangola sua sorella gemella cosicché non esca dall’utero. Dal parto verrà alla luce così “il primo figlio-bestia”. Già cresciuto: cammina, parla e ha i denti.

Una scena dello spettacolo “Peng” di Giacomo Bisordi

Ma che notizia !!! Ne approfitta subito un giornalista che propone ai genitori di diventare protagonisti di una sorta di reality. Pur di essere visti e seguiti dal grande occhio della telecamera, tutti i protagonisti della vicenda “vengono alla luce” attraverso una vera e propria competizione ad essere “il” protagonista. L’unico.

Fausto Cabra (Peng neonato) e Ado Ottobrino (suo padre) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

La scena (curata da Marco Giusti) semplice ed essenziale ma sempre efficacissima nel suo cambiare “a vista” a seconda delle  situazioni, si avvale della presenza di due schermi: uno per vedere l’inquadratura della videocamera e l’altro per far andare programmi televisivi. In particolare televendite, il cui monopolio è in mano ad una melliflua  presentatrice-divulgatrice: la mirabile Manuela Kustermann

Ma chi sono i genitori di questo Peng?

Aldo Ottobrino (padre), Sara Borsarelli (madre), Fausto Cabra (Peng) e Francesco Sferruzza Papa (giornalista) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Indossano una tuta rossa Adidas come fosse una divisa. E la fanno indossare anche al figlio. Apparentemente si propongono come esempi di autenticità: mangiano sano, praticano discipline orientali, accolgono chi è in difficoltà. Ma in realtà il loro credo è la violenza, suggellata dalle note  del “Lascia ch’io pianga” di Händel. Perché “ciò che è più efficace, è irrazionale”.

Fausto Cabra (Peng) in uno scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Peng, invece, non eredita la maschera dell’ipocrisia borghese dei suoi genitori. Viene subito alla luce come un crudele violento. E se ne compiace. Non si nasconde dietro alle buone maniere e va fiero delle rovine che lascia al suo passaggio. È una bestia sincera. Sia nascosto dall’ipocrisia sia scevro, quello in scena è un mondo che ha perso la sua “humanitàs”, quel misto di autentica solidarietà, compassione, comprensione, amore, perdono, cura, gentilezza.

Fausto Cabra (Peng bambino) e Francesco Giordano (Leone qui) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Qui “vale” ciò che puoi far vedere agli altri. Persuadendoli. Per essere un vero protagonista omologato. Dove non serve conoscere ma comprare. Dove ci si orienta attraverso i dictat  “mai più senza …”  e ” dillo guardando nella telecamera n….”. Perché la gente vuole che succeda sempre qualcosa nella vita degli altri, per distrarsi dalla propria: è lo show business

Giacomo Bisordi, il regista dello spettacolo “Peng”

Il regista Giacomo Bisordi  sceglie di portare in scena un testo denuncia di Marius von Mayenburg (scritto dopo l’elezione di Donald Trump) riadattandolo, attraverso la traduzione di Clelia Notarbartolo, alla situazione italiana. Ne scaturisce un lavoro volutamente feroce. Senza ipocrite edulcorazioni. Crudo ma necessario. L’originale regia si avvale della complicità di attori davvero molto efficaci, ciascuno nel ruolo o nei ruoli che è chiamato a rendere. Sono Aldo Ottobrino, Sara Borsarelli, Francesco Sferrazza Papa, Anna C. Colombo e Francesco Giordano. Su tutti brilla “la bestia” Fausto Cabra. Uno spettacolo che indaga sul tabù che ci porta a ridere di ciò di cui dovremmo vergognarci. Ma anche così è la natura umana.

Il cast agli applausi


Recensione di Sonia Remoli

Glory Wall

TEATRO VASCELLO, Dal 10 al 15 Maggio 2022 –

Immaginate un muro bianco che delimita il proscenio: una quarta parete che chiude, e quindi censura, la scatola teatrale, impedendo la visione e l’interazione globale con l’attore. Nessun regista, ne’ tecnici a garanzia.

Sopperite alle mancanze con le risorse della vostra immaginazione: dove vedete un singolo foro da cui sbuca una bocca aperta o un braccio, immaginate l’intero corpo dell’attore. Moltiplicate per mille un foro e con l’aiuto della fantasia createvi uno spazio dove corpi pulsanti, interagiscano liberamente.

E, a questo fine, permettete a quel che resta del Coro di entrare in questa storia nelle vesti di un prologo digitato sul muro e di ascoltare con benevola pazienza i paradossi che vi saranno presentati. E con molta arguzia giudicarli.

Questo è il potere dell’arte: ” …perché uno spettacolo sulla censura, la censura lo censura”. 

“Quando la Biennale Teatro 2020 mi ha commissionato uno spettacolo sulla censura, mi sono trovato davanti ad un muro” – dice Leonardo Manzan, il regista che con “Glory Wall” si è aggiudicato il premio Miglior spettacolo.

Manzan non sceglie mezze misure ma la pura provocazione, il muro contro muro, alludendo così al corpo contro corpo. Utilizza cioè un approccio che parte dalla serietà, passa per la ridicolizzazione e arriva alla dissacrazione, al fine di poter vivere e far vivere davvero il tema della censura.

Da qui la scelta di coprire, chiudere, censurare il palco con un muro sulla quarta parete per spostare tutta l’attenzione sul pubblico. Nascondendogli di proposito il corpo dell’attore e negandogli la garanzia del lavoro di creazione ordinata del regista e dei tecnici.

Scegliere di proporre uno spettacolo che si svolge dietro ad un muro, significa iniziare a sperimentare la necessità di perdere, almeno un po’, il controllo sulla situazione. Il risultato che arriva è quello di sentirsi più importanti e più liberi: effetti collaterali della censura.

Uno spettacolo “scomodo” nel senso letterale del termine: dove si mette in difficoltà sia l’attore che lo spettatore. Un gioco sì ma un gioco serio, radicale, intelligente, ironico. Perché quando si censurano gli altri, si sta censurando anche se stessi.

E allora tutto si riduce a frammentarietà: il corpo si riduce a piccole parti anatomiche (bocche, dita, braccia, ecc.) che interagiscono con il pubblico da liberi frammenti di vuoto: i piccoli fori del muro. Senza la libertà, caotica e quindi anche angosciosa, del vuoto creativo che scatena l’immaginazione, la fruibilità della realtà si riduce a un’ordinata sterilizzazione.

“Ma noi, vogliamo fare davvero quello che possiamo?”. Vogliamo immergerci nel caos, aperti, in attesa di essere accesi? “Qualcuno ha da accendere?”