Recensione dello spettacolo AMEN di Massimo Recalcati – regia di Valter Malosti

FESTIVAL NARNI CITTA’ TEATROChiostro di Sant’Agostino – 14 Giugno 2024 –

In una notte racchiusa dalle pareti affrescate di un chiostro del XVIII secolo ma libera di brillare sotto un cielo tempestato di stelle, i rintocchi dell’orologio della Torre dei Priori hanno segnato l’amen: il tempo della fine dell’attesa e quindi l’ora dell’inizio dello spettacolo. 

Un raggio di luce accompagna allora l’entrata in scena degli artisti del suono: co-protagonisti insieme agli interpreti dello spettacolo immaginato dallo slancio creativo di Valter Malosti, regista del testo teatrale scritto da Massimo Recalcati.

Valter Malosti

Malosti sceglie, in fertile accordo con l’essenza del testo, di “concertare” le voci di Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli – alle quali affida l’interpretazione di una selezione di brani della drammaturgia – ai suoni dello sperimentalismo in continua evoluzione del sound designer e musicista Gup Alcaro e alla chitarra laconica e brumosa, gravida di suggestioni, di Paolo Spaccamonti.

“Concertare” significa preparare per un’azione comune ed è qualcosa di diverso da una fusione; è piuttosto una cooperazione che riconosce le diverse peculiarità messe in campo. E quella del “concertare” è la cifra stilistica scelta da Valter Malosti per restituire registicamente il fecondo contrasto che agita il testo di Recalcati.

Massimo Recalcati

Le parole scelte dal celebre psicoanalista e saggista sono parole che sanno di esprimere il loro potere creativo: prendono vita da un eccesso di dolore che, lungi dalla tentazione alla rassegnazione, si trasforma in un desiderio disperato di lotta e di resistenza.

Sono parole che sanno di essere anche suoni dal potere fonosimbolico. E quello che prorompe dalla drammaturgia come un grido è un eccesso anche acustico, che ci viene restituito attraverso la sapienza di chi conosce intimamente quell’asprezza del suono vibrantemente acuto e quel carattere di esplosione polmonare, proprio dell’atto di alzare la voce in un grido.

Un grido che, al di là di una singolare esperienza personale, desidera richiamare l’attenzione della comunità, anch’essa coinvolta in questa disperata ed eccitante esperienza dello stare al mondo. 

Ecco allora che all’ “uomo” Massimo Recalcati si affianca lo “psicoanalista-antropologo” per restituire il valore di quella che è la radice etimologica di ogni nostro “gridare”: quel chiamare aiuto inteso dai nostri progenitori come l’atto di chiamare a condivisione  tutti i concittadini. Quel “quiritare”, da cui deriva il nostro “gridare”, significava infatti chiamare a raccolta i concittadini di allora: i Quiriti, appunto. Una parola dall’impatto unico: quello del suo originarsi dalla consapevolezza che avevano gli abitanti di una piccola cittadina dell’Italia centrale – nata su una sponda del Tevere ventotto secoli fa – che quando si gridava aiuto, si stringeva come cittadinanza.

Un grido che qui si origina dal ricordo di un’incubatrice: Recalcati, infatti, nato prematuro in tempi in cui non esisteva ancora la neonatologia, racconta di aver ricevuto insieme battesimo ed estrema unzione. Lui stesso, incarnazione del possibile coabitare di vita e morte. Un ricordo che si fa materia emozionale attraverso la sublime messa in scena acustica del regista-artista Valter Malosti. 

Un’incubatrice che ci parla di quel mortificante isolamento protettivo, durante il quale si è privati del contatto uterino con la propria mamma. Ma a qualche livello “l’imprinting” del suo battito cardiaco continua a insistere nel battito di suo figlio. Di concerto alla sua voce che, anche in quest’utero di vetro, riesce ad insinuarsi e a nutrirlo. 

Paolo Spaccamonti, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli, Gup Alcaro

Torbida  e pulsante come linfa vitale ci scorre dentro la voce di Federica Fracassi, scelta per interpretare la Madre, primo esempio della relazione e quindi della “concertazione” tra vita e morte. E nonostante il lutto che già veste, ma che non la abita e da cui eccedono guizzi di vibrante rosso sangue, “nuda” e distante ci si dà iconograficamente come una Venere botticelliana pervasa da “furor maliconicus”: quello de “La nascita di Venere”, allegoria neoplatonica incentrata sul concetto di amore come energia vivificatrice.


Una relazione, quella della vita “con” (e non “contro”) la morte, indispensabile ma che rischiamo continuamente di smarrire. Lo abbiamo sperimentato macroscopicamente durante i lunghi mesi di pandemia, dove a salvarci era il momentaneo allontanamento dalle relazioni. Anche noi, in qualche modo, chiusi terapeuticamente in un’incubatrice di vetro: quella delle pareti della nostra casa, che si estendevano attraverso i vetri dell’incubatrice-computer.

Marco Foschi, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli

Ed è intorno al fertile “concertare” di vita e di morte, reso acusticamente dall’elettricità melmosa e metallica dei suoni e delle voci, che Valter Malosti costruisce l’epifania della vita. Che ritorna: ancora e ancora. Anche nei momenti più mortiferi: basta non smettere di accordare il nostro orecchio ai richiami acustici del nostro essere battuti dal battito cardiaco “concertato” al ritmo del nostro passo, espressione invece della nostra volontà disperata, a insistere a continuare a vivere. 

Perché sebbene ci sia sempre qualcosa di irrisolto che resta e che tende a riproporsi, noi abbiamo facoltà di accordare la nostra luce al buio di questa irresolutezza. Attraverso un nostro “come”, simboleggiato dalla parola “Amen”: un suggello d’apertura alla vita, che si fonda sulla chiusura della morte. Come avviene nell’atto della nascita, nell’atto dell’amore, nell’atto della morte: “concerti” di vita e di morte. 

Ecco allora che questo testo teatrale, che nasce come un “grido”, si apre in un meraviglioso elogio del potere della “relazione”: il solo davvero efficace nel rievocare la vita anche nei momenti di morte. 

Federica Fracassi, Paolo Spaccamonti, Danilo Nigrelli, Marco Foschi

Della madre è l’insegnamento a desiderare la vita nonostante tutto, a cantarne un inno attraverso la trasmissione di quel battito del cuore che non smette di insistere. E che, quasi come un ancestrale imprinting, il figlio Recalcati ritroverà nel ritmo del passo del padre-soldato : qui un solennemente sfibrato Danilo Nigrelli, che sa rendere con efficacia l’eroe dal fascino rigorosamente decadente, incontrato dall’adolescente Recalcati tra le righe de “Il sorgente nella neve” di Mario Rigoni Stern . Ma quel battito del cuore è rintracciabile anche nell’imprinting di cui si nutriranno i battiti-carne con la sua amata donna.

Paolo Spaccamonti e Gup Alcaro

Quei battiti resi succulenti dalla voce e dalla rievocazione del sopravvissuto e ancora affamato di vita Marco Foschi, interprete di Enne 2, il partigiano di “Uomini e no” di Elio Vittorini, altro eroe incontrato nelle prime letture del giovane Recalcati. Il suo impaziente desiderio di vita trova massima espressione nella relazione palpitante con la sua donna, di cui Marco Foschi rende tutta la gustosa e drammaticamente impetuosa forza vitale, che lubrifica i sensi.

Uno spettacolo esperienziale – questo di Valter Malosti ispirato al testo di Massimo Recalcati – denso di quella sacralità che invita lo spettatore a parteciparne, aprendosi in un ascolto libero dai rigidi principi della logica. Un ascolto indifeso che, solo, riesce a rendere onore al potere della parola, che qui si fa carne. E di cui riusciamo a sentirne la lacerazione innamorata. Fino a toccarla. Contagiandoci di vita pulsante.

Andrée Ruth Shammah

Fertilmente visionaria, com’è nella sua cifra artistica, Andrèe Ruth Shammah: la direttrice artistica del Teatro Franco Parenti che ha scelto di produrre questo spettacolo, la quale non appena ricevuto in lettura il testo di Recalcati ne ha colto le potenti vibrazioni dionisiache, confluenti in un punto di fuga che ha dell’apollineo. Le vibrazioni necessarie per riaprirsi alla vita, e quindi al teatro, dopo l’oscurità dei mesi vissuti durante la pandemia. E non solo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PROCESSO GALILEO – di Angela Dematté e Fabrizio Sinisi – regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici

TEATRO VASCELLO, dal 19 al 27 Gennaio 2024 –

Quanti racconti si possono fare intorno ad un argomento ? C’è davvero qualcosa di certo e sicuro a cui possiamo ancorare i nostri racconti – sospesi nello sforzo di comunicare – e annodarli come corde a un mantegno ?

Quanto bisogno abbiamo noi esseri umani di sentirci al sicuro, confinando idee e nozioni in leggi e costruendoci intorno scienze?

Ruota al centro di questi “massimi sistemi” il “dialogo” proposto dallo spettacolo “Processo Galileo”, interessante esempio di sperimentazione teatrale. E’ infatti la risultante di un lavoro fertilmente sinergico che vede registi Andrea De Rosa e Carmelo Rifici; autori Angela Demattè e Fabrizio Sinisi, dramaturg Simona Gonella; attori di grande esperienza Milvia Marigliano e Luca Lazzareschi; giovani e talentuosi attori Chaterine Bertoni De Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi e Isacco Venturini. E poi raffinati artigiani quali: Daniele Spanò per le scene, Margherita Baldoni per i costumi, Pasquale Mari per le luci e GUP Alcaro per il progetto sonoro.

Uno degli oggetti d’indagine di questo lavoro accende l’attenzione sul nostro modo di reagire di fronte ad un trauma: a quel tipo di evento inaspettato nei confronti del quale ci troviamo senza i mezzi adeguati per affrontarlo. Traumatico sulla Chiesa fu l’effetto della rottura dei cieli aristotelici da parte delle teorie galileiane ma traumatico fu anche l’effetto provocato, sulla giovane divulgatrice scientifica in scena, dal lutto per la perdita della madre. E qualcosa di simile abbiamo vissuto noi tutti in occasione della pandemia da Covid 19.

Nello specifico, idee che andranno a dare forma a questa corale sperimentazione furono alimentate negli autori proprio dal trauma provocato dall’estremo smarrimento in cui ci gettarono i periodi di quarantena.

La stessa scienza medica subì “ una rottura del proprio cielo” ma, diversamente da quello che accadde a Galileo, non le fu ingiunto di uscire di scena. Tutt’altro: si é rimasti in balia delle varie teorie sostenute dai virologi, in attesa di conferma.

In che cosa consiste allora davvero “un processo” – ovvero un progredire – per noi esseri umani ? Raggiungere nuove scoperte basterà a farci sentire al sicuro ? E se sì, per quanto tempo ?

Quanto incide, nell’ontologia del concetto di scienza, il desiderio – sano e ingannevole – dell’uomo ad avanzare faustianamente nel sapere? Si possono arginare le derive narcisistiche del desiderio di sapere ?

A questo riguardo lo spettacolo mette in scena un acuto dialogo tra la tensione quasi ossessiva ad avanzare nel sapere e la più consapevole tensione contadina ad inserirsi all’interno dei ritmi e dei traumi (ad es.metereogici) della terra.

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Devi sapere che il verme

non dice niente alla terra su cui striscia

e la nuvola ignora

di essere la madre della pioggia.

Dovremmo congedarci subito

dalle nostre futili arroganze.

Siamo tutti povere ignoranze.

(da Canti della gratitudine, Franco Arminio)

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Ma allora, desiderare ci rende liberi o ci spinge verso un “cattivo infinito” ? Un infinito cioè molto vicino al subdolo desiderare proprio dell’ imperativo capitalista al “sempre nuovo”, che in verità – lungi dall’essere libero – è manipolato da un dictat egemonico? 

Tra conservatorismo e scientismo il dialogo può essere integrato con il recupero della sacralità del sapere ancestrale legato alla terra.

La componente razionale non è la sola a costituirci: anche quella irrazionale va ascoltata e nutrita. È la disperata consapevolezza a cui giunge la divulgatrice scientifica in scena, che di fronte al trauma della morte della propria madre si scopre indifesa. Tradita e abbandonata dai suoi riferimenti iper razionalistici.

La scena si offre nella forma di un’enigmatica istallazione razionalistico-visionaria che lascia lo spettatore libero di immaginare più habitat: ad esempio una porzione del globo terrestre in cui le terre emerse si avvicendano alle acque. Oppure lo stare al mondo in uno spazio iper controllato, iper confinato e saldamente ancorato ad un perimetro di mantegni. O ancora una sorta di serra di orti dove si coltivano prodotti agricoli grazie alla complicità dell’ illuminazione artificiale e della bellezza matematica della musica di J. S. Bach. Uno spazio che pare abbia rinunciato alla fertile magia del mistero.

Resta la poesia di una candela dal sapore macbettiano, a memento mori.

Intriganti le scelte prossemiche che regalano magnifici effetti cinematografici ed iconografici. Complici le scelte di Margherita Baldoni, relative ai costumi: efficacissimi anche cromaticamente.

Potentissima l’interpretazione di Galileo Galilei fatta propria da Luca Lazzareschi : il corpo della sua voce si declina tra la veemente inquietudine dello scienziato e la tenue vocazione al rispetto della legge propria di un padre. 

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Tremendamente passionale, austera e solenne ma anche provocatoriamente comica Milva Marigliano nella sua doppia partitura di personificazione del Sant’Uffizio e di madre di Angela.

Dalla grazia tenace di madonna quattrocentesca, l’interpretazione di Roberta Ricciardi in qualità di figlia di Galileo. 

Intimamente raffinata e spudoratamente sensibile il personaggio di Angela, la divulgatrice scientifica interpretato da Chaterine Bertoni De Laet.

Interessanti ed efficaci anche gli interpreti Giovanni Drago, allievo di Galileo e Alberto Venturini , Alberto il figlio di Angela.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Un intreccio di trame narrative, fluttuanti tra storia e visionarietá, coinvolgono il microcosmo di ciascuno spettatore. E’ un invito a non dimenticare. Ma soprattutto a non smettere mai di avere uno sguardo critico su ciò che ci accade.

Ad avere cioè un nostro racconto da legare e da mettere a cimento con quello di altri. Anche perchè se qualcosa ci è rimasto dentro del periodo della pandemia è che nessuno di noi si salva da solo.

E questa polifonica rappresentazione ne è uno splendido esempio.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

La signorina Giulia

TEATRO VASCELLO, Dall’ 11 al 16 Ottobre 2022 –

Cosa può succedere tra un uomo e una donna di diversa estrazione sociale quando l’uno sogna di “saltare su” e di salire nella gerarchia sociale e l’altra invece sogna un forte desiderio di “saltare giù”, sperimentando la caduta verso il livello più basso del sociale ? Cosa riesce a farli comunicare, a farli incontrare ? Il linguaggio della seduzione. Ma poi: davvero ci s’incontra? Davvero un uomo e una donna desiderano le stesse cose? Quanto siamo tentati dal voler dipendere da un altro, dagli altri? Sì, insomma, quanto preferiamo muoverci dentro i rassicuranti confini delle regole e dei pregiudizi? E quanto invece ci spaventa muoverci nell’apertura sconfinata della libertà?

Queste le domande intorno alle quali si snoda l’adattamento di Leonardo Lidi (noto per lo studio puntuale sui testi classici e insignito del Premio della Critica ANCT 2020 per il suo lavoro di regista e di drammaturgo) e che August Strindberg osa veicolare nelle sue opere, incappando spessissimo nella censura. Nella Prefazione al testo originale, l’autore illustra la propria poetica dicendo che “il male in senso assoluto non esiste” e che la felicità sta nell’alternarsi delle ascese e delle discese delle circostanze della vita. Inoltre, dichiara con franchezza che sua intenzione non è quella di “introdurre qualcosa di nuovo bensì adattare alle nuove esigenze sociali le vecchie forme…le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se altro non fosse, è più fretto­losamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresen­tarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo”.

Leonardo Lidi

August Strindberg

Il tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, segnano a fondo i testi di Strindberg, donando loro un carattere fortemente innovativo ed anticipatore. Acuto osservatore del reale e insieme visionario; irriverente ma anche mistico; sensibile e brutale, Strindberg fa della contraddizione la sua cifra stilistica. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi la sua nazione d’origine, la Svezia progressista, modello di welfare e tenore di vita, fa molta fatica a celebrarlo come il proprio massimo scrittore. 

All’apertura del sipario si impone un’ originalissima scenografia lignea iper-geometrica (la firma il raffinatissimo Nicolas Bovey che ne cura anche le luci), dove i volumi dei pieni prevalgono su quelli dei vuoti. Questa prima indicazione di soffocamento viene amplificata dal fatto che i due corridoi di vuoti risultano molto poco praticabili: uno verticale, stretto ed alto, permette la postura eretta ma non lascia ampi margini al movimento; l’altro orizzontale, molto lungo ma troppo basso, schiaccia e costringe ad una postura piegata. Insomma scegliere il corridoio della verticalità fa stare apparentemente più comodi ma fermi; il corridoio dell’orizzontalità invece offre margini di movimento, ma a prezzo di sentirsi schiacciati da un cielo “geloso”. Sono l’immagine, la fotografia, delle filosofie di vita che abitano i tre personaggi del dramma: quella di chi, almeno apparentemente sceglie di stare “al proprio posto” nella gerarchia sociale (Cristina, la cuoca, fidanzata a Gianni); quella di chi è tentato di scavalcare il muro e “saltare su”, più in alto, ma una volta assaporata la sensazione si fa bloccare dalle vertigini tipiche della libertà (Gianni il valletto del Conte) e quella di chi, già in alto socialmente, adora invece “saltare giù”, assecondando le vertigini che l’aiutano a cadere dal piedistallo, fino al più basso dei livelli della socialità.

Strindberg rappresenta in questo dramma un caso eccezionale, che esula dalla banalità perché “la vita non è così stupidamente matematica che sol­tanto i pesci grossi divorino i piccoli; anzi, è il contrario! Accade, non meno spesso, che l’ape uccida il leone, o, quanto meno, lo renda frenetico”. Strindberg porta in scena l’incomunicabilità tra i sessi e il rapporto servo-padrona: un autoritratto inconscio, un viaggio all’interno di due anime che si misurano con i loro sogni, la loro animalità, il loro istinto di morte.

Il dramma della contessina Julie, la ragazza che prima provoca e irretisce il servo Jean, e poi si ritrova prigioniera della trappola che essa stessa ha fatto scattare, si impone per la sua violenza interiore e la sua inesorabile crudezza. Leonardo Lidi sceglie argutamente di raccontare il diverso modo di desiderarsi tra uomo e donna facendo delle “spalle” di Giulia la parte del corpo più erotica. “Ha certe spalle!”- confiderà Gianni a Cristina. Spalle, così centrali anche nella recitazione del “Théâtre libre” di André Antoine, da cui Strindberg si lascia molto influenzare e che anche Lidi cita con originalità facendo recitare alcune scene di Gianni di spalle a Giulia e dando il fianco al pubblico. L’altro elemento terribilmente affascinante per Gianni è che sia “matta”, incontrollabile, irrefrenabile. Tanto che lui riesce a seguirla solo se le richieste di lei prendono la forma di un comando, ristabilendo in qualche modo il rassicurante rapporto servo-padrona. Ciò che invece desidera lei, davvero, è “parlare” e ricevere “il segno” dell’ascolto, della presenza. Una richiesta insaziabile. Che sconfinerà nella richiesta di ricevere, ora lei, ordini: “che devo fare?”.

Anche la scelta musicale di usare l’ambiguità della “sarabanda”, dall’andamento solenne, lento, grave e ossessivo ma con un nucleo originario di eccitante sfrenatezza risulta un efficacissimo contrappunto all’essenza dell’adattamento. I tre attori in scena brillano ciascuno delle ombre caratteristiche del personaggio che interpretano. Giuliana Vigogna: una Giulia vibrantemente passionaria e insieme perdutamente infantile; Christian La Rosa: un potentemente misero Gianni, dallo sguardo fisso e insieme allucinato e Ilaria Falini: una Cristina solennemente tragica nella sua ardente passività.

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Da Marzo 2022 Leonardo Lidi è direttore artistico del Ginesio Fest.

Recensione dello spettacolo NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE di Bernard-Marie Koltès – regia di Andrea De Rosa

TEATRO INDIA, Dal 17 al 29 Maggio 2022 –

Qualcuno ci sta spiando, laggiù in fondo al palco. Oltre il palco. La scena è senza argini: si dà senza pudore. Il sipario c’è ma ha perso la sua funzione: ne resta solo una parte ed è relegato verso la metà del palco, raccolto solo sul lato sinistro. Il suo rosso acceso è l’unica nota di colore in uno spazio indefinito.

Anche le luci sono dislocate: lasciano l’alto e s’incarnano su due treppiedi che dominano la scena: loro i primi personaggi che si palesano. Il flusso luminoso non è libero, a differenza dello spazio in cui sono immerse. È contenuto, delimitato e indirizzato verso la destra del proscenio, verso qualcuno o qualcosa che deve arrivare E poi c’è sempre quella donna laggiù, in fondo, oltre il fondale.

Federica Rosellini

Ci osserva, uno ad uno, mentre prendiamo posto in sala. Ci legge. Sembra saperne più di noi. È una presenza imbarazzante. Ma ad un certo punto non resiste. E avanza verso di noi: scalza, dal crine sciolto, indossando (ancora) un costume d’epoca. Arriva fino in proscenio: ci guarda tutti, si spoglia del soprabito e lo stende a terra. Come a deporre le armi. Solo ora le luci si abbassano e si diffonde la prima Variazione Goldberg: “Aria”. La donna ci rivela che quello che stiamo condividendo con lei è un particolare momento del giorno: “l’ora che volge al crepuscolo”, quella in cui s’incontrano solo persone alle quali “manca qualcosa”. Come noi. Come colui che si sta avvicinando da fuori, rasentando il muro, dal quale con difficoltà e di malavoglia si stacca.  

Federica Rosellini e Lino Musella

La donna si dichiara, con spavalda e seducente umiltà, come colei che possiede la capacità di soddisfare i desideri altrui. Ma anche lei può e vuole desiderare. E per farlo ha bisogno “che le sia chiesto” di soddisfare quel particolare desiderio. Questa è la sua “mancanza”, di cui è consapevole, e che anela fino ad esigere di soddisfare. Come “la sporgenza cerca l’incavo”. In una geometria di prossemici avvicinamenti e fughe, sui quali sono costruite le stesse Variazioni Goldberg, qui interpretate da Glenn Gould.

Federica Rosellini

Una geometria che non rifugge l’ampio spettro delle emozioni, anzi le esalta, le scova, toccandone ogni possibilità espressiva. Ma occorre saper modulare “le altezze” dalle quali si guarda. Lei attacca, dall’alto della sua consapevolezza, sfoderando tutte le sue arti di seduttiva venditrice. Ma lui le resiste. Sebbene riconosca che lo sguardo di lei “potrebbe far venire a galla il fango”, si trincera dietro i canoni dell’omologazione. Ora, però, è avvenuto questo incontro e nulla è più come prima.

Federica Rosellini e Lino Musella

Nonostante ciò, resiste alla forte spinta eversiva: si posiziona più in alto e si gloria di “saper dire no”. E lei, di “conoscere tutti i sì”. Ovviamente non succede nulla e la venditrice retrocede all’indietro, di spalle, senza voler riconoscere e offrire la propria vulnerabilità. Torna a quel che resta del suo sipario e da lì ricava nuova energia per risorgere dalle due ceneri, come solo la fenice sa fare. E così farà più volte, per tutti i “no” che lui le dirà.

Federica Rosellini

Fino a che non inizierà a guardarlo da “una nuova altezza” concedendogli di non guardarla, di immaginare “di chiederle” di esaudire il suo desiderio nella solitudine tipica di un campo di cotone. Ancora un “no”: lei è troppo “strana”. “Laddove mi aspetterei pugni, arrivano carezze”- si difende lui. Ma la donna sa aspettare e sa che ognuno ha i suoi tempi per riconoscere dignità ai propri desideri. E solo quando lei, iniziando a scendere dal suo piedistallo, si confesserà “povera” per il bisogno che la abita costantemente, anche lui allenterà le redini.

Lino Musella e Federica Rosellini

Troveranno un piano comune sul quale incontrarsi senza difese, dove riuscire a scambiarsi la propria pelle, quella più sospettosa. Perché il desiderio ci vuole disarmati, poveri, aperti. E i proiettori che prima erano indirizzati solo sull’ “altro”, con fare inquisitorio, ora la donna li indirizza verso il sipario: il luogo del “noi”, che ci vede tutti inclini ad abbassarci fino al più profondo degli inchini. Per poterci, poi, librare alti come aquile. E poi di nuovo anelanti del “basso”: condizione indispensabile per poter spiccare davvero nuovi e intrepidi voli. Altissimi.

Federica Rosellini e Lino Musella

Magnifica, la scelta del regista Andrea De Rosa di affidare ad una donna la parte del “venditore”. I sospetti verso chi è interessato a creare o scoprire bisogni in noi sono amplificati esponenzialmente da ciò che risulta più difficilmente traducibile: la natura femminile. Lo straniero più straniero. La più ricca di variazioni. Ma anche nell’uomo abita una donna difficile da tradurre (anche per una donna).

Il regista Andrea De Rosa

Federica Rosellini e Lino Musella ne sono stati enigmatici ed illuminanti interpreti. Uno spettacolo sulla potenza vitale dell’incontro. Perché ciò che dà sapore alla vita è il carattere rivoluzionario di certi incontri. Come il teatro ci insegna da sempre.

Teatro India


Recensione di Sonia Remoli