Recensione dello spettacolo LA MARIA BRASCA – di Giovanni Testori – regia Andrée Ruth Shammah –

TEATRO VASCELLO, dal 21 al 26 Maggio 2024 –

Non si resiste a non amare tutto di lei, finanche il suo pallore, solare prima che lunare: é la Maria Brasca di Marina Rocco, diretta dalla Shammah. Un pallore, il suo, risultante dalla prorompente fusione di tutti i colori di cui riesce a tingersi il suo desiderio: quello potente e prepotente, che prima di pretendere di essere ricambiato esige poter dare, poter offrirsi, potersi battere. 

Marina Rocco è Maria Brasca

Un’esigenza irrefrenabile e scandalosa – questa di testimoniare il sublime entusiasmo del suo desiderare – in una Milano degli Anni ’60, che il desiderio lo vorrebbe sordo, muto, celato. E che la Maria invece fa risuonare in tutto il suo fragore. Senza vergogna. Perché quel modo lì di “amare insieme” è la più grande espressione della dignità umana. 

Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo Camisasca)

Qual è, infatti, la cifra della nostra “umanità” se non la capacità di amare al di là dell’ostinato pretendere di essere ricambiati?

La Brasca resta preda per la prima volta di questa insolita capacità di amare con il suo Romeo Camisasca. E la nuova forza erotica è così invadente che lei vede vacillare un’attitudine che finora l’ha sempre guidata: la limpidezza concreta di “dire le cose come sono”. Unita a quella di “saper giudicare gli uomini”. 

Ma l’amore, questo amore, che la trova disponibile a lasciarsi infatuare, le insegna che non serve a nulla “giudicare”. Serve, piuttosto, far sì che l’errore ci renda migliori di prima. Tanto da poter arrivare a progettare un avvenire, lei che “io per l’avvenire non fisso niente. Per adesso è così, poi vedremo”

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un talento fertilmente contagioso, questo a godere apertamente di tutta la succulenza della vita incluse le eventuali conseguenze: lei, la Brasca, è un fiume in piena, che tracima depositando limo esistenziale. “Un giorno o l’altro devi trovarlo anche tu chi ti farà perder la testa. È talmente bello! E se tu proprio non lo trovi, te lo tiro fuori io, vedrai… Ma cosa fai, adesso? Sei contenta o non sei contenta che la tua Mariassa è innamorata? E allora ridi, su, andiamo, ridi! Tanto, finché c’è vita, c’è speranza!… Giuseppa, ascolta: la bellezza avrà il suo valore, non dico di no, ma quello che conta è poi un’altra cosa. Come lo chiamano i signori? Lo sbrinz, ecco; lo sbrinz”.

La Maria Brasca ha il dono di una sapienza spiccia: svelta e risoluta; fresca e scintillante. Ha un modo tutto suo di entrare in relazione con gli altri. Li capisce al volo, istintivamente, grazie a quella sua disperata gioia erotica – così naturalmente resa da Marina Rocco – esclusiva di chi è fedele al proprio desiderare. E sa lasciarsene guidare. 

E’ una donna affamata di vita, la Brasca: morde il presente ma, insieme, sa perdersi nello stupore proprio “di una verginella al primo amore”. E sa anche aspettare, come chi ama davvero, “per dei giorni e delle notti di fila”.  E se poi c’è da difendersi, da lottare, sceglie di farsi vedere “nuda e cruda”: in tutta la sua controversa purezza. Scoprendosi ad amare non solo ciò che luccica, come la bellezza indiscussa del suo Romeo, ma anche quel “suo fare da remollo”: perché amare davvero significa amare tutto dell’altro. 

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un respiro vitale che lei generosamente condivide, perché questo significa “stare insieme”. Amare la vita. Perché questo significa avere una dignità.

Significa che essere una donna non equivale solo “ad avere le paturnie” ma ad avere anche le ovaie. E perché “libera non significa puttana”.

“Libera” significa amare e sperimentare la vita in tutto il suo spettro cromatico. Proprio come amava dire Giovanni Testori«Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi, anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti».

Una vita che è partecipazione, in quanto “cosciente emozione del reale, divenuta organismo” e che come tale Testori riflette sul corpo della sua lingua, qui – nel suo primo testo d’esordio drammaturgico – già irresistibile.

Giovanni Testori

Così come uno spettacolo – dirà André Ruth Shammah introducendo il debutto della prima romana – “è una storia di partecipazione che si desidera condividere. Non un prodotto commerciale”.

E commuove la grazia che si sprigiona dall’appassionata cura umana – prima ancora che registica -nell’onorare il passaggio di testimone da un’attrice all’altra, nel corso degli anni, per continuare ancora a far vivere la Maria Brasca: nel 1992 era stata la cura di far sì che Adriana Asti continuasse a far partecipare Franca Valeri coinvolgendola nello spettacolo, anche dalla prima fila della platea

Franca Valeri è Maria Brasca (1960)

e ora, dal 2023, è Marina Rocco che prima di pronunciare la sua battuta d’apertura pare desiderare raccordare la sua voce a quella di Adriana Asti, che si libra nell’aria sulle note di una canzone. E nell’ascoltarla la Rocco si toglie il basco. E poi le manda un bacio. Ora si può. Ora tocca a lei portare avanti il testimone.

Adriana Asti è Maria Brasca (1992)

Un’eredità di sacra riconoscenza che si tramanda nella Casa del Teatro del Franco Parenti anche attraverso il recupero di fonti storiche, amorevolmente conservate: ad es. gli appunti accuratissimi della sarta della Asti, la Sig.ra Carlotta nonna dell’attuale sarta di Marina Rocco Simona Dondoni, che proprio grazie a questa eredità di cura può permettersi di vestire la Rocco con gli stessi costumi indossati dalla Asti. 

Ma eredità significa anche profonda fedeltà nei necessari tradimenti che lo scorrere del tempo impone: ecco allora la naturale esigenza di un opportuno ricambio generazionale, compimento di un ciclo di vita, a cui anche le foglie che abitano la scena alludono. E che non vengono mai eliminate. 

Andrée Ruth Shammah e Giovanni Testori

Eredità è il ricordo di Giovanni Testori, immenso maestro della Shammah, che non ha nulla del rimpianto, quanto piuttosto la gratitudine per esserci stato e per esserci ancora, attraverso una presenza metafisica e insieme palpabile. Lo si percepisce nitidamente già nella modalità profondamente giocosa attraverso la quale la Shammah e Giuseppe Frangi (Presidente dell’Associazione Casa Testori) amano ricordarlo durante l’incontro con il pubblico, appena precedente la prima romana al Teatro Vascello. 

Marina Rocco (Maria Brasca), Mariella Valentini (Enrica) e Luca Sandri (Angelo)

E poi “quel” insinuarsi della voce di Testori dai muri dello spettacolo. E poi la costruzione di tutti “quei” dettagli che la Shammah ha sapientemente inserito, quale mirabile contrappunto al suo sguardo registico. Uno su tutti, la casa riprodotta in scena che trema al passare del treno: così allusiva dell’abitazione dove Testori era cresciuto e dove ha trascorso gran parte della sua esistenza – oggi sede dell’Associazione Giovanni Testori – costruita lungo i binari delle Ferrovie Nord e affiancata dalla fabbrica tessile avviata da suo padre. 

Apre la scena metateatrale (curata da Gianmaurizio Fercioni) – dalle plumbee tinte della prudente ipocrisia del compromesso – la meravigliosa voce di Adriana Asti che canta ‘Quella cosa in Lombardia‘, con le musiche di Fiorenzo Carpi e il testo del poeta-cantacronache Franco Fortini

Uno spaccato di “famiglie cadenti come foglie, di figlie senza voglie, di voglie senza sbagli” sul quale la Shammah fa cadere la quarta parete. E quello che ora si lascia vedere, immagina come di proiettarlo-rivelarlo su un maxi schermo di una sala cinematografica.

Ma la vita, quella scandalosamente vera e vibrante, è quella che si svolge fuori dallo “schermo”. Con un‘interessante allusione anche all’intendere la vita nella nostra attuale modalità “social”.

Lo spettacolo è la storia di una famiglia che cerca di contenere ed arginare perbenisticamente l’inarrestabile esuberanza di una giovane donna, la Maria Brasca appunto, che non teme il coro dei “dicono che…, si dice che…”: non ha timore di quello che può uscire dalle bocche della gente, atrofizzate dal continuo spifferare pregiudizi e maldicenze.

Lei, la Brasca, la sua bocca la tiene ben aperta, anzi la spalanca in seducenti risate di piacere, scandalosamente generose a donare e a ricevere baci. Sua sorella Enrica (un’efficacissima Mariella Valentini) invece è sovrastata dall’affettuosa premura a mantenere un’apparenza di decoro nella sua famiglia. Nonostante correnti telluriche scuotano il sottosuolo della sua esistenza e quella dei suoi familiari: quella di suo marito Angelo (un delizioso Luca Sandri, così placido proprio perché così inquieto) e quello di sua sorella Maria, che ha perso la testa per quel fannullone del Camisasca (un Filippo Lai che splende di quel groviglio di prorompente impulsiva immaturità, proprio del suo personaggio). Atteggiamento che, per l’ottimismo della Brasca, proprio perché così vago nel decidersi a trovare focalizzazione su un lavoro, é espressione del fatto che può farli tutti. Mica come suo cognato, l’ Angelo,  che “non era difficile capire che più che meccanico non sarebbe mai diventato!“.

Luca Sandri (Angelo), Marina Rocco (Maria Brasca) e Mariella Valentini (Enrica)

Dopo la proiezione del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli – 50anni di vita del Teatro Franco Parenti” alla Festa del Cinema di Roma 2023 e la messa in scena qui a Roma di una selezione di spettacoli prodotti dal Teatro Franco Parenti per condividere con la Capitale i festeggiamenti dell’evento (“Il delitto di via dell’Orsina” di Eugène Labiche per la regia di Andrée Ruth Shammah; “Farà giorno” di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi per la regia di Piero Maccarinelli e “Sulla morte senza esagerare” per la regia di Riccardo Pippa) con “La Maria Brasca” di Giovanni Testori – regia di Andrée Ruth Shammah – si chiude il ciclo di spettacoli selezionati dalla Shammah per onorare i festeggiamenti, qui a Roma, dei 50anni di vita del Teatro Franco Parenti, nonché del centenario di Giovanni Testori.

Spettacoli – anzi “storie da condividere”, come ama definirli la Shammah – che sanno parlare ancora al pubblico di oggi, anche perché storie legate tra loro dall’indagine di quei passaggi di testimone, che la vita ci invita ad attraversare e che spesso sono zone di confine che si possono vivere quali fertili occasioni d’incontro, piuttosto che di separazione.

Luca Sandri (Angelo), Mariella Valentini (Enrica), Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo)

Un’esperienza di feconda condivisione, questa con la Capitale, voluta fortemente dal generoso umanesimo di cui Andrée Ruth Shammah sa farsi autrice e ambasciatrice. Un inno alla Vita, il suo, e quindi un inno al Teatro, che ha commosso, divertito ed entusiasmato il pubblico romano.

Non c’è niente da fare: nella Casa del Teatro del Franco Parenti si respira davvero la Vita.

Andrée Ruth Shammah, suo figlio Raphael Tobia Vogel e Franco Parenti


Recensione di Sonia Remoli



Recensione dello spettacolo L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI di Sigmund Freud – di e con Stefano Massini

TEATRO ARGENTINA, dal 5 al 21 Dicembre 2023

Conoscere se stessi è da sempre un’esigenza che tende a prendere le sembianze di un desiderio segreto: fatica ad esprimersi manifestamente, tanto è “proibito” il contenuto del desiderare. 

Acutamente allora Stefano Massini, che con questo spettacolo sceglie di mettere in scena le dinamiche oniriche della nostra psiche, fa aprire la rappresentazione proprio a lui: il Desiderio.

Eccolo: sbuca da un lato del palco/psiche e attraversa con passo sinuoso il proscenio, per poi appostarsi in un altro lato. E’ un’affascinante donna. Veste un abito dalle nuove linee fluide proprie dello stile Liberty. Ed è  tinto di mistero e di passione (i costumi e le maschere sono curati da Elena Bianchini).

Ci irretisce: ci porta dalla sua parte, ci seduce.  Complice la sua voce insinuosa, solleticante, pungente e ossessiva: quella che ci sta traducendo il suo violino (Rachele Innocenti sulle note di Enrico Fink). E che risuonerà ancora, serpeggiando, lungo la messinscena.

Tutto si mescola, tutto si trasforma, all’interno delle nostre emozioni, delle nostre pulsioni, della nostra memoria: oltre ad avvertirlo, lo vediamo rappresentato sulla scena. Il caos che abita i sogni è visualizzato anche da una proiezione tridimensionale sul fondale: fondo del nostro sguardo interiore (le scene, curate da Marco Rossi, riproducono opere pittoriche di Walter Sardonini).

Uno sguardo spesso in bilico tra la nostra tentazione a tarparlo e quella a guardare, solleticati proprio dalla sua enigmaticità. Qui visualizzata da fiotti di fumo intrisi di ambigui richiami, musicati dal trombone e dalle tastiere di Saverio Zacchei e dalle chitarre di Damiano Terzoni . Sempre sulle note di Enrico Fink.

ph Filippo Manzini

“C’è qualcosa di terribile e al tempo stesso splendido nell’attimo in cui decidiamo di guardarci dentro”: con queste parole  Stefano Massini commenta l’entrata in scena del Desiderio e le sensazioni da esso provocate.

Quando riusciamo ad avvicinarci alla “geografia” più autentica di noi stessi, così tumultuosa e disordinata, così accattivante e lacerante, qualcosa ci tenta però ad allontanarcene. Un dubbio ci attanaglia: “ma poi gli altri cosa diranno di me?”.

E così, troppo spesso, si torna ad indossare la nostra rassicurante (ma insoddisfacente) maschera sociale. Lo dice il “progresso”: se lo si segue, si è inseriti, accettati, protetti. Ma nonostante la nostra tensione a uniformarci, poi però pretendiamo costantemente l’attenzione degli altri.

ph Filippo Manzini

Urla quindi, e i morsi si fanno sentire,  la fame a dare nutrimento alle parti più  vere di noi: un ascolto che “noi” possiamo darci. Accettando l’invito del desiderio e quindi appassionandoci in una ricerca nelle buie profondità  di noi stessi. Perché – come la drammaturgia delle luci di Alfredo Piras sa sottolineare – solo dal buio può nascere e liberarsi l’emozione.

Quest’ invito rivoluzionario di Freud, viene raccolto da Massini che sceglie di farci dono - proprio attraverso il potere immaginifico e catartico della parola e del gesto attoriale – della consapevolezza di come la messinscena del sogno celi una messinscena sociale.

A testimoniare come la psicologia sia strettamente connessa alla socialità – e quindi come lo psicoanalista guardando nell’interiorità dei pazienti abbia restituito indietro anche il sentore dei mutamenti  sociali – è l’esigenza che si è  sentita, proprio a fine Ottocento, di coniare il termine “onirico”: l’irreale del surrealismo, della libera associazione, della visione ermetica che suggestiona e richiede interpretazione.

ph Filippo Manzini

Recentemente l’attenzione al ruolo “antropologico” dello psicoanalista è stata riaccesa anche dal testo di Massimo RecalcatiA pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo“. Se quindi il ruolo dello psicoanalista non è confinato solo tra le pareti intime di una stanza e può e deve scendere in strada, anche il Teatro può farsi portavoce di questa missione sociale.

Vincente risulta la scelta di Stefano Massini di far incontrare il teatro di narrazione sul confine con la restituzione attoriale, mandando in scena le dinamiche oniriche della psiche umana attraverso il processo di osservazione interno ed esterno del neurologo e psicoanalista Sigmund Freud.

ph Filippo Manzini

Lo spettatore è coinvolto in un’immersione “a tutto tondo” nella quale accetta di viaggiare fuori e dentro di sé. Con disponibilità, senza necessariamente inquadrare nei principi della logica cosa stia avvenendo. È un incantesimo dove la parola, l’immagine e la musica sono le muse che ci guidano in questa avventura multiforme e multisensoriale. E finalmente riconosciamo attenzione a tutto ciò che ci rende unici. Irripetibili.

Ecco allora che Stefano Massini, a coronamento di un processo osmotico di attenzione tra interno ed esterno, a fine spettacolo sente l’esigenza di ringraziare – evocandoli con il loro nome e il loro cognome – tutti coloro che, parti necessarie di un tutto, hanno contribuito a dare forma a questo stupefacente viaggio.

Sulla Scena della Vita.

ph Marco Borrelli


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL MISANTROPO di Molière – regia di Andrée Ruth Shammah –

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Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2024per un Teatro, un’ Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior attore protagonista).

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TEATRO FRANCO PARENTI, dall’8 Novembre al 3 Dicembre 2023 – Milano –

Cosa ci rende uomini?

Il rigore, che ci assicura “specchiata lealtà”

o il perdono, che nel “mutuo rispetto” tutela la nostra unicità ?

Il progetto di traduzione registica e filologica che ha portato a questa messa in scena è di portentosa bellezza. Tanta meraviglia nasce da un lavoro a sei mani tra Andrée Ruth Shammah, Luca Micheletti e Valerio Magrelli: un lavoro incentrato sull’elogio semantico della parola e della sua musicalità. 

Andrée Ruth Shammah

Dal desiderio della Shammah – che da decenni si nutre della passione per Molière – di rendere ancor più consapevole lo spettatore della travolgente modernità di questo testo, nasce l’idea di alleggerirlo puntando dritto alla resa della sua essenza. Ecco allora che con accorta intelligenza la Shammah affida la traduzione de “Il misantropo” allo sguardo poetico del fine francesista Valerio Magrelli che – centrando l’obiettivo – ritraduce il testo portandolo in settenari incrociati. 

Valerio Magrelli

Allo spettatore che si siede in sala, seppur ignaro di questo complesso progetto, arriva immediatamente la seducente delicata freschezza dell’ascolto. Ed è un incanto di spontaneità. 

Spontaneità che è la cifra del Teatro che tanto ama la Shammah: quello del rituale delle prove. Del qui ed ora si sta svolgendo una prova: qui si sta mettendo in scena il teatro stesso. Quella magica e sacra tensione di ricerca propria del continuo sperimentare, del continuo mettere “alla prova”. 

Ed è con questa tensione che si apre lo spettacolo: con i rituali di controllo che sia tutto in ordine sulla scena e con gli attori che entrano e stanno sul palco con quella tensione di fertile attesa di quando sono dietro le quinte. Un’atmosfera magica: pura e insieme disponibile a contaminarsi di tutto, che ricorda tanto quella che abita la nostra psiche, il nostro inconscio.

Lo stesso spazio scenico – le cui scene sono state costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e curate da Margherita Palli – rimanda a un condominio psichico dove interessi e scopi differenti cercano di accordarsi, sovente scontrandosi, per coabitare.

Tra gli inquilini del mondo interiore vi è anche una spinta ideale, una tensione ad essere secondo un modello virtuoso, positivo, realizzato (che Freud ha chiamato Super-io) nella quale si è depositata una grammatica delle nostre aspirazioni: ciò che abbiamo imparato a considerare etico, migliore, auspicabile. Un imperativo che ci indirizza ad essere leali, generosi, affermati, competenti, perfetti, coerenti. 

Tensione che è un po’ la spinta iper protettiva che domina Alceste e che lo porta a non riuscire ad entrare in una vera relazione di reciproco scambio con gli altri, con la società nella quale è immerso.

Luca Micheletti è Alceste il misantropo

Riflesso di questo macrocosmo sociale, il microcosmo dei personaggi in scena. La specificità che contraddistingue ciascuno di loro allude alle varie spinte della psiche di Alceste, con le quali lui non riesce ad entrare in relazione. La sua ferrea integrità ha il sapore di un’epurazione: un’ossessione a separare, a purificare, a lavare ogni macchia, ogni colore che può sporcare la sua visione utopisticamente pura dell’essere umano. 

L’estro della regista riesce a veicolare questo messaggio nell’orecchio e nell’occhio dello spettatore: ciascun personaggio ha infatti una sua cromaticità vocale ben riconoscibile. Anche rinunciando al conforto dell’immagine. La sublime succulenza dei colori degli abiti (seconda pelle) degli altri personaggi, non c’è in lui, che veste in nero. E dall’umor nero è pervaso. Un colore (e un habitus) ‘introverso’, che non riesce a riflettere luce: quella che sgorga dalle nostre ombre interiori. Tutti i magnifici costumi sono curati da Giovanna Buzzi e realizzati da LowCostume in collaborazione con la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dondoni.

Luca Micheletti (Alceste) e Marina Occhionero (Célimène)

Il microcosmo di Alceste – come un urlo muto – parla del suo immenso e irrinunciabile bisogno ad essere riconosciuto nell’unicità della propria identità. Bisogno non lontano dal vissuto personale in cui si trova a scrivere l’autore, del quale la regista – con delicata sensibilità – tiene attenta considerazione. E che si può rinvenire, ad esempio, in certe reazioni di tenera e disperata collera dal sapore infantile, che Alceste rivela in alcune occasioni.

E che forse possono leggersi anche nel suo ritrovarsi, alla nascita del fratello minore, privato del nome proprio. Tanto che a 22 anni rinuncia al nome di Jean, al quale solo successivamente i suoi aggiunsero quello di Baptiste per differenziarlo dal secondogenito Jean. Sceglie allora Molière, in omaggio ad un suo amato scrittore.

Ma nessuno di noi, come ci ricorda il noto psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, può darsi un nome da sé. Non funziona. Il nostro essere al mondo è inscindibilmente legato agli altri: sono gli altri a sceglierlo per noi. Noi però possiamo fare qualcosa di autenticamente nostro di quello che ci hanno dato gli altri. Questo è lo spazio in cui può muoversi la nostra libertà. E questo è il dissidio dell’autore che trova riflessi nel microcosmo di Alceste, che sua volta traspone nel macrocosmo sociale in cui è immerso ma dal quale prende risolutamente le distanze. La sua prossemica è eloquentissima. E tremenda.

Ma come è irresistibile, invece, la vicinanza che comanda il sentimento amoroso ! Soprattutto se ci si innamora della donna più irresistibilmente ribelle alle manipolazioni. Che ha un modo tutto “suo” di riconoscergli quell’unicità che lui tanto reclama. Un’unicità che non esclude la relazione vitalizzante con il tutto. Una corte (quella per lui) che non esclude l’appartenenza ad una corte sociale. Un’innocenza, che non esclude l’indecenza.

Mentre lui per la sua bella non si farebbe tentare nemmeno dall’avere in cambio Parigi. Ma quanti sottotesti si celano dentro dentro “la speranza” ! E quanto queste contraddizioni ci sono vicine anche oggi ! Quanto ci fa bene riportarle in scena, assecondate e contrastate dalla sinergia del contrappunto della drammaturgia musicale ( di Michele Tadini) e della drammaturgia delle luci ( di Fabrizio Ballini) ! 

Di grande bellezza l’uso delle tende che, come disponibili quinte – anche della nostra interiorità – creano magnifici primi piani o suggestivi campi lunghi. 

Andrea Soffiantini (Basco), Marina Occhionero, Luca Micheletti, Matteo Delespaul (Secondo servitore)

Ma di sublime poesia è l’attenzione alle aree più misteriose: quelle dove si muovono soprattutto i due servitori (Andrea Soffiantini e Matteo Delespaul) . Lì la luce delle ombre, regalata dai candelieri, disegna interni dalla raffinata malinconia, propria dei pittori della scuola danese. Rapisce la naturalezza dell’eleganza coreografica dei due servitori (la cura del movimento è di Isa Traversi), dove nel più anziano (il Basco di Andrea Soffiantini) viene spontaneo ritrovare echi del First cechoviano .

Di lacerante intensità la prova attoriale dell’Alceste di Luca Micheletti. Il nero di cui si ammanta sa raggiungere le tonalità più assolute del vantablack, lasciando trapelare la tenerezza trasparente dell’ossidiana.

Angelo di Genio (Philinte), Luca Micheletti (Alceste) e Corrado D’Elia (Oronte)

Persuasivo il Philinte di Angelo Di Genio sulle dinamiche che possono generarsi all’interno di un rapporto di amicizia che, seppur fondato sulla fiducia e sulla nitidezza intellettiva – cromaticamente espressa e riflessa dal colore grigio – sa accogliere l’opportunità di un sano tradimento. 

Interessanti i contrasti – che non escludono consonanze – sviluppati tra i rivali in amore. In primis, il carismatico Oronte di Corrado D’Elia, colmo dell’intensa energia del viola melanzana. Ma anche lo styloso Clitandro di Filippo Lai, dal crine platinato e dallo charme che si sprigiona proprio da quell’esotico “punto di rosa”. Senza dimenticare il sofisticato Lacasta di Vito Vicino : fasciato dall’eleganza dell’ambiguo ottanio.

Luca Micheletti, Filippo Lai (Clitandro) Matteo Delespaul, Vito Vicino (Lacasta), Angelo Di Genio

Illuminanti i contrasti e i cedimenti amorosi propagati dall’universo femminile, declinato nelle sue innumerevoli sfumature. La Célimène di Marina Occhionero è resa tutta nella sua miscela di volubilità e di pragmatismo. Splendidamente quindi si bea del mix esplosivo racchiuso nel verde di Scheele, che così bene la rappresenta.

Emilia Scarpati Fanetti (Orsina), Vito Vicino, Marina Occhionero (Célimène), Filippo Lai, Maria Luisa Zaltron (Eliana)

Un’avvolgente connubio di saggia pacatezza con note di euforia connota l’ Eliana di Maria Luisa Zaltron. Una lucente acquamarina che sa che amare qualcuno significa accogliere anche i suoi difetti e quindi saper perdonare.

S’ammanta di giallo orpimento l’Orsina di Emilia Scarpati Fanetti che come il colore che la rappresenta sa rendere la luce affidabile dell’oro, scevra dalla sua nobiltà.

Completano l’efficacia del cast, il Du Bois di Pietro De Pascalis: una presenza enigmatica che fin dall’inizio teniamo a mente per il suo ambiguo far capolino dalla porta finestra di scena, unica apertura verso l’esterno del condominio psichico di Alceste. E un accurato Francesco Maisetti nel ruolo della Guardia.

Una traduzione registica – quella di Andrée Ruth Shammah – appassionatamente incuriosita da tutte le manifestazioni dell’animo umano e quindi scevra da giudizi.

Perché questo è il Teatro.


Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti il 30 Agosto ha ricevuto a Sirolo il Premio Franco Enriquez 2024per un Teatro, un’Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – come Migliore Attore protagonista de “Il misantropo” di Molière per la regia di Andrée Ruth Shammah, con la seguente menzione di merito:

Rompere con il mondo è il desiderio di Alceste, protagonista di questo “Misantropo” di Molière che rivendica un ideale d’onestà e purezza di cuore; interpretato in modo magnifico e convincente da Luca Micheletti, che duetta con gli altri personaggi della commedia in una specie di partitura polifonica dalla quale emerge e giganteggia la sua granitica padronanza del mezzo espressivo e la sua capacità di danzare dentro il verso. Diretto magistralmente da Andrée Ruth Shammah, che ne firma una regia moderna e attuale, riconsegnandoci la modernità di questo grande classico che rispecchia il mondo di oggi, con i suoi compromessi e le sue contraddizioni“.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CIRANO DEVE MORIRE di Leonardo Manzan e Rocco Placidi – regia di Leonardo Manzan

TEATRO VASCELLO, Dal 22 Novembre al 4 Dicembre 2022 –

Spettacolo vincitore del Bando Biennale College indetto dalla Biennale Teatro di Venezia 2018

Ci aspettano: abitano una “costruzione” edificata in un teatro nudo, dove tutto è a vista, senza le “omissioni” delle quinte (le scene sono di Giuseppe Stellato). Debbono dirci qualcosa: vogliono “mettere a nudo” una storia. Quella sul triangolo amoroso tra Cyrano-Rossana-Cristiano. È la prossemica che hanno scelto per aspettarci a parlarcene: Rossana in alto, al vertice di quel triangolo di cui Cyrano e Cristiano sono i due angoli alla base.

Scena di “Cirano deve morire” al momento dell’ingresso in sala dello spettatore

Ma questa volta è ad una narrazione “politicamente scorretta” che dobbiamo prepararci: fuori da ogni perbenismo e da una visione manichea che distingua nettamente il bene dal male. Fuori da soluzioni confezionate. Univoche. Ingannevoli. Complice un disegno luci spregiudicato: un insieme di raggi fendenti e penetranti come spade (disegno di Simone De Angelis, esecuzione di Giuseppe Incurvati). 

La riscrittura del “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand ordita dal talentuoso regista Leonardo Manzan, affiancato nella drammaturgia da Rocco Placidi, mette alla prova i consolidati equilibri che sorreggono la celebre storia, osando andare oltre i confini di certi codici “omologanti”.

Leonardo Manzan, il regista di “Cirano deve morire”

Qui si sposa il punto di vista di Rossana (una poeticamente accattivante Paola Giannini), unica sopravvissuta alla storia e che di questa pesantezza non fa più un ingombro ma l’occasione per uno sguardo nuovo: dall’ “alto” della sua posizione e con il conquistato distacco, tutta la storia può essere rivista.

Paola Giannini, la Rossana in “Cirano deve morire”

È quella di Manzan una Rossana che ammicca all’arguta “Locandiera” di Goldoni, risoluta nello scendere in campo per ribellarsi alla “solita” narrazione che fa di Cyrano solo il simbolo dell’ eroe allergico all’ipocrisia e di Cristiano un delizioso sfortunato. Scopriremo, dal suo punto di vista invece, come Cristiano (un magnetico Giusto Cucchiarini) sia l’esempio del “bello che non balla”

Giusto Cucchiaini il Cristiano in”Cirano deve morire”

e Cirano (il poeta maledetto Alessandro Bay Rossi) un uomo che della propria diversità fisiognomica fa un muro dietro al quale trincerarsi. Un po’ come canta Roberto Vecchioni nella sua “Rossana Rossana”: “Col cuore dentro il naso … nelle mani soltanto stelle rotte, l’ombra perduta tra i rami…che brutta eternità desiderarti e non averti mai…aprivo solo la bocca, facevo finta forte e ti ho bagnato d’amore” .

Alessandro Bay Rossi, il Cirano in “Cirano deve morire”

Insomma un Cirano che si blocca ad una (apparentemente) generosa simbiosi con Cristiano, dove quella che chiamano “finzione” si riduce ad una “minzione”. Un uomo, Cirano, che non va oltre la sublimazione inchiostrata delle proprie emozioni. Ma l’inchiostro “si secca” e non produce nulla di fertile. Da qui il titolo iconoclasta: “Cirano deve morire”.

Perché scrivere “ti amo” vale solo se è il momento che anticipa il “segno” di un gesto intrepido. Perché in realtà a Cirano non manca tanto la bellezza, quanto la capacità di “perdere il controllo” e di misurarsi con la follia dell’amore. Che non fa sempre rima.

Efficace poi la scelta di tradurre e veicolare questa nuova “weltanschauung” attraverso la musicalità metrica e l’attrazione per le rime caratteristiche del linguaggio rap. Naturale effetto di questa nuova traduzione è che il lavoro assuma la modalità di un “concerto”, di un gareggiare musicale: un concept album supportato dalle musiche originali del dj Filippo Lilli direttamente sul palco. Raffinatissimo e molto efficace il contrasto antico-moderno dei costumi (sono curati da Graziella Pepe).

Il cast di “Cirano deve morire” con il dj Filippo Lilli

Una prova di teatro coraggiosamente interessante, costruita senza l’ossessione di andare incontro al beneplacito della critica.

Un nuovo orizzonte quello aperto da Leonardo Manzan, che sa portare a “singolar tenzone” teatro e musica rap.


CIRANO DEVE MORIRE

di Leonardo ManzanRocco Placidi
regia Leonardo Manzan
con Paola GianniniAlessandro Bay RossiGiusto Cucchiarini 
musiche originali di Franco Visioli e Alessandro Levrero eseguite dal vivo da Filippo Lilli     

fonico Valerio Massi

luci Simone De Angelis eseguite da Giuseppe Incurvati 

scene Giuseppe Stellato 

costumi Graziella Pepe

produzione de La Biennale di Venezia nell’ambito del progetto Biennale College Teatro – Registi Under 30 con la direzione artistica di Antonio Latella
produzione nuovo allestimento 2022 La Fabbrica dell’Attore – Teatro VascelloElledieffeFondazione Teatro della Toscana


Recensione di Sonia Remoli