Recensione del film CONFIDENZA – tratto dal romanzo di Domenico Starnone (Einaudi) – con Elio Germano, Federica Rosellini, Vittoria Puccini, Pilar Fogliati, Isabella Ferrari – un film di Daniele Luchetti

Stupefacente è come questo film riesca a destabilizzarci, anche senza esserne totalmente consapevoli. 

Indubbiamente ha la capacità di insinuarsi seducentemente in quella quotidianità, che crediamo di saper tenere sotto controllo. 

Non è necessario aver vissuto qualcosa di simile ai protagonisti per rimanere profondamente turbati, perché la narrazione ha il potere di arrivare in “un luogo” dove tutti confluiamo e che ci fa vedere quanto è labile il confine tra “amare” e “sopraffare”. 

Amare è quanto di più distante dalla nostra natura: ciò che riceviamo in corredo dalla natura é infatti un istinto alla sopraffazione utile per sopravvivere, senza andare troppo per il sottile sul “come” . 

Amare si impara: amare richiede un desiderio e un insegnamento erotico, un’educazione sentimentale, dove si apprende, per seduzione, a sublimare l’istinto all’individualismo nell’arte di entrare in relazione. Se ne occupa anche il prof. Pietro Vella (un Elio Germano investito della grazia della mediocrità).

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma allora, se questi sono i presupposti, quanto può risultare pericoloso chiedere e concedere di affidare una confidenza – qualcosa cioè di intimo e segreto tanto da essere quasi impronunciabile – ad un’altra persona?

Siamo spinti a correre questo rischio forse perché a prevalere sulla consapevolezza a riconoscere che il patto d’intimità si regga sul ricatto della paura reciproca ad essere smascherati, è l’idea che la confidenza implichi un grado di conoscenza così profonda tra due persone, raggiungibile solo quando si è disposti vicendevolmente a riconoscere all’altro un’accoglienza altruistica. Un atto quindi di grande fiducia, un investimento emotivo che non esclude un possibile tradimento dell’intimità della parola data, seppur suggellata dal segreto a custodirla entro le mura delle due persone coinvolte.

Non a caso Teresa (una Federica Rosellini dalla densità propria di una divinità mitologica) alla richiesta del suo insegnante Pietro Vella di tentare di definire cos’è l’amore risponde che l’amore non è mai alla pari: l’amore è sempre sopraffazione. Che un po’ è quello che lui, il prof, aveva poco prima scritto alla lavagna. Lui, però, separando l’amore dalla paura. 

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma invece al centro della nostra psiche, sotto la superficie di educate finzioni, giace inconfessata e perenne proprio lei: la paura. Non disgiunta nemmeno dall’amore e dai suoi fantasmi, che aleggiano nel buio delle nostre emozioni: sono i vari terribili “e se …” (“e se sapesse che …”; “e se la perdessi …”; “e se pensassero male di me …”; “e se fallissi …”). Per non parlare poi delle paure a cui non riusciamo nemmeno a dare un nome: vere e proprie angosce, perché quello che temiamo è proprio l’ignoto (il futuro, l’incomprensibile e la nostra stessa inettitudine). Tic, tic, tic: un vero stillicidio. 

Un po’ quello che si trova a vivere Pietro Vella: da sempre e per sempre, ma con un’impennata incontrollabile dopo lo scambio di confidenze con la sua ex studentessa Teresa. 

La quale, invece, sembra avere un diverso rapporto con la paura: quasi fosse un altro nome della fantasia. Un sintomo, il suo, della bizzarra potenzialità di una psiche che non si accontenta. Soprattutto delle cose così come appaiono: delle maschere che si tende ad assumere per difesa. Un sintomo che trasforma l’esistenza, soprattutto se animata come nel caso di Teresa dalla vendetta, in un thriller a puntate pieno di colpi di scena, di suspense e sobbalzi. Godendo proprio di quei misteri impossibili da svelare: le angosce dell’Altro, di Pietro appunto. 

Elio Germano è Pietro Vella

E quello che sembrava essere un felice “incontro” si tramuta in una sorta di “incantesimo”: nel rito magico della parola, prima magia dell’uomo e nella genesi dell’impossibile, che passa per l’intonazione della voce, per la scelta delle parole, per il ritmo del respiro. E’ quindi questa consapevolezza di Teresa sul potere dell’asserzione a travalicare le frontiere del fantastico, invadendo la realtà.

Sì, perché l’asserzione è quell’affermazione attraverso la quale si tesse una posizione e quindi un’identità. E’ il superamento delle dichiarazioni rabbiose – proprie della Teresa che scopre di essere stata tradita – così come delle dichiarazioni cerebrali, spesso prive di catene dimostrative. Ecco allora che l’affermazione, quella versata shakespearianamente da Teresa nell’orecchio di Pietro, viene data per vera, sebbene sia la prospettiva umana quella che veramente ne svela la cifra. E’ un po’ quello che Iago fa con Otello. 

Federica Rosellini e Elio Germano

Ecco, forse è proprio questo che risulta stupefacente: scoprire fin dove le possibilità umane possano bloccarsi dietro maschere (come accade a Pietro Vella), o invece spingersi oltre, verso quel qualcosa di “divino” che ci abita. Federica Rosellini, infatti, ci restituisce una Teresa Quadraro dalla densità di una divinità: che ha qualcosa delle Erinni (divinità vendicatrici dei torti subiti) e insieme qualcosa dello Zeus che sceglie la punizione per Tantalo. Come Zeus, Teresa sceglie infatti di infliggere a Pietro il tormento di chi desidera tantissimo qualcosa, apparentemente a portata di mano (in questo caso la conferma del silenzio sul segreto rivelatole) ma scopre che questo desiderio è destinato a rimanere perennemente inappagato. Un tormento che fa cadere la maschera buonista di Pietro, rivelandole l’indole da bestia pavida.

Quanta poca cosa è allora un tradimento umano rispetto alla punizione eterna, e quindi divina, di disporre del “laccio” di una “confidenza segreta”! Fino a quanto può stringere questo “laccio” ? Fino a quanto possiamo sopportarne il giogo?

Federica Rosellini è Teresa Quadraro

Perché mantenere il silenzio non è solo il contrario del comunicare. Il silenzio non racchiude un vuoto ma un pieno, non un’assenza ma una presenza: contiene infinite possibilità. E’ lo spazio dell’infinito.  E’ lì dove abita il silenzio, che tutto può essere detto.

Ed è questo tipo di intimità sospesa, senza cioè il vincolo della paura da parte di Teresa e quindi volutamente in dubbio relativamente al voto del silenzio sul segreto – quella sensazione di possibile tradimento di un patto di fedeltà orale che Teresa vuol far provare a Pietro, punendolo del tradimento del patto di fedeltà fisica. Che al confronto diventa davvero ben poca cosa. 

Da qualche tempo Daniele Luchetti  e Domenico Starnone ci stanno educando alle profondità abissali alle quali conducono ta erotika: le cose dell’amore. Profondità nelle quali sanno muoversi bene – come ci annunciava già Platone nel Simposio – le donne, perché dotate per natura di una psiche predisposta a orientarsi con più agilità nella “relazione” e nell’ambiguità delle sue dinamiche. 

“Confidenza” è un film potentissimo, irresistibile, che ci fa sentire disarmati: non confortandoci con una soluzione, con un finale definito.  E ci lascia senza parole, scegliendo di condividere con noi le infinite possibilità che ci confida il silenzio.  


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ELENA di Ghiannis Ritsos – di e con Elena Arvigo

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 15 al 18 febbraio 2024 –

Ora vive in quel che resta della sua mitica dimora. Spazzata dal vento. Spazzata dai venti di guerra.

Ora a tutela – anzi, a guardia – dell’Elena regina di Sparta di Ghiannis Ritsos c’è una presenza ambigua (una Monica Santoro solennemente inquietante) : di quelle che sanno muoversi tra la vita e la morte, tra le ombre e la luce (come la drammaturgia luminosa di Andrea Iacopino narra con suggestione).

Noi del pubblico percepiamo di essere introdotti a qualcosa di sacro: come in un rituale nel cui canto d’apertura si chiede il favore della Luna, casta diva. O di Calliope, dalla bella voce. O degli dei della guerra.

Lo spazio nel quale si muove Elena (una mirabilmente decadente Elena Arvigo), un pò come quello della sua mente, non conosce nette delimitazioni fra interno ed esterno. Le pareti non sono muri ma veli: eppure Elena sembra una creatura tenuta in cattività, in un tempo in cui la libertà è un’ipocrisia.

Elena è abitata da un luogo fisico (la casa, la Grecia degli anni settanta) e da un luogo mentale, entrambi al di là della logica: smarriti sono il principio di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. Regna il caos fuori e dentro: gli oggetti sono stati delocalizzati e le parole hanno perso senso. Come quando si è in guerra.

Ci si orienta con ” i suoni “: quelli prodotti con il bastone, ad esempio. Che in questa subdola polisemia è sia un aiuto per deambulare, che l’oggetto sacro del rabdomante. Ma anche uno scettro. E poi un’arma. Ontologicamente invece ci si orienta con i suoni procurati dal fragile contatto tra cristalli: materia della stessa fragilità delle relazioni umane. 

E poi ci sono i suoni emessi attraverso la pronuncia delle parole. Tanto queste sono svuotate di senso, quanto i suoni diventano l’unico autentico orientamento. Quasi dei sottotesti sonori. 

Sebbene l’Elena di Ritsos sia oltremodo invecchiata e trascurata nell’aspetto fisico, quella dell’Arvigo mantiene nonostante tutto una sua sensualità ancestrale. Ed è tutta nel piacere di parlare: nel gustare la pronuncia delle singole parole. Ma anche nell’ascoltarsi e ancor di più nell’immaginare di essere ascoltata.

Il suo è un parlare come un canto fascinosamente ospitale verso picchi e cadute: nei toni, nei ritmi, nei timbri. Ma il parlare dell’Elena dell’Arvigo è anche la voluttuosità dei suoni onomatopeici. E’ il dare corpo sonoro ad ogni singola sillaba: quella succulenza dalla quale tenta di sprigionarsi il significato.

È come se l’Elena dell’Arvigo facesse all’amore con i suoni delle parole. Il suo è anche un esplorare con la lingua ogni cavità della bocca per indovinare, come una rabdomante, il suono da produrre. E con il quale veicolare un determinato significato.

È spettacolo. È meraviglia.

È una stupefacente modalità di onorare la poesia di Ghiannis Ritsos.

Quel resistere comunque, anche quando tutto perde senso.

Quell’elegiaco denunciare attraverso la potenza del mito.

Quel fiore da custodire in bocca, in attesa di poterlo lasciar andare.

Ghiannis Ritsos con il suo amico e fine traduttore Nicola Crocetti

che ha fatto conoscere con dedita tenacia la poesia di Ritsos in Italia



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STORIA AL CONTRARIO di e con Elena Arvigo –

TEATRO INDIA, 7 e 8 Novembre 2023 –

La sua non è solo una narrazione: è un canto. La sua voce non si limita a far conoscere, a testimoniare. La sua voce è colma di suoni: di una varietà ricchissima. Modulati con regola e misura eppure così complici, così vicini. Intimi. A tratti, prossimi ad un dolce lamento. In altri momenti, simili ad una preghiera. Come quando Elena Arvigo, ovvero colei che “canta” la storia e quindi le gesta di Francesca De Sanctis – autrice dell’omonimo libro del quale lo spettacolo è una riduzione – legge e ripete passi della Lettera di Gramsci a suo fratello (Lettere dal carcere, 12 Settembre 1927). Non per mandarli a memoria, quanto piuttosto per scriverli nella sua carne. Perché ogni storia è la storia di un corpo.

La narrazione della Arvigo oltre ad essere un canto è infatti anche una danza. È ritmo: vocale e fisico, mimico e simbolico, dove unità e differenza riescono a convivere. E così la storia diventa una grande coreografia, che aspira alla leggerezza proprio mentre resta attratta dalla forza di gravità. 

Oltre che canto e danza la narrazione è una giostra: una struttura girevole nella quale occupare un posto. Accanto agli altri. Un intrattenimento, uno spettacolo vitale carico di confusione turbinante, dove non è semplice trovare di volta in volta equilibri sempre nuovi. In bilico tra sogni e precarietà; tra l’entusiasmo del colore rosso e la chiusura del colore nero, che assorbe luce anziché rifletterla. Colori che danno forma alla scena, metafora dei diversi “habiti” della psiche della protagonista. Spesso “frullati” dal vortice alimentato da sfere girevoli ai piedi di elementi apparentemente stabili. 

Elena Arvigo in una scena dello spettacolo “Una storia al contrario”

Ma soprattutto la narrazione è una sacra testimonianza, un atto di impegno civile ed esistenziale.

È la storia di come il microcosmo professionale ed esistenziale della giornalista Francesca De Sanctis si dilati attraversando gli estremi del fondersi e del distaccarsi dal macrocosmo del settore giornalistico, per arrivare a conquistare progressivamente “il suo libero uso del proprio”, come amava sostenere Friedrich Holderling.

È la storia di una donna che sente urgente l’esigenza di testimoniarci quanto sia complesso – ma non impossibile – imparare a relazionarsi con l’Altro da noi: la famiglia, il mondo del lavoro, i colleghi, il concetto di giustizia e quello di meritocrazia.

È la storia dell’odissea di una ghiandola, il timo, che regola la nostra capacità di difenderci dagli altri, dall’esterno. Come un angelo custode o uno spirito guida, il timo ha la potenza di accompagnarci nel dosare la giusta quantità di difesa da mettere in campo, costruendo confini vitali che ci proteggano senza isolarci. E senza lasciarci invadere.

È la storia dei ” nonostante tutto”, delle avversità cioè che possono diventare preziose per conoscerci meglio. Per realizzarci, non solo e non tanto nel lavoro ma nell’arte di vivere.

È la storia dei traumi che sconvolgono la vita di ciascuno di noi – le varie “storie al contrario” – che ci trovano senza le adeguate risorse per fronteggiarli. Ma solo sul momento: un sano desiderio di ricominciare, di trovare nuovi inizi in ogni fine, ci salva sempre.

Perché noi esseri umani, anche se dobbiamo morire, non siamo fatti – come sosteneva Hannah Arendt – per morire ma per continui nuovi inizi. E come lo stesso fondatore del giornale l’ “Unità”, Antonio Gramsci, non si stancava di ripetere: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio (Lettere dal carcere,12 Settembre 1927).

È la storia delle “pagine bianche”: quelle della sana protesta dei giornalisti dell’ “Unità” ma anche quelle della vita. Perché il vuoto, come era solito dire Furio Colombo, a volte è la condizione necessaria per poter sprigionare il desiderio creativo di scrivere una nuova storia. Un nuovo inizio.

La giornalista Francesca De Sanctis

Una sacra testimonianza civile ed esistenziale – quella della giornalista De Sanctis – la cui voce cerca luce, visibilità. Come le scene -luoghi della sua mente- non mancano di sottolineare: una luce che “grida” il bisogno di essere vista e ascoltata. Perché ciò che è accaduto a lei, giovane e solerte donna, non è successo solo a lei.

Ecco allora che il Teatro – e in particolare il centro di drammaturgia del Teatro delle Donne, con la sua speciale vocazione ad essere spirito critico a tutela della condizione femminile – si rivela il luogo che riesce a soddisfare l’urgenza del dare adeguato spazio al testimoniare. E quindi anche al volo di una farfalla: una donna “rapita” in una scatola rossa che ora, dopo un percorso di autoconoscenza, torna rigenerata a volare. Nuovamente. Di un volo consapevolmente libero.


Recensione di Sonia Remoli