Recensione dello spettacolo ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO di Marcel Proust – trilogia di Duccio Camerini

TEATRO BASILICA, dal 18 al 21 Luglio 2024 –

Per la prima volta in scena la sontuosa totalità dell’opera “Alla Ricerca del Tempo Perduto” di Marcel Proust nella trilogia di Duccio Camerini.

Già nel 2019 Camerini aveva portato in scena l’opera all’Off Off Theatre,  in un unico atto della durata di un’ora, interpretando lui stesso tutti i personaggi. 

Ora in questa tre giorni favolosa al Teatro Basilica l’intenso ed audace attore e regista ha consegnato al pubblico un’operazione colossale con trentotto attori: i suoi allievi del Laboratorio di Arti Sceniche, diretto da Massimiliano Bruno.

Negli anni ’70 già Luchino Visconti e Harold Pinter tentarono di portare a termine l’impresa su pellicola ma non si riuscì a decollare oltre la  sceneggiatura.

Duccio Camerini

L’opera di Duccio Camerini nei giorni appena scorsi “è stata servita” in una libera modalità: allo spettatore la scelta di assaporarla suddivisa “in tre porzioni” (che rispecchiano totalmente la Recherche) oppure goderne parossisticamente in una stupefacente “porzione unica”. Il tutto accompagnato da fiumi di musica dal vivo interpretata da Margherita Fusi, Antonella Franceschini, Samuel Di Clemente e Alessio Mascelloni.

I tre episodi

1° Dalla parte di Swann – All’ombra delle fanciulle in fiore

2° Dalla parte dei Guermantes – Sodoma e Gomorra

3° La Prigioniera – Albertine scomparsa – Il Tempo Ritrovato

sono andati in scena rispettivamente giovedì 18, venerdì 19 e sabato 20 luglioDomenica 21 luglio invece, per chi lo preferiva, si poteva godere della Trilogia completa.

Il fine sguardo registico di Duccio Camerini sceglie di aprire lo spettacolo evocando il potere generativo della “memoria”. Ed è il narratore che, un po’ come il Prospero shakespeariano, ci confida di quale “materia” è fatta la realtà:

“La realtà prende forma nella memoria; tutto non esiste se non nella memoria”

E la “memoria” fa il suo ingresso in scena: é una folla di personaggi che nel valicare il confine scenico – metafora del confine tra il passato e il presente ma anche tra l’inconscio del sogno e la tensione conscia del ricordo del sogno – un po’ si piegano e un po’ tremano per la fatica del passaggio temporale e di coscienza.  Immagine coreografica di poetica bellezza che potrebbe anche alludere ad un’amplificazione del gesto del “piegarsi” del polso nell’intingere la petite madeleine nell’infuso di tiglio. Gesto che, sinergicamente al gusto, apre Marcel alla gioia “metafisica” dell’esperienza della “memoria involontaria”.

Ma poi le sinapsi dei ricordi iniziano ad accoppiarsi e l’ “io” inizia a dare senso all’ “es”. E il passato – così come il sogno – si fa più limpido, aderendo alla scrittura che lo ha evocato. Anzi, amplificandola. Perché nel passato, così come nel nostro inconscio, si celano tracce in attesa di essere riesaminate nel presente. Ma anche tracce che invece resistono, refrattarie ad ogni possibile trasformazione. Tracce irriducibili. 

Musicalmente – questo concetto che regge e quasi paradossalmente mantiene aperta l’architettura dell’opera proustiana – viene tradotto dalla scandalosa musicalità delle aderenze a ritmo ternario di un vorticoso “valzer”. Sovrastato poi dalle note di rottura del “rock”, descritte dalla gravità di un basso elettrico. Note che smuovono, fino a far rotolare pietre che soffocano. Come quelle relative ad un (presunto) corretto orientamento sessuale, ad esempio. Evocato subito dopo nella sezione “Dalla parte di Swann”.

Scenograficamente le due spinte coesistenti di passato e presente, di inconscio e conscio, di sacro e profano, trovano una sublime traduzione nell’architettura del Teatro Basilica, situato nella navata centrale della cripta della Scala Santa di Piazza San Giovanni in Roma.

L’incontro di queste due spinte restituisce magnificamente, a più livelli, l’imprevedibile esito del racconto, che proprio mantenendo l’intreccio tra volontà e abbandono e tra identità e alterità, ne moltiplica il potenziale abbattendo i confini del prevedibile. 

In questa struttura aperta si accoglie con generosità allora il fatto che l’autore possa essere sia il narratore esterno, che il personaggio di Marcel, ma anche Swann, in quanto suo alter ego. In questa particolare dimensione, infatti, così come in quella onirica del sogno cadono i principi della logica: sia quello di identità e di non contraddizione, che quello di causa-effetto. 

manoscritto-Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust

Deliziosamente maliziose le coreografie: efficacissima la briosa modalità di resa, sapientemente minimalista, dei convegni della “piccola tribù del giovedì”.

Carico di suggestioni poi il ritornare della “sonata di Vinteuil”, restituita da un’ orchestrina che si sviluppa in altezza quasi come una cattedrale di sonorità. In  particolare il ritornare di quella “piccola frase”, inno dell’amore di Swann per Odette: oggetto simbolico per eccellenza – come Gilles Deleuze ha sottolineato – proprio in quanto “oggetto intangibile”, a differenza ad esempio di oggetti simbolo quali la madeleine, i campanili, ecc.

Con accattivanti passaggi di bellezza cinematografica si arriva alla messa in scena della sezione “All’ombra delle fanciulle in fiore”, dove alla passione ancora goffa di Marcel in amore, si aggiunge la sua nomea di “malatino”. E poi il suo modo di amare già così intriso di gelosia, nonostante la leggerezza a cui lo iniziano il turchese fare liquido delle “ragazze in fiore”. 

Sorprendentemente intrigante gli risulterà, invece, la vicinanza prossemica del Barone di Charlus, che contribuirà ad accentuare in Marcel l’indecisione ad accettare il proprio orientamento sessuale. Così ”scandaloso” eppure così ipocritamente diffuso negli ambienti da lui frequentati.

Ma Marcel è vissuto, fin da piccolissimo, a strettissimo contatto con un microcosmo femminile: quello composto dalla sua mamma, dalla nonna Adéle e dalla zia Elisabeth e questo sforzo continuo a mascherare la sua autentica inclinazione non può non tenerlo in costante turbamento. Lo asfissia: l’asma ne è una manifestazione psicosomatica. Così come il disorientamento nell’assumere consapevolezza e responsabilità nei confronti della sua vocazione da scrittore.

Successivamente, i Proust si trasferiscono presso coloro che abitano nell’altra strada e Marcel, come tante volte sognato, può finalmente sperimentare come si vive “Dalla parte dei Guermantes”. Qui la regia di Camerini sa cogliere e restituire, ancora una volta, l’intensità di quelle “azioni” che ci rimandano il sapore delle nuove esperienze del protagonista.

Il modo di gustare la vita in questo salotto prende forma attraverso nuovi “incontri”, spesso trampolino di lancio non solo e non tanto all’interno della “vita di corte”, quanto piuttosto per il recupero di esperienze passate. Splendide, sempre, le restituzioni prossemiche delle dinamiche, i colpi di scena delle rotture dei piani, la sentita complicità degli “a parte”, la sapiente estrosità della comunicazione affidata al cromatismo, l’insinuarsi fascinoso dei contributi musicali, i cambi di scena così fluidamente impetuosi. Un inno alla minuziosità e all’impeto della scrittura proustiana. 

Duccio Camerini

Su tutto splende la restituzione coreografica della seduzione dell’attraversamento dei confini tra vita e morte in occasione della morte della nonna di Marcel. Per una donna così fertilmente nutrita di vita, l’incontro con la morte non può essere nulla di “mortificante”. Piuttosto assume il sapore di un incontro erotico. Il suo è un agonizzare, infatti, sul confine con il godere: godere del piacere di un nuovo incontro, quasi un insolito amplesso con la morte, di cui i familiari hanno un rispettoso pudore.  E da loro, la nuova donna “rigenerata” dall’incontro con la morte, si congeda con un canto di sublime bellezza seduttiva. Un vibrante canto di rinascita, partorito dall’incantesimo di questo ancestrale legame vita-morte-vita. Una magnifica apologia alle intermittenze del cuore, coronata dal desiderio struggente di Marcel a non voler dimenticare ciò che solo apparentemente sembra essere andato perso. Un piacere del soffrire come acme di una nostalgica gratitudine. 

Qualcosa di estremamente diverso dal piacere manipolatorio degli incontri amorosi descritti nella successiva sezione “Sodoma e Gomorra”. Esemplificati scenograficamente, con raffinato e subdolo fascino, dal filo rosso della passione al quale si legano certi amanti, come ad un guinzaglio.

Così come di una sorta di prigionia psicologica ed emotiva – causata dalla gelosia e dal desiderio di controllo – si ammala Marcel: siamo ora nella sezione “La prigioniera”. Marcel sente Albertine sfuggirgli. E non potendola “possedere”, la molla. Ma alla sua mancanza, o meglio al desiderio irresistibile di esercitare un controllo su di lei, non sa resistere. Ne è lui stesso assediato: arriva a vederla anche attraverso delle allucinazioni. E allora torna a cercarla. Ma è troppo tardi.

Quanto è difficile amare? Quanto è difficile cioè amare la libertà dell’altro? 

“Come c’è una geometria dello spazio, deve esserci una psicologia del tempo“ – scrive Marcel. Ma “una malattia intermittente è la gelosia”. Magari la donna potesse essere programmata meccanicamente e poi telecomandata ! La donna è quanto di più “straniero” possa esserci per l’uomo: sembra come una lingua intraducibile. 

manoscritto-Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust

Alla notizia della morte di Albertine, Marcel cade in depressione – siamo ora nella sezione “Albertine scomparsa” – ma per il desiderio (anche morboso) di continuare a conoscere qualcosa di lei che non smette di sfuggirgli, continua a “investigare” su di lei.  Ma quante Albertine esistono ? Con quale delle sue personalità lui di volta in volta si relazionava ?

Nel mentre di questa indagine, Marcel accetta l’invito per un concerto dai Verdurin: attrazione della serata è l’esecuzione del settimino per violino da parte di Charles Morel, dal cui ascolto Marcel riceve “impressioni” che gli riportano alla memoria la “piccola frase”, il brano legato al suo amore per Odette. Di magico lirismo è la resa scenica di questo momento colmo di commozione. La prossemica d’ascolto degli invitati, l’esecuzione al violino di Antonella Franceschini e il riverbero interiore dell’interprete di Morel fanno della scena un incanto. 

Altra scena di seducente bellezza quella in cui l’anziana zia dei Guermantes sente l’avvicinarsi della morte. Anche lei, come la nonna di Marcel, esige di restare sola durante l’appuntamento con la morte e per incontrarla sceglie “d’indossare” pensieri d’amore. E in effetti la morte la renderà di nuovo giovane: una sorta di rinascita è la sua, suggellata dalla sensualità di un canto scelto per il congedo: lo stesso scelto dalla nonna di Proust.

Arriviamo così all’ultimo volume “Il tempo ritrovato”: Marcel viene ricoverato in sanatorio e smette di scrivere. Ne esce e accetta ancora un invito dai Guermantes. Qui Marcel fa esperienza di come il tempo, che solitamente sembra passare invisibile, lasci invece segni evidentissimi della sua presenza sui corpi. Tanto  da faticare nel riconoscere i compagni salottieri. Ma, proprio nell’osservarli, recupera involontariamente tanti ricordi: non ultimo la profezia di colui che gli vaticinò un impossibile destino da scrittore, ritenendolo privo di mezzi interiori. Ma il ricordo ora non ha più quel sapore mortificante di quando lo visse in gioventù. No, ora – alla luce di tutte le esperienze attraversate e quindi anche grazie a quello che considerava tempo perso e che ora scopre di aver ritrovato sotto nuova forma, questa maledetta profezia risulta gustosamente piccante. Tanto da trarne l’esigenza necessaria per tornare a scrivere. Perché “le forze spirituali vengono con il dolore”. E la stessa morte, ora, sarà la migliore delle sue amanti, musa per eccellenza della scrittura. 

Ed è così che ci si rivela – in una mirabile scenografia a specchio – che i compagni di salotto e tutti i personaggi con i quali Marcel ha intessuto la sua esistenza sono gli stessi che all’inizio della storia erano entrati in scena come “memoria”. E con questa mirabile chiusura circolare dell’opera sembra quasi di sentire ancora il narratore confidarci, come all’inizio:

“La realtà prende forma nella memoria; tutto non esiste se non nella memoria”.

Duccio Camerini – con la complicità nell’adattamento del testo di Marcello La Bella – riesce in una sfida vertiginosa nel tentativo di visualizzare personaggi che vivono in larga misura nella memoria, inserendoli all’interno di una dinamica narrativa, manifesta e segreta, che il racconto di Proust non molla mai. 

E così, partendo dall’affresco di un’epoca apparentemente lussureggiante e ipocritamente lussuriosa, si arriva a portare luce nel sottosuolo di un’umanità oggi ancora più viva che mai. 

Un’umanità che continua a dimenticare la preziosa fertilità della “diversità”, ossessionata dal bisogno di essere “accettata” dai più e quindi necessariamente ad essi “sottomessa”. Prezzo che accetta di pagare pur di non rischiare di essere additata come “diversa” e quindi relegata ai margini. Margini che però da sempre sono i luoghi più interessanti, proprio perché aperti a feconde contaminazioni, a patto che oltre ad essere confini identitari siano anche luoghi d’incontro tra le varie diversità.

In fondo che cosa piaceva dei salotti ? Esserne al centro dell’attenzione. Oppure il gustarsi, assecondanti, il voyerismo. Ma chi è che decide chi guardare e quando non guardarlo più? Qualcuno a cui si è disposti a riconoscere un potere, in cambio di un’effimera sicurezza di protezione. 

Un messaggio esemplare quello che Camerini ci consegna attraverso la riproposizione teatrale di quest’opera-mondo. Un teatro necessario il suo, il cui crogiolo creativo non si limita alla trasmissione di un’ incandescente preparazione attoriale – i suoi allievi brillano sulla scena per freschezza, ritmo e resa del sapore del gesto – ma si cura anche di solleticare il modo di stare al mondo di chi assiste allo spettacolo. Un teatro politico. 

Grazie.


Recensione di Sonia Remoli

IL PREMIER di Giuseppe Manfridi – regia a cura di Piero Maccarinelli

TEATRO ARGENTINA, 12 Febbraio 2024

In occasione del terzo appuntamento della Rassegna promossa dal Teatro Parioli “LINGUA MADRE -Il teatro italiano non fa schifo – drammaturgua italiana a confronto tra commedia e dramma“, su gentile concessione del Teatro di Roma, il Teatro Argentina ha ospitato la rappresentazione del testo di Giuseppe Manfridi “Il Premier”. Sul palco un cast d’eccezione diretto da Piero Maccarinelli: Gabriele Lavia, Stefano Santospago, Galatea Ranzi, Duccio Camerini, Federica Di Martino e Mersila Sokoli.

Il drammaturgo Giuseppe Manfridi

Fin dalle prime battute – rese con la mirifica intimità di un flusso di coscienza dal Giovanni Cravero di Gabriele Lavia – la raffinata eleganza della scrittura di Giuseppe Manfridi inizia a diffondersi nell’aria e a solleticare l’immaginazione di chi ascolta . Tanto che al vivido entrare in battuta degli altri personaggi della vicenda - Stefano Santospago, Galatea Ranzi, Duccio Camerini, Federica Di Martino e Mersila Sokoli – lo spettatore si ritrova irrimediabilmente invischiato nel fascino della narrazione. 

È quello che può manifestarsi quando una preziosa drammaturgia si fonde sinergicamente alla plausibile voluttuosità di voci che sanno farsi corpo. E trovano la chiave per entrare ed aprire quel “non detto” – di cui è così ricca la drammaturgia di Manfridi – che si cela nelle aree della coscienza dove si vanno a depositare certe parole, certe immagini, certi dubbi, che il dialogo “aperto” non riesce ad accogliere. Ma che gli interpreti rendono rintracciabili quali micro-dettagli, ad esempio, all’interno della prossemica delle vocalità. Oppure facendo emergere quelle particolari manomissioni narrative che – interferendo con il discorso previsto – ne rivelano il discorso reale.

Gabriele Lavia

Cura e capacità interpretative necessarie in un testo dove il tema della gestione del potere risulta fondante assumendo così tante declinazioni, sia sul versante politico che relazionale.

Su tutte l’eccitazione irrinunciabile di Cravero a sentirsi dire da tutti “lo faccio” ma che per essere tale deve confrontarsi con la tensione a non farsi scoprire nella sua fragile natura vitrea. Perchè proprio da questa tensione – che lo avvicina pericolosamente alla morte – lui si rigenera. E così può, come in un perverso rituale di purificazione, ‘ri-candidarsi”: ritornare candido. E farsi rappresentare dallo slogan: “Cravero nonostante tutto”.

Il regista Piero Maccarinelli

Questa interessante Rassegna, promossa da Piero Maccarinelli, Lingua MadreIl teatro italiano non fa schifo – drammaturgua italiana a confronto tra commedia e dramma è dedicata alla drammaturgia contemporanea italiana rappresenta un’occasione per riflettere sul tema e rimuovere quegli ostacoli che impediscono una fruizione popolare della scrittura scenica di qualità, così come accade in molti altri Paesi. Un veicolo per realizzare un osservatorio attivo di pubblico partecipe, che sia da stimolo e confronto tra le diverse espressioni del fare teatro oggi.

L’ultimo appuntamento si terrà il 26 febbraio 2024 ore 21.00 – TEATRO PARIOLI –

L’ORA NOSTRA

di Sergio Pierattini

regia a cura di Piero Maccarinelli

personaggi e attori

Giada – Sandra Toffolatti

Mauro – Emanuele Salce

Milvia – Claudia Coli

Enrico – Francesco Bonomo

Oscar – Noli Sta Isabel

La morte improvvisa della proprietaria di un’importante azienda vinicola Toscana riunisce i due figli che da anni vivono uno, Mauro a Milano e l’altro, Giada, in Cina.

La natura dell’improvviso decesso non è chiara.  Quel giorno nell’azienda era presente solo Oscar, fedele tuttofare filippino della defunta.

Costretti da una bufera di neve a una convivenza forzata, nell’attesa che si possa celebrare il funerale, figli e i loro coniugi preparano l’organizzazione delle esequie in un crescendo di tensioni che assumono, con il passare delle ore, tinte tragicomiche.

I sospetti che iniziano a gravare sul domestico troveranno conferma nella scoperta del testamento e in una sconvolgente rivelazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GUARDIANO di Harold Pinter – regia di Duccio Camerini

TEATRO LO SPAZIO, dal 16 al 19 Novembre 2023 –

Se l’acutezza di spirito di Harold Pinter è riuscita a provocarci ad immaginare negli ipotetici panni di un “guardiano” un ladro; il mordace sguardo registico di Duccio Camerini riesce a solleticarci a riflettere su come i panni del “ladro” possano essere vestiti da Mick – una delle vittime del furto – “lasciando in mutande” il ladro.

Ed è vero, è proprio così: per natura l’istinto alla sopraffazione ci unisce tutti. È ciò che più profondamente costituisce un essere umano. Sì, l’odio viene prima dell’amore: ci fonda.

L’ amore no. L’ amore – e quindi l’accoglienza, la condivisione, la misericordia, l’amicizia, l’altruismo – è tutto da imparare. Così come il concetto del “custodire”: dello sviluppare la fiducia a lasciare in custodia qualcosa di nostro ad un altro. 

Ma cosa c’è da custodire in una stanza dove regna la fatiscenza e il caos ?

L’interno.

Qui, nel penetrante sguardo registico di Duccio Camerini, “il territorio da segnare” è un teatro abbandonato, roccaforte su un “esterno” minaccioso.

Ma cosa c’è di più accogliente di uno spazio teatrale? Uno spazio dove “deve” esserci qualcun altro che viene dall’esterno, per poter dar vita all’epifania del teatro?

In un’allucinata metateatralità, qui il living dei personaggi è un “territorio segnato” da un quadrato impermeabile. Ma un teatro non resta mai davvero asettico, abbandonato: per sua natura è permeabile, osmoticamente comunque visitato da presenze, da “fantocci” continuamente nuovi – spesso fedeli – che desiderano guardare, assistere, condividere, proteggere. Custodire.

Lo sguardo registico di Camerini non manca di valorizzare anche l’altra forma – oltre quella territoriale – in cui si esprime l’esigenza dei personaggi pinteriani di “segnare il territorio”: quella linguistica. Quella dei significanti: lo spazio nascosto e sottostante il significato delle parole. Uno spazio “interno” autentico e sofferto. Così lacerante che nessuno dei personaggi può e vuole sostenerne il peso: né il mittente riesce a tradurlo in una comunicazione intima e sincera; né il destinatario riesce ad accoglierlo ascoltando davvero la confessione dell’altro. Laddove l’ascolto è la condizione base per permettere ai sintomi della sofferenza di trasformarsi in parole. Non appena uno dei tre pare tentare di raccontarsi, l’altro si distrae a fare altro oppure parla contemporaneamente anche lui. Evitando che si lasci spazio al silenzio, presupposto che onora la parola dell’altro. “Guardiano” è quindi ciascuno dei tre protagonisti, nell’accezione riflessiva che ciascuno “si guarda” dall’Altro.

La vita, sembra dirci lo spazio teatrale, è una partita, dove le squadre avversarie, o i contendenti, sono realmente divisi. La separazione infatti è il presupposto di ogni partita. Non a caso Mick, il fratello di Aston, presentandosi all’ospite inatteso Davies (il ladro) lo accoglie con la provocazione: “A che gioco giochiamo?”. E a quante partite scoprirà di dover giocare Davies, in una metateatralità del gioco della vita !

In una visione registica che riesce a far coabitare ritmo ed eloquenti silenzi, fedeltà ed opportuni tradimenti, Duccio Camerini scende anche in scena vestendo i panni di un Davies carismatico e scoppiettante, che sottovaluta l’altruismo rappresentato da Aston (un Leonardo Zarra credibile nella sua vellutata e ossessiva sofferenza) e la diffidenza del fratello Mick, resa con efficace isterica violenza da Lorenzo Mastrangeli.

Uno spettacolo che – nell’apparente freddezza – brucia di passione.  

Uno spettacolo che cela e rivela verità esistenziali.

Perché il Teatro ci salva. Sempre. È la nostra roccaforte da dove “guardare” la Vita.

Come nel Teatro così nella Vita, infatti, ci “deve” essere l’altro per esserci un noi.


Recensione di Sonia Remoli

Morte di un commesso viaggiatore

TEATRO QUIRINO, Dal 22 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Lo skyline di una New York anni ’50, quasi un sipario. Un commesso viaggiatore che lo percorre finché non volta l’angolo e arriva a casa. Una casa dove quello che resta delle pareti è ciò che un sisma, non solo tellurico, ha lasciato sopravvivere. Una casa, metafora di una psiche devastata da sordi terremoti emotivi. Che non si riescono neppure a guardare. E che vengono scambiati per sogni.

Una rete metallica circonda quel che resta di una casa, nella speranza di riuscire a contenere le macerie che si origineranno dalle prossime scosse, dai pensieri che vanno e vengono a vuoto. Come il viaggio del commesso, con il quale si sceglie di far iniziare la narrazione dello spettacolo.

A casa, ad attendere il marito, che manifesta fin da subito evidenti segni di asfissia (un emaciato e vibrante Michele Placido) c’è sempre la sua materna moglie geisha (una superlativa, per verità interpretativa, Alvia Reale). Apparente ossigeno vitale è il mito ossessionante del fare carriera, del “trovare la strada” per programmare ed assicurarsi il futuro.

In realtà, ciò non basta per “sentirsi qualcuno” e come spesso accade nelle dinamiche tra padri e figli, questi ultimi si orientano o per imitazione o per opposizione. E non funziona la regola che “va avanti chi si presenta bene”. Funziona invece provare “simpatia” per qualcuno e così risultare simpatici. Perché la simpatia non è ingannevole apparenza ma profonda capacità di entrare in sintonia con le emozioni dell’altro.

Willy, il commesso, è consapevole di non essere simpatico e di non risultare simpatico; piuttosto si definisce “un uomo ridicolo”, grottesco, che in parte ricorda l’uomo ridicolo di Dostoevskij ma qui senza un finale catartico, senza un sogno che salva e che aiuta a capire che «La cosa più importante è amare gli altri come se stessi; questo è tutto, non occorre altro: troverai subito come organizzar la vita». Willy sente che “il vento sta cambiando” ma il suo sentire resta molto in superficie: è un po’ il captare e il registrare del magnetofono, di cui tanto va fiero il suo datore di lavoro che, perfettamente sintonizzato sulla vigente economia creatrice di bisogni, proclama che “senza (magnetofono) non si può vivere”.


Tanti egoismi, tanto benessere. Ma possono tanti egoismi rendere tutti felici?  “Per farcela, a volte è meglio andare via” inizia a progettare Willy. Un andar via non tanto fisico, piuttosto un andar fuori di sé mentale. Un’evasione allucinatoria che già un altro commesso viaggiatore dall’altra parte del mondo aveva esplorato: si chiamava Gregor Samsa.

Ma Willy ha anche due figli: cosa lascia loro? Ereditare significa solo omologarsi o anche far proprio e quindi ri-ereditare? È tradimento questo? E se tradire fosse a volte necessario? Di lui diranno al suo requiem: “non conosceva se stesso”. Cosa serve per conoscere se stessi, per non tradire il proprio personale desiderio, per essere liberi?
Quasi tre ore di spettacolo scorrono davanti ai nostri occhi e arrivavano a turbarci. Anche profondamente. 
Interessante l’uso dello spazio scenico, declinato a rendere con efficacia interni ed esterni. Fisici e mentali.

Leggi l’intervista a Michele Placido sul Corriere della Sera

Per saperne di più sul testo Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller