Recensione a LE BELLE NOTTI – regia Claudio Boccaccini

Una commedia di Gianni Clementi


TEATRO MARCONI

dal 23 al 26 Ottobre 2025

dal 13 al 16 Novembre 2025

La notte cade su di noi
La pioggia cade su di noi
La gente non sorride più
Vediamo un mondo vecchio che
Ci sta crollando addosso ormai

(Ma che colpa abbiamo noi, The Rokes 1966)

Si apre così, con un inno al cambiamento, lo spettacolo scritto da Gianni Clementi per la regia di Claudio Boccaccini, andato in scena ieri sera in un Teatro Marconi stracolmo di giovani, in fermento durante tutta la messa in scena dello spettacolo.

Una rappresentazione che dal 2008 viene continuamente proposta sui palchi della Capitale e che trovarla in scena ora, proprio in questo frangente storico, la rende ancora più necessaria. 

Sono parole, quelle scelte per aprire lo spettacolo in musica, che sanno parlare di un’urgenza di cambiamento. La canzone dei Rokes, definiti “i Beatles italiani”, è divenuta il simbolo di un periodo di trasformazione sociale e culturale, catturando lo spirito di un’intera generazione. Il testo di Mogol, con il suo ritornello interrogativo, riflette la complessità dei tempi, lasciando un’impronta duratura nella memoria collettiva. 

La contestazione individuò proprio nella musica, infatti, un canale particolarmente incisivo per la diffusione dei propri valori. E Boccaccini, in questo suo spettacolo, ne fa un utilizzo appassionato.

Claudio Boccaccini

Il testo di Gianni Clementi porta luce sul diverso senso d’appartenenza che ha animato la contestazione dei valori del ‘68, rispetto a quello che ha caratterizzato la contestazione di trenta anni dopo, quella degli anni 2000. Quella che, qui, è interpretata dai figli di coloro che avevano occupato nel ’68.

Il sipario si apre su una vitalissima scena di coralità, relativa all’occupazione di un liceo romano: il Dante Alighieri. Cifra della regia di Boccaccini è una particolare sensibilità nel rendere le sue messe in scena affollatissime, piene di grazia. Qui di Boccaccini è anche la cura dell’impianto scenico: ricco in fermento, non meno dei pensieri e degli ideali di questi 17 adolescenti. Uno spazio fisico specchio di un luogo della mente.

Siamo alla fine degli anni ’60, un periodo storico di grande fermento trasformativo: in Italia, dopo la ricostruzione successiva alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si vive il periodo del “boom economico”. Le condizioni di vita migliorano decisamente, ma non per tutti: persistono infatti disuguaglianze che alimentano tensioni sociali e politiche.

A livello internazionale lo scenario è condizionato dalla “Guerra fredda” che vede contrapposto il blocco comunista, guidato dall’Unione Sovietica, a quello capitalista, con gli Stati Uniti in testa. Gli effetti di questa divisione globale si sentono anche in Italia, dove il Partito comunista (Pci) diventa il più grande d’Europa e inizia, anche negli Stati Uniti, ad essere visto come una potenziale minaccia.

In questo contesto di fermento trasformativo, matura una stagione di proteste e rivendicazioni, animate soprattutto da giovani, che attraversa quasi tutto il mondo.

E’ il Movimento del ’68: il primo fenomeno di protesta globale che contribuisce a creare un’identità collettiva transnazionale, come accade con il movimento anti-guerra del Vietnam. 

Nel crogiolo di questa protesta prendono forma cambiamenti sociali, culturali e politici improntati ad una maggiore democratizzazione del sistema e ad una maggiore libertà di espressione. Incluso un nuovo impulso verso le tematiche femministe.

Ma dove c’è fermento, dove si fa sentire una forte spinta verso la trasformazione, capita di incontrare una forte resistenza da parte di chi invece vuole mantenere lo “status quo”.

Gianni Clementi, autore dalla fine sensibilità “intelligentemente popolare”, partendo dall’humus di questo macrocosmo in fermento, sceglie qui di sagomare il suo guardo sul microcosmo, non meno sintomaticamente effervescente, dell’occupazione studentesca da parte di 17 esuberanti adolescenti di un liceo romano.

Siamo nel dicembre del 1969, più precisamente la narrazione prende avvio il 12 Dicembre del ’69: una data che diverrà indimenticabile, uno spartiacque nella storia della Repubblica.

La prima sensazione che arriva allo spettatore è come – in un caos organizzato quale quello di questa occupazione liceale del ’68 – le diversità individuali risultino sempre evidenziate, per essere poi con naturalezza accolte e ben integrate fra loro. I ragazzi sono tutti molto particolari: ciascuno unico per le proprie fragilità, più che per i propri punti di forza, eppure tutti ospiti di una prima forma di koinè. Tutti immersi in una lingua/cultura comune e unificante che trascende le barriere, per diventare efficace veicolo di comunicazione e di condivisione di valori. 

Opportunamente Gianni Clementi sceglie di sottolineare questa prima forma di comunità utilizzando una lingua calda e ospitale come il dialetto romanesco. Una lingua che mette a nudo la verità di ciascun personaggio e il desiderio autoironico di piacere all’altro, con un’adesione semplice e umana. Concetto efficacemente visualizzato anche dai costumi di scena: tutti diversissimi tra loro, eppure tenuti insieme da un guizzo di rosso.

La successiva sensazione che arriva è il dissidio tra la voglia di condividere tutto, per poi restare sorpresi dalla gelosia: dalla paura della perdita e della rivalità. E’ l’ontologico istinto alla sopraffazione, del quale in questa età – in cui si cerca di “scoprire quale sia il proprio odore”, ovvero la propria unicità – si inizia ad essere consapevoli.

Ma del tutto inaspettatamente, proprio nel momento in cui i 17 studenti iniziano a prepararsi per trascorrere la prima notte insieme, accade un fatto che pone termine al loro modo di immaginare se stessi e il mondo:  arriva la notizia della strage di Piazza Fontana. 

Un atto terroristico progettato per colpire persone a caso e creare paura.

Un attentato terroristico compiuto il 12 dicembre 1969 nel centro di Milano, all’interno della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana. Causò 17 morti e 88 feriti. Fu definito “il momento più incandescente della strategia della tensione” e diede avvio al periodo stragista, che vide realizzarsi numerosi attentati come la Strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (8 morti), la Strage del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti) e la più sanguinosa Strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti).

In quel 12 dicembre oltre che a Milano, altre bombe furono fatte esplodere o posizionate in altre città italiane, come Roma, ma senza causare lo stesso numero di vittime che a Milano. Un attacco coordinato, iniziato con altri attentati precedenti, seppur meno clamorosi e dolorosi, effetto di un disegno più grande: la strategia della tensione. Utile per manomettere il clima di fermento trasformativo di una stagione che dal 1960 al 1968 aveva portato a importanti riforme.

Dopo un appassionato ricordo della strage di Piazza Fontana, lo spettacolo traghetta l’attenzione dello spettatore trenta anni più avanti, ovvero agli inizi degli anni 2000. Immaginando che nuovi studenti inizino la loro occupazione proprio laddove quella dei giovani del ’68 si era interrotta. Sono i loro figli.

Lo scenario in cui si affaccia l’anno 2000 è caratterizzato dalla fine della Guerra Fredda e dal relativo emergere di un nuovo ordine mondiale, con gli Stati Uniti come unica superpotenza. Nonché  dalla crisi economica e finanziaria globale, causata da una deregolamentazione dei mercati finanziari e dalla speculazione. Tutto ciò provoca un aumento delle disuguaglianze sociali e della crescita di movimenti di protesta. Si tratta di movimenti no-global: manifestazioni contro la globalizzazione economica e le politiche neoliberiste, poi culminate nei fatti del G8 di Genova del 2001, con scontri violenti tra dimostranti e forze dell’ordine. 

Più in generale, gli anni 2000 – attesi nel timore del “millennium bug” – si caratterizzano per la frenesia in cui si susseguono innovazioni, così come attentati e crisi economiche. 

Fanno il loro ingresso da protagonisti sul mercato – ma soprattutto nelle nostre vite – telefoni cellulari, fotocamere e videocamere digitali, viene lanciato il social network facebook, si diffonde il commercio elettronico, dilaga il fenomeno della pirateria on-line e l’iPhone apre la strada alla produzione e alla diffusione di massa degli smartphone nel decennio successivo.

E come in uno specchio, ciò che accade nel macrocosmo esterno si riflette nel microcosmo dell’occupazione del liceo romano, visto trenta anni dopo. Anche qui ora ad essere protagonisti sono i cellulari, estensioni delle fragili individualità giovanili. A dire il vero i giovani “non ne hanno colpa”: sono i genitori a fare del cellulare un oggetto di morboso controllo della vita dei figli. Invadendola con la loro insoddisfazione, che credono di colmare pretendendo dai figli quello che non hanno potuto realizzare loro stessi. 

In scena non possiamo non notare una nuova generazione senza guizzi creativi, omologata anche nel modo di vestire: più spaventata e fragile di quella di trenta anni prima perché eccessivamente protetta. E travolta dai nuovi modelli di stile di vita proposti dalla TV .

Quasi totalmente perso l’interesse per la politica. E’ una generazione fluida, che ha smarrito la capacità di desiderare e che finisce per “sdraiarsi” nella vaga attesa di un futuro opaco.

Dove alla passione per le divise, simbolo di impegno diretto sul reale, si tendono a preferire i pigiami.

Dove le diversità fanno molta fatica ad essere accolte: ora occorre essere tutti uguali, obbedienti a un certo trend, somministrato dai social, per poter essere accettati.

Non si nota più la caleidoscopica varietà di forme e di colori osservando il loro abbigliamento: vestono tutti gli stessi capi, proposti da un subdolo richiamo capitalista che li vuole massa indistinta: uguali, per potersi sentire al sicuro. Uguali, per non essere pericolosi.

Anche la passione per l’universo femminile perde smalto. E lo stesso mito di Che Guevara, fuoco che bruciava gli animi dei loro genitori, ora viene reso blando e innocuo, condendolo con sonorità che ne pervertono il potente significato simbolico.

Sono giovani più inclini alla sopraffazione e quindi all’uso delle mani, perché è andato perso anche il potere creativo della parola. Ora la tendenza su cui spalmarsi, senza alcuna velleità critica, è quella di interpretare la realtà, non nella pluralità dei suoi significati, ma in base a piatte statistiche elaborate da algoritmi.

Se nell’occupazione di trenta anni prima ci si interrogava e ci si confrontava sui dubbi e sulle diverse (ma comuni) fragilità, ora la cosa più creativa che emerge sono i dubbi di pochi sul senso di fare un’occupazione teleguidata dai genitori.

Ma in un ennesimo momento di sterile stordimento dance, prende forma pirandellianamente fantasmatica – complice un accattivante disegno drammaturgico delle luci – quel desiderio che non riesce a concretizzarsi. Le cui origini possono rintracciarsi in sintomi comportamentali della generazione precedente, la cui insoddisfazione ora passa attraverso il riversamento dei propri desideri in quelli dei figli. A partire dalla scelta dei loro nomi, che già contengono l’imprinting del desiderio dei genitori. 

“Ma ora basta!” – riescono a dire i figli ai genitori.

E le belle notti, quelle che non sono ancora arrivate, ma che possono ancora venire, saranno solo loro.

I giovanissimi interpreti in scena – Angelica Accarino, Corinna Angeloro, Mattia Aquilani, Niccolò Bambi, Iulia Bonagura, Tommaso Bocconi, Margherita Cellini, Chiara Colonna, Alessia De Simone, Luca Materazzo, Ignazio Martorano, Leonardo Pandolfi, Camilia Pujia, Aramis Reibenspiess, Manuel Rosati, Luca Salzarulo, Chiara Silano – brillano per ritmo, sapiente spontaneità e calibrato uso del corpo e del gesto.

La regia di Boccaccini lavora accuratamente nel mandare in scena uno spettacolo dove la continua rottura dei piani – fisici e simbolici – sa tenersi legata alla testimonianza di come un autentico concetto di libertà si regga sul rispetto della coralità.

E se quindi la strage di Piazza Fontana ci ricorda cosa può accadere quando si decide di mettere in atto una strategia di manipolazione della paura, ci ricorda altresì che contro questo tipo di violenza esiste un antidoto: la memoria collettivabase per la costruzione di un futuro plurale e consapevole.

“Non dimenticarmi”: installazione urbana dell’artista Ferruccio Ascari per ricordare le 137 vittime delle otto stragi che hanno segnato la storia italiana durante il periodo della “strategia della tensione“.

Un monito per tutte le generazioni di cui l’Arte – e quindi il Teatro – si fa potentissimo mezzo di comunicazione.  

Per aiutare a capire cosa sia la partecipazione: il contrario dell’indifferenza.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STANZA AL BUIO di Giuseppe Manfridi – regia Claudio Boccaccini

TEATRO BELLI, dal 19 al 24 Novembre 2024

Il mistero è ciò che meglio ci racconta come individui: la sua penombra è quell’habitat fisico e psichico in cui riescono ad esprimersi le molteplici personalità che ci rappresentano. 

Differentemente da quanto accade alla luce del sole, dove invece scegliamo di palesare qualcosa di selezionato: il nostro “dover essere”.

Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che ci capita di fare. 

Non è la volontà a parlare di noi, quanto piuttosto l’istinto, le nostre pulsioni più personali – dirà la Donna in scena (una Giulia Morgani efficacemente enigmatica).

E’ il sapiente disegno luci del regista Claudio Boccaccini ad immergerci in questo nostro “poter essere“, che ama stare in penombra e che così efficacemente ci dispone a prestare ascolto al mistero che ci abita. Quel mistero che, in una geniale esemplificazione, vedremo rappresentato in scena.

Ed è così che dalla penombra iniziano a prendere corpo delle voci: una donna insiste per poter entrare in un appartamento dove da poco si è consumato un delitto. L’uomo che è in possesso delle chiavi e che potrebbe gestire la situazione non riesce invece a prendere una decisione. Continua a ripetere “preferirei non entrasse”. E poi, ancora senza troppa convinzione, l’accompagna. 

Entrambi non hanno un nome. Opportunamente l’autore Giuseppe Manfridi – uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo e che già in occasione della prima rappresentazione di questo testo (andata in scena al Teatro dell’Orologio esattamente trenta anni fa) ottenne un grande successo – non affida loro un solo nome. Perché ciascuno di loro, tutti li racchiude. L’Uomo e la Donna in scena infatti parlano di noi, in quanto rappresentano parti della nostra psiche.

L’Uomo (un irresistibilmente nebuloso Stefano Scaramuzzino) ha quel qualcosa di tapino disneyano e di inquietantemente inafferrabile, che per certi versi ricorda il Bartebly di Melville. 

La Donna invece è come se parlasse una lingua diversa: è misteriosamente raffinata, osserva tutto preferibilmente di nascosto, ama indossare guanti. Rappresenta il linguaggio proprio della nostra parte più inconscia.

Nonostante la sua apparente mediocrità, anche l’Uomo odora di clandestinità. Quella che cela è una profumazione più subdola rispetto a quella indossata dalla Donna, dove invece si intuiscono note di un sensuale afrore.

Entrambi, anche se in modo diverso, ci parlano del nostro essere mistero anche a noi stessi. Un mistero che, pur zelantemente nascosto, in certi frangenti manifestandosi violentemente perché troppo a lungo represso – infrange ogni illusione di integrità e di univoca identità personale.

L’appartamento in questione, quello dove insiste a voler entrare la Donna, prima che del delitto si macchia dell’onta dell’ “estraneità”: con il suo essere stato “messo in vendita” (anziché continuare a seguire la  prassi della successione di padre in figlio) ha rotto l’ordine sul quale per l’Uomo si reggeva il condominio. Il suo.

Un condominio che qui non è infatti solo un luogo fisico ma anche il luogo della psiche dell’essere umano, dove “l’estraneità” è rappresentata dal “diverso”, ovvero da ciò che risulta “straniero” al nostro “dover essere”.

Un’ estraneità di cui anche la Donna, spudoratamente, si fa interprete: lei – che non a caso – ha sempre sulla bocca la parola “piacere”, risulta profondamente destabilizzante per Lui che si definisce “uomo dai pruriti improvvisi e ostinati”.

Lei è infatti colei che insiste: atteggiamento proprio del nostro desiderare. E poi è colei che tentenna nel “restituire” ciò che custodisce (qui, la spilla e il tappo): materiali “rimossi”, necessariamente da recuperare per superare e quindi risolvere un evento traumatico (qui, il delitto). 

Ed è così che lo spettatore – per effetto dell’intrigante sinergia tra l’estro drammaturgico di Giuseppe Manfridi e l’estro registico di Claudio Boccaccini – si ritrova ad addentrarsi in quella misteriosa “stanza al buio”, attraverso una modalità insolita ed accattivante : quella di un Thriller.

Lo spettacolo resta in scena al Teatro Belli fino al 24 Novembre p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL BUIO IN AGGUATO – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO DEI GINNASI, dal 19 al 21 Giugno 2024 –

Perché è così importante ricordare ?

Non solo per non dimenticare il passato ma anche per continuare a consultarlo. 

Continuare a interrogarlo, guardandolo con nuovi occhi, ci permette infatti di cogliere ogni volta qualcosa in più: qualcosa che precedentemente non ci si era rivelato. Come anche lo spettacolo di Claudio Boccaccini ama  suggerirci.

Questo significa essere capaci di cura e di responsabilità; significa tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e dove abbiamo la possibilità di spingerci. 

Per non perdere niente di quello che esce dalla nostra vita. Niente e nessuno.

Da qui parte la regia di Boccaccini: esplorando i vari significati insiti sia nel concetto di “buio”, che quelli celati nell’ “aspettare  pronti”, come in un agguato.

La drammaturgia si apre con un atroce dubbio, che minaccia di essere confermato.

Il dubbio, parola chiave di tutto lo spettacolo e strettamente connesso al concetto di buio, si manifesta attraverso una mancanza di chiarezza e quindi come qualcosa di difficile intellegibilità. Qualcosa che resta nascosto e che minaccia di sopraffarci. 

Variazioni di un concetto che  Boccaccini ci versa nelle orecchie ricorrentemente attraverso l’insinuante carattere tzigano di una composizione rapsodica per violino. Alla quale sinistramente si aggiunge il motivo, dalla pura dolcezza, di un carillon.

Dubbi che – con un sapiente disegno delle ombre – Boccaccini sceglie anche di visualizzare facendoli scivolare come pioggia sui volti dei personaggi.

Il regista Claudio Boccaccini

Ma la capacità di confondere e di celare, propria delle tenebre di cui il buio ama avvolgersi, ha anche un suo grande fascino: spesso seducentemente legato anche al rosso piacere della sopraffazione, epurato da una messianica ossessione di ricerca della purezza.

Seduzione che gli interpreti, in qualità di testimoni dell’accusa – vale a dire Marina Basile, Alessia Consorti, Aurora Giuliani, Ignazio Martorano, Daniela Moccia, Alessandra Tedeschi – sanno far scivolare al di sotto della compostezza delle loro dolorose testimonianze. Ed è proprio questo sapiente lavoro – registico e quindi attoriale – “a sottrarre”, che rende le loro narrazioni un magnifico ed atroce solletico emozionale. 

Così come l’inganno insidioso – e altrettanto umano – a insistere nello sciogliere il dubbio in un sordo ascolto dei suoi pungolamenti, sa farsi poesia. Soprattutto quando l’amore di una figlia (Giorgia Guarnieri) riesce a esprimere la lacerante spinta a restare ciechi, anche al cospetto della luce oscuramente abbacinante della verità.

Dolcemente “illegale” e meravigliosamente straziante è allora il suo ancorarsi plastico al padre (Fabrizio Musillo), rigido come una croce alla quale è tentata, solo per un attimo, di crocefiggersi. E sarà proprio questo momentaneo cedere alla tentazione di un assecondamento filiale che le permetterà di trovare la forza necessaria per auto-deporsi dall’amata croce.

Pronta poi a trovare anche le parole per metterne a conoscenza suo figlio (Tiziano Ticconi). Perché ricordare, significa anche comprendere – senza assecondare – le debolezze nelle quali può cadere la nostra natura umana. 

Accorate sentinelle del buio, anche se da due diverse prospettive, gli avvocati e le loro acute assistenti (Giorgia Guarnieri, Alessia De Simone, Andrea Meloni, Anastasia Ulino). Loro il compito di penetrare – sotto la supervisione dello sguardo rigoroso ma necessariamente non infallibile della giudice (Valentina Noviello) – la copertura nebulosa e le tenebre terrestri della verità.

Perché il lato oscuro della nostra umanità attacca continuamente il nostro stare al mondo; si apposta e improvvisamente – ma sempre al momento giusto – insidia e poi attacca, come in un agguato. E’ attento e sa aspettare. E conosce la cura non del proteggere ma del sopraffare.

Perché è nel concetto stesso del “guardare” che si cela un’enantiosemia, una sorta di contraddizione: si guarda sia per proteggersi da un attacco, che per sfoderare un attacco al momento giusto.

E sia il guardare in risposta all’attacco, sia l’attacco come risultato di un attento guardare, sono due fini di una stessa azione: “l’aspettare pronti”. L’altro concetto chiave, in aggiunta al concetto di “buio”, intorno al quale Boccaccini costruisce la sua regia.

Perché proprio su questa contraddizione si articola il nostro concetto di giustizia possibile.

Quell’ ambiguo “aspettare pronti” allora si materializza nelle posture, negli sguardi, nei ritmi finanche dei respiri degli interpreti sulla scena. E non è qualcosa solamente di attivo, ma anche di passivo: una tentazione subdola a scegliere di non far nulla come altra faccia del manipolare.

Di riflesso, sul pubblico arriva potentemente un denso e accattivante stato di ansia e di attesa, che permette di seguire avvincentemente l’articolarsi di una dramma nell’incertezza del suo finale.

E quando accade, questa è la cifra del successo di uno spettacolo: proprio quel riuscire a tenerci in sospeso – condizione alla quale difficilmente ci concediamo,  preda di un’assurda fretta a capire tutto  e subito – che seppure scaturisce dal timore che nel racconto possa accadere qualcosa di negativo, ci seduce a trattenerci nel gioco.

Uno spettacolo necessario.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo 7 MINUTI di Stefano Massini – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO VITTORIA, dal 12 al 24 Marzo 2024 –

Che cos’è una ristrutturazione?

E’ davvero un “nuovo piano di recupero”?

E in un “recupero” che cosa si porta in salvo del passato? 

Quante posture è possibile tenere davanti al “nuovo” che vuole entrare, davanti a “cravatte” che rischiano di stringere (a poco a poco) il collo a centinaia di risorse umane? 

Chi sono davvero queste 11 lavoratrici elette dal resto delle dipendenti? 

“Gente” o “bestie”? 

Compagne che si dividono il pane, o nemiche che se lo tolgono? 

Donne che “marcano il territorio” o che si lasciano “marchiare” da un logo forte ?

Ispirato ad una storia realmente accaduta nel 2012 in una fabbrica tessile dell’Alta Loira, il provocatorio e quindi fertile testo di Stefano Massini “Sette minuti” mette in scena  undici rappresentati di un Consiglio di fabbrica chiamate a votare “sì o no” all’unica – e apparentemente innocua – richiesta della nuova proprietà a fronte del mantener salvi i posti di lavoro.

Ma mentre la Portavoce delle rappresentanti (una mirabilmente intensa Viviana Toniolo) continua ad essere trattenuta ore e ore in una riunione con la nuova proprietà, tra le 10 rappresentanti in attesa del suo rientro i livelli di ansia diventano così insostenibili e la sensazione di pericolo così appiccicosa da far affiorare in superficie quell’istinto alla sopraffazione, che tutti ci costituisce. Antropologicamente.

Viviana Toniolo (la Portavoce)

Ecco allora che il sospetto del possibile nemico s’insinua perversamente contaminando tutti coloro che sembrano “diversi”, “stranieri” e quindi pericolosi in quanto altro da sé stessi. Sospetti cadono sulla Portavoce – che magari in questa interminabile convocazione sta portando in salvo solo se stessa – ma anche, per i motivi più vari ma sempre riferiti a un pregiudizio legato alla diversità, su ciascuna delle rappresentanti. Ritrovandosi improvvisamente catapultate in una realtà hobbesiana da homo homini lupus.

Perché ciò che davvero si teme possa “chiudersi” è lo stomaco. E se lavorare serve primariamente per poter mangiare, come nel regno animale, pericolosa diventa allora la distanza che intercorre tra lo stomaco e la testa: tra chi pensa e tra chi è pragmatico, tra le operaie e le impiegate, tra chi lavora ai telai, chi alla cardatura e chi alle tinte.  

Ma sarà proprio vero che un’idea è solo “una cosa d’aria” e quindi non vale la pena farsi domande?

Mentre “il tempo fila via”, le risorse umane si rivelano invece preziose anche, anzi soprattutto, se pensano. Perché occorre un raffinato lavoro di cura per mantenere in salvo ciò che ci è caro. Non “dal” nuovo ma “nel” nuovo.  

Stefano Massini, l’autore di “7 minuti”

Stefano Massini, da sempre attento al potere della parola e agli effetti che sprigiona nelle relazioni umane, già qui – e poi nell’altro suo testo del 2016 “Lavoro” – fa veicolare l’ambiguità  racchiusa nel significato etimologico della parola “lavoro”: da un lato il significato di “fatica”, dall’altro quello di “dare alla luce” e quindi “creare”.

E’ la Portavoce a sentire, a qualche livello, che può essere importante seminare fertili dubbi là dove tutto sembra così ovvio. E quindi così sterile. Come essere convinti che rinunciare a 7 minuti di pausa sia ben poca cosa, se in cambio viene accordata la possibilità di non perdere il posto di lavoro.

Insinuare il dubbio solletica il vissuto di ciascuna lavoratrice rendendole inclini a raccontarsi: a tentare di mettere insieme tutte quelle personali esigenze, scaturite da ferite esistenziali, che hanno dato forma ai loro vissuti. 

Perché il raccontarsi – che trova nel Teatro il suo luogo d’eccellenza – dà voce a tutta la nostra splendida e fragile dignità di esseri umani. E ci rende immensi.

Il dubbio demiurgicamente veicolato dall’acuta Viviana Toniolo è espressione di un’attitudine socratica alla maieutica, a quel metodo cioè inaugurato da Socrate che permette all’interlocutore di “partorire” la verità. La “sua” verità. Perché la verità più che unica è molteplice. 

Claudio Boccaccini, il regista

Sebbene infatti sia riconoscibile tra le reazioni delle rappresentanti un tema comune, emergono fecondamente e ferocemente delle variazioni, dei dubbi, che la sagace regia del regista Claudio Boccaccini compone e scompone in un contrappunto di raffinate drammaturgie. Permettendo così allo spettatore sia di spiare dall’esterno la vicenda, che di fondervisi all’interno.

Boccaccini coglie il colore dei ritmi dei diversi respiri esistenziali e li restituisce allo spettatore con una persuasività che arriva al di là della comprensione razionale.  E’ – quello che il regista traduce – un contrappunto emotivo che pungola lo spettatore attraverso una drammaturgia delle ombre che sa legarsi alla giustapposizione cromatica delle vocalità (per affinità o per contrasto); all’iconografia delle posture e  all’elegante ossessività degli interventi musicali (le musiche originali sono d Massimiliano Pace).

Un’efferata sinfonia registica che si nutre di tutta la magnifica drammaticità delle singole individualità che – seppur parti indispensabili e accordabili di una coralità – costituiscono la cruda autenticità dell’umano stare al mondo.

Il cast al completo

Le undici interpreti sulla scena – Viviana Toniolo, Silvia Brogi, Liliana Randi, Chiara Bonome, Chiara David, Francesca Di Meglio, Mariné Galstyan, Ashai Lombardo Arop, Maria Lomurno, Daniela Moccia, Sina Sebastiani trasformano in ritmo il tingere, il tessere, il cardare e il fare di conto del proprio respiro esistenziale, regalando vita ad un affresco antropologico magnificamente barbarico.

Una messinscena capace di comunicare, come nelle intenzioni dell’autore, “l’utero di immagini” all’interno del quale si è generato lo svolgimento testuale.

Proprio come in “un teatro politico di poesia”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo TRE SULL’ ALTALENA di Luigi Lunari – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO DELLE MUSE, dal 6 al 10 Dicembre 2023 –

E’ qualcosa di nuovo: anche per questo la morte ci fa impressione.

Ma siamo sicuri che sia davvero una cosa nuova, “al di là” della vita?

Non altaleniamo forse costantemente tra gli alti e bassi “nella” vita ?

Non sarà che quando l’oscillazione ci turba, ci viene da chiudere gli occhi per non vedere? E siamo tentati di chiedere ad un altro di guardare e di dirci cosa fare?

Perché un po’ di morte c’è sempre: è quel senso di ignoto ingovernabile che ci fa morire di paura. C’è tutti i giorni. E allora per non “starci dentro” chiediamo cosa fare a qualcun altro: a un “ipse dixit” religioso, militare o filosofico. Così da “sentire senza avvertire”. 

E pensare, che avere paura è in linea con la nostra natura: è quello che Gian Battista Vico chiamava “avvertire con turbamento”. 

Allora cosa si può fare?

Intanto possiamo – come consiglia il geniale autore della commedia Luigi Lunari – non complicare maggiormente la situazione pretendendo di venire alla luce percorrendo vie ancora più strette. Tipo, ostinarsi a “voler capire”: un atteggiamento che ci illude di poter tenere tutto sotto controllo ma soprattutto ci fa credere di poter escludere la morte dalla vita. “Capire” ci fa sentire al sicuro. Anche dal giudizio degli altri. Ma poi “quando usciamo dal bagno” rischiamo di non essere soddisfatti. Insomma, per il piacere di liberarsi occorre allentare i lacci del controllo.

Luigi Lunari

Questa inebriante commedia di Luigi Lunari, scritta nel 1990, tradotta in ventisei lingue e correntemente rappresentata in tutto il mondo, non è una commedia comica, come lui non mancava di ripetere. Sebbene provochi il riso.

Piuttosto gode del favore di riuscire a ricollegarci con una dimensione pre-linguistica, che ci permette di accedere agli enigmi della vita “senza forzare la serratura” con i principi della logica: quello di causa-effetto e quello di non-contraddizione. 

Claudio Boccaccini

Il personaggio femminile che il regista Claudio Boccaccini individua e caratterizza intorno a Caterina Gramaglia ne è un luminoso esempio. Lei ha la rara capacità di portare in scena qualcosa di prodigioso: la manifestazione di un’entità così fisica da accedere ad una realtà al di là della fisica. Tutto in lei – pur essendo (anche) disarmonico, oscuro e vagamente terrifico – affascina e fa fare un passo indietro. Come di fronte ad un’entità ancestrale. Ha trovato, inoltre, una resa vocale così metafisicamente “idraulica” da lasciare lo spettatore spiazzato tra il serio, il faceto e il sacro. 

Caterina Gramaglia

Ed è proprio questa la chiave magica non solo di lettura e resa del testo – come il regista Boccaccini ha dimostrato di cogliere per poter restituire allo spettatore – ma anche la chiave di accesso alla vita, secondo Lunari.

Quella dimensione pre-linguistica, al di là dei principi della logica, che si manifesta attraverso quel tipo di risata che non è solo una reazione fisiologica di maggiore irrorazione vascolare e nervosa, quanto un arcaico modo di entrare in contatto con i misteri che la logica chiamerebbe assurdità.

Massima aspirazione di Luigi Lunari era infatti quella di riuscire, attraverso le sue opere, nel tentativo di aiutare lo spettatore “a far pace” con l’idea della morte. Che in lui non prende mai toni tragico-nichilistici. Piuttosto quelli di una fraterna presenza che “vigila” su ciascuno verso la serena accettazione del fine vita.

E in effetti Lunari riesce a trovare quella specialissima modalità di accoglienza, tale da riuscire a farci sentire consolati. Che però, lungi dall’indurci alla rassegnazione, ci fa invece sprizzare quel pizzico di coraggio in più. Quel tanto che riesce ad essere efficace affinché il desiderio di fare qualcosa, superi la paura di realizzarlo.

Massimiliano Buzzanca

Il ritmo riprodotto dagli efficaci attori in scena Massimiliano Buzzanca, Stefano Scaramuzzino e Claudio Scaramuzzino – diretti dalla capacità d’ascolto musicale di Claudio Boccaccini – è tale che l’altalenarsi tra impennate di velocità ed estatici rallentamenti, regali allo spettatore sensazioni di esaltante vertigine. Quasi un’ebbrezza.

Stefano Scaramuzzino

Un risultato che non è solo merito di un consapevole muoversi all’interno delle tecniche attoriali. C’è di più: c’è il raggiungimento di una musicalità che si percepisce attraverso l’ascolto esterno ed interno. I tre attori in scena oltre ad essere tecnicamente efficaci sanno regalare a ciascun personaggio “il sapore” di tre diverse modalità di stare al mondo. E s’avvitano vorticosamente fra loro in un crescendo e in uno scemando decisamente trascinante. Lunari raccontava che, per lasciarsi guidare nella coloritura a tutto tondo dei tre personaggi, durante la stesura immaginava che ad interpretarli fossero Walter Matthau, Jack Lemmon e Woody Allen.

Claudio Scaramuzzino

Acutamente poi Claudio Boccaccini ha saputo sottolineate quanto fosse decisivo restituire la sensazione che le domande comunque prevalgano sulle risposte e che spesso quelle più enigmatiche si risolvano in battute di spirito. Uno “spirito” fuori dalla comune comicità, che scaturisce dall’ insolita capacità di Lunari di unire sinergicamente alla scrittura drammaturgica quella musicale: Lunari aveva studiato infatti composizione, contrappunto, armonia e direzione d’orchestra.

Ecco allora che il regista Boccaccini, in sintonia con questa stratificazione linguistico-musicale, sceglie quale cornice iconografica ai diversi momenti della drammaturgia, l’altalenante dondolio proprio del swing jazz.

E in accordo a tale genere musicale imposta il tipo di restituzione attoriale: gli interpreti in scena dimostrano infatti di disporre ciascuno di un proprio “swing”, di una propria espressività comunicativa.  

Uno spettacolo dal portamento ritmico e stilistico davvero interessante.

In scena al Teatro delle Muse fino a domenica 10 dicembre p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA CASTELLANA di Giuseppe Manfridi – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO PORTA PORTESE, dal 12 al 14 Maggio 2023 –

“Io sono ciò che ho fatto” : questo l’altero cogito della Castellana di Giuseppe Manfridi, ovvero della contessa Erzsébet Báthory , realmente vissuta in Transilvania tra il 1560 e il 1614. 

Convinta da folle lucidità che il sangue delle fanciulle vergini le garantisse un’avvenenza eterna, fece del suo castello uno spaventoso luogo di sterminio seriale: “la fabbrica del suo candore”. I documenti del processo che la condannarono a essere murata viva, parlano di centinaia e centinaia di vittime. La Báthory aveva creato un sistema perfetto per adescare giovani ragazze al fine di tradurre il loro sangue nel cosmetico di cui aveva bisogno. 

Nella sua personalissima applicazione di uno dei principi della logica, il principio di causa-effetto, per la Castellana il sangue costituiva la causa di un effetto: l’eterna giovinezza della sua pelle. Per uno scopo universale: il “vanto del paesaggio”, all’interno del quale le giovani vittime, sacrificandosi, davano forma alla loro massima realizzazione vitale. 

Giuseppe Manfridi, autore del testo “La Castellana”

Desta l’interesse dell’autore Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, immaginare narrativamente il suo testo concentrandolo su un particolare momento della vita della Castellana: quello in cui i gendarmi arrivano sul luogo dei delitti per cercare e trovare le prove dello sterminio. Da qui, l’arresto e la condanna.

Della drammaturgia ricca in fascino di Giuseppe Manfridi, l’acuto sguardo di Claudio Boccaccini sa contattare e dare adeguato respiro a quel “quid” impenetrabile della natura umana femminile, che solitamente resta, o si preferisce lasciare, celato. Quel lato oscuro della luna che declina il “coraggio” in sfumature diversamente epiche.

Claudio Boccaccini, il regista dello spettacolo “La Castellana”

In una situazione da “orto degli ulivi” tale per cui “la ricercata” ha la consapevolezza che la sua tremenda attesa precederà la cattura, il processo e la condanna, Boccaccini sceglie, per dare carne e sangue alla bellezza della sua protagonista (un’intensa Giulia Morgani dalle mille temperature) una Castellana corvina e vagamente androgina. Volutamente pervertendo il canone del periodo rinascimentale che vedeva coincidere la bellezza con il biondo crine unito alla succulenza delle forme. All’acconciatura “a sella” preferisce il crine libero e, spettinato, lascia che le eclissi parti del volto.

Giulia Morgani, interprete dello spettacolo “La Castellana” di Claudio Boccaccini

Voluttuosamente ingorda di sangue, la bocca: una bellezza straniante la sua, così consapevole di femminile e di maschile, da insufflare turbamenti. Ma, in verità, lei ama solo auto-sedursi: il massimo degli eccessi, proprio perché consumato in solitudine.

Giulia Morgani in una scena dello spettacolo “La Castellana” di Claudio Boccaccini

Partenopeo, poi, è l’afrore sanguigno dell’idioma che la Castellana emana e con il quale riesce, attraverso un’inusuale ed estrema vitalità che le scorre sotto pelle, a contaminare tutta la scena. Fino a sedurne l’intera platea. 

Una donna capace di innalzarsi fino alle stelle più lucenti del sapere e insieme strisciare nel seminterrato più oscuro della psiche, invocando antichi demoni. Infernalmente paradisiaco il guizzo che le pulsa negli occhi. Con un che di maligno, che rimanda al suo modo di essere orgogliosamente sola. 

“La contessa Báthory assiste alla tortura di alcune fanciulle” – Museo delle Belle Arti di Budapest

Ma proprio sola non è: tra le argute innovazioni del nuovo adattamento di Claudio Boccaccini c’è la reale presenza del “solerte nanerottolo” lacchè Janos. Creatura nata dall’estro e dalle attenzioni demiurgiche di Antonella Rebecchini, che ne realizza una copia nell’atto di chi si inchina sì con il massimo della reverenza ma con la tentazione di fuggire.

Il nano Janos nell’istallazione scenica di Antonella Rebecchini

Procastinata in un’esigenza disperata di tapparsi le orecchie e gli occhi. Come nel clima emotivo dell’ “orto degli ulivi, anche qui “la ricercata” anela un conforto dal suo “discepolo” . Che ne è incapace: spaventato com’è fino alla paralisi. Sprovvisti entrambi di capacità relazionale, condividono singole solitudini.

Locandina del film “Le vergini cavalcano la morte ” di Jorge Grau (1973), ispirato alla storia della contessa Báthory

La sua ossessione per l’eterna giovinezza della pelle, l’organo più esteso del nostro corpo, confine tra noi e l’esterno, é espressione di un profondo disagio. La pelle, infatti, ci parla del difficile equilibrio tra il bisogno di proteggerci e l’esigenza di avvicinarci all’Altro. Rappresenta sia “il confine” che ci protegge, che “il luogo dell’incontro” con l’Altro.

Paloma Picasso interpreta la parte della contessa nel film “Contes Immoraux” di Walerian Borowczyk (1974)

Ma ciò che davvero è degno di nota, e la regia di Boccaccini lo sottolinea raffinatamente nella drammaturgia di Manfridi, non è tanto che la Castellana non riesca a trovare un equilibrio tra queste due spinte, quanto piuttosto riconoscere come proprio queste deviazioni e disequilibri comportamentali ci rivelino qualcosa di “vero” sull’essere umano.

Giulia Morgani (La Castellana di Boccaccini) e il nano Janos di Antonella Rebecchini

“Solo ciò che degrada, appartiene alla vita”: il crimine, la perversione, la follia, infatti, rappresentano paradossalmente espressioni essenziali dell’umano. Nel mondo animale non esistono, perché le bestie rispondono solo al comando univoco dell’istinto. Noi umani possiamo, invece, declinare le pulsioni per-vertendole e stravolgendole in svariate modalità. Ecco allora la folgorante scelta di vestire la Castellana di un vaporoso abito bianco: cromaticamente simbolo di purezza e insieme di summa emotiva, di mescolanza di bene e di male.

La locandina del film “Stay alive”,  film horror del 2006, scritto e diretto da William Brent Bell e ispirato alla storia della contessa di Báthory

Nella follia più folle, quella che non conosce dubbi e confina l’errore solo nell’Altro, arriva la condanna per i suoi crimini: un muro asfissiante che sancisce definitivamente la fine di ogni possibile relazione osmotica con il mondo esterno. Una seconda pelle impermeabile: inumanamente eterna.

Claudio Boccaccini

Potentemente evocativa la scelta registica di immergere lo spettacolo in una drammaturgia musicale, costituita da un tramestio uditivo di movimenti cadenzati, sensazioni, suoni e grida. Uno spettacolo, questo di Claudio Boccaccini, che apre e alimenta suggestioni che non si esauriscono con la fine spettacolo. Anzi.

Quel che resta del castello di Cachtice in Slovacchia


Recensione di Sonia Remoli

W.A.M. – Ironia della morte

TEATRO BELLI, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

Arduo accogliere o tollerare la multiforme singolarità di Wolfgang Amadeus Mozart: tutto coesiste in lui. L’enfant prodige che sottostà all’ossessione paterna di continue esibizioni “circensi” è anche un eccentrico buffone che di punto in bianco prende a saltare e a far capriole come un bambino capriccioso;

Il piccolo Mozart all’età di 6 anni durante un concerto nel castello di Schönbrunn. Alla sua destra la famiglia imperiale. Alla sua sinistra il padre e il principe-vescovo di Salisburgo.

l’artista che si trasfigura in un’estatica dimenticanza di sé e del mondo, totalmente immerso nello spirito del genio, è insieme un uomo misconosciuto, ignorato e confinato in un isolamento crescente; il compositore dallo stile chiaro, trasparente ed equilibrato è lo stesso da cui emerge anche una voluttuosa violenza.

Una sintesi del Grand Tour di Mozart, che in 3 anni ha sostato in 88 città

Se arduo è accoglierla, ancor più arduo è tentare di “rappresentarla” autenticamente, questa assoluta singolarità multiforme mozartiana. Ma lo spettacolo di Claudio Boccaccini ci riesce.

Claudio Boccaccini, il regista di “W.A.M. – Ironia della morte” al Teatro Belli di Roma

Proprio come in un palcoscenico psichico sul quale le rappresentazioni vanno e vengono in diversi stati in una multiformità irriducibile, così sulla scena cesellata dallo sguardo registico di Boccaccini, la vibrante drammaturgia di Carlo Picchiotti, interpretata dall’estro poetico di Patrizio Pucello e raffinatamente enfatizzata dal canto lirico del soprano Olimpia Pagni, fa sì che nei nostri occhi riesca ad entrare, a qualche livello, la consapevolezza visiva ed emotiva della capacità unificatrice dell’attività creativa .

A differenza della “coscienza” infatti, che tende a scindere le personalità contrastanti del genio Mozart, la creatività “incosciente” ci consente di tenerle tutte insieme, ri-collegandole in forme sempre nuove.

Perché la musica in generale, e quella di Mozart in particolare, non chiede di essere “capita”. Ma vissuta emotivamente. Il suo alfabeto musicale parla di noi, della “nostra condizione” umana, così fragile e insieme così misteriosamente affascinante. Ma soprattutto ci parla del bisogno che tutti abbiamo di essere “visti” dall’altro e apprezzati proprio nelle nostre più insolite singolarità. Perché sono loro a renderci “unici”.

Patrizio Pucello è Wolfgang Amadeus Mozart in “W.A.M. – Ironia della morte”

Così come “unico” è il tipo d’incontro che il pubblico, in una sorta di teatro nel teatro, si è trovato a vivere ieri sera, nell’intimità del Teatro Belli. Un convegno d’amore, quello che ci ha organizzato “a sorpresa” W.A.M. (un istrionico Patrizio Pucello).

Ci ha preceduti, facendo sì che sul palco, solo la sua giacca avvolgesse la schiena di una poltroncina e solo la sua musica trovasse carne nel corpo e nella struggente voce di una giovane donna (l’ammaliante soprano Olimpia Pagni).

Olimpia Pagni, il soprano in “W.A.M. – Ironia della morte”

Lui farà capolino solo dopo, per spiare le nostre reazioni. Poi entrerà per guardarci bene in faccia e, riconoscendoci tutti, uno ad uno, noi volubili aristocratici viennesi (perché questi sono i panni che ci troviamo a vestire noi del pubblico), troverà l’ardire per dare sfogo apertamente, senza filtri, a tutta la frustrazione che noi gli abbiamo alimentato e che lui per una vita ha represso.

Un convegno d’amore non esclude l’odio: è solo l’altra faccia dell’amore. E ieri sera W.A.M. ha deciso di “consumare” l’odio (un po’ come prescrisse a Tamino il vecchio prete del Tempio della Saggezza) con un altro tipo di rapporto d’amore. Con noi che, seppure sempre così disattenti ed insensibili ai suoi sinceri “corteggiamenti” musicali, continuiamo ad essere maledettamente irresistibili per lui.

Ci dice che ha deciso di morire. Ma è ironico: è un gioco d’amore il suo, una disperata e goliardica manipolazione. Fertile, però: quasi un rito di iniziazione che, solo, può preludere ad un nuovo inizio. Perché la morte, metaforicamente inserita in un processo di purificazione, non va temuta.

E, un po’ come ne “Il flauto magico”, il silenzio diventa una delle prove a cui deve sottoporsi il pubblico-aristocrazia viennese.

Potrà esserci, allora, un nuovo inizio. E risplendere potrà “un nuovo giorno, senza più ombra né velo”.

Tra noi.

Ora.

Illustrazione di Zoa Studio dedicata a W.A.M.

Patrizio Paciullo, l’interprete di W.A.M., attraverso una forte presenza scenica e una recitazione ricca e magnetica, risulta efficace nell’esaltare la feconda ispirazione creativa della drammaturgia di Carlo Picchiotti.

Carlo Picchiotti, l’autore del testo “W.A.M. – Ironia della morte”

Uno spettacolo, che si rivela un piccolo gioiello di cura, di attenzioni e di amore verso “l’uomo Mozart”, prende forma dal cesello del regista Boccaccini, che dà prova di saper dove e come “decorare”: imprimendo, da rovescio, i volumi degli sbalzi o incidendo da dritto variegati dettagli.

Claudio Boccaccini, il regista di W.A.M. insieme a Patrizio Pucello, l’interprete

Una pura formalità

TEATRO MARCONI, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

È un punto di fuga decentrato la vita, per noi che ci ostiniamo a passare gli anni che ci vengono concessi in sorte a “ricordare ciò che c’è da cancellare“. Con queste parole Giuseppe Tornatore sceglie di suggellare la chiusura dell’omonimo film al quale questa riduzione teatrale, diretta dal regista Roberto Belli, si ispira.

Scena finale del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

E affida “la rivelazione” contenuta in esse al modulare “decentrato” del canto di Gerard Depardieu:

Ricordare,

ricordare è come un po’ morire

tu adesso lo sai perché tutto ritorna, anche se non vuoi

E scordare,

e scordare è più difficile

ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare…

(“Ricordare”, testo di Giuseppe Tornatore, musica di Ennio Morricone)

Intenzione del titolo, infatti, è quella di indurci, provocatoriamente, a pensare che la morte (così come la vita) non sia altro che una pura formalità agevolmente espletabile. Qualcosa di noioso magari, ma estremamente pulito, lineare. Così semplice e innocuo da divenire quasi inconsistente.

Roman Polanski e Gerard Depardieu in una scena del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Ma è davvero così ? E se invece fosse qualcosa di vischiosamente fangoso e pesantemente rammollito da una pioggia insinuante, ossessiva e disorientante ? Un diluvio che col tempo si modula in una sorta di stillicidio ? Stillicidio che, non a caso, abita davvero la scena (curata da Eleonora Scarponi): reali perdite d’acqua, infatti, s’insinuano dall’alto e, provvisoriamente convogliate in secchi, regalano al clima drammaturgico una sinistra e suadente musicalità dalla scomposta grazia.

Una delle scene iniziali del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Claudio Boccaccini, che siamo soliti conoscere e riconoscere dalle “regie di luce” che caratterizzano i suoi spettacoli, qui è anche l’interprete di Onoff, uno scrittore profondamente in crisi che una notte si ritrova a correre, vagando disorientato, sotto un diluvio di pioggia. Da qui prende avvio lo spettacolo. E desta grande stupore, una meraviglia che ammutolisce, l’intima adesione che Boccaccini riesce a trovare per “farsi personaggio”,  restituendoci tutta la grandezza epica di “un mito” in decadenza capace ancora, tuttavia, d’illuminarsi di una metafisica aura ieratica. E ci commuove. Profondamente. E proprio nel momento in cui riesce a farci mollare ogni resistenza, ci identifichiamo in lui. Nel suo destino, che è anche il nostro. Ed è catarsi.

Claudio Boccaccini è Onoff

Complice di tale incantesimo è anche quell’intesa profonda che riesce ad instaurare con un Commissario qual è quello interpretato da un elegante e calibrato Paolo Perinelli, dalla capacità maieuticamente socratica di “tarare” ciò che non serve. Sarà infatti attraverso l’arte di fare domande (solo apparentemente da Commissario di polizia) che permetterà il parto narrativo ed esistenziale di Onoff, costringendolo a riflettere sulla portata di quei concetti dati erroneamente per scontati e sulle contraddizioni in essi serbate.  Perché solo eliminando il troppo e il vano da ciò che Onoff pensa (e che ha deciso di ricordare), potrà aiutarlo nel conquistare una nuova, autentica e “centrata” consapevolezza di sé. 

Paolo Perinelli (il Commissario)

E da spettatori ci si ritrova ad immaginare che forse sarà su questo che, dopo la nostra morte, una volta condotti in una Stazione di Polizia-Purgatorio, qualcuno ci farà riflettere: su come va cercata la nostra autentica verità. 

Andrea Meloni (Andrè)

Il “quadro” registico “dipinto” dal regista Belli trova compiutezza anche attraverso i contributi interpretativi dei tre collaboratori del Commissario. Andrea Meloni sa regalare ai panni di André il dattilografo una poeticità capace di illuminare la subordinazione verso il Commissario di un intimo e quasi incontenibile trasporto ad accogliere il “fango umano” di Onoff.  Paolo Matteucci (il Capitano) e Riccardo Frezza (la Guardia) riescono a tratteggiare, con un’interessante nota di ambiguo zelo, due insolite figure di angelici aguzzini.

Riccardo Frezza (la Guardia) e Paolo Matteucci (il Capitano)

Il linguaggio delle luci, com’è nella cifra di Claudio Boccaccini, risulta disegnato in modo raffinato e profondo, tecnicamente sobrio ma virtuoso nelle metafore visive. E soprattutto risulta capace di generare toni narrativi estremamente coinvolgenti: tra suspense hitchcockiana e dialogo morale bergmaniano

Claudio Boccaccini

Ne deriva uno spettacolo intimo e insieme aperto al dubbio; generatore di stati d’animo disposti a conversare sui quesiti connaturati alla nostra condizione umana. Un’indagine sulla vita che approda alla scoperta che comprendere è più importante che condannare.

Ed è così che uno spettacolo diventa arte lirica visiva: danza tra musica ed immagini. Riuscendo ad attraversare la pelle dello spettatore per tatuarvisi come ricordo.

Il cast dello spettacolo “Una pura formalità” di Roberto Belli

Recensione dello spettacolo LA FOTO DEL CARABINIERE – scritto e interpretato da Claudio Boccaccini –

TEATRO DELLE FONTANACCE di Rocca Priora, il 22 Gennaio 2023 –

In cima al più alto dei Castelli Romani, Rocca Priora, due attori con gli occhi che brillano di entusiasmo, Luciana Frazzetto e Massimo Milazzo, gestiscono con smisurata passione il delizioso Teatro Comunale “Le Fontanacce”.

Rocca Priora

Ieri, il ricco cartellone dell’attuale stagione teatrale prevedeva la rappresentazione de “La foto del Carabiniere” di e con Claudio Boccaccini. Nonostante il pomeriggio dal clima decisamente pungente, il teatro si è totalmente riempito non solo di presenze ma anche di quella fervente energia che caratterizza l’impaziente attesa di una messa in scena.

Il foyer del Teatro comunale Le Fontanacce

Attesa assolutamente premiata, visto l’abbandono fiducioso accordato dal pubblico all’affascinante narrazione di Boccaccini, che come suo solito trascina con quell’ondivaga ebrezza da montagne russe. Il pubblico resta attanagliato, erompe in continue risate, ricorda e si emoziona profondamente. Fino alle lacrime.

Claudio Boccaccini, attore, autore e regista dello spettacolo “La foto del carabiniere”

E l’effetto è totalizzante: raggiunge tutti. Perché Boccaccini, che qui è attore, autore e regista, sa come pizzicare quelle corde che fanno vibrare gli animi. E così, abbattendo tutte le nostre sovrastrutture, ci predispone ad emozionarci totalmente. Coralmente. Parlandoci di famiglia, di abitudini, di amore, di dolore, di sana e semplice gioia. Insomma della vita. Della sua vita. 

Claudio Boccaccini, attore, autore e regista dello spettacolo “La foto del carabiniere”

Dicono che la vita sia “riuscire a fare qualcosa degli incontri che ci hanno fatto”. E l’intenzione che è alla base di questo affascinante spettacolo sembrerebbe essere proprio questa: “un giorno si nasce, un giorno si muore, un giorno si cresce”. All’età di sette anni Claudio Boccaccini “incontra” per la prima volta, senza saperlo, il vice brigadiere dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto: un giovane la cui foto era sfuggita dalla patente di suo padre, dove era custodita. Ma quello era al tempo (siamo nel 1960) il posto d’onore per i familiari, soprattutto per i figli. E dunque chi sarà mai costui ?

Il vice brigadiere dell’ Arma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto

Il turbamento è tale che per placarlo il piccolo Claudio si attacca alla bottiglia del liquore che era solita preparare sua madre. E, come si fa con i grandi incontri intrisi di mistero, Claudio custodisce il suo “incontro” segretamente. Almeno per un po’. Finché un’altra foto (quella del defunto Sor Fiore) alcuni mesi più tardi, “incontra” le sue mani. A questo punto, non riuscendo a contenere la dirompenza di questo nuovo, ma per certi versi simile, incontro decide di alleggerire l’ingombro del suo dubbio amletico andando a consultare colei che sicuramente sa: sua mamma Valeria. La mamma gli rivela che quel ragazzo è stato “un incontro” speciale per suo padre. Una persona fondamentale, perché salvando la vita a suo padre ha reso poi possibile anche il suo “incontro” con la vita.

Il vice brigadiere dell’ Arma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto

Passano le settimane e arriva un giorno in cui “incontra” suo padre che si sta preparando per andare ad una commemorazione. “Ora ! E’ il momento” – si dice Claudio. E con questa piena consapevolezza trova il coraggio d’ “incontrare” tutta la verità. Sarà, più che un incontro, questo, piuttosto il dono di una epifania, perché dal racconto del padre, questa volta “tra uomini”, scopre in che modo quel ragazzo, Salvo D’Acquisto abbia salvato la vita a suo padre.

Questa vera e propria “rivelazione” segna così profondamente Claudio Boccaccini che solo dopo molti anni matura appieno la consapevolezza che la sua storia chiede di essere raccontata e diventare occasione d’ “incontro” per altra gente. Così che tutti possano andare a ritrovare, nella mente e nel cuore, quegli “incontri” che, nel bene o nel male, hanno dato alla vita di ciascuno la forma che ha. Ed esserne grati. E condividerli. Perché la felicità chiede condivisione.

Il vice brigadiere dell’ Arma dei Carabinieri Salvo D’Acquisto

L’ esempio di Claudio Boccaccini è la prova che tutti noi possiamo “fare qualcosa degli incontri che ci hanno fatto”. Tutti noi siamo figli: questa è l’esperienza che ci accomuna tutti e che ci dà la prova che nessuno può “farsi” da solo. Nessuno è padrone delle proprie origini. Claudio Boccaccini, nel condividere con noi la gratitudine immensa per le sue “doppie” origini, ci parla di sé. Nell’unico modo in cui si possa fare: attraverso gli altri. Per gli altri. Questa è la vita. Questo è il teatro nella sua massima espressione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LOVE’S KAMIKAZE – di Mario Moretti – regia Claudio Boccaccini –

TEATRO INDIA, 29 -30 ottobre 2022 –

Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli. 


“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.

Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,

Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti

di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.

Claudio Boccaccini

Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.

Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.

Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.

A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza. 

Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.

I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,

coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,

e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).

Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.

Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.

E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.


Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.


Recensione di Sonia Remoli