Recensione dello spettacolo EDIFICIO 3 – Storia di un intento assurdo – scritto e diretto da Claudio Tolcachir

TEATRO ARGENTINA, dal 16 al 21 Maggio 2023 –

Qual è il sinonimo di morire?

Cessare di vivere. 

E che cos’è vivere?

Un intento assurdo. Strano, così come definire l’uomo: niente di univoco.

E il ricordo?

Un atto collettivo.

Con paradossale musicalità, la malia della drammaturgia di Claudio Tolcachir, sottraendo alla narrazione ogni coordinata spazio-temporale, porta in scena un’umanità manchevole: dimenticata. Esiliata.

Claudio Tolcachir, autore e regista dello spettacolo “Edificio 3”

Un’umanità di “senza” , che fingono di essere “con” finché non si scopre che tutti sono “senza”: senza lavoro, senza madre, senza marito, senza casa, senza limiti, senza desiderio. A colmare (apparentemente) tutti questi “vergognosi” vuoti, uno spazio vitale iper pieno, iper ordinato, all’interno del quale ci si muove, per darsi un tono, a una vertiginosa velocità. Vertigine di cui risente anche la parola che diventa a tratti, così centrifugata, quasi un grammelot.

Una scena dello spettacolo “Edificio 3 ” di Claudio Tolcachir al Teatro Argentina di Roma

Una reazione istintiva, quella di questa umanità, di fronte a ciò che sta succedendo intorno a loro: un vero disastro, un panorama a dir poco deprimente. E allora, non tentata dal cambiare contesto, quasi senza accorgersene questa piccola comunità sceglie di riunirsi col pretesto di lavorare ma in realtà senza sapere bene cosa stia facendo. Uno stringersi insieme, un restare attaccati, inventandosi ogni giorno un nuovo giorno. Un loro resistere. Un domani.

Valentina Picello

Tolcachir ci parla di uno di quei momenti di cambiamento che ciclicamente l’uomo si trova a vivere. Quelle fasi di passaggio in cui non si riesce a tenere del passato solo ciò che può essere ancora adattabile al nuovo scenario che si annuncia. Così ingombrati da scorie di passato, i personaggi in scena si vergognano per il loro non essere, ancora, come vorrebbero: adattati fertilmente al nuovo cambiamento che s’impone.

Giorgia Senesi

Nel mostrarceli in tutta la loro credibilità, il regista sa di provocare un effetto grottesco sul pubblico. E per noi, così abituati a nascondere i nostri disagi, vederli rappresentati nella loro autenticità ci fa sorridere: come fossero esagerati, fino al surrealismo. Ma l’effetto positivo, che il regista cerca e trova, è che il pubblico, provando tenerezza e compassione per quei cinque personaggi (nei quali ci viene così facile identificarci) inizia a provarla anche verso se stesso. Tolcachir sembra voler scoprire ciò che di teatrale c’è in ognuno di noi, in un approccio intimo. A tratti sentimentale.

Emanuele Turetta

Uno spettacolo seducentemente tragicomico. Così reale da sembrare surreale. E, in una prospettiva sospesa tra gioco e realtà, ci ritroviamo a commuoverci.

Rosario Lisma

Gli attori in scena Rosario Lisma, Stella Piccioni, Valentina Picello, Giorgia Senesi ed Emanuele Turetta sono così attenti, nella costruzione del loro personaggio, ai particolari anche più minuti, più accidentali, più imperfetti (ma proprio per questo più umani) da raggiungere livelli altissimi di credibilità. Sfiorando paradossalmente la poesia. 

Stella Piccioni

Un approccio, questo di Claudio Tolcachir, che diventa un’opportunità per riflettere su che ruolo può avere il teatro in tempi duri come questi. Su quanto lo spazio, le persone e le loro storie siano spunti interessanti per rivedere forme e linguaggi.  


Recensione di Sonia Remoli

Pupo di zucchero

TEATRO ARGENTINA, dal 18 al 30 ottobre 2022 –

Desiderare è l’ingrediente segreto per “far lievitare” la vita?

È la notte del 2 novembre, una notte magico-ancestrale dove un confine, solitamente impermeabile, cambia natura e rende possibile la comunicazione tra vivi e morti. Un’antica tradizione del meridione vuole che i vivi preparino dei particolari dolci, come il pupo di zucchero, per il ritorno dei defunti della famiglia alla propria casa, la notte che precedere la giornata del 2 novembre. All’arrivo del giorno, saranno poi i vivi a mangiare quei dolci preparati per i morti, perché si credeva che fosse come se ci si “nutrisse” simbolicamente dei trapassati stessi.

Il pubblico prendendo posto in sala non può non notare che il sipario è aperto e il palco vuoto. Anzi, a ben guardare, sul fondo della scena, al centro, campeggia un oggetto scenico: un piccolo tavolino di legno. Perché? Sarà mica, che lo spettacolo è già iniziato e che gli attori lo hanno lasciato per noi del pubblico, che nel rituale magico del teatro, come i defunti, attraverseremo quel confine che solo nella notte che precede il 2 novembre (quella appunto che sta per andare in scena) entrano in un’ancestrale comunicazione con i vivi (in questo caso gli attori)? In una sorta di teatro nel teatro, dove il piccolo tavolino può essere il posto dove troveremo i dolci destinati a noi ?

Buio in sala. Scampanellii materializzano magicamente un uomo che si siede (il disegno luci raffinatissimo, quasi piccoli raggi che penetrano il confine tra le due dimensioni, è del light design Cristian Zucaro) e appoggia proprio su “quel tavolino” il suo pupo di zucchero, nell’attesa che lieviti. Il perdurare degli scampanellii fa addormentare l’uomo. Ma è davvero un sonno il suo? O non sarà forse un diverso stato di coscienza che gli permette di connettersi con la dimensione dei suoi cari defunti?

Li desidera, lui. Li ricorda. E vorrebbe che fossero ancora con lui. Almeno questa sera, che si sente così solo e desidererebbe “stutarsi come una candela”. Sembra quasi di sentirlo proseguire dicendo: “Spegniti, spegniti breve candela! La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena, e poi cade nell’oblio. La storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e foga e che non significa niente” (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V).

Ma dalle sue spalle prendono vita, poco alla volta, tutti i suoi defunti. In primis, le adorate e inseparabili sorelle Viola, Rosa e Primula, cariche di un’energia potentissima che subentra alla loro docilità, ora come allora, nell’atto dello sciogliersi i lunghi capelli.

Si librano così in danze della grazia di una “Primavera” botticelliana, che però, com’è nella natura stessa della primavera, non escludono momenti di evidente sensualità. Anche la mamma, stanca e curva, in determinate occasioni successive a lunghe attese, cambiando d’abito (e quindi di pelle) si liberava del peso del tempo scatenandosi in balli sfrenati.

Balli che, come l’apparente e ripetuto addormentarsi del protagonista, sono stati di connessione ad un’altra dimensione. Sacra: trascendente nella sua immanenza. Di ritualità, di figure geometriche simboliche (come quella del cerchio), di canti melanconicamente ammalianti, di balli e vorticosi volteggi, di luci che svelano per sottrazione, nonché di lustrini e cenere è intrisa tutta la rappresentazione potentemente visionaria di Emma Dante.

Che culmina nello scenografico cimitero delle carcasse dei defunti (le superbe sculture sono di Cesare Inzerillo) dove la Dante ci parla della morte con il fascino sublime delle diverse declinazioni del desiderio. Anche il protagonista, a qualche livello, lo sa e non a caso si è preparato a questa festa visionaria del 2 novembre “cambiando pelle”: indossando cioè panciotto e cravattino.

Ma qualcosa non funziona: l’impasto non lievita, non si rianima. “Avrò dimenticato qualcosa?” – si chiede. E scoprirà, così come noi del pubblico, il potere alchemico della “separazione”. 

Il corpo attoriale fa brillare le tenebre, grazie all’incredibile traduzione delle continue evoluzioni del ritmo della parola in gesto.