Attesissimo ospite dell’incontro “Bibbia e Psicoanalisi” di venerdì 7 marzo u.s. – organizzato dalla Cattedra “Gaudium et spes” diretta da Pierangelo Sequeri (teologo, musicologo, compositore) – è stato il celebre psicoanalista e saggista Massimo Recalcati.
Occasione dello stimolante dialogo, moderato da Sequeri, con l’apprezzata filosofa e teologa Isabella Guanzini è stata la discussione sul recente lavoro editoriale di Recalcati “La legge del desiderio – Radici bibliche della psicoanalisi” (Einaudi, 2024).
Questo testo, insieme al precedente “La Legge della parola – Radici bibliche della psicoanalisi” (Einaudi, 2022) – già esplorato in un precedente incontro, sempre organizzato dalla Cattedra Gaudium et spes – costituisce un dittico, frutto di 12 anni di elaborazione, dedicato alla dimostrazione della tesi relativa a una non contrapposizione tra il pensiero biblico e la psicoanalisi.
Spingendosi al di là della critica freudiana della religione, così come delle fondamenta atee della psicanalisi, Recalcati individua come proprio nell’humus del logos biblico affondino le radici più profonde della psicoanalisi.
Non è la sua una tesi teologica, né una dimostrazione filologica. Piuttosto è stato l’esito di un suo personale incontro con le Scritture a consentirgli di identificare in esse l’esistenza di quei grandi temi che saranno ereditati dalla psicoanalisi, con particolare riferimento all’opera di Freud e di Lacan.
Un incontro, quello tra Recalcati e le Scritture, di cui Pierangelo Sequeri coglie tutta la portata straordinaria, essendo cifra del lavoro teologico e filosofico di Sequeri l’esplorazione di quelle fertili zone di confine che contagiano osmoticamente le scienze religiose, la filosofia, la psicologia e l’estetica.
In dialogo con Massimo Recalcati, la stimata filosofa e teologa Isabella Guanzini ha restituito una sua personale lettura de “La legge del desiderio” dall’appassionato e appassionante rigore.
Isabella Guanzini
Una lettura e un ascolto, i suoi, all’interno dei quali si è lasciata condurre rintracciando una kierkegaardiana via dell’ironia, sulla base della quale riconosce a Recalcati quella fertile distanza che consente di fare della tradizione “la proprietà di nessuno”. Perché una tradizione resta fertile “se si consegna a chi desidera risignificarla”. E Recalcati l’ha risignificata entrandovi in relazione, senza limitarsi a “prelevarla”. Volgendo lo sguardo – proprio come invitava a fare Jacques Lacan – alla “grazia” che ivi si cela.
A Recalcati – prosegue la Guanzini – il merito di aver “elevato” il desiderio alla dignità della Legge, senza nulla togliere alla Legge. Facendo cioè finalmente “divampare quel fuoco” che Gesù è venuto a portare. Senza paura. Perché così esortava a fare Gesù: “non abbiate paura!”, invitando a prestare attenzione, e a rimanere fedeli, alla vocazione desiderante a cui ciascuno di noi è chiamato.
Senza necessità di impaludarsi in inutili ansie da prestazione. Perché l’obiettivo non è tanto “l’oggetto” del desiderio, quanto “la causa che ci chiama”, che ci anima, che ci fa fiorire continuamente. E che, nonostante tutto, ci fa dire “sì”. Ancora. Rendendoci “promessa” non di stabilità ma di continuità. E di sempre nuovi concatenamenti collettivi , che vivono e si alimentano di “testimonianza”.
Pierangelo Sequeri
Senza perdere di vista che il luogo della “grazia” – e quindi della “causa che ci chiama” – è sempre il luogo di un “incontro”.
Proprio come occasione di grazia si è rivelato questo incontro con Massimo Recalcati, organizzato dalla Cattedra Gaudium et spes del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e magnanimamente condiviso con la comunità.
Testimonianza di come siano possibili esplorazioni sempre nuove tra saperi, se aperte ad un vibrante dialogo e a raffinate avventure dello spirito.
Non è la città nella sua individualità quella che Andrea De Rosa manda in scena: non allude solo a Tebe o al tempio di Apollo. Ma ad un certo modo di abitare il mondo. Perché, in questo, siamo tutti Edipo.
Nessuno di noi può autogenerarsi, né scegliere da chi essere generato. Quindi nessuno di noi è padrone della “propria” origine.
Nostro destino è non sapere tutto di noi. E quindi dell’altro.
Nostro destino è essere l’oggetto del desiderio di qualcun altro, che immagina e dà forma alle sue aspirazioni su di noi.
Nostra possibilità è fare sartraniamente qualcosa di proprio, di ciò che prima gli altri hanno fatto di noi. Perché ogni figlio si dà anche come vita distinta, separata, rispetto a chi lo ha generato.
Frédérique Loliée è Giocasta
(ph. Andrea Macchia)
Edipo viene generato per una dimenticanza e, una volta accortisi dell’errore, i genitori l’hanno atteso desiderando la sua morte. In verità Giocasta, qui una fascinosamente materna e conturbante Frédérique Loliée, immagina per lui di affidarlo al sonno e non alla morte, sperando così di consegnarlo nelle braccia di Morfeo da piccolo e di riaverlo da adulto. E così, a qualche livello, avverrà.
Una volta venuto alla luce, Laio lo abbandona per sfuggire al responso dell’oracolo, che gli raccomandò di non avere figli da sua moglie, o il figlio avrebbe ucciso lui possedendo Giocasta.
Laio si era infatti macchiato in precedenza di una grave colpa: si innamorò di Crisippo e lo rapì durante i giochi di Nemea, portandolo con sé a Tebe. E mentre gli insegnava a portare il carro, abusò di lui che, per la vergogna, successivamente si uccise.
Ma una notte, mentre Laio era in preda all’ebbrezza, concepì con Giocasta Edipo che, appena nato, dopo avergli legato le caviglie con una cinghia, espose e abbandonò sul Monte Citerone. Qui fu trovato da un pastore che gli diede il nome di Edipo (che etimologicamente significa “piede gonfio”) e che lo consegnò a Polibo e Peribea, sovrani di Corinto, non potendo avere figli propri.
Marco Foschi è Edipo
Edipo cresce. E arriva il giorno in cui qualcuno lo appella come “bastardo”. Inizia così ad avere dei dubbi sulla propria origine, arrivando a desiderare conoscerla fino in fondo.
Ma ci sono circostanze, a volte, in cui è preferibile non ostinarsi ad andare a fondo: meglio accettare di “vedere sporco”, in maniera incompleta. Come suggestivamente viene visualizzato dalla scenografia (le scene sono a cura di Daniele Spanò) dove dei pannelli in plexiglass, riproducenti la retina dell’occhio, vengono lordati e posti davanti al volto degli interpreti, per rendere appunto la vista di certe verità incompleta. Una banda orizzontale poi, cadendo precisamente all’altezza dei loro occhi, li protegge totalmente.
L’unico a non accettare questo tipo di visibilità è Edipo. Questa è la sua colpa, essendosi spinto troppo oltre le sue capacità di tolleranza. Turbando inoltre quel “bene comune”, di cui avrebbe potuto aver cura.
Marco Foschi è Edipo
Come nel precedente “Baccanti”, anche qui in “Edipo re” Andrea De Rosa é mosso dall’urgenza di far “sentire“ allo spettatore tutto lo straripamento che provoca nell’umano l’incontro con il sacro.
Ecco allora che convoca una sapiente sinergia di sguardi sensoriali, per dirigere una concertazione drammaturgica nel cui ensemble confluiscano le diverse trame della parola di Fabrizio Sinisi, delle sonorità di G.U.P. Alcaro, delle luci di Pasquale Mari, dei costumi di Graziella Pepe (realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa).
Il linguaggio divino è così enigmatico, così indifferenziato e quindi diverso dalla nostra “parola”, che per provare a tradurlo occorre far sentire allo spettatore la sua più tempestosa indeterminazione. Contando sulla complicità della luce delle ombre, dell’ossessività straziante ed eccitante delle sonorità acustiche e dell’ambiguità degli “habiti”, che non sono solo costumi di una scena. Ma di uno stare al mondo.
Roberto Latini è Tiresia e i messaggeri di Apollo
La regia di De Rosa manda in scena così le epifanie di Apollo. Lo fa con cura: attraverso i suoi tramiti, ovvero i messaggeri e l’indovino Tiresia (un tenebrosamente incandescente Roberto Latini, speciale nel rendere la suggestione di un’epifania). Nell’orecchio dello spettatore vengono versate sonorità dal sapore oscuramente seducente. Negli occhi viene colata una luminosità che turba fino a ferire. E’ il manifestarsi del “sacro”.
Lo spettacolo assume i connotati di un grande rito, qual è la vita, che circolarmente si apre e si chiude con alterazioni del respiro, che assumono il suono di grida dalla musicalità straziante e dall’acutezza perforante. Si direbbero inumane. Stupefacentemente rese dalla vocalità di Francesca Cutolo e di Francesca Della Monica, interpreti del Coro.
Francesca Della Monica(Coro)
Francesca Cutolo(Coro)
“Che cosa volete che io faccia ?” – dice Edipo agli abitanti di Tebe – in bilico tra una tensione di onnipotenza e insieme di de-responsabilizzazione alla Ponzio Pilato. Marco Foschi, che ne interpreta il destino, ne sa restituire le paradossali contraddizioni, provocando nello spettatore una tenerezza dal sapore di compassionevole indignazione.
“Dobbiamo interrogare il dio” – decide Edipo.
Invocano ed evocano così Apollo: il dio massimamente ambiguo perché il più luminoso degli dei. L’eccessivo, perché tra tutti il più simile alla morte. E lo squartatore con il coltello in mano, arriva. E invade i nostri sensi.
Eraclito diceva che il dio si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma. “L’uomo invece ritiene giusta una cosa e ingiusta un’altra e non si confonde con tutte le cose”. L’indifferenziato è il tratto del divino da cui l’umano ha bisogno di separarsi, instaurando le differenze che consentono un ordinato vivere sociale. Perché quando un Dio arriva nella città – ci racconta Euripide nelle “Baccanti” – tutto l’ordine viene sconvolto e ogni misura oltrepassata.
Roberto Latini
(ph. Andrea Macchia)
Per tramite di un suo messaggero, Apollo comunica ai tebani che la peste terminerà solo quando verrà punito l’uccisore del precedente re Laio, rimasto invendicato. “L’uccisore è a Tebe” – prosegue il messaggero. Ma Edipo è troppo sicuro di potersi incoronare inquisitore, per riuscire a prestare ascolto al dio che continua a ripetergli: “Sei tu”.
Non è un caso che Freud abbia scelto la tragedia dell’ “Edipo re” come descrizione esemplare dell’esistenza umana, mostrandone i desideri più profondi e i relativi tentativi di realizzazione.
Edipo, infatti, cade nella presunzione di innalzarsi al di sopra di ogni sospetto, laddove il primo insegnamento dell’oracolo è: “Conosci te stesso e agisci con misura”.
Fabio Pasquini è Creonte – Francesca della Monica (Coro)
Edipo si sopravvaluta, sottovalutando la potenza del mistero che avvolge la nostra identità. E che necessariamente, in parte, rimarrà tale. Accusa Creonte di macchinare per invidia contro di lui – e poeticamente in bocca ad un appassionato Fabio Pasquini (interprete di Creonte) prendono forma struggenti parole che richiamano quelle scritte da Pasolini e cantate da Modugno in “Cosa sono le nuvole” . E si dimostra insensibile al dolore, Edipo: quello di Giocasta, che lo supplica confidandogli “io ti voglio bene, ma il tuo bene mi fa male”.
Oscuri sono poi, per loro natura, anche i responsi dell’oracolo, per gli uomini. E tali, in parte, rimarranno. Perché la nostra umanità non può tradurre perfettamente l’indeterminatezza del linguaggio divino. Pena la follia: dono degli dei, sia pure a prezzo di terribile dolore.
Un concetto magnificamente visualizzato dalla scelta di Pasquale Mari di utilizzare riflettori parabolici Par Can che, senza lente, producono un fascio parallelo e ravvicinato, più intenso, quasi violento. Efficacissimo per veicolare quel senso di inadeguatezza nel quale Edipo si trova alla fine intrappolato.
In realtà l’oracolo pronunciato da Apollo a Laio parla anche del naturale avvicendamento generazionale tra padri e figli: la giovinezza del figlio sopravviverà alla vecchiaia del padre. Ed è per questo che il figlio resterà solo con un genitore, la madre, per gli anni che le saranno ancora concessi dal suo destino. Ma la difficoltà di Laio ci è vicina: ricorda un po’ quella di certi padri contemporanei, che faticano a “saper tramontare” perché vedono nella luce dei figli l’ombra del loro tramonto. Quel senso di tramonto così ben reso dall’utilizzo dei proiettori PAR, che danno corpo a quel minimo indispensabile di luminosità per illuminare il palco.
Una regia, questa di Andrea De Rosa, che sa restare fedele al testo sofocleo ma ancor di più sa tradire la sua eredità. Restituendo al pubblico una sinergia di suggestioni, che fanno di De Rosa un originale “testimone”. In perfetta sintonia con il messaggio che il testo di Sofocle veicola: siamo tutti Edipo (cioè “scritti” da qualcun altro) ma possiamo anche dare vita a qualcosa di nostro e quindi di originale, del destino e della tradizione che necessariamente ognuno di noi eredita.
E’ il motto non solo del Presidente degli Stati Uniti d’America Charles Smith e del suo staff: è il motto dell’essere umano.
L’istinto alla sopravvivenza, e quindi alla sopraffazione, ci abita densamente da sempre: non appena gettati al mondo. Sopravvivere – e fare di tutto per “non essere messi in attesa” – è un istinto naturale che vince su emozioni complesse, quali la solidarietà, l’amicizia, l’amore. Con le quali non veniamo corredati per natura ma che richiedono il desiderio e l’impegno di un’educazione sentimentale.
Luca Barbareschi è il Presidente degli Stati Uniti d’America Charles Smith
E poi, diciamolo pure che siamo d’accordo con il Presidente: “siamo un popolo che perdona”. Anzi che dimentica, con grande facilità. E piuttosto che sperimentare un bene nuovo, tendiamo a preferire un male che già conosciamo.
Il testamento di questo stile di vita è racchiuso nel quadro che è alla destra della scrivania del Presidente: “Nighthawks” di Edward Hopper (1942): un ritratto non solo dell’America dei primi anni ’40 ma anche della nostra società, che ci vede tutti fisicamente vicini ma emotivamente assai distanti. Soli. Isolati. Perché, se anche intuiamo la fertilità dell’entrare in relazione con l’altro, una più costitutiva forma di diffidenza ci impedisce di correre il rischio di aprirci e quindi di renderci vulnerabili.
Simone Colombari (Archer Brown) – Luca Barbareschi (il Presidente Smith)
Anche il verde scelto per le pareti e i divani dell’ufficio del Presidente Smith ricorda moltissimo la luce ombrosa del verde utilizzato da Hopper per avvolgere i suoi luoghi della solitudine (le scene sono curate da Lele Moreschi).
Quella solitudine applicata, dal genio di David Mamet, anche agli stessi tacchini dell’Associazione nazionale produttori tacchino, che sono così speciali proprio perché allevati “in isolamento”. E non appena ne escono per andare a fare anticamera alla Casa Bianca, risentono pesantemente del loro essere entrati in relazione con l’apertura propria del diverso, dello straniero.
E la stessa moglie del Presidente Smith – vivamente interessata a monitorare lo stato delle “sue” richieste personali – sembra essere la persona che gestisce la situazione proprio perché “da remoto”, cioè senza essere presente nella sala dei bottoni.
(ph. F. Di Benedetto)
“Cosa c’è di me che non piace alla gente?” – chiede il Presidente Smith al suo assistente Archer Brown, quasi fosse un’altra regione della sua psiche. Tanto, infatti, il Presidente Smith di Barbareschi è irresistibilmente tentennante, infantile e ridicolmente giocoso (“un sacco vuoto che non sta in piedi”), quanto l’Archer Brown dell’incisivo Simone Colombari è deciso, solido, tagliente e spietato.
Ecco allora che quella tanto anelata “continuità” che pareva garantire la stabilità dei consensi dell’elettorato, inizia ad essere minata da un’altra donna: colei che scrive i discorsi del Presidente, Clarice Bernstein. Una Chiara Noschese silenziosamente insinuante, come un batterio in un organismo dalle basse difese immunitarie. Organismo affetto da una tendenza autoimmune, che lo porta a strappare la donna-batterio dal suo precauzionale stato di “isolamento”.
Luca Barbareschi (il Presedente Smith) – Chiara Noschese (Clarice Bernstein)
Una donna all’apparenza innocuamente generosa, capace di sedurre l’elettorato con le sue “idee di cambiamento”. Con le quali il Presidente ama farcire i suoi discorsi, un po’ come il tacchino del Giorno del Ringrazimento.
“Cosa ci rende grandi se non la capacità di correggere noi stessi?” è, ad esempio, la frase ad effetto che Clarice escogita per iniziare a far inghiottire all’elettorato l’idea che il Giorno del Ringraziamento è stato sempre festeggiato in una modalità sbagliata. Da “correggere”, appunto, perché “gli esperti” sono in verità “artigiani autodidatti”.
Ma poi si scoprirà che nell’apparente continuum dell’etica del “do ut des” qualcosa è cambiato: a fronte della somministrazione di questa “filosofia della correzione” – propria dell’inesperienza che rende “esperti” – viene chiesto in cambio qualcosa di imprevedibile, di indecente.
E chi prima si mostrava così generosamente manipolabile, poi farà emergere il proprio corredo biologico da sopraffattore. Anche l’insostituibile Clarice Bernstein; anche il pacifico rappresentante dell’Associazione nazionale produttori di tacchino: un Nico Di Crescenzo decisamente credibile. Così come l’apparentemente tollerante indiano Dwight Grackle: un barbaramente persuasivo Brian Boccuni.
Uno spettacolo – questo di Chiara Noschese, regista oltre che interprete – che restituisce l’efferata bellezza dei testi di David Mamet, dove “comunicare” è sinonimo di confliggere, belligerare.
Luca Barbareschi – Nico Di Crescenzo (rappresentante Ass. naz. produttori tacchino) – Simone Colombari
Bellezza che trova massima espressione nel valore restituito ai dialoghi, intesi come “lotta” per disarmare le misteriose apparenze con cui è plasmata la realtà conflittuale dei rapporti umani. Dialoghi maieutici, rivelatori delle diverse personalità che ci abitano. Perché “il logos è una guerra” – sosteneva Eraclito – in quanto armonia di opposti contrastanti, che si compongono attraverso il dia-logo. Dove gli opposti si fronteggiano, in teoria per conoscersi meglio, in pratica per eliminarsi. Come ci fa vedere Mamet. E come iconicamente visualizzato in un altro quadro – “Gun” di Andy Warhol – appeso di fronte al quadro di Hopper.
Un comunicare luminosamente ferino esaltato anche dalle scelte della prossemica. Ne è un brillante esempio l’avvolgersi e il caricarsi su se stesso – per poi avventarsi con rapacità sugli altri – dello tsunami di ansia galoppante del Presidente Smith: un Barbareschi davvero trascinante. Che si staglia ancor più efficacemente negli occhi e nelle fibre nervose dello spettatore, anche grazie alla quasi immobilità degli altri personaggi in scena.
Uno spettacolo avvincente e profondissimo, che per due ore contagia il respiro dello spettatore, trascinandolo nel caos tragicomico di quella vita “dura a morire”, così potentemente rappresentata dallo sguardo di Mamet. E che tutti ci accomuna.
La coppia é un “pianoforte”: un caleidoscopio sonoro. Una danza tra tasti neri e tasti bianchi, la cui portata è senza confini. Un diario musicale inciso da emozioni, sogni e aspirazioni vitali.
La coppia è un ponte tra anime ed epoche: uno strumento che, come il pianoforte, ci parla della nostra continua ricerca a connetterci con noi stessi attraverso l’altro. I tasti neri, infatti, non hanno un nome fisso: dipendono dalla relazione con le note bianche “vicine”.
Il tema del pianoforte, e della “vicinanza” tra tasti e identità, è la forza di attrazione dalla quale prendono forma non solo gli straordinari habitat scenografici di Rosita Vallefuoco, coordinati ai costumi di Raffaella Toni. Con estrosa genialità, tutto lo spettacolo ci parla della complessità del “concertarci” con l’altro. Incontrandoci sul confine, che vorrebbe solo separarci.
Ne parla l’efficace e accattivante sinergia tra la drammaturgia e la regia di Pier Lorenzo Pisano; ne parla la stuzzicante interpretazione attoriale di Gioia Salvatori e di Andrea Cosentino, capace di visualizzare intrigantemente la continua tentazione a staccarsi dal mantenersi in relazione con l’altro, desiderando ciascuno “avere tutto” – la totalità del proprio desiderare, appunto.
Gioia Salvatori – Andrea Cosentino
Ma il nostro stare al mondo non prevede la possibilità di “avere tutto”, né di “essere tutto”: siamo esseri finiti e incompleti che vivono di relazioni che – al di là del facile concretizzarsi in rapporti di potere e di sottomissione – anelano alla valorizzazione delle diversità di ognuno. In un equilibrio, sempre nuovo, di disponibilità ad aprirsi in una danza di passi, di reciproco incontro con l’altro. Cercando cioè un equilibrio sempre nuovo tra il guidare, il cedere il passo e il seguire l’altro, sul piano-forte di quella danza propria della vita di relazione.
Andrea Cosentino – Gioia Salvatori
In scena ieri sera al Teatro Basilica (fino al 9 marzo p.v.) la storia di una coppia che non si rassegna alla fine della loro relazione amorosa e che cerca, in diverso modo, di salvare l’investimento esistenziale elargito. Perché anche la fine può essere “vicina” ad un nuovo inizio.
Lei, più riflessiva e più seducentemente lenta, prova a recuperare la magia dell’incontro iniziale; lui, più impaziente e più concreto, rintraccia ed esibisce la certificazione dei momenti felici, che non andranno persi perché trascritti, come beni acquistati e acquisiti, su scontrini.
Pier Lorenzo Pisano, autore e regista dello spettacolo “Totale”
Un’interessante drammaturgia, questa di Pier Lorenzo Pisano, che riattualizza per certi versi “Il diario di Adamo e Eva“ di Mark Twain, proponendone insieme un avanzamento.
Erotico non è solo “il sentire” di una coppia, come sostiene la Eva di Pisano, una fantasmagorica Gioia Salvatori, dalla sconfinata comunicazione visiva. Erotico è lo sguardo sul mondo, a cui ogni coppia dà forma. Intriso di eros, cioè, è un nuovo mondo edificato dalla coppia, dal quale ci si congeda – al termine di una storia – elaborandone necessariamente il lutto.
Gioia Salvatori
Lutto che qui prova a trovare concretizzazione nella rievocazione e nella trascrizione su carta dei loro momenti di felice e insensata relazione, ancorati dall’Adamo di Pisano – un Andrea Cosentino irresistibilmente tramortito dalla multiformità del femminile – all’insostenibile solidità propria degli oggetti. Una mimica e una gestualità anche verbale, le sue, che incantano, nel loro tentativo di dare un margine, un confine netto, e quindi ricco in tagli, alla poliformità del femminile.
Incontrarsi e’ un evento imprevedibile, fascinosamente insicuro, che chiede di essere disponibili “a fare una voltura”. Non è quindi ricreabile a tavolino e con buona volontà, come prova a immaginare la Lei di Gioia Salvatori, terrorizzata dall’idea di soffrire.
Piuttosto l’incontro è quel qualcosa di così inaspettato che arriva, ad esempio, nel lasciarsi suonare e poi cantare da una melodia senza parole. Un liquido flusso onomatopeico, dal quale può nascere una nuova forma. Di noi.
Sono raccolte da un fazzoletto, che una giovane donna in proscenio ripiega come aprendo un sipario, che svela l’interno di un café parigino.
Lei, la donna (interpretata da Claudia Grassi), ha appena “incontrato” un piccolo libro, che rapisce immediatamente la sua attenzione. E, al suo voltar pagina, l’elegante estro registico della Shammah fa corrispondere la seduzione di un sipario che si apre sul vissuto di quel libro.
Al bancone del bar dal sapore hopperiano (lo spazio scenico è disegnato da Gianmaurizio Fercioni con le suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin), un avventore infatti sta ultimando di scrivere proprio quel piccolo libro che la donna sta iniziando a leggere: “La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth.
C’è un filo di stupefacente bellezza con il quale Andrée Ruth Shammah imbastisce l’impalcatura di questo spettacolo. Consegnando allo spettatore un manufatto dalle rare finiture simboliche.
La Shammah individua diversi tessuti drammaturgici, con affini trame esistenziali, sui quali passa, con questo filo di stupefacente bellezza, punti che – come ponti – avvicinano i lembi dei differenti tessuti scelti.
Nello specifico, la Shammah confeziona un adattamento incentrato su un’originale struttura a chiasmo: laddove il tessuto autobiografico dell’autore Joseph Roth confluisce nel vissuto del personaggio letterario di Andreas Kartak; qui, nel (suo) Andreas Kartak confluiscono sia il personaggio che lo stesso autore Roth.
Andrée Ruth Shammah
L’operazione di alta sartoria registica è resa possibile grazie alla stoffa, dallo stile ricco in contraddizioni, del grande maestro Carlo Cecchi. Attore di giocosa e inquieta sperimentazione che parla di sé in prima persona (in quanto personaggio) e in terza persona (in quanto Roth, l’autore). “Non siamo il poeta, ma il poema” – direbbe Jacques Lacan -perché, più che autori, risultiamo essere attori di un copione. E voltare pagina è l’esercizio più complesso da portare a termine”. Straordinaria risulta la restituzione di Cecchi nel dare corpo ad “un personaggio” dal temperamento “sbriciolato” e ad un autore “poeta moderno del vuoto” dalla straordinaria musicalità ironica .
Giovanni Lucini – Carlo Cecchi
Sostenuto dal complice ascolto del barista (interpretato da Giovanni Lucini), “l’autore” confluito nell’Andreas di Cecchi gli racconta e ci racconta – aprendosi in una postura dalla torsione sempre più accogliente – la leggenda che ha appena finito di scrivere. La sua narrazione trova un incantevole contrappunto nella sottolineatura di quelle frasi, dalle quali il barista e la giovane donna, ora seduta ad un tavolo, si sentono letti. Questo “miracolo” accade quando l’incontro con un libro ci seduce come il corpo dell’amato. E ci trasforma. Perché si rivela “un incontro fortunato, in cui il lettore trova nelle pagine anche pezzi di se stesso”, scoprendo qualcosa di più di sè. “Perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto” (da “A libro aperto, una vita è i suoi libri” di Massimo Recalcati).
Giovanni Lucini – Carlo Cecchi
La Shammah sceglie di ospitare questo particolare modo di stare al mondo, in uno spazio scenico con il vissuto del Teatro India di Roma: una ex fabbrica di saponi e solventi Mira Lanza, che è riuscita a resistere alle tempeste della vita, riconoscendo incontri fortunati dai quali si è lasciata leggere, trasformandosi in “fabbrica del teatro di domani”.
Teatro India
Ora, questa varietà di tessuti drammaturgici, come si anticipava all’inizio, sono imbastiti dalla regista Shammah attraverso quel filo di stupefacente bellezza rappresentato dalla spiritualità estetica della Santa Teresa di Lisieux, co-protagonista de “La leggenda del santo bevitore”.
Fu lei, in vita, ad inaugurare con una fertile intuizione teologica “il teatro” esistenziale e religioso “della piccola via”: il teatro della bellezza – e non solo della sventura – di essere piccoli e imperfetti. Perché è con la consapevolezza e la fiducia in questa condizione esistenziale – con la quale non ci si ostina a cogliere tracotantemente “il tutto” ma ad accogliere con vibrante gratitudine “particolari” del tutto – che la misericordia di Dio può manifestarsi.
Teresa di Lisieux
Una spiritualità estetica che si specchia nell’estetica artistica “dell’impossibilità a recitare”, secondo la quale un artista può solo dar forma al divenire dell’arte, per sua natura “incerta fin nella più intima fibra”.
Perché il Teatro, come la Vita, è “ripetizione” e l’attore non sfugge al ripetere per provare continuamente a comunicare, mosso dalla tensione a stabilire un rapporto conoscitivo. Un rapporto non fissato una volta per tutte, ma che si sviluppa nel corso delle rappresentazioni.
Perché il Teatro, come la Vita, è un organismo vivo e quindi labile, mutevole, provvisorio.
Perché il Teatro, come la Vita, “è un insieme di rapporti”, che si concatenano fra di loro in un unico punto presente.
E così, in ultima analisi, il filo che la Shammah individua e usa sapientemente per imbastire la costruzione dei vari tessuti drammaturgici di questo spettacolo è il filo della “drammaturgia della prova”.
Quel filo così caro alla sua sensibilità di regista, nonché a quella di del Carlo Cecchi attore, maestro di coscienza e guida d’attori. Perché siamo tutti “in prova” qui sulla Terra: in cammino dentro e fuori noi stessi.
Andrée Ruth Shammah – Carlo Cecchi
“La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth parla e ci parla della vita di un uomo, Andreas Kartak, perseguitato e esiliato dalla Slesia e dalla vita civile, in quanto detenuto in carcere per aver salvato la vita della sua amante, picchiando suo marito fino ad ammazzarlo. Dopo due anni torna ad una vita libera e piena di miseria, mandandola giù a sorsi di Pernod.
E’ un uomo infatti che continua a rimanere sordo ai miracoli degli incontri quotidiani di cui la sua vita è punteggiata, in quanto attratto irresistibilmente a ripetere gli atteggiamenti distruttivi legati ai suoi traumi. Come accade a tutti noi.
E l’interesse dello sguardo registico della Shammah non cade sul suo continuo procastinare la missione a rendere fertilmente creativa l’elargizione di denaro ricevuta, un po’ come nella parabola cristiana dei talenti. Il suo interesse non è sul risultato ma sul processo: sul percorso accidentato attraversato da Andreas.
La drammaturgia del disegno luci (la cui cura è affidata a Marcello Jazzetti), in sinergia alla drammaturgia musicale, riesce efficacemente a sottolineare la tragica coercizione dell’Andreas personaggio a ritornare sempre sulla stessa riva, sospinto dall’onda della ripetizione del suo trauma. Una vita la sua, ma non solo, che tende a rimanere schiacciata dal passato e dalle tracce traumatiche che si sono impresse su di essa.
Perché la condizione esistenziale di Andreas è propria di tutti noi esseri umani: non a caso il racconto assume la forma di una “leggenda”, che per sua natura si rivolge alla collettività, per rinsaldarne i legami di appartenenza.
Vivo è infatti in Andreas quel senso interiore della dignità, che riesce ad andare al di là della crisi esistenziale che tende continuamente a metterlo “all’angolo” – condizione di cui così efficacemente la scena ci parla. Un senso dell’onore, il suo, che continua a guidarlo e a sostenerlo. Fino alla fine. Seppur senza riuscire a concretizzarlo stabilmente. Ma questa sua tensione, questo suo restar fedele a un ideale di dignità in una vita “senza indirizzo”, lo rende degno di essere un “santo bevitore”.
Claudia Grassi – Carlo Cecchi – Giovanni Lucini
La condizione esistenziale di Andreas è propria anche dell’attore, che nella sua arte procede nel tentativo di rappresentazione della realtà per ripetizioni, pur sapendo che sempre resiste qualcosa che sfugge all’elaborazione, alla rappresentazione. Ma dalla ripetizione può nascere anche qualcosa di creativo, di fertile, di generoso. Come accade ad Andreas: che sbaglia e continua a sbagliare, ma – direbbe Beckett – “sempre meglio”.
“Occorre avere fiducia” – dice e testimonia la piccola Santa Teresa di Lisieux, che attendendo Andreas e non vedendolo arrivare va lei stessa a visitarlo in sogno – perché “ é la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore”.
Una fiducia che non significa lamentarsi del nostro essere imperfetti, desiderando risolvere la nostra condizione nella sua interezza. Né significa accontentarsi di poco. Significa piuttosto non mancare all’incontro con l’altro: non mancare al miracolo a cui l’altro ci apre. E “ci legge”. Come un libro.
Claudia Grassi – Carlo Cecchi – Andrée Ruth Shammah – Giovanni Lucini
E’ feroce e piace; ti fa stringere lo stomaco e si ride.
Eleonora Danco fotografa la realtà senza filtri: con crudele purezza.
Nudo anche l’insinuarsi della segretezza dell’inconscio che, manifestandosi in un’esalazione di verde, parla una lingua di immediata efficacia illogica.
E’ un’umanità animale quella che va in scena. Vive di rituali: da quelli tipici del combattimento animale muso a muso, corpo a corpo, a quelli più civili della convivialità dei compleanni, fino a quelli più subdoli propri della manipolazione.
Federico Majorana (Pietro) – Lorenzo Ciambrelli (Luca)
Civiltà che però non ce la fa a mantenere una sua forma. E – in un continuo fallimento relazionale – solo si riesce a pretendere trascurando le esigenze dell’altro e ad accusare fino alla minaccia di morte. Sempre. Senza tregua.
La Danco sa quanto può essere profonda la superficie e così la fotografa per lavorare sull’intimità. La sua scrittura non spiega, non fa morale, né psicologia: ti arriva dritta allo stomaco. La prima trama è intessuta dal ritmo fulminante sul quale si intreccia la scrittura, vertiginosamente materica.
E’ la storia di una famiglia e dell’ imprinting alla sola relazione di sottomissione. I tre figli vivono e crescono senza nessuno che trasmetta loro la gioia di vivere (imprinting materno) e senza nessuno che testimoni loro l’equilibrio tra il senso del limite e il desiderio vitale (imprinting paterno).
Una famiglia che non è il luogo della preparazione alla vita: non è il luogo dove coltivare e condividere l’amore, per moltiplicarlo. Non è il luogo del rispetto reciproco, che salvaguarda le differenze di ognuno. Non è il luogo della sana autorità, che educa a vivere secondo principi interiorizzati, necessari per far scaturire vibranti desideri.
Federico Majorana (Pietro), Beatrice Bartoli (Paola), Eleonora Danco (Franco, il padre) , Orietta Notari (Maria, la madre), Lorenzo Ciambrelli (Luca)
E’ una famiglia che si riunisce a tavola con un appetito di morte: una funesta convivialità dove c’è chi mangia per una vorace avidità di possesso e chi non mangia per sottrarsi all’invasione dell’Altro.
Maria, la mamma, in occasione del suo compleanno rivela il desiderio di voler essere “moglie” e non “madre” e – piuttosto che godere nel vedere la sua famiglia riunita – preferirebbe andare a letto prima possibile. Franco, il marito, che la ignora così come fa con i figli, è un “sepolto vivo pieno di vita”. Paola, la figlia più piccola, preferisce tenersi prossemicamente distante dal tavolo da pranzo, tanto l’inespressa rabbia verso la famiglia la blocca a vivere. Pietro è spaventatissimo dalla vita e non riesce a realizzare nulla di soddisfacente. Luca rileva l’attività del padre per risollevarla dai debiti ma anche lui è senza un vero desiderio da realizzare che lo guidi.
Eleonora Danco (Franco, il padre) , Beatrice Bartoni (Paola, la figlia)
Vestito di ombre, in secondo piano, si intravede in scena un altro tavolo: é abitato da un telefono rosso. Che non squilla mai: tutti i collegamenti verso “un’altra realtà” restano bloccati.
Nel secondo atto – “Semifreddo” – la Danco ci presenta la stessa famiglia 20 anni dopo. Nel mentre, si è passati dall’uso della lira a quello dell’euro. Nessun miglioramento nelle dinamiche relazionali attribuibile a questo cambio di moneta. Nessun valore aggiunto. Anzi il degrado sociale ed emotivo dei componenti della famiglia è decisamente peggiorato.
Alla precedente centralità del tavolo da pranzo del primo atto (“Bocconi amari”), si sostituisce ora la poltrona-trono del padre. Il tavolo da pranzo resta ma viene disertato dalla famiglia, ora convocata dal padre, per il suo compleanno, intorno alla sua poltrona-trono. Dalla quale “divide et impera”, come un “Re Lear del terzo piano”. La madre è morta e ogni vaga forma di convivialità e di ritualità si svuota totalmente di senso.
Eleonora Danco (Franco, il padre), Lorenzo Ciambrelli (Luca, un figlio)
E laddove venti anni prima la madre aveva preparato un “disperato” pranzo luculliano per il suo compleanno, ora il padre ottantacinquenne festeggia “il suo esserci ancora” offrendo un “ostinato” semifreddo. Un dolce che per sua natura non raggiunge la consistenza e lo stato di congelamento che caratterizza il gelato. Tanto da divenire l’epiteto con il quale, con tono scherzoso e irriverente, nel gergo giovanile (soprattutto negli anni ’60) si alludeva alle persone anziane: quelle che non ce la fanno a passare l’inverno.
La Danco mette in campo in questo secondo atto una regia più visionaria, più surreale e insieme più intima, che si origina proprio da quel tavolo sempre lì, in secondo piano. Abitato ora non più da un “muto” telefono rosso ma dall’inconscio rito dionisiaco dei tre fratelli. Nel corso dei venti anni qualcosa è cambiato: le barriere comunicative con “l’altra realtà” del subconscio si sono abbassate.
Nella realtà, invece, Paola rinuncia alla posizione eretta e si riduce a strisciare a terra muovendosi stesa sopra un carrellino. Rinuncia anche ai suoi abiti, per indossare l’habitus di un verme, aderendo e sfregando la sua pelle a quella del tavolato del carrellino.
Eleonora Danco (Franco, il padre), Beatrice Bartoni ( Paola, il verme), Federico Majorana (Pietro, un figlio)
Pietro è sempre più dipendente da tutto, pur di resistere al peso della vita. Luca si ammazza di attività fisica per espiare le sue colpe. Il padre-“Re Lear del terzo piano” per farsi rispettare deve ricorrere all’espediente di offrire in cambio soldi a ricompensa. Come i suoi figli ora concede più spazio alla sua vita subcosciente. E lo sguardo registico di Eleonora Danco ce la rende con ancestrale efficacia.
Uno spettacolo volutamente sconcertante, dove è affidata alla concertazione registica il dono di costruire una identità a ciascun personaggio, accordandola all’ensemble.
Gli interpreti – Eleonora Danco (Franco, il padre); Orietta Notari (Maria, la madre); Beatrice Bartoni (Paola, la figlia); Lorenzo Ciambrelli (Luca, un figlio); Federico Majorana (Pietro, l’altro figlio) – portano in scena una recitazione sapientemente fisica, ricca in tecnica e con una musicalità fisico-verbale dal sapore hard-rock . Una recitazione che attraversando la carne sa arrivare spudoratamente al cuore dello spettatore.
Chi meglio del dio dell’acqua sa sciogliere i pesi e i grumi che opprimono e intasano la fluidità della nostra esistenza?
Anche lui li ha vissuti sulla propria pelle; anche lui si è perso naufragando dentro la tempesta della vita.
Anche lui è acqua: l’elemento fluido da cui tutto può originarsi e in cui tutto può tornare a prendere forma. Generosamente, senza trattenere nulla. Ma lasciando che sempre nuove forme prendano vita, all’interno di un ciclo in continua trasformazione. Il dio dell’acqua infatti si dà per movimenti.
Daniela Giovanetti
Protagonista di questo testo di grande bellezza lirica, scritto dal drammaturgo Gianni Guardigli, è una creatura che in nome del diritto alla libertà propria e altrui si scopre a far del male. Un istinto alla sopravvivenza e una libertà di scelta che passano attraverso forme di “violenza”.
Sono pesi che non se ne vanno, sono grumi che non si fluidificano, perché non ci sono parole giuste per spiegare e per capire. Forte è la tentazione a voler morire, dopo aver visto quello che la creatura ha visto di se stessa. Ma qualcosa inaspettatamente muterà, nel momento in cui continuerà a stare nel ciclo della vita, fino alla fine.
Daniela Giovanetti
Una fine tempestosa che non è “la” fine, ma ancora l’inizio di nuove trasformazioni. Un inizio che arriva come una piacevole e rigenerante brezza: un nuovo, eppur lo stesso, respiro vitale. Un nuovo sogno, sul pelo dell’acqua. E una voglia matta di sprofondare: di tuffarsi per scendere più giù. Fino a perdersi. Senza avere paura di essersi persi. Tanto che, in questa nuova condizione, riesce a farsi strada un’insospettata contentezza: quella che ti fa sentire come un dio, il dio dell’acqua, che nulla vuole trattenere perché disponibile a tutto trasformare.
Amedeo Monda – Daniela Giovanetti
Ad interpretare questo vibrante monologo – diretto da Alessandro Di Murro e prodotto dal Gruppo della Creta – è una voce così candidamente piena di colori, da ammaliare. Lei, sirena e naufraga, ci parla come immersa in un canto pieno di meraviglia, che è insieme lamento e preghiera. Ma soprattutto è vita: quella che prende forma quando ci si guarda e ci si ascolta. E si naufraga. Insieme. Come avviene a Teatro.
Daniela Giovanetti
Lei è Daniela Giovanetti: la creatura metafisica il cui corpo della voce si estende in una morfologia ancestralmente ibrida. Dove bene e male si scoprono non solo a convivere, ma ad essere legati in un paradossale rapporto di causa-effetto.
Il suo parlare crea la suggestione come di un’eco: un’opera scultorea eppure impalpabile, di cui si rende fertile complice l’ombrosa drammaturgia della chitarra elettrica di Amedeo Monda. Ed è emozione.
E’ l’epifania del palesarsi di un riflesso dalla bellezza indistinta e cangiante, insito già nella stessa parola “eco”. Che infatti al singolare è di genere femminile e al plurale diviene di genere maschile.
Daniela Giovanetti
La lingua della ninfa Giovanetti assapora tutto l’espandersi del significante e del significato. Per frammenti. Una dilatazione che inaspettatamente si dà nel chiudersi in continui confini, fecondi di micro pause, che ne sottolineano l’incanto generativo.
Uno spettacolo di favolosa bellezza estetica, complice la drammaturgia del disegno luci di Matteo Ziglio e la cura dei costumi di Giulia Barcaroli. Ma soprattutto uno spettacolo che propone un approccio conoscitivo, dal fascino potentemente rigenerativo, sulle mille meraviglie che si celano nel nostro stare al mondo: come ospiti di un ciclo che ci vuole insieme navigatori e naufraghi. Divinamente felici perché fruibili – in quanto temporanei fruitori – da sempre nuove meraviglie: come quelle disciolte nella magia del ciclo di trasformazione dell’acqua.
Perdersi nel suo risucchio – e quindi allontanarsi dalle strade segnate dai principi della logica, per esplorare territori sconosciuti della nostra mente e della nostra anima – è davvero sminuente per la nostra realizzazione come persone?
La regia dal graffio rock di Valter Malosti e l’attento lavoro di traduzione e d’adattamento – curato dallo stesso Malosti unitamente alla scrittrice, anglista e traduttrice Nadia Fusini – dona brillantezza a quel concetto di amore, inteso come possessione del divino Eros, che così diversamente si declina tra Oriente e Occidente.
Dario Guidi (Eros), Anna Della Rosa (Cleopatra), Valter Malosti (Antonio)
Il demone che possiede Cesare, in cosa differisce da quello posseduto da Antonio? Si tratta solo di una maggiore quantità di fortuna associata al demone di Cesare, o forse è in gioco un diverso concetto di “sacro”, che muta da Roma ad Alessandria D’Egitto?
A Roma, “sacra” è una gestione ordinata del proprio demone; in Egitto è il disordine a restituirne la valenza. Incluse le cadute che non fanno soccombere ma che trascinano con se la fine, per dare vita ad un nuovo inizio.
Massimo Verdastro (Indovino), Valter Malosti (Antonio)
Antonio sperimenta entrambe le declinazioni del “sacro” e scopre che ciò che per lui davvero conta – ciò che lo fa sentire realizzato e vivo come persona – non è tanto diventare il padrone del mondo, quanto piuttosto dedicare tempo ed energie nell’avventurarsi a percorrere territori, che si trovano oltre i confini che delimitano la razionalità logica. Da qui “la diagnosi”, da parte degli occidentali, di una sua “demenza amorosa”.
Lo sguardo registico, ricco in sperimentazione, di Malosti fa emergere queste due diverse modalità di stare al mondo, enfatizzandone le differenti intensità vitali. Ci riesce lavorando sui “costumi” intesi come “habiti”, cioè come modi di essere. Un lavoro che passa attraverso una particolare attenzione a rendere “incisive” la postura (ricca in plasticità), la prossemica (che molto esplora le zone di confine, così come la vertigine delle diagonali) e il fascino della vocalità, così musicale seppur vitalmente irregolare.
Una vocalità assai rispettosa della tonica liricità shakespeariana, enfatizzata e restituita, qui, dal “colore” del surplus energetico, proprio di ciascun personaggio. La Cleopatra di Anna Della Rosa e l’Antonio di Valter Malosti possono contare infatti sulla meravigliosamente difforme sinergia vocale del Cesare Ottaviano di Dario Battaglia, dalla vocalità tagliente e feroce; sulla carnalità metafisica dell’Indovino Massimo Verdastro; sulla esuberante prestanza del Messaggero di Cleopatra Paolo Giangrasso; sulla morbidezza melodiosa dell’Agrippa di Ivan Graziano; sull’affascinante spudoratezza dell’Incanto di Noemi Grasso; sulla divina fluidità dell’Eros di Dario Guidi; sul piglio astuto del Messaggero di Roma Flavio Pieralice; sulla feroce prestanza del Soldato di Antonio Gabriele Rametta e sull’altera e soffice risolutezza dell’Ottavia di Carla Vukmirovic.
Anna Della Rosa (Cleopatra), Valter Malosti (Antonio)
Ne scaturisce una visione del mondo – che nelle immagini e nei sensi attinge all’immenso e al prodigioso – immersa in “habitat musicali” (composti da GUP Alcaro), capaci di evocare suggestivi e continuamente mutevoli paesaggi emotivi. Metafisicamente edificati intorno ad una scenografia solidamente feconda di pieni e di vuoti, eretta sopra un piano inclinato. La cura delle scene – costruite nel Laboratorio di ERT / Teatro Nazionale – è di Margherita Palli.
Questa fluidità degli spazi riflette un montaggio di piani temporali, dove tensioni belliche si concertano a propulsioni creative, teatro esistenziale proprio di quei periodi di passaggio che ciclicamente abitano la nostra Storia.
Anna Della Rosa (Cleopatra), Noemi Grasso (Incanto)
Arriva così in dono allo spettatore, tutto il sapore di quella fertile e generosa abbondanza, propria di “un umano” le cui acque sanno tracimare una densità aperta all’indistinto: a quell’ignoto informe che ci atterrisce non meno di quanto ci affascini. Tanto esso si rivela ricco di diversità, finanche opposte, eppure coesistenti.
Gabriele Rametta (Soldato di Antonio)
E’ l’elogio di quel disorientamento creativo – che va in scena fin dall’apertura del sipario – definito come “demenza amorosa” da un morigerato soldato romano, che con subdola complicità sente il bisogno di avvisarci preventivamente, per manipolare il nostro sguardo, su quella che a Roma è definita la degenerazione che affligge Antonio, uno dei tre pilastri del mondo.
In verità, quello a cui assistiamo è un rituale di sacra giocosità, che sa accogliere e interscambiare la succulenza del femminile e la virilità del maschile; lo scintillio delle luci e la tenebrosità delle ombre; la vita e la morte; la giovinezza e la vecchiaia; l’inizio e la fine.
Fertile ricettività restituita stupefacentemente dall’interpretazione della Regina d’Egitto di Anna Della Rosa, che scivola con profonda leggerezza osmotica dalla ieraticità del profilo statuario di una dea, alla carnalità di femmina affamata di vita e di morte, fino all’allure tutto occidentale di una Marlene Dietrich. Complice la cura dei costumi di Carlo Poggioli, realizzati da Maria Vittoria Pelizzoni, Adriana Cottone per ERT /Teatro Nazionale e da Tirelli Costumi.
Tutto in lei parla di questa predisposizione umana all’apertura, al non censurare nessun luogo del suo condominio psichico. Tutta aperta com’è verso una totale esplorazione avventurosa della vita, che si nutre per poi metabolizzare creativamente l’altra tensione tutta umana: quella alla chiusura e alla protezione securitaria.
Ma ciò che incanta sopra ogni cosa nella Cleopatra di Anna Della Rosa, è l’articolazione del suo parlare, così profonda e larga; tridimensionale eppure elegante. Desiderosa di suggere tutto il gusto da ciascuna parola, alla scoperta di nuovi confini. Laddove ogni fine contiene un nuovo inizio. Come in un amplesso amoroso.
Ivan Graziano (Agrippa), Valter Malosti (Antonio), Dario Battaglia (Cesare Ottaviano)
Dell’Antonio di Valter Malosti brilla la bellezza decadentemente libera del suo perdersi, per cercare e trovare sempre nuovi cieli e nuove terre. Resa da una vocalità dilatata e insieme incalzante. Affascina fino al disorientamento, poi, la sua proposta di virilità così fertilmente femminile, enfatizzata dal confronto con la virilità mascolinamente impermeabile dei triunviri romani.
Paolo Giangrasso (Messaggero di Cleopatra), Anna Della Rosa (Cleopatra), Noemi Grasso (Incanto)
E poi quel suo sguardo così ricco d’accoglienza, ospitato in una postura solida eppur flessibile. Una morbidezza maschile impensabile a Roma, in occidente, dove si ostenta la morigeratezza che passa tra l’ammonire e l’adempiere. Se ne hanno tracce solo nel suo luogotenente: l’Enobarbo dalla sensibilità musicale di Danilo Nigrelli.
Danilo Nigrelli (Enobarbo)
Il Malosti regista, come Shakespeare, ci invita a guardare con curiosità, più che con pregiudizio, alla meravigliosa complessità da cui tutti siamo abitati. Appassionandoci ad una forma di conoscenza di noi stessi, e quindi dell’altro, che doni valore al nostro viaggio sulla Terra. Conoscenza che, sola, può realizzarci come persone, rendendoci unici e “incomparabili”.
Proprio come sono arrivati a definirsi Antonio e Cleopatra: consapevoli di poter fare della diversità, del difetto e del buio della mancanza, il desiderio di ricerca di un nuovo cielo. Rintracciabile negli occhi dell’altro.
Nelle profondità misteriose del blu é immersa la storia d’amore di Liat ed Hilmi: lei traduttrice ebrea, lui artista palestinese. Una storia d’amore che accade nel secondo autunno newyorkese successivo all’ 11 settembre.
Aprono lo spettacolo le note ventose del flauto traverso, le cui qualità timbriche e dinamiche introducono lo spettatore nel teatro delle emozioni di questa giovane coppia d’innamorati, conosciutasi per caso all’Aquarius bar, luogo d’incontro multietnico dalle profondità, in verità, poco esplorabili.
I Radicanto – Francesca Merloni (Liat) – Pavel Zelinsskij (Hilmi)
Alla musica dei Radicanto – nota band molto apprezzata anche per la vocazione a tenere uniti passato e presente in un cangiante insieme musicale – la regista dello spettacolo Nicoletta Robello affida il fluttuare di quel vento d’emozioni, che solo può arrivare a presentare al Tempo l’accorata preghiera di questa coppia. Affinché si mantenga clemente, affinché possa restare quieto nell’istante in cui il loro amore li porterà lontani dai confini delle proprie origini.
Suggella questo rito musicale metateatrale, il vortice di emozioni espresso dalle note dal timbro caldo e avvolgente del sax. Un’estensione dei moti dell’anima che arriva dagli anfratti più reconditi per essere restituita con un’eleganza fiera, malinconica, avvolgente. Un suono quello del sax, onesto e, in quanto tale, meravigliosamente imperfetto. Come la voce umana. Come la vita umana.
Francesca Merloni è Liat – Pavel Zelinsckiy é Hilmi
Questo spettacolo parla della bellezza di un incontro.
Un incontro che alimenta una concatenazione di altri incontri, un po’ come un allegro miscuglio di note musicali: “un’orchestra di suoni, come se il mondo stesse tutto sopra un’unica corda, traboccante di vita, di voci, luci e colori”. Un concertarsi così bello da sentire di poter riuscire quasi a “volare”.
“C’era qualcuno alla porta…”.
Inizia a manifestarsi così il teatro dell’inatteso e dell’inspiegabile, proprio dell’incandescenza di certi incontri . Ed è la Liat di Francesca Merloni a rievocare, con una grazia ricca in meraviglia, l’impossibile che diventa possibile: cifra di quegli incontri capaci di cambiare indelebilmente il normale corso della quotidianità.
Un incontro che succede in Autunno: la stagione dove ciò che vive in superficie muore per nutrire ciò che avviene in profondità. Anche l’Autunno è un incontro che non lascia indifferenti: è il necessario passaggio attraverso il buio.
Francesca Meloni (Liat) – Pavel Zelinskiy (Hilmi)
Tra Liat e Hilmi si sprigiona fin da subito un potente magnetismo: tanto lei è morbidamente sensuale – e la Merloni rende assai efficacemente questa femminilità con il darsi accogliente del corpo della sua voce – quanto lui è irresistibilmente stimolante ed impaziente. L’Hilmi di Pavel Zelinskiy brilla in fresco entusiasmo e in tormentato desiderio d’avventura.
Entrambi sono avvolti dal bianco della seconda pelle degli abiti che vestono, non solo i loro corpi ma anche le loro anime. Un colore pieno di tutti i colori delle emozioni il bianco, che arriva a contaminare anche gli oggetti di scena. Un colore che custodisce un che di sfuggente e di beffardo: un’inquietudine.
Non è facile ottenerlo come pigmento perché non è facile coglierlo con i nostri occhi: tende a virare sempre verso il nero. Non è facile gestirlo come spazio: la pagina bianca o la tela bianca sono spesso paralizzanti. E ci parlano del nostro rapporto insidioso non solo con la luce ma anche con la libertà: l’aneliamo ma ne subiamo anche la troppa apertura, gli infiniti inizi, le molteplici scelte, l’accecante purezza.
“Tutti i fiumi vanno verso il mare/e il mare non é pieno/Perché tutti i fiumi tornano ai fiumi “ (Avoth Yeshurun)
Ma nonostante questa inquietudine vitale, Liat e Hilmi non possono rinunciare a cercarsi, ad avvolgersi e a mescolare i colori delle loro differenze assieme ai loro tratti comuni. Un po’ come fa Hilmi con i suoi colori: in un viaggio attraverso le varie sfumature del blu e del verde, per riuscire a entrare nel mistero del mare, fino ad abitarne la sua infinita mutevolezza.
La regista Nicoletta Robello
E’ il pathos della prossemica degli attori unito sinergicamente sia ai colori della vocalità di Maria Giaquinto dei Radicanto che alle parole scritte da Pier Paolo Pasolini per la shakespeariana “Cosa sono le nuvole”, a restituirci la bellezza di queste scelte esistenziali, in cangiante equilibrio tra il coraggio e la necessità del nostro stare al mondo.
Il derubato che sorride Ruba qualcosa al ladro Ma il derubato che piange Ruba qualcosa a se stesso Perciò io vi dico Finché sorriderò Tu non sarai perduta
Scoprendo così, Liat ed Hilmi, di arrivare ad amarsi sino alla “compassione”: in una comunione autentica non solo di sofferenza, ma anche -e soprattutto- di gioia vitale, e di entusiasmo.
Là: in una spiaggia “senza bagnino” e “senza argine”.
Solo mare.
Uno spettacolo di grande bellezza poetica, che fluttua sul terreno dialettico che intreccia il tema dell’incontro a quello del distanziamento. Terreno vitale da cui germogliano le parole amore, confine, coraggio, identità, dialogo, libertà. Parole che, più di altre, cercano di dare un senso al nostro stare al mondo.
Guardare, essere guardati: sono esperienze che viviamo continuamente, più volte al giorno, tutti i giorni. Tanto da essere diventati quasi degli automatismi.
Ma poi arriva questo percorso scenico di Liv Ferracchiati: qualcosa di innocuo e di sconvolgente.
E ti ritrovi in un incantesimo.
Qualcuno guarda un oggetto desiderabile. Anche noi del pubblico. E’ bello, sì; invitante, anche. Gustoso. Ma niente di sconvolgente. Se però la seduzione sposta il suo mezzo dall’occhio all’orecchio, e quindi sul suono della parola dell’oggetto desiderabile, sul ritmo e sui sottotesti con i quali questo nome può essere evocato, qualcosa cambia. Ma ciò che davvero è solleticante, e quasi urticante, è il suo suono onomatopeico. La vibrazione ruvida e delicata di un fruscio: “frrrr”. Come qualcosa di scabrosamente bello. Ma quel qualcuno che guarda, dice di poterne rimanere immune.
Poi la situazione muta: quel qualcuno guarda noi, ci inquadra con una macchina fotografica. Ci esplora con il suo sguardo. Dice che vorrebbe navigare tra di noi come fossimo canali. E poi incontra qualcosa di desiderabile. “Tu, sì tu, tu sei di una bionditudine assoluta” – pensa guardandolo. Ci rivela però che, conoscendosi, sa che può dominare anche questo desiderio. Ma l’altro, il biondo, si alza dalla platea per raggiungerlo. Ed entra in dialogo con il suo sguardo. Ora, non c’è dominio: solo silenzio, meraviglia e sgomento. Come di fronte a qualcosa di inesplorato.
“Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo” (Thomas Mann, La morte a Venezia)
Venezia: la bellezza della sua acquaticità. Quella che si lascia guardare, che si volta, che si fa onda (è la danza di Alice Raffaelli). Una sinuosità inafferrabile. Ma penetrante. Come oggetto desiderabile, come Tadeus. E’ di un colore indefinibile il desiderio che evoca, è espressione di particolari. Scuote chi la guarda.
Non bisognerebbe guardarla: sgomenta di bellezza. Ma Gustav si scopre a non riuscirci: “oscilla”. Si lascia dondolare da un soffio: un movimento proprio del dio e non dell’uomo. Gustav oscilla perché mosso dal vento del divino.
Tadeus sembra parlargli. Ma Gustav si rammarica di non “decifrare” le sue parole. Non è necessario, non serve capirsi con le parole. Basta incontrarsi sull’orlo dell’elemento acquatico. Qui, sull’orlo, fa un caldo opprimente, afoso. Forse è la seduzione dell’inarticolato. Dell’informe. Dell’inesplorato. Dell’aperto. Dell’indecente. Del suono delle onde che lambiscono il lido.
Gustav si sente posseduto dall’urgenza di “scrivere” in sua presenza: al cospetto di Eros. Ora “sente”. Lì, sull’orlo. Ma è scabroso. Cerca certezze nel suo sguardo, nella scrittura. E’ dilaniante. Gustav scopre che il mondo è indicibile. Perché lui è incontentabile.
L’incontro e il mancato incontro con inesplorato inizia a produrre segni sul corpo di Gustav. Qualcosa inizia a deformarsi, ad invecchiare.
E poi è così stanco.
“Se tu potessi truccarmi per rendermi meno goffo e più bello ! – chiede Gustav a Tadeus – ora so che conosco male i miei desideri”.
“Ora so cosa significa essere nudo”.
Qui accade qualcosa: a questo punto del percorso scenico, a questo punto del dialogo fra sguardi, quando Gustav inizia a parlare con quel suo sentire nudo, con quel suo volto nudo – che si fa insieme supplica, grido, preghiera – si può fare esperienza di stare con lui sull’orlo del mondo.
E può prendere forma una lacrima, incapace di trattenere oltre, tanta lacerante bellezza.
Una scrittura incalzante e seducente: piena di meraviglia. Capace di indagare e restituire l’oscillante turbamento del punto d’incontro tra il ruvido e il delicato: lo scabroso.
Una regia piena di specchi, labirintica. Eppure ferocemente limpida.