ELEONORA DUSE di Andrea Chiodi – con Manuela Kustermann – regia Francesco Tavassi


6 DONNE CHE HANNO SEGNATO LA STORIA – 6 AUTORI CHE LE RACCONTANO

Progetto

di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann

TEATRO VASCELLO

10 Maggio 2025

E’ avvolta elegantemente in un morbido mantello che la cinge in un seducente abbraccio. E che lascia cadere all’indietro. Emerge dal buio con la complicità di una luce, divinamente crepuscolare. E’ la Eleonora Duse di un’incantevole Manuela Kustermann. 

Accanto alla poltroncina che l’accoglie con agio, il tempo in musica delle melodie al pianoforte di un’altra donna, Cinzia Merlin, accompagnano il suo ricordare. E la sospingono a condividerlo con noi, in platea, a cui vien voglia di sederci a terra, accanto a lei, per farci ancora più prossimi.

La rievocazione del suo daimon, ovvero la rievocazione della ricerca della sua felicità attraverso l’ascolto del proprio demone guida, è affidata alla penna capace di stupore di Andrea Chiodi, che ne sa cogliere anche l’intima femminilità dei dettagli.

Andrea Chiodi

La Kustermann indossa della piccola bigiotteria, proprio come amava la Duse: non serve altro per sottolineare il suo incarnato autenticamente vivo. Dall’avvincente panneggio del mantello, s’intravede un abito di leggero chiffon nero. Gli abiti erano la passione della Duse.

Fortuny, un designer e artista spagnolo, creò abiti e accessori per lei, declinando in essi la sua passione per la moda e per l’arte. La Duse apprezzava lo stile unico e la qualità dei lavori di Fortuny, sartoria celebre per un approccio innovativo verso la moda, ricco in forme fluide e dinamiche. Abiti al di là della moda convenzionale del tempo, questi, che sapevano parlare dell’ habitus della Duse: del suo autentico modo di stare al mondo e sul palco.

Eleonora Duse

Incontri femminili hanno dato forma alla sua vita.

Quello con la sua mamma: che fin da subito seppe sostenerla nell’entrare in relazione con l’affascinante mistero dell’arte teatrale. “E’ per ridere che ti fa male!” – le sussurrava quando a quattro anni salì per la prima volta sul palco ad interpretare la Cosetta de “I Miserabili” di Victor Hugo. E per aiutarla a piangere la sollecitavano con dei pizzichi.

Eleonora Duse e la sua mamma

Poi, alla morte della mamma in giovane età, fu l’incontro con Giacinta Pezzana a rendere più consapevolmente erotica la passione per l’arte teatrale. 

Giacinta Pezzana

La lunga carriera sulle scene della Pezzana – che inizia con l’unità d’Italia e si conclude con la Prima guerra mondiale – è spesso ricordata proprio per i rapporti artistico-pedagogici che stabilì con la giovane Duse e per l’interpretazione di Teresa Raquin di Zola. Sua la vocazione creatrice a tutto tondo e quell’anticonformismo che rese più difficile la sua carriera.

Eleonora Duse e Matilde Serao in vacanza a St. Moritz nel 1895. Fondazione Giorgio Cini

Altro incontro formativo fu quello con Matilde Serao. La loro amicizia, testimoniata da una fittissima corrispondenza, era autentica e piena di affetto. Fù, il loro, “un incontro spirituale, umano, oltre che letterario”. 

Sarah Bernhardt – Eleonora Duse

E poi ci fu il primo incontro con “l’artista prediletta dagli dei”: Sarah Bernhardt. Conosciuta in un periodo di crisi, tale da spingere Giuditta Pezzana a lasciare la compagnia, la Bernhardt rappresentò per la Duse una testimonianza così vibrante, da incoraggiarla ad osare nel non assecondare il pubblico, quanto piuttosto “meravigliarlo”.

E così fu meraviglia quando la videro recitare John Joice e il suo giovane figlio James, tanto da sentire l’esigenza di dedicarle una poesia. Tanto da ispirarsi a lei, proprio alla sua interpretazione de La Gioconda di D’Annunzio, per il personaggio di Molly Bloom ne l’ Ulisse.

La Duse ne fu onoratissima ma non si sorprese: “ogni forma d’arte alimenta sempre altre forme d’arte” – era solita sostenere.

Ma l’incontro più bruciante fu quello, a 14 anni, con la Giulietta del “Romeo e Giulietta” di Shakespeare. In questa sua interpretazione sentì di farsi “fiore di rosa” e come rosa si donò a Romeo, fino a ricoprire con i suoi petali il corpo di lui immobile. 

Sentire poi Romeo parlare di lei come “ella insegna alle torce ad ardere” fu folgorante per la Duse: le aprì la consapevolezza della sua vocazione per il teatro. Che in seguito definirà “non un’altra vita, ma vita”. Un prodigio che fa sì che lei sia tutte le donne che interpreta, e loro lei. 

Perché – diceva – “l’arte ci ricorda chi siamo veramente: attore è chi riannoda le fila dell’alfabeto”.

Manuela Kustermann

Una rievocazione meravigliosa, quella che ieri sera è andata in scena dal palco del Teatro Vascello. Manuela Kustermann ha dipinto con i colori della sua voce la poesia di un ritratto di Eleonora Duse, disegnato da Andrea Chiodi, davvero ammaliante.

Si conclude questo pomeriggio, il Progetto di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann  per la regia di Francesco Tavassi “6 donne che hanno segnato la storia – 6 autori che le raccontano”, trovando coronamento con il racconto di Maurizio De Giovanni su Billie Holiday.

Cinzia Merlin (al pianoforte) – Manuela Kustermann



Recensione di Sonia Remoli

RITORNO A CASA – regia Massimo Popolizio

TEATRO ARGENTINA

dal 7 al 25 Maggio 2025

Cos’é una famiglia?

La prima forma di “comunità” che sperimentiamo.

Il primo imprinting per imparare ad entrare in relazione con gli altri: cercando sempre nuovi equilibri tra il mio e il tuo, tra il tutto e il niente. 

Tra “il difendere e l’attaccare”, in cui, ad esempio, si smarrisce Joey.  

Tra “l’essere e il non essere”, su cui si interroga Lenny.

Perché tra l’essere e il non essere c’è ciò di cui parla Ruth, ovvero c’è “ció che accompagna i movimenti”: il desiderare qualcosa che ancora non c’é, che ancora non si possiede e che quindi ci tiene accesi a cercare e ricercare continuamente. E’ l’eros vitale intimamente connesso all’applicazione della Legge delle leggi.

Eros vitale che è proprio di un padre insegnare al figlio, applicando e testimoniando la vitalità seduttiva della legge secondo la quale nessuno può pretendere di godere totalmente, pensando di essere tutto, fino ad avere tutto. Che poi in concreto si traduce nel saper applicare, da parte di un padre, l’arte di apporre “tagli”, ovvero limiti: confini al godimento totalizzante di un figlio. Non a caso il testo e lo spettacolo si aprono con lo smarrimento di un particolare oggetto: le forbici.

Christian La Rosa (Lenny) – Massimo Popolizio (Max) – Alberto Onofrietti (Joey)

Nella famiglia di cui ci parla Harold Pinter in questo testo del 1965 (non poi così diversa dalla famiglia di oggi) e che la regia di Popolizio, con sagacia, stempera dal clima di feroce drammaticità, rendendone più digeribile il messaggio, manca l’idea base che la vita “vive” di tagli: di continui distacchi, di continui svezzamenti. Che aiutano i figli ad orientarsi verso l’arte del desiderare e quindi verso una progressiva interiorizzazione critica della Legge. La quale donerà loro la possibilità di costruirsi un’identità unica, personale, riconoscibile e riconosciuta. Un’identitá non da branco.

Quasi ogni personaggio della famiglia – paradossalmente soprattutto il padre Max – sente il bisogno di auto-elogiarsi (e di sminuire l’altro, quando anche lui lo fa) per “rendersi visibile”, per essere riconosciuto nel proprio valore. Perché non essendo applicata in famiglia la Legge che regge ogni comunità – quella del “non è possibile desiderare tutto ed essere tutto” – in casa tutto si può.  E il risultato è che tutto si mescola, perdendosi in un indifferenziato senza autentiche identità.  E senza autentica soddisfazione.

Massimo Popolizio é Max

Situazione molto pericolosa non solo da un punto di vista esistenziale, familiare e di coppia ma anche politico: non avendo coscienza della propria vulnerabilità – ovvero della mancanza di una personale coscienza critica sul reale – si diviene preda di chi invece una sua identità l’ha formata e approfitta di chi è disposto a perderla, in cambio della promessa di un’ illusione di sicurezza. 

A casa di Max si vive approssimativamente, in un sistema dove i pensieri sono orfani oltre che di un atteggiamento critico, anche degli stessi principi della logica: quello di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. 

Un sistema dove, di conseguenza, si sta perdendo il valore identitario dei nomi propri, a favore di espressioni generiche quali: “si chiamavano tutti MacGregor tra di loro in famiglia”; “uno dei tanti duchi”, “siccome un oggetto vale l’altro”; “certa gente”; “gli altri”; “certe proposte”.

Eros Pascale (Teddy) – Massimo Popolizio (Max) – Gaja Masciale (Ruth)

Un sistema dove manca un’educazione sentimentale: le richieste si fanno con prepotenza e laddove “il comando imperativo” risulti inascoltato, si passa a “chiedere” e poi a “supplicare”, fino ad arrivare ad umiliarsi in “un’infantile sottomissione inconsapevole” (atteggiamento che poi si rischia di replicare “in automatico” anche nel sociale extra-familiare).

Un impoverimento del nutrimento emotivo che si riflette anche sul nutrimento alimentare: i cibi perdono il loro sapore specifico, divenendo più simili a “pastoni per cani”. Anche con le donne  – la più complessa delle relazioni emotive – non si fa differenza: sono una sorta di “mercato delle carni”, tutte “da festeggiare”, condividendole con gli altri componenti della famiglia (come affetti dallo stesso “virus”) alla stregua di un sigaro o di un pasto . Ma la soddisfazione non è mai abbastanza nel totale godimento: tanto che Lenny pretende di essere reso partecipe a posteriori dei pensieri che hanno accompagnato la sua origine.

Paolo Musio (Sam) – Massimo Popolizio (Max)

La regia di Massimo Popolizio aiuta lo spettatore a prendere confidenza con questo caos esistenziale, “seminandolo” sulla scena, al di qua del sipario, giá al momento di prendere posto in sala.

E poi, all’apertura del sipario, la scena  – curata da Maurizio Baló – diviene eloquentissima: una visualizzazione meravigliosa di uno stanzone, indistinto come un pastone. Dove il frigo e le sedie della cucina hanno invaso il soggiorno; i calzini da basket sono evasi sul corrimano della scala e dove la testa imbalsamata di una mucca fissa provocatoriamente il ritratto della regina, affissa sulla parete di fronte.

Il concetto di “casa” ci parla di un microcosmo di importanza capitale, che poggia sia sul valore di appartenenza che su quello di identitá: una casa riflette plasticamente le dinamiche più intime della famiglia che la abita, modificandosi anch’essa insieme ai cambiamenti d’identità che ivi intervengono.

Qui, dopo la morte di Jessie, la casa viene modificata. E si sceglie di eliminare il muro con porta che separava la zona ingresso dalla zona soggiorno, per sostituirlo con un arco quadrato (che con acutezza Popolizio regista sceglie addirittura di “puntellare”) tale da permettere un totale godimento del soggiorno.

Eros Pascale (teddy) – Alberto Onofrietti (Joey) – Gaja Masciale (Ruth) – Massimo Popolizio (Max) – Christian La Rosa (Lenny)

L’ingresso – che la famiglia ha scelto di eliminare – assolve alla  duplice funzione di accogliere le persone all’interno della casa  e di aiutare a mantenere l’ordine e la funzionalità degli altri ambienti.

Perché l’ingresso è “una zona di confine” che si prende cura di filtrare, e quindi di selezionare, chi far procedere nell’intimità della casa. Metaforicamente é il luogo mentale dell’attesa e della valutazione critica, che porta a sospendere momentaneamente il giudizio su idee che richiedono un piú accurato vaglio critico.

Si potrebbe dire allora che senza ingresso la porta di casa, così come una bocca acefala, crede di “godere” introducendo tutto, in qualsiasi quantità. Ma in realtá la casa/mente si sta rendendo vulnerabile a eventuali pericoli esterni.

Ed é (anche) cosí che un “padre” finisce col perdere il suo valore di figura di riferimento – rispettato per la sua capacitá di apporre limiti, confini, tagli ad un eccessivo desiderio di onnipotenza dei figli – divenendo “un coglione” da ignorare. E i figli, degli individui anagraficamente adulti ma evolutivamente bloccati allo stadio infantile.

Massimo Popolizio (Max) – Christian La Rosa (Lenny)

Meravigliosamente efficace risulta, a questo proposito, il lavoro sui costumi di scena, la cui cura è stata affidata a Gianluca Sbicca e ad Antonio Marras.

Il Max di Massimo Popolizio sublima il suo indesiderato potere di “invisibilità” sui figli e sul fratello Sam, energizzando una mise dai toni senili con una giacca sportiva giallo acido, di un taglio e di un brand decisamente giovanili. Il cui simbolismo cromatico allude ad una sovversiva acidità, consapevolmente scandalistica: come a dire “sono solo anagraficamente vecchio! Non potete non vederlo”. 

L’outfit trova completamento con un occhiale dalle lenti cromaticamente coordinate e con un cappello street style. Ma il vero carisma cult è regalato da un paio di sneakers che sfidano il tempo:  le Converse All Star, ovvero le scarpe più iconiche della storia della moda, rimaste ancora in voga dopo più di 100 anni.

A vestire poi il suo incedere leggermente claudicante, un bastone stilosamente carismatico, dall’allure di scettro.

Il Lenny di Christian La Rosa è selvaticamente fantastico – di giorno – con cresta verde e una seconda pelle da infido rettile dinoccolatissimo. Molto bella la sua plasticità scomposta. Di notte invece è un’altra creatura: più “scricchiolante”.

Il Sam di Paolo Musio e’ inseparabile dalla sua divisa nera da taxista, così necessaria per identificarlo professionalmente, così da celarvi dietro il suo desiderare più autentico: essere condotto, piuttosto che condurre. Di giocosa eleganza, l’interessante coreografia delle sue posture. 

Il Joey di Alberto Onofrietti è un tenerissimo “macho”, efficacissimo nella sua camicetta a quadrettini lisergicamente scolastica, infilata dentro jeans attillatissimi. Anfibi neri bilanciano la sua fragilità, irresistibilmente disarmante.

Il Teddy di Eros Pascale, per sua essenza un orsacchiotto e come tale anche un oggetto transazionale (per Ruth) si veste da professore di filosofia, sovrapponendo alla storica eleganza della giacca pied de poule un cappotto da trincea. Per proteggersi dalla pioggia e dal vento (della vita).

E poi c’è lei: la Ruth di Gaja Masciale, che Sbicca e Marras velano e svelano nella sua dualitá di candida Biancaneve bon ton, dall’anima sorprendente noir. Di stupefacente bellezza il suo riuscire a fare di un “puntello” il punto di appoggio per sollevare (pericolosamente) il mondo.

Eros Pascale (Teddy) – Gaja Masciale (Ruth)

L’ importante lavoro sui costumi – amplificato da un affascinante lavoro sulla vocalità e sulla plasticitá dei corpi – veicola nello spettatore la sensazione di come la regia di Popolizio punti a visualizzare l’essenza di uno dei valori più sentiti dal Pinter uomo politico: la dignità.

Un valore che per sua natura si dà come assioma: come una verità evidente ed implicita, che prescinde da dimostrazioni. Perché il valore della dignità è uno status ontologico: lo meritiamo per l’intima realtà di essere “umani”. E quindi non dipende da nessuna scelta, da nessuna qualità.

Lo sguardo di Popolizio sui personaggi non ha infatti nessuna valenza moralistica. Piuttosto, la sua, è un’attenzione sociale e politica.

Di sagace raffinatezza è la scelta registica di affrontare alcuni temi del nostro stare al mondo – così familiari e insieme così enigmatici – con una postura vitale capace di avvicinarsi al reale, attraverso un umore liquido, divertente, simpatico. Che aiuta paradossalmente lo spettatore a sintonizzarsi empaticamente verso ciò che, negli altri, sembra “contrario alla presunta norma” .

Eros Pascale (Teddy) – Massimo Popolizio (Max)

E allora quello di Teddy è un “ritorno a casa” che si dà come un movimento verso un luogo da cui ci si é momentaneamente allontanati, ma che si dà “come mondo chiuso”:  da cui non si va via davvero. Ciò che a Teddy sta a cuore verificare rientrando in casa è infatti rassicurarsi di essere ancora incluso in quel microcosmo. E così, eccitatissimo, riscopre che la sua chiave è sempre accolta da quella serratura e la sua stanza con il suo letto sono lì, sempre vuoti ad aspettare solo lui.

Sì, le forbici sono andate smarrite.

E, forse, il vero ritorno é quello introdotto da Ruth: il ritorno alla seduzione erotica del non tutto.

“Bisogna prendere in considerazione anche questa possibilità”.

Uno spettacolo affascinante: tremendo e tollerabile. Di una vitalità, capace di far ribollire mente e corpo.

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Recensione di Sonia Remoli

CAMILLE CLAUDEL – di Dacia Maraini – con Mariangela D’Abbraccio – regia Francesco Tavassi


6 DONNE CHE HANNO SEGNATO LA STORIA – 6 AUTORI CHE LE RACCONTANO

Progetto

di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann

TEATRO VASCELLO

6 Maggio 2025

Sono gocce.

Sono gocce di un demone femminile che sa di costanza e determinazione: quella che scava la roccia. 

Sono gocce che hanno inciso, segnato e modificato la nostra Storia, attraversando battaglie sociali, discriminazioni, sofferenze. 

Con la grazia tempestosa di un incantesimo, ieri sera ha debuttato il Progetto “6 donne che hanno segnato la storia – 6 autori che le raccontano”.

Il progetto di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann, curato dalla regia raffinatamente simbolica di Francesco Tavassi, si articolerà in 6 giorni dove ogni replica sarà dedicata ad una grande figura femminile. Raccontata, attraverso diversi registri narrativi, da 6 autori e restituita in forma di reading pensato per due voci: quelle di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann, protagoniste del nostro teatro, interpreti fra le più attente e sensibili della scena italiana.

Camille Claudel e la sua creazione “L’ abandon” (1888)

Ieri sera dal palco delle Teatro Vascello è andata in scena un’epifania  di Camille Claudel  (1864-1943): la più grande scultrice di tutti tempi, il cui prorompente talento  – proprio perché femminile – fu messo a tacere in primis dalla famiglia, con la complicità della società del tempo. Una donna che, nonostante tutto, proprio attraverso la scultura riuscì ad intagliare un materno mortificante ed una società solidamente miope.

Un folle nettare abita Camille: un fiore di donna il cui nome evoca una pianta medicinale simbolo di forza e di resistenza, proprio grazie alle sue proprietà lenitive.

Dacia Maraini

Una linfa vitale, la sua, che sa farsi malia di parole nella penna delle meraviglie di Dacia Maraini: è lei che cura la drammaturgia dello spettacolo dedicato a Camille, restituendo al suo stare al mondo uno charme profetico. Parole, quelle tessute dalla Maraini, che trasmutano nella sublime matericità della voce di Mariangela D’abbraccio, così disponibile a lasciarsi sfaccettare dalla vitalità erotica di Camille.

Ed è contagio.

Un contagio tale da scolpire una nuova forma di partecipazione nello spettatore. Che si raccoglie, solerte, intorno al vento di presenze fantasmatiche che fanno visita alla mente di Camille: quelle che popolano i lunghi anni del crudele internamento, che la condurrà alla morte. Abbandonata da tutti.

A sinistra, Camille Claudel nell’atelier che occupava al numero 117 di rue Notre-Dame-des-Champs nel 1887, mentre lavora al gesso di Sakuntala; sullo sfondo, Jessie Lipscomb, sua amica e collega di lavoro (fotografia di William Elborne, fidanzato di Lipscomb) . A destra, il gesso originale dell’opera, in quegli stessi anni donato e ancora conservato al Museo Bertrand di Châteauroux.

E’ un vento, infatti, che riporta in superficie soprattutto traumi: “non sei una ragazza seria … per castigo perderai le braccia”- le ripete sua madre. Vento, che sa cambiare anche direzione contrappuntandosi, ad esempio, al fragrante piacere – totalmente appagante – dell’attesa della cottura della creta.

Ma poi torna ancora a soffiare quel vento: “cosa se ne fa una donna della sciagurata scultura?”.

“Come può una donna dal corpo così liscio – fatto per amare – sentire un’attrazione così irresistibile per la libertà?”.

Ma lei, Camille, pur così spaurita, è anche prepotentemente decisa.

E continua a gocciolare.

Fino alla fine.

Auguste Rodin

Auguste Rodin (1840-1917), suo maestro e amore inscalfibile della sua vita nonostante tutto – nonostante non sia riuscito ad onorare la loro più viva creazione – sosteneva che Camille fosse innanzitutto uno stupefacente mix olfattivo: essenze che sia la scrittura della Maraini che l’interpretazione della D’Abbraccio rendono pervasivamente. “Le ho mostrato l’oro, ma l’oro che trova è tutto suo”- scrisse di lei, a (parziale) dimostrazione di quanto Camille fosse un autentico talento, un’esplosione di originalità.

Mariangela D’Abbraccio

Sinesteticamente sono gli occhi della D’Abbraccio a veicolare tutta la fragranza di questo oro: sono lampi olfattivi. Perché solo “gli occhi innamorati sanno fermare la luce!”.

E che brio commosso la sua restituzione, con quelle mani capaci di scolpire nell’aria tensioni. 

E poi quell’intimo tremito, che sa farsi autentico riso nervoso, per epilogare in ossessive e quasi impercettibili contrazioni. 

Camille Claudel davanti alla sua statua del Perseo (1898 ca)

Una restituzione davvero ricca in meraviglia, quella che ieri sera si è incisa nei sensi dello spettatore, tornando a puntare l’attenzione sulla bellezza del genio di Camille Claudel. Un genio la cui umanità continuò a brillare anche una volta privata della libertà, del cibo e dei più elementari conforti.

Una donna, la cui testimonianza, va portata sempre con noi.

Mariangela D’Abbraccio


Il progetto prosegue questa sera con il racconto di Sandra Petrignani su Marie Curie, interpretato da Manuela Kustermann.



Recensione di Sonia Remoli

LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG -scritto e diretto da Massimo Odierna

TEATRO LO SPAZIO

dal 29 Aprile al 4 Maggio 2025

Bianco è il pavimento di nuvole sul quale veniamo gettati alla vita.

Bianco perché risultante di tutti i colori; bianco perché  mescolanza di bene e male.

Non c’è niente di dolcemente ovattato: i colpi arrivano in purezza.

Ma questo bianco pavimento di nuvole resta comunque un eden: un eden di appuntamenti,  e quindi di incontri, che modellano la forma della nostra vita e stimolano il nostro desiderare.

Massimo Odierna

In questo testo ferocemente poetico di Massimo Odierna, che ne cura sinfonicamente anche la regia, si racconta con visionaria ruvidezza di quanto sia complesso –  ma irrinunciabile  –  entrare in relazione con gli altri.

Soprattutto quando l’altro è così “diverso”, così intraducibile; soprattutto quando ci limitiamo a decodificare il suo “fare” anziché  provare a sintonizzarci sul suo ”sentire”.

Un eden terreno, quello di cui ci parla Odierna, alla ricerca di  un quid di  “sacro”: quel sacro che significa tensione verso  la consapevolezza che proprio quella fragilità – che è cifra della nostra umanità –  se condivisa, ci fa  splendere di possibilità vitali .

Federica Quartana, Enoch Marrella, Irene Ciani, Francesco Petruzzelli, Sofia Taglioni, Giovanni Serratone

Tutto sta nel disintossicarsi dall’ossessione a pretendere di vivere, con se stessi e con l’altro,  in  sempre maggiore sicurezza: sempre più confortevolmente protetti nella “bam-bagia”. Sempre più dipendenti da “organizzazioni settimanali”. E riscoprire, invece, la potente magia della parola, del raccontare e del raccontarsi. Dell’immaginare e quindi del prendersi cura dell’altro, ascoltandolo con attenzione.

Siamo affamati di relazioni – di amicizia, d’amore – perché di relazioni ci nutriamo. Ed è per questo che la vita ci chiede di  aprirci alla possibilità di “aggiungere un posto a tavola”. Continuamente.

Massimo Odierna in questo suo testo impreziosisce quella che potrebbe essere definita una black comedy con accattivanti sentori esistenziali propri dell’enigma della tradizione classica. Dove “l’altro” che si è allontanato e che ci si impegna avventurosamente a ricercare, non è solo quello esterno a noi. 

Ed è così che si arriva a scoprire che la vera ricerca che si è affrontata cercando la figlia di Kioto Zhang è quella verso il conoscere se stessi. Per imparare la virtù dell’accoglienza del “diverso”.

Efficacissima l’organizzazione dello spazio teatrale che vuole la scena immersa nel pubblico – e da esso circonda su tutti i lati – creando un’esperienza ancor più intima e coinvolgente. Seducente la scelta di abitare lo spazio attraverso una prossemica decisamente intrigante. Suggestiva la cura dei costumi di scena, che ben riesce a visualizzare il gioco sinergico degli opposti.

Gli attori in scena  –  Irene Ciani, Enoch Marrella, Francesco Petruzzelli, Federica Quartana, Giovanni Serratone, Sofia Taglioni  – brillano in concertazione. E così la loro meravigliosa coralità non manca di  lasciare spazio all’emergere dei fulgenti colori interpretativi di ciascun artista.


Recensione di Sonia Remoli

LA SPARANOIA – regia Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri –

TEATRO BASILICA

dal 23 al 27 Aprile 2025

In uno spazio ontologicamente violento, deprivato e depravato, in cui il tempo è scandito dall’orario della messa in onda dei telegiornali la cui narrazione enfatizza episodi di cronaca domestica e sociale all’insegna della violenza repressiva, va in scena “La sparanoia”: una sparatoria sulla nostra inclinazione esistenziale a privarci della responsabilità di essere liberi. Paranoicamente indotti, da chi di ciò è consapevole, a diffidare degli altri così da restare innocue monadi isolate in casa, anziché una comunità che si ritrova in piazza – o a teatro – per difendere i propri diritti.

“La sparanoia” è uno spettacolo ustionante come uno scroscio di lapilli, rovesciati sul pubblico da due narratori terribilmente capaci a tramutare l’acqua in fuoco.

“La sparanoia” è un inveire aggressivo osmoticamente grottesco.

“La sparanoia” è un consuntivo e un’autoanalisi feroci, di e su gli attuali trentenni, eredi “sociali” di figure di riferimento repressivamente iper protettive.

Niccolò Fettarappa – Lorenzo Guerrieri

ph. Antonio Ficai

Uno spettacolo che fin dall’inizio prende d’assalto lo spettatore facendo emergere un’angoscia che, in un crescendo incalzante, arriva a riaccendere il sapore di un trauma. E lo senti anche in gola: come il nodo di quella cravatta che i due interpreti indossano e che sembra diventare sempre più opprimente. Quasi un cappio.

Si può uscire dallo spettacolo con il sorriso ma anche con un forte peso di compassione, di preoccupazione, di timore: quello conseguente all’aver visto riflesso come in uno specchio, con crudo realismo, cosa siamo disposti a diventare in nome di uno pseudo quieto vivere, fatto di “cancelli” che bandiscono ogni spazio d’aggregazione.  

Accettando di “fare la rivoluzione nel proprio piccolo e con tutto il bene del mondo”.

Lorenzo Guerrieri – Niccolò Fettarappa

ph. Laura Farneti

Attraverso la narrazione che si origina dall’esplosiva sinergia tra Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri e che si avvale del contributo intellettuale di Christian Raimo, si avventa sullo spettatore una tempestosa pioggia di invettive. Potenzialmente assai fertile, perché non scatenata da un capriccio fine a se stesso, quanto piuttosto da un voler “farsi mezzo” per riaprire un possibile varco erotico. E così riuscire a ricontattare quel fuoco del desiderare, capace di “agitare” quell’atarassico stagnare infantile da cui tendono ad essere attanagliati i nuovi trentenni. Tempo in cui sono immersi gli stessi interpreti in scena.

E’ la loro, infatti, una narrazione il cui narrar-si implica un ritorno su se stessi, che fa guardare il sé anche come altro da sé. E comune ad altri.

Questo loro saper disporre di un libero uso del potere della parola, diviene “un dono”, capace di regalare allo spettatore la possibilità di fare luce su mistificazioni, che si tendono a produrre a discapito del soggetto e del cittadino.

La parola infatti può produrre incantesimi, che non hanno niente a che vedere con la magia del colpo di bacchetta o con lo strofinio della lampada. La parola dispone di un potere che la rende un rito magico capace di generare quell’impossibile che passa attraverso l’intonazione della voce, attraverso la scelta dei verbi, attraverso il ritmo del respiro su cui si regge il suono. L’incantesimo della parola è cioè consapevolezza del potere dell’asserzione: quell’affermazione, in sé non dimostrata, con cui si può tessere però una posizione, un’argomentazione, un’identità.

Questo lavoro di Fettarappa e Guerrieri risulta disturbante proprio perché, rivelandoci cosa si cela dietro certi usi della parola, taglia quell’illusione di protezione che alcuni discorsi, ai quali abbiamo offerto il nostro orecchio, pretendono di veicolare. E ci fa sanguinare d’angoscia. Ma ci dobbiamo stare dentro.  Perché solo consapevoli del potere perverso di certe asserzioni, possiamo muoverci fuori da esse: oltre l’asfissia di quei rassicuranti perimetri. Verso un primo avanzare. Fuori.

Co-protagonisti in scena, insieme ai due interpreti, alcuni oggetti che simbolicamente vanno oltre il loro valore di attrezzeria: in primis uno stendino da bucato, oggetto domestico e addomesticante, dove si può credere di aprirsi ai venti della vita restando sempre in casa, ben bloccati ai suoi fili. Al massimo, sventolando da fermi. Un oggetto costruito su una “X” che si richiude su se stessa: cifra caratterizzante la genitorialità e le figure sociali di riferimento degli attuali trentenni.

E poi quel “metro quadrato di casa” simboleggiato da un tappettino che rende benissimo l’idea di come questi giovani restino ancora posturalmente “appesi “ e ”sospesi” alla vita, anche quando sembrano staccarsi dall’appendino per gestire un vivere autonomo in una nuova casa. In realtà un monolocale più simile ad un cestello fermo di una lavatrice dove, credendo di essere al sicuro in un ammollo di delicatezza, scoprono invece di annegare nella depressione. Privati come sono dell’imprinting all’avventura perché “allevati” senza quei necessari “tagli”, propri dei continui svezzamenti vitali.

E poi quell’ anticamera che c’è ma non si trova: simbolo di quel luogo dell’animo dove “saper attendere” può significare non annichilirsi ma riscoprire la possibilità di incendiarsi di desiderio d’azione. Insieme.

Perché è l’unione che fa la forza. E’ la comunità che può rendere liberi e non il singolo individuo che, chiuso nella sua solitudine crede di doverla affrontare individualmente nella segretezza di uno studio psicoterapeutico. Perché il disagio non è di un singolo, come si preferisce far credere, ma di un grande gruppo. E la vera leva è scendere in piazza, in uno slancio politico collettivo.

Perché la piazza – come il teatro – è un luogo di trasformazione, che può opporsi al nichilismo subdolamente insufflato nelle orecchie da chi ci rassicura che andrà tutto bene se si rimarrà isolati narcisisticamente nelle proprie case.

E così lo scroscio di invettive roventi di Fettarappa e Guerrieri può diventare, proprio passando attraverso il trauma dell’angoscia,  “slancio” esistenziale e politico. Finanche dimensione morale, capace di accendere di furore.

Alla ricerca ognuno – al di là di un anonimo e innocuo habitus grigio divisa – del proprio “fattore X”: quel qualcosa di unico, così eccitante da scoprire e da riscoprire continuamente, che riesce a farci “brillare”.

Disposti, allora, a non accettare più di “fare la rivoluzione nel proprio piccolo e con tutto il bene del mondo”.

Ma “fuori” e “insieme”.

Lorenzo Guerrieri – Niccolò Fettarappa


Recensione di Sonia Remoli

MARIO E MARIA – Il turista del sentimento – di Natalia Vallebona e Faustino Blanchut – regia Natalia Vallebona

TEATRO BASILICA

dal 15 al 17 Aprile 2025

Cosa si nasconde sotto il tappeto persiano di un elegante interno borghese?

Cosa celano i garbati punti-luce disseminati in questo habitat così raffinatamente arredato e così ricco in decoro?

Sarà l’entrata in scena della drammaturgia fisica dei corpi dei quattro interpreti – gli stupefacenti Poetic Punkers : Faustino Blanchut, Julia Färber Data, Marianna Moccia, Florian Vuille – a rendere visibile l’invisibile. Incidendo negli occhi e nell’animo dello spettatore i sottotesti di questo habitat così insospettabile.

Saranno i loro corpi a svelare tutti quei disequilibri, portati in superficie da incontri imprevisti che – nonostante tutto il decoro di cui vogliamo ammantarci – riescono a farsi strada e a sovvertire i nostri piani, così gradevoli. 

Sono corpi nudi, anche quando ricoperti da abiti: urlano chi siamo e cosa desideriamo davvero. O cosa invece siamo disposti a “non essere”, in cambio di una pseudo normalità, omologatamente riconosciuta.

Sono corpi che a qualche livello istintivo “scelgono” di rischiare, di esporsi. E di fidarsi: del corpo.

O meglio: della “mente del corpo”.

La loro è una fragorosa perfezione: libera di essere anche imperfetta. E proprio per questa “scelta”, i loro corpi risultano di accecante bellezza plastica. E musicale. Perché corpi colmi di accoglienza. 

Una drammaturgia fisica, la loro, in osmosi con il loro “volere” più istintivo: sono corpi che danno forma a pensieri, a immagini. Autentici: non manipolati, né manipolabili. 

Corpi, dunque, “politici”.

Corpi che hanno voce e sanno prendere la parola, lasciandosi spostare da sempre nuove intuizioni. Corpi come “volontà creativa”.

Corpi  liberi, che denunciano quotidiane ritualità: senza pieghe, ben stirate. Linde, vuote. 

Corpi liberi, che denunciano iper-protezioni materne 

– Ma ‘e sorde p’ è camel/Chi te li dà/La borsetta di mammà – 

dalle quali, se non ci si emancipa, si rischia di restarne inchiodati.

Corpi-voce che invitano all’arte di saper fare un buon uso degli occhi: intuendo quando tenerli ben aperti, quando spingere lo sguardo avanti – come in un “campo lungo” – e quando invece è preferibile chiuderli: per riuscire più potentemente a immaginare e a lasciarsi andare:

Comme te po’ capi’ chi te vo’ ben/
Si tu le parle miezo americano/
Quanno se fa l’ammore sott’ ‘a luna/
Comme te vene ‘ncapa ‘e di’ I love you

Fino a ricontattare quel giorno in cui la nostra vita sarebbe potuta cambiare. Per un amore, ad esempio. Quando lo si vede per la prima volta e per la prima volta “ci si vede”. 

Quando succede a Mario, lui attiva il manuale per i rituali di corteggiamento. E funziona. Ma poi, autenticamente coinvolto, si perde: perde il controllo del manuale. E se ne va.

E’ lutto. Ed è di conturbante bellezza la contorta elaborazione “plastica” del lutto che Mario riesce a fare, metaforicamente, con le altre parti di se stesso. I Poetic Punkers sono sconvolgenti. Faustino ha qualcosa di “divino”.

La Maria di Mario, invece,  è una donna generosa, dal grande fascino, che riesce a scardinare le convenzioni con coraggio, che si fida della mente istintiva del suo corpo. E si lascia cadere in amore, con fiducia. E anche dopo la fine dell’amore, riesce a non rimpiangere nulla delle scelte fatte. Perché riuscire ad amare, vale più dell’essere ricambiata.

La drammaturgia del testo, ricca in meravigliosa suspense, racconta la storia di un Mario, crocefisso dalle scelte dettate dal suo desiderio di sicurezza. Nel quale viene dolorosamente facile ritrovarsi. Un Mario convinto di essere libero dando (e dandosi) ordini, all’insegna di una “neutra” atarassia.

Un testo ed una performance profondamente erotici: potenti come un “romanzo di formazione”, affascinanti come un’educazione sentimentale, vibranti come una testimonianza di consapevolezza politica ed esistenziale. 

L’estetica di Natalia Vallebona stimola  infatti la fiducia in un corpo forte – perché flessibile- che conosce il potere del suo “peso” e il rapporto con la forza di gravità. Un corpo che contiene un’anima fragile, perché predisposta a sfuggire l’errore – in verità indispensabile per poter vivere creativamente con gusto – in nome di un confortevole senso di sicurezza.

Natalia Vallebona

Un’estetica che parla, metaforicamente, di etica: perché il nostro “stato” psico fisico è anche uno “stato” politico. Perché “essere prossimi” gli uni agli altri è qualcosa che ci costituisce come “umani” ma a cui per natura siamo repellenti, ancor più dopo l’esperienza pandemica.

Un invito allora questo di Natalia Vallebona e del collettivo dei Poetic Punkers verso un riscoprire uno stare al mondo insieme, come “turisti del sentimento”: viaggiando nella vita quasi fosse un “Grand Tour”. In continuo movimento, in continua ricerca di noi stessi. Immergendosi totalmente in una bellezza, che incivilisce perché spinge ad avvicinarci con generoso stupore verso l’altro: per capirsi, per perdonarsi, per evolversi. 

Perché “il turista” scorre lieve sulla terra; è fluido nell’organizzazione.

Coglie la vita che gli serve per la vita: quella realtà che pulsa di energia e di vitalità magnetica.


Poetic Punkers è un progetto di ricerca e creazione artistica nato a Bruxelles nel 2013.
Vive tra l’Italia e Parigi dove è sostenuto dall’associazione “Les choses qui font Boom”.
Il progetto è guidato da Natalia Vallebona, coreografa e regista.
Natalia è un’artista indipendente che per dieci anni ha seguito in Europa delle linee di ricerca fra la danza il teatro e la performance come Thierry Verger, Gabriella Maiorino, Les Ballet c de la B, Balletto Civile, collaborazioni che l’hanno portata a costruire una cifra artistica potente e personale, che parte da un uso virtuoso del corpo, che attinge alla “componente intuitiva” che c’è in ognuno di noi.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione OLTRE QUELLO CHE C’È – drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso

TEATRO PALLADIUM

12 Aprile 2025

Come si può incendiare il mondo dei giovani con quel desiderio che va “oltre quello che c’è” ?

Incontrare giovani senza desiderio e completamente ignari della loro bellezza era inaccettabile per Filippo Neri (Firenze 1515 – Roma 1595). Giovanissimo sceglie di trasferirsi a Roma, proprio perché corrotta e pericolosa, e dedicare la propria missione evangelica ai ragazzi di strada. Per il suo carattere arguto, viene chiamato “il santo della gioia” o “il giullare di Dio”. Colto, creativo, amava accompagnare i propri discorsi al buon umore, perché l’allegria potenzia le energie spirituali e quelle psichiche.

Consapevole della nostra inclinazione a desiderare sempre “oltre quello che c’è” – visto che niente di creato, di fisico, appaga davvero il desiderio di ogni essere umano – Filippo era solito girare per le strade di Roma, incalzando i giovani con una domanda: “e poi?”.  

Ed è per questa sua vocazione ad illuminare la bellezza tempestosa della gioventù, che a lui è stata intitolata l’Associazione – presieduta da Don Gabriele Vecchione – di cui sabato 12 Aprile u.s. si è celebrata l’inaugurazione al Teatro Palladium di Roma: la “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”.  Per l’occasione è andata in scena una splendida performance di teatro-musica-danza, la cui drammaturgia e regia sono state affidate alla cura di Francesco d’Alfonso.

Come accadde a Filippo Neri, anche in Don Gabriele Vecchione – presidente dell’Associazione nonché coordinatore dell’Ufficio per la pastorale universitaria della diocesi di Roma – divampa la vocazione a non lasciare indietro i ragazzi che hanno smarrito, o mai conosciuto, l’unicità della loro bellezza. Perché “essere giovani significa soprattutto essere fragili: inclini ad andare in pezzi a causa dei continui confronti con gli altri”.  Confronti che, non includendo il diritto di sbagliare, possono portare i giovani anche a privarsi della propria vita. 

Ma si può sopravvivere a questa tempesta – ci confida Don Gabriele Vecchione, che con le sue vibranti parole ha aperto l’evento della serata. Incontrando un imprevisto. Ad esempio, incontrando qualcuno che ama e che crede nell’altro. Perché – continua – “nessuno diventa grande senza qualcuno che desidera la sua grandezza”.

E questo si propone di fare l’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”: essere un imprevisto per chi resta indietro. Disponibile al rischio e al fallimento, perché ciò che davvero conta è non essere mediocri nel donarsi. “Questa è la Chiesa che sogno” – è stata la reazione di S.Em. Card. Baldassarre Reina, che ha presenziato all’evento, una volta a conoscenza del progetto.

© photogennari

E quale miglior forma di imprevisto può rendersi congeniale a celebrare l’inizio di quest’ardente realtà se non quella propria della forma artistica, capace com’è di rappresentare l’irrapresentabile di uno svelamento, spingendosi “oltre quello che c’è” ?

Dario Callà (pianoforte) – Mattia Geracitano (violoncello)

© photogennari

E’ così allora che il sipario si è aperto sul “canto” del violoncello di Mattia Geracitano, incalzato dall’insistenza delle note al pianoforte di Dario Callà, quasi un turbamento a voler frenare quel “canto” che sta cercando la sua espressione. Un “canto del desiderio” che nel suo esplorare una forma può incontrare trattenimenti. Come luminosamente visualizzato dall’incanto danzato di Rebecca Bianchi  – Étoile del Teatro dell’Opera di Roma – assieme ad Alessandro Rende. Ma che poi, grazie anche al sostegno dell’altro, riesce ad aprirsi, a fiorire. Sino a  librarsi nell’aria.

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

© photogennari

Nel dialogo tra musica e danza si inserisce, in un magnifico gioco di specchi, il commento di un coro, composto da quattro attori dalla potente intensità interpretativa: Roberta Azzarone, Irene Ciani, Matteo Santinelli, Marco Tè.

A loro è affidata l’appassionata e appassionante drammaturgia di Francesco d’Alfonso, liberamente ispirata agli scritti del filosofo Byung-Chul Han e a quelli del poeta T. S. Eliot. Una drammaturgia potenziata da uno sguardo registico, ancora curato da Francesco d’Alfonso, dall’elegante raffinatezza, anche iconografica, di tableaux vivants.

Roberta Azzarone, Matteo Santinelli, Irene Ciani, Marco Tè – Rebecca Bianchi e Alessandro Rende

© photogennari

Ecco allora che, come dando voce – il coro – alle tensioni tra i diversi paesaggi del nostro animo, lo spettatore si ritrova rapito in un’esplorazione sull’inaspettata bellezza che si cela nel dolore e nella sofferenza. Ingredienti indispensabili per far divampare quell’eroticità del desiderio vitale, la cui saggezza risiede nell’umiltà del mettersi in ascolto: di se stesso e dell’altro da noi. 

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

© photogennari

E nel saper attendere: con speranza e fiducia nella morbida bellezza dell’imprevisto. Che è qualcosa di ben diverso dall’essere ottimisti che, proprio come l’essere pessimisti, implica la durezza della testardaggine. La speranza no: lei è paradossale. E assomiglia ad un movimento di ricerca che ci rende “pronti ad accogliere ciò che ancora non è nato ma che è pronto a venire al mondo”. Significa accendere una fiamma e tenerla viva: “oltre quello che c’è”. 

© photogennari

Una serata speciale, quella che ha celebrato – in fertile connubio con l’Arte – “il canto del desiderio” di una Comunità che, nata da un sogno, ha iniziato a concretizzarsi in realtà.

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

© photogennari

Testimonianza del potere creativo di un fulgido imprevisto, che ha contagiato di desiderio non solo gli oltre 180 ragazzi “under 25” presenti in sala ma tutto il pubblico che – essendosi stretto generosamente intorno a questa comunità – ha avuto l’opportunità di assistere ad un meraviglioso evento.

Dario Callà, Mattia Geracitano, Roberta Lazzarone, Francesco d’Alfonso, Matteo Santinelli, Irene Ciani, Marco Tè, Rebecca Bianchi, Alessandro Rende

© photogennari


Recensione di Sonia Remoli

Recensione UNO PIU’ UNO PIU’ – di Nanda Anibaldi – Poesie

In copertina: Arnoldo Anibaldi, Nudo +++, sanguigna su carta

Quella di Nanda Anibaldi è una poesia nuda, malinconicamente impudica, che sa scrivere con gli occhi di incendi.

Una poesia pervasa da tonalità di cobalto: pura e determinata, capace di evocare una misteriosa ed opulenta nostalgia romantica. Sincera, riservata, elegante, l’Anibaldi – come il cobalto nella scala cromatica dei blu – non sgomita per avere attenzione. Le piacciono  le cose “a modo suo”: persistenti e nostalgiche. Quotidianamente immense.

Ritratto di una donna anziana con capelli ricci e grigi, che sorride felicemente mentre alza una mano in segno di saluto.

Nanda Anibaldi

E’, la sua, una poesia immacolata e cruda, che maledice la cautela: che ha il sapore di quella meraviglia capace di “cambiarti la faccia”.

Nanda Anibaldi – poetessa nata e residente a Monte Urano, amabile cittadina dall’anima medioevale distesa sulle verdi colline marchigiane – è un’artista che può contare sulla solerte complicità creativa di un gineceo familiare. Un crogiolo di femminilità che attraversa trasversalmente le diverse età della vita.

Mavi Viola Massai Anibaldi e suo nonno Arnoldo Anibaldi

La sua pronipote Mavi Viola Massai Anibaldi e’ infatti co-autrice – assieme al nonno Arnoldo Anibaldi noto sculture e pittore – delle illustrazioni che impreziosiscono il volume, dando vita all’incanto del potere cromatico delle parole. La supervisione della raccolta è il risultato, invece, dell’acuto sguardo della nipote Barbara, mentre il lavoro di raccolta è frutto del certosino indagare della cognata Lidia.

La pronipote Viola, Nanda Anibaldi, la cognata Lidia

Questo flusso di poesie scaturisce da un fermento sotterraneo che poi riemerge come un “nostos”, nel quale l’Anibaldi continua a cercare e a cercarsi. Per essere ri-letta, ri-nominata, ri-trovata.

La spinta che anima la corrente di questo flusso é racchiusa nella poesia-proemio intitolata “Troni di gemme” che allude, quale pietra filosofale, alla consapevolezza di come le gemme sulle quali è costruito il nostro trono (il nostro stare al mondo) siano silenziosi “minuti addizionati uno più uno più …”. Perché “è il minuto che fa il giorno/così diverso l’uno dall’altro e così uguale” (pag. 148) .

Nanda Anibaldi

Ma soprattutto è vita “poter vivere sulla bocca di chi pronuncerà il tuo nome”: è vita se qualcuno ti riconoscerà, cioè, per il segno creato e lasciato dalla tua impronta vitale. “Foss’anche di sera”: foss’anche tardi. Ma “senza” non vale: senza, si è poveri: derubati del sorriso. “Voglio esserci anche quando non ci sarò” – desidera l’Anibaldi, consapevole che – “ci sarò anche quel giorno che pare estate e sarà dicembre” (pag. 21).

Da qui, l’urgenza di raccogliere queste sue liriche in prima persona, per esporle – stendendole come panni al vento –  agli occhi di chi se ne vorrà riempire i sensi e l’animo.

Ora.

Teatro Studio Franco Enriquez di Sirolo, ” La poesia del teatro il teatro della poesia”, 21 Agosto 2024

Elisa Ravanesi, Paolo Larici, Nanda Anibaldi

Ad amplificare la valenza semantico-estetica delle 150 poesie raccolte dall’Annibaldi, si associa la scelta plastica di formattarne alcune in sculture metafisiche, che ne visualizzino le intime tensioni. Ed è di sorprendente bellezza scoprire quali parole sono state scelte dalla poetessa per dinamizzare le diverse energie che animano le sue sculture poetiche. Ne sono splendidi esempi alcune liriche: Troni di gemme, L’ape, Fiore di cactus, Se – per citarne alcune.

Ma la poesia dell’Anibaldi sa anche librarsi in effluvi aromatici dalla punteggiatura olfattiva, che odorano della persistenza del ricordo emanato dal rosmarino; della freschezza dalle noti piccanti dello zenzero; del sacro potere protettivo della salvia; dell’eros che si sprigiona dal mirto.

Perché l’amore é quel qualcosa che non si puó dire, che é ambiguo anche quando sembra ovvio; che va assaporato e rintracciato mentre si dicono altre parole. Oppure va dedotto dal gioco della prossemica: “… ma quanto amore c’era/in quelle mie parole/anche quando prendevo la distanza/per esserti vicina…”

Nanda Anibaldi

E poi c’é l’amore per il padre: “So di essere tua figlia/quando accetto le sfide/e se pago il mio debito/con la tua logica di ogni giorno…Tu stai nella casa del muro che resiste” (pag.22). Lui, colui che sceglieva per lei adolescente le riviste sulla rivoluzione russa “un trasferimento azzeccato peró/se ancora oggi mi commuovo/nel sentire alla riscossa” (pag.82). E l’amore per la madre: lei, quella a cui si racconta “Con l’alfabeto greco arrivavi fino a delta/ma eri lì a proteggere il mio futuro./Io ti raccontavo/ti raccontavo (pag.35).

Nanda Anibaldi al Cesma, Centro Studi Marche di Roma, ha presentato la sua opera al Pio Sodalizio dei Piceni della capitale, alla presenza del senatore Francesco Verducci e della direttrice Pina Gentili. Insieme a lei due lettori d’eccezione, l’attrice Elisa Ravanesi e il doppiatore Paolo Ripani. 

Un ventaglio di emozioni che sanno ondeggiare – quelle raccontate dalla Anibaldi – “come i nasturzi insieme alla forsizia” (pag.44) in “una collana di giorni e di notti/d’imbrunire e di sere” (pag.47) densa della consapevolezza che “a guardarsi vale mille anni di vita” (pag.60). Anche quando “esistere” significa arrivare alla consapevolezza di dire “Sono quando m’ignori/e dove ogni volta vuoi collocarmi” (p.62) … “insieme/da soli” (pag.27).

Nanda Anibaldi

Nanda Anibaldi é una splendida donna elegantemente estrosa, raffinatissima e con un innegabile quid ieratico. Dopo la laurea in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma, frequentando le lezioni di Natalino Sapegno e di Giuseppe Ungaretti, e la laurea in Filosofia a 67 anni, pensa oggi –  entrata nella sua 87esima primavera –  al desiderio di sempre: laurearsi in Medicina. Sará che l’Anibaldi é una donna inguaribilmente affamata di vita, di curiositá, d’eternitá.

Sará che l’Anibaldi é una donna di ricerca e alla ricerca. Fin da sempre. Per sempre.

Nanda Anibaldi

VOGLIO

Voglio portare con me quelle colline 

fianchi di donna che s’avvia a essere madre 

e le case che s’adattano ai declivi

Voglio portare con me i rovi intrecciati 

e gli scheletri degli alberi che si spogliano 

per non offrirsi agli insulti della tramontana.

Voglio portare con me la tavola dei logaritmi 

forse riuscirò a capire a cosa servono 

e una penna se mi capitasse di doverti scrivere 

certamente non dovrei dimenticarmi di un foglio bianco 

che sarebbe meglio rimanesse tale.

Con gli occhi ti ho scritto molte volte 

ma le risposte non sono state soddisfacenti 

e gli appelli inascoltati.

Voglio portarmi un cappello 

chissà se ci sarà il sole 

se scotterà 

se potrò guardare la luna chiara 

quando s’innamora.

Vorrei portare con me ancora l’ingenuità dei miei anni

 e non caricarli di scaltrezze per ingannarti.

Voglio portare con me l’aria di prima mattina 

per rendere più leggero il mio respiro.

Il fiume lasciatelo invece correre il suo percorso 

per salutare chi é seduto sulle sue sponde.

(pag. 96)

La cognata Lidia e Nanda Anibaldi nella Casa-Museo Arnoldo Anibaldi di Monte Urano (FM)

La poetessa Anibaldi ha scritto anche di prosa e di teatro (monologhi) e – oltre ad essere stata insegnante di Lettere per quarant’anni – é  Direttrice del Piccolo Museo della Poesia, oltre che presidente della Casa-Museo Arnoldo Anibaldi di Monte Urano, in provincia di Fermo.

“…non sentirti mai solo 

tu scorri nel mio sangue 

quando prende fuoco o raggela 

e nell’ infinitesimo secondo 

anche quando guardo il pavimento 

e mi accorgo che é ora di pulirlo”.

(pag. 188)

Nanda Anibaldi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione FILIPPO TIMI LIVE – Non sarò mai Elvis Presley – di e con Filippo Timi

TEATRO ARGOT STUDIO

dal 10 al 13 Aprile 2025

Il palco del Teatro Argot Studio di Trastevere – a coronamento dei festeggiamenti per i suoi primi 40 anni (1984-2024)  – ieri sera ha ospitato l’incandescente debutto della prima delle 4 serate live del  “Filippo Timi Live Non sarò mai Elvis Presley”, prodotto da Argot produzioni.

A concertarsi con la sinergica performance musical-canoro-teatrale di Timi, il produttore e compositore romano Lorenzo Minozzi.

Il giocoso exploit di Timi – ricco in improvvisazioni dal fascino esistenzialista – trova avvincenti sinapsi artistiche e filosofiche con la sperimentazione sonora di Minozzi, compositore che fa sua la manipolazione armonica e ritmica di campionamenti ambientali.

Quello di Timi è un canto – e quindi un racconto poetico – sulle origini e su quello che ognuno di noi può farne. Un tema che tutti ci riguarda questo sull’eredità familiare, che come un imprinting ci modella e ci guida, fino ad un certo punto del nostro stare al mondo. E che poi va fatta propria, manipolata criticamente e quindi anche fedelmente tradita. 

Il canto di Timi é meraviglia: viscerale e ludico; ironico e sensuale; provocatorio e tenerissimo. Ha qualcosa di indelebile, di sacro. I temi di cui canta – personalissimi – arrivano con tutta la potenza vibrante di modelli archetipali, dove la burla sa di tragedia e la tragedia dell’abbraccio accogliente di un sorriso.

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi

Nel live di ieri sera, come un aedo che ama accompagnarsi non con la cetra ma con l’handpan – uno strumento composto da due gusci in metallo che opportunamente sfiorati producono vibrazioni eteree ed ipnotiche – ha intessuto il canto delle gesta della sua vita, lasciandolo contrappuntare dalle creative sonorità, sapientemente artigianali, del compositore Minozzi. 

Il tutto sullo sfondo di “paesaggi”, che contribuiscono a rievocare l’immaginario del progetto. Ad echi distorti di paesaggi televisivi – parco giochi dell’infanzia – si susseguono così visioni di riscritture paradisiache dell’età adulta. 

In scena “il paesaggio dei paesaggi”, dove le coordinate spazio-temporali si fondono e si confondono: dove il sopra si mescola al sotto; il prima al poi; il pieno al vuoto; il sacro al profano. Dove la giocosità di un circense stare al mondo felliniano si sovrappone ad una francescana natività. Dove “a incarnarsi” è un live, sul quale fa eco la cometa di rituali proiezioni.

Timi ricorda “la sua natività” come un luogo dal buio opprimente e dagli echi disorientanti propri della putrefazione. “Cosce dell’assurdo” da cui scappare “fuori dall’incompiuto”. Un paesaggio chiuso e cupo, ritemprato dalla musicalità della sua lingua natia: il perugino di Ponte San Giovanni.

E poi arriva la magia delle vibrazioni dell’handpan per accompagnare la scoperta della sconsiderata generosità dell’amore: quel “per te”, capace di cambiare i connotati alla realtà. “Per te farò sanguinare i fiori del pregiudizio”: una dichiarazione, un racconto di lotta, di speranza, di resistenza. Veicolato dall’espressività dell’armonica a bocca di Lorenzo Minozzi.

E se poi arriva la scoperta che la felicità “dura il tempo di una bancarella a Santa Marinella”, la cenere può comunque diventare “cipria”. Perché il finale sta anche a noi modellarlo: sdrammatizzando il “cemento ruvido” familiare con il politicamente scorretto dei “Griffin”. Perché l’essere nati da “sassi” immobili, sempre fermi nella loro orizzontalità – così suggestivamente visualizzata anche dalla modalità di percussione della chitarra di Lorenzo Minozzi – non esclude la ricerca e il raggiungimento di quella fluidità espressiva libera dal “giudizio universale”, cancro di prevedibilità.

Un “live” questo di Filippo Timi che scuote e che piacevolmente sorprende, fino ad inebriare lo spettatore di possibilità vitali. 

Perché Timi canta dell’importanza di accorgersi del paradiso nascosto nell’imperfezione dell’imprevisto, così diverso dai nostri progetti.  E fiorire: spuntando comunque, nonostante tutto. Prendendoci “cura anche dei simboli che ognuno di noi è”.

E allora poco importa non essere come Elvis Presley. Anzi, è meglio così.

Un teatro, quello di Filippo Timi, che prende e regala attenzione, in un gioco scenico misterioso e complesso fra parola, suono, musica, teatro. 

Un teatro che è prima di tutto coinvolgimento e come tale “fa volare”: un sogno che se non si può realizzare con le ali, si può assaporare però a piccoli sorsi. Un pò come quel cocktail  che Timi “ci offre”, già entrando in sala. 

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione IL BAMBINO DALLE ORECCHIE GRANDI – scritto e diretto da Francesco Lagi

SPAZIO DIAMANTE

dal 3 al 6 Aprile 2025

Come si mantiene la magia di un incontro, con quella grazia del convergere nell’istante?

E’ un mistero.

E’ qualcosa di segreto.

E’ qualcosa che invita a tenere gli occhi chiusi.

Magari, forse, si può provare iniziando a tenersi il più possibile lontani dalla tentazione tutta umana a voler capire e a voler sapere tutto dell’altro.

Perché più si cerca di capire, più ci si allontana, più non si sente nessun solletico. Anzi, l’altro inizia “a pesare troppo” – come rivelano anche i sogni dei due protagonisti in scena – tanto da desiderare “ridurlo in un formato” a noi più congeniale, da portare e da sopportare.

Anna Bellato – Leonardo Maddalena

Le parole rischiano di ammazzare educatamente a colpi d’ascia ogni tensione erotica, soprattutto se guidano un discorso logico-investigativo. Meglio licenziarle affidandosi alla pelle, proprio come canta Franco Califano:

E’ la pelle, è la pelle
Altro che cuore, luna e stelle
Non sognare, non sperare
Non s’inventa l’amore
Noi, eccoci là
Stanchiamo i corpi e non parliamo mai
C’è il silenzio e parla lui
E lo fa come nessuno

Nello specifico, forse sarebbe meglio evitare di usare parole come: “e poi ?”.

L’inganno è quello di credere di avvicinarsi a qualcosa che arde di verità. In verità ci si sta avvicinando al tepore, se non al freddo. Perché sebbene ci sentiamo spinti a rendere tutto chiaro, in realtà la trasparenza non aiuta a toccarsi: ad incontrarsi intrigantemente.

Ne parlano anche gli oggetti di scena (curati da Salgo Ingala): tutti di vetro o di plexiglass trasparente. Belli, sì, ma solo per un pò. Poi diventano insignificanti, anonimi, assai poco interessanti. Troppo chiari. Sterili.

C’è durata, probabilmente, se si riesce a dare vita a continui nuovi inizi: avendo cura dei nostri piccoli misteri che ci rendono interessanti, proprio perchè poco chiari, sfuggenti. Seducentemente imperfetti.

Ma riuscire a dare vita a continui primi incontri, a continui primi inizi, è decisamente un’arte.

Ecco allora che lo spettacolo si dona come un invito ad imparare ad ascoltare suoni più che parole; ad assaporare il buio più che la luce, in quel viaggio in mare aperto – ricco in imprevedibilità e in mistero – che è la quotidianità. Quella quotidianità diurna che siamo portati, a differenza della notte, a regolamentare in ritualità, così rassicuranti ma necessariamente insipide. Soprattutto se si sta inaugurando una relazione a due.

Perché di giorno siamo diversi da come siamo di notte: tutto un verificare se si hanno gli stessi gusti, le stesse abitudini. Per capire se può funzionare, se può durare. Ma non funziona: non c’è gusto. Non scoppiano fuochi d’artificio.

Meglio sarebbe forse allora osare, rischiando di mandare tutto in pezzi, e poi imparare l’arte di rimetterli insieme. Ricominciando ogni volta. E sbagliando sempre meglio. Perché, come scoprono i due protagonisti, spesso ci si sceglie per i propri difetti comuni.

Si percepisce che il Lui di Leonardo Maddalena e la Lei di Anna Bellato sono in grado di fare fuochi d’artificio: ne parlano i loro occhi in quei rari momenti in cui sono in silenzio. Quando parlano, invece, sembrano voler studiare e fissare complicate coreografie di un minuetto, anziché lasciarsi volteggiare in un valzer. Stringendosi l’un l’altra apertamente a sperimentare, a ogni nuovo e vertiginoso giro, una sensazione di libertà assoluta.

Francesco Lagi

Lo specchio che ci pone di fronte questa sapientemente arguta drammaturgia di Francesco Lagi, ci porta ad esplorare lande personali nient’affatto placide: così reali e insieme così assurde che, solo guardandole attraverso il riflesso della coppia in scena, si rivelano in tutta la loro natura godoniana.

Ma la profonda freschezza poetica di Anna Bellato e di Leonardo Maddalena riescono a rendere stimolante – e finanche divertente – accettare l’invito a viaggiare nel nostro quotidiano, proprio come lo spettacolo ci offre di provare a fare.


Recensione di Sonia Remoli