Tre sorelle

TEATRO INDIA, dal 9 al 14 Maggio 2023 –

Che cosa significa vivere?

Lentamente avanzare nel buio e nel silenzio. Ogni parto, non solo il primo – tante infatti sono le occasioni in cui si può rinascere – implica questo passaggio nel buio: é il “venire alla luce”.  

E così inizia lo spettacolo: con il parto mistico delle tre sorelle.

Lentamente, a fatica, un sipario di buio inizia a fendersi. Sono mani che cercano e aprono una fessura, quasi come il “Concetto spaziale” di Lucio Fontana.

Sono mani che danno vita ad un rito: scomposto, ancora non codificato. Sono mani che tagliano il buio creando, con il primo spiraglio di luce, “un effetto stroboscopico”.

Sono mani che si uniscono e si separano, quasi alchemicamente, creando un nuovo spazio e un nuovo tempo. Sono il linguaggio più primitivo, più efficace. Sono la parola prima della parola. Sono mudra che creano nuovi collegamenti energetici tra i vari livelli di percezione. 

“A Mosca tornerei” : le prime parole. Il primo desiderio. Confuso. E allora le tre “ri-nate” sorelle tornano a consultare le loro mani, come oracoli da decodificare per conoscere se e quando si tornerà a Mosca. 

È nel mondo ancestrale del rito che le “Tre sorelle” dei Muta Imago riescono a trovare una nuova condizione di esistere, nella quale l’assenza dei principi della logica, che permea comunque anche il loro mondo “reale”, riesce qui, nel sacro, a far loro assaporare l’ebrezza e l’angoscia del sentirsi libere di sperimentare di essere se stesse.

Riccardo Fazi (drammaturgo e sound design) e Claudia Storace (regista) de i Muta Imago

In questa nuova dimensione, riescono a spogliarsi dalla sottomissione apatica o meccanica al “reale” fino a contattare finalmente il mondo dell’istintualità. In questo nuovo campo energetico i loro corpi “desiderano” e osano perdere la loro forma rigida per sciogliersi in una danza singolare e plurale. Maschile e femminile.

Anche la pelle più esterna, l’abito, perde i connotati del testo originale; inclusi quelli cromatici del blu, del nero e del bianco, che le irrigidivano in “ruoli” e in una nazionalità ben precisa (i tre colori compongono la bandiera estone).

Qui, prima di tutto, le “Tre sorelle” sono creature in continua metamorfosi (inclusa quella dal maschile al femminile) vestite da abiti disponibili a prendere le forme che il loro sentire, di volta in volta, desidererà assumere.

Il colore è un volutamente indefinito blu elettrico: una sfumatura insieme eterea e abbagliante, divenuta il colore dell’elettricità nell’immaginario comune, dove le molecole di azoto e di ossigeno si eccitano con violenza, rilasciando fotoni visibili ad occhio nudo.

In questa nuova dimensione possono essere “demiurghe” di luce e quindi di nuovi spazi. Magici. Dove la morte non viene più anelata come fuga dalla disperazione impotente ed apatica dal reale ma come preludio ad una nuova ri-nascita. Le “Tre sorelle” se ne vanno dal fondale. Buio. È di nuovo una fenditura a permettere il loro passaggio in un nuovo spazio. Luminoso.

Questo interessantissimo lavoro di ricerca dei Muta Imago, creando nuove sinapsi tra immaginazione e realtà, ci regala una rilettura ipnotica e magica dell’originale cechoviano, complici un uso della luce e del suono davvero ammaliante. Che apre ad una diversa percezione del tempo.


Leggi l’intervista ai Muta Imago su Harpers Bazaar

L’ORESTE- Quando i morti uccidono i vivi

TEATRO QUIRINO, 5 e 6 Maggio 2023 –

L’Oreste guarda la Luna dal suo “osservatorio astronomico”. Ne cerca la complicità, come Leopardi. Con l’Oreste lei ci sta. Ma solo nei sogni, nella sua immaginazione. La Luna è l’Amore: quello che l’Oreste non ha mai sperimentato, se non a senso unico. Poi però c’è quello per sua sorella Mariù (Marilena).

Ma lei è morta, come Ifigenia: offerta in sacrificio da suo padre, un po’ come fece Agamennone. La mamma dell’Oreste non riuscì a perdonare suo marito e lo uccise, novella Clitemnesta. Ma per l’Oreste tutto questo fu troppo. Qualcosa in lui si ruppe. E allora uccise sua madre, come l’Oreste della tragedia greca.

Sulla Terra le cose sono così “strane” che l’unico antidoto è dimenticarle. Far finta che non siano esistite. Far finta che tutto sia più leggero, immune allo schiacciamento a cui lo sottopone la forza di gravità. Come fossimo astronauti.

All’eccessiva densità della vita, l’Oreste resiste attraverso l’Immaginazione: il suo microcosmo è abitato da entità metafisiche che prendono vita, per noi del pubblico, grazie all’immersività di un’ accattivante grafic novel che abita il fondale e che nasce dalla mano di Andrea Bruno, uno dei migliori illustratori italiani.

Andrea Bruno

Ed è bellissimo vedere come l’Oreste, un magnifico Claudio Casadio, sappia coniugare il suo corpo, i suoi gesti ma soprattutto la sua voce al mondo della grafica che dà vita alla sua immaginazione. E, insieme, alle poche presenze amiche lì all’ “osservatorio astronomico” (il centro psichiatrico di Imola, dove è ricoverato). Ne scaturisce una contaminazione di generi – grafic novel + theatre – efficacissima.

Lì all’ “osservatorio astronomico” l’Oreste ha un amico, l’Ermes, che un po’ come il dio greco gli fa da “padre” e come il grillo parlante di Collodi gli ricorda “i confini” della realtà. Ma soprattutto gli fa compagnia fino alla fine: fino al fantasmagorico viaggio da Imola a Lucca e poi da lì in Russia fino alla Luna.

Perché l’Oreste riuscirà a essere dimesso dal suo “osservatorio astronomico” ma, nonostante le indicazioni del suo psichiatra, per reinserirsi nella vita ci saranno problemi. Già al bar dove si ferma a bere il caffè: la sua tazzina non riesce ad allinearsi nella direzione della catena delle altre tazzine. La sua volteggerà, fuori dal coro.

E allora farà ritorno nel suo “osservatorio astronomico” e da qui, presa coscienza che “la vita è uno schifo”, che lui non ne ha colpa ma che questo non conta niente, troverà un altro modo per fare il suo anelato viaggio. Decollerà. E arriverà sulla Luna. Mariù lo sta aspettando. 

Claudio Casadio

Claudio Casadio riesce a trascinarci nell’assaporare l’ebrezza della vera libertà, che non esclude l’angoscia delle inevitabili umane vertigini. La sua mirabile capacità interpretativa trova massima espressione attraverso il testo che il celebre “scrivano” Francesco Niccolini gli ha cucito addosso su misura.

Francesco Niccolini

La regia del poliedrico Giuseppe Marini realizza uno spettacolo di denuncia poetica, dalla straziante bellezza. Ci guida in uno sguardo verso “la diversità”, solleticandoci quella necessaria misericordia che, sola, potrà salvarci.

Giuseppe Marini

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman 
Stagione 2022 2023
“L’ORESTE”
di Francesco Niccolini
con CLAUDIO CASADIO
illustrazioni di Andrea Bruno
regia di Giuseppe Marino
scenografie e animazioni Imaginarium Creative Studio
costumi Helga Williams
musiche originali Paolo Coletta
light design Michele Lavanga
aiuto regia Gaia Gastaldello
direttore di scena Sammy Salerno
tecnico video Marco Schiavoni
collaborazione alla drammaturgia Claudio Casadio
voci di
Cecilia D’Amico (sorella)
Andrea Paolotti (Ermes)
Giuseppe Marini (dottore)
Andrea Monno (infermiere)

Il tango delle capinere

TEATRO ARGENTINA, dal 2 al 14 Maggio 2023 –

Cosa tiene accese le stelle? Come si può continuare a restare in contatto con qualcuno che non c’è più ? “Evocandolo” – sembra sussurrarci questo fantasmagorico, eppur carnale, spettacolo di Emma Dante. Sì, evocandolo con il ricordo. Ma soprattutto con “la magia” della musica: quella di alcuni oggetti speciali.

Una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Ad esempio, quella del carillon, primo pegno d’amore di Lui a Lei. È questo piccolo ma dolcissimo motivo musicale ad avere il potere di infrangere le tenebre della sconfinata solitudine di Lei, oramai vedova. Accendendo ancora una volta, nel ricordo di Lei, quelle stelle che avevano fatto da sfondo al loro amore.

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Ma Lei può contare anche sulla “terapeutica” musicalità del suono prodotto dalle caramelline contenute dentro quella confezione di plastica, che Lui aveva sempre con sé e che, da subito, costituirono il migliore “farmaco” alla tosse nervosa e asfissiante di Lei.

Perché comunicare non è mai facile: né con le parole, né con le emozioni. Ma attraverso la musica, invece, tutto “arriva”. La musica scioglie il corpo. E i gesti parlano. E ciò che la tosse nervosa di lei “serrava”, la musicalità del gesto così pieno di cura delle caramelline offerte da Lui, riusciva a “liberare”. Una bizzarra serie di gesti fisiologici, infatti, “traduce” l’emozione di lei in un codice fluido, “scritto” su un altro oggetto. Intimissimo. Diversamente erotico. 

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

E poi c’è la musica della loro passione: quella per il tango, il più autentico dei linguaggi. Così colmo di drammatica sensualità. Così trasgressivo, perché fondato su improvvisazioni invece che su schemi codificati e fissi. Un momento di incontro, di conoscenza, d’evasione e di forte passione. Così com’è la vita, al di là delle sovrastrutture codificanti.

Emma Dante, autrice e regista dello spettacolo “Il tango delle capinere” al Teatro Argentina

Emma Dante, autrice e regista, immerge questo suo spettacolo, ferocemente poetico, nel buio ancestrale che precede la vita ( le stelle accese) e nella magia del silenzio che precede la nota musicale (quella del carillon). E lascia parlare i gesti e i corpi degli attori, ricorrendo solo in rarissimi casi alla genesi della parola: una parola che si origina, che prende sostanza comunque dal silenzio.

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Che va al di là del codice referenziale: è una parola-gesto. Le prime parole a generarsi negli attori sono infatti quelle scatenate dalla folle potenza della relazione amorosa: quelle del corteggiamento, sempre ambigue, fino all’istintivo “Tuffate !” che libera l’invito verso il corpo dell’altro.

Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

E poi la voluta regressione a quelle “onomatopeiche” per il nuovo sforzo di riuscire a comunicare con un diverso oggetto del desiderio: il loro figlio appena nato. Ma non si rivelano davvero efficaci: tanto che il papà è tentato al ritorno verso il gesto, questa volta estremo, per farlo smettere di piangere: “io me lo magno”.

Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Arriverà naturale il gesto delle mani della madre, a sottrarre il piccolo dalla tentazione del padre, lasciando però ancora spazio e possibilità affinché una qualche relazione si generi tra i due. Attraverso gesti via via più “calibrati” del successivo tentativo di lanciare il piccolo in un “vola vola” spericolato. La platea ride: spesso il comico e il tragico sono legati tra loro.

 Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

In questa poetica della Dante risulta non necessaria neppure una scenografia: gli attori sono la scena. E se ne hanno urgenza, sono loro a generare scenografie.

E lo stesso sembra valere anche per i costumi: sono “strati emozionali” che nel corso del tempo coprono l’istintualità. Vestendola. Il costume è anch’esso “gesto”: un “habitus” che muta se abbiamo necessità di “coprirci”. 

Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco in una scena dello spettacolo “Il tango delle capinere” di Emma Dante al Teatro Argentina

Emma Dante, nel raccontarci la danza dell’amore al ritmo binario del tango, ci rivela la bellezza insita anche nelle “storture” della vita: nella solitudine, nella morte, nella vecchiaia, nella malattia. E per qualche incantesimo noi del pubblico ne restiamo commossi. E riusciamo a vederle con “uno sguardo” diverso. Di misericordia. Forse.

Gli attori Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri sono straordinari. Proprio come la vita.


Leggi l’intervista ad Emma Dante su il Corriere.it


IL MUTAMENTO – In viaggio da Atlantide all’Universo

TEATRO DI DOCUMENTI , dal 27 Aprile al 7 Maggio 2023 –

Ieri alle ore 17:45 la creativa regista Stefania Porrino ci ha “convocati” al Teatro di Documenti per condurci, con la complicità dei suoi attori, in “un viaggio al centro della Terra”: un viaggio alla ricerca dei nostri desideri più veri.

L’autrice e regista Stefania Porrino

Tema del viaggio: “Continua a cercarmi”. Sì, perché i desideri, più sono sentiti, più ci viene di nasconderli.

Una scena dello spettacolo “Il Mutamento” di Stefania Porrino

Perché? Ma perché abbiamo paura: paura di realizzarli. Per realizzarli occorrerebbe attivare quel coraggio che non sappiamo di avere ma che in realtà è “l’altra faccia” della paura che predomina in noi. Quel coraggio necessario per riuscire ad aprirci ad “un mutamento”. Lasciando indietro quelle nostre amate-odiate abitudini: così rassicuranti sì, ma anche così insoddisfacenti. E con le quali ci siamo ormai abituati a convivere.

Sala del Teatro di Documenti

E quindi, dopo aver preso posto ai lati dell’insolita sala del Teatro di Documenti, un pò come si farebbe in un vagone della metro, gli attori ci hanno “trasportati” in una seduta di psicoanalisi di gruppo. Tecnica del giorno, scelta dalla psicoterapeuta per una sorta di meditazione sui “mutamenti” che soli hanno il potere di condurci a contattare i nostri desideri più veri: l’improvvisazione di uno psicodramma.

Una scena dello spettacolo “Il Mutamento” di Stefania Porrino al Teatro di Documenti

In un’affascinante e molteplice meta-teatralità, l’acuto testo dell’autrice-regista Stefania Porrino riesce a coinvolgere anche noi del pubblico in questo “viaggio al centro della Terra”, o meglio al centro di noi stessi. Come agli attori-pazienti, anche a noi è capitato di essere stati messi in crisi da situazioni di “mutamento”. E immedesimarsi nelle situazioni problematiche degli altri, ci aiuta a vedere con più coraggio in noi stessi, non essendo coinvolti direttamente.

Evelina Nazzari, in una scena dello spettacolo “Il Mutamento – In viaggio da Atlantide all’Universo” di Stefania Porrino

E’ così che la sala diventa il palcoscenico dell’inconscio, dove convivono le nostre diverse personalità. A vista, senza alcun filtro, si indossano e ci si libera di quelle maschere che più o meno consapevolmente siamo soliti rappresentare. Di particolare efficacia e cura i costumi di Natasha Bizzi.

Solo così si arriva a scoprire il desiderio di voler sperimentare il piacere, tutto nuovo, di essere continuamente messi alla prova, piuttosto che restare impaludati in una comoda zona di confort.

Solo così si scopre il piacere adrenalinico di voler cavalcare le onde dell’Amore: della voglia di farsi travolgere dalla “capacità di amare”, che vuol dire saper accogliere e gestire la delizia e il tormento; i momenti di riconoscimento e quelli della frustrazione; la gioia e la tristezza.

Giulio Farnese e Nunzia Greco in una scena dello spettacolo “Il Mutamento” di Stefania Porrino al Teatro di Documenti

Solo così si riesce a tollerare che a mille domande possano seguire pochissime risposte: perché riusciamo a riconoscere che è in noi che le risposte vanno cercate e trovate. Senza lasciarci paralizzare dalla paura di sbagliare, perché quello che erroneamente chiamiamo “sbaglio” è in realtà un allontanarci dal nostro sentire più autenticamente vero.

Il libro “Il romanzo del sentire – da Atlantide a noi” da cui la stessa autrice-regista ha tratto il testo dello spettacolo

L’effetto catarsi è assicurato: lo spettacolo coinvolge totalmente lo spettatore. Merito di un testo, tratto da “Il romanzo del Sentire – Da Atlantide a noi” di Stefania Porrino, profondo ma fruibilissimo e di una messa in scena seducente. Gli attori Giulio Farnese, Nunzia Greco, Evelina Nazzari, Alessandro Pala Griesche e Carla Kaamini Carretti si sono rivelati degli ottimi “compagni di viaggio” per gli spettatori: la loro interpretazione brilla in credibilità. Notevolissima la loro densità vocale.

La regista Stefania Porrino e il cast dello spettacolo “Il Mutamento-In viaggio da Atlantide all’Universo”

Il Supermaschio

L’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico alla Pelanda

LA PELANDA – Mattatoio – 27 Aprile 2023 –

PROVA APERTA

Tutor del progetto: Antonio Latella

Regista: Marco Corsucci

Interprete: Andrea Dante Benazzo

Dramaturg: Federico Bellini Scena: Giuseppe Stellato Luci: Simone De Angelis Suono: Federico Mezzana Video: Igor Renzetti Consulenza costumi: Graziella Pepe Fonico: Akira Callea Scalise Sarta di scena: Loredana Spadoni Direttore di Scena: Alberto Rossi


Lo spettacolo è vincitore “ex-equo” del Premio Andrea Camilleri 2022

indetto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”

e debutterà in prima nazionale il 30 giugno 2023 al 66° Festival dei Due Mondi di Spoleto


In un’interessante costruzione di “teatro nel teatro”, il regista Marco Corsucci fa del pubblico gli invitati alla riunione che il “suo” André, protagonista del romanzo “Il Supermaschio” di Alfred Jarry, convoca per parlare d’amore.

Ma non è un “simposio” platonico: qui si parla solo di capacità prestazionali. Solo maschili. Solo di un’ élite di “atleti”.

Ma non solo: in una geniale struttura che si articola per cerchi concentrici, dal sapore di un esperimento ma anche di un documentario oltre che di una rappresentazione di teatro nel teatro, chi ci accoglie e fa gli onori di casa, “invita” coloro tra noi che sono di genere femminile, o che tali si sentono, a prendere posto in un determinato settore della sala, metaforicamente anche mente del protagonista: quello di sinistra, luogo mentale dove dominano le funzioni di calcolo. Fuori da ogni contaminazione emotiva, ciò su cui ci si deve concentrare è esclusivamente il calcolo delle prestazioni.

Come se non bastasse collocare il pubblico femminile in un emisfero della mente del protagonista “scomodo” al femminile ma propio per questo meno pericoloso, anche prossemicamente le femmine sono coinvolte nella riunione stando “al di là” della realtà rappresentativa. Ciò che i maschi vedono “dal vivo”, loro lo vedono indirettamente.

O non lo vedono affatto: come avviene per la prova “atletica” dei coiti multipli. Quella da record. Quella solo da maschi. Di maschi. A loro è permesso (solo) “ascoltare”. Sì sa: gli uomini vivono con gli occhi. Le donne, però, sanno usare molto bene anche le orecchie: organo di senso dalla potente densità shakespeariana, capace di dare carne all’immaginazione. E possono “leggere” l’espressività non verbale degli invitati maschili.

E quindi ciò che voleva essere “un confinio” finisce per essere, forse, un’accattivante modalità di esperire.

Ma ciò che è davvero importante è celebrare l’apoteosi del Supermaschio: un maschio che è “super” ma teme la diversità femminile; un maschio che è “super” ma vive solo di approvazione. Un maschio che è “super” perché non si vuole “contaminare” con lo sporco insito nelle emozioni che danno una continua mutevole forma all’amore. E quindi non si specchia. Con l’ Altro.

Il Supermaschio, come il migliore dei meccanismi, è ricco in prestazione ma privo di passionalità, di carattere, di umanità. È un deserto.

Ma qui arriva un altro spiazzamento: il Supermaschio di Marco Corsucci è un candido. Quasi un alieno dal male, anche quando lo fa. E brilla in naturalezza il “suo” dolce e ingenuo André: l’interprete Andrea Dante Benazzo.

Fontana Project

TEATRO VASCELLO, dal 26 al 30 Aprile 2023 –

In un efficace dosaggio di fedeltà e necessario tradimento dell’eredità di Lucio Fontana, la compagnia di arti performative “NoGravity” porta in scena al Teatro Vascello un visionario prender vita nel tempo dell’opera-simbolo di Fontana “Concetto Spaziale Bianco”. Geniale idea con la quale Fontana vinse il primo premio per la pittura alla Biennale del 1966. 

Lucio Fontana, Concetto Spaziale Bianco

Nell’immaginario collettivo Lucio Fontana è “l’artista dei tagli” ma queste opere furono il risultato finale di una lunga e complessa ricerca: quella di un uomo che cambiò il corso dell’arte contemporanea, superando le limitazioni legate alla bidimensionalità della tela.

Per qualche motivo, un incantesimo forse, le suggestioni che questo spettacolo suscita portano lo spettatore a “rileggere” l’artista. Ad averne curiosità. Ad averne cura.

Lucio Fontana, pittore, ceramista e scultore

Sulla scia della grande tradizione barocca italiana del teatro delle meraviglie, l’artigiano-filosofo teatrale Emiliano Pellisari (fondatore della compagnia NoGravity, diretta insieme a Mariana/P.) progetta e costruisce un apparato straordinario per lo “Studio su Lucio Fontana”, applicandolo alla messa in scena per il Teatro Vascello.

E incanta il pubblico: proprio come si usava fare nelle corti europee del Cinquecento e del Seicento.

Emiliano Pellicani e Mariana Porceddu

Al centro della scrittura filosofica del “teatro delle meraviglie” della NoGravity sta il concetto scenografico e drammaturgico di “specchio”. Un modo di “guardare” che apre alla molteplicità dei punti di vista. E quindi alla “relazione”, all’inclusione, al conoscere e al conoscersi attraverso l’ “Altro”. Ma soprattutto lo specchio è quel “mezzo tecnologico” di cui parla il movimento artistico dello Spazialismo (fondato da Fontana nel 1946): una nuova forma di linguaggio, prodotta da nuove invenzioni. Perché fine della tecnologia è essere lo strumento attraverso il quale l’homo faber può controllare gli elementi naturali. Esplorando, e poi superando, il concetto di “limite”, così centrale nella ricerca di Lucio Fontana.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

Qui al Teatro Vascello, ci si trova, infatti, di fronte ad uno spazio teatrale dove si annulla la fisica della realtà per dare forma ad un esperimento teatrale sognato ad occhi aperti. Fedele a quanto dichiarato da Lucio Fontana nel “Manifesto Tecnico dello Spazialismo” del 1951 (dove si dichiara, nello specifico, che il movimento è la condizione base della materia) la NoGravity utilizza il movimento per dare vita al tempo ma soprattutto per aiutare lo spettatore a percepirlo.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In una suggestiva relazione tra luce, tempo e spazio, proiettori wood aprono la scena. Dal 1948, infatti, la luce diventa la tecnica più importante per Fontana, in quanto capace di aprire alla percezione dello spazio: da quella al neon, all’effetto delle luci indirette; dalla retroilluminazione alla luce radente, fino ad arrivare alla luce di Wood.

Alla luce wood si mescola una sorta di “racconto onomatopeico” che conduce lo spettatore a rendersi disponibile ad esplorare una dimensione da rituale magico; così come accade ai corpi, che si intravedono dietro la tela: impegnati a sondare il limite della “membrana” bianca.

La “sperimentano” con tutto il corpo, in una sorta di conoscenza tattile. Delicata, frusciante. Senza fretta. Fino a che uno dei due corpi trova il varco del taglio. E da lì, ebbro di un nuovo spazio-tempo, si espande. E come in una croce, si libra e ne gode. È un corpo femminile (una elegantissima Mariana Porceddu): come Eva è lei la prima ad osare in questo nuovo “paradiso”.

Poi è il momento dell’uomo che trasforma l’ingresso (il taglio) in un “habitus” per la donna. Prende avvio così un conoscere e un conoscersi come in una danza, che dà vita a sempre nuovi spazi, nuove forme. Un continuo origami di maschile e di femminile, separati e fusi. Una rete di sempre nuove connessioni.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In questo fruire fisico e spirituale dell’Infinito, si rende immanente l’intervento trascendente di un coreografo demiurgo: Emiliano Pellisari, che rompe i piani della rappresentazione, permettendo anche a noi del pubblico una partecipazione immersiva. Attivi e passivi nella costruzione di nuove geometrie.

Ma il demiurgo Pellisari è anche colui che taglia la tela e nel farlo continua il processo di creazione e di conoscenza, che vede la forza dilaniante della creazione restare sempre unita alla tentazione continua a tornare indietro. A morire. Per poter rinascere. Come avviene nella vita.

E nel teatro: ora infatti sembrano prendere vita, per l’attività poietica dei corpi sulla tela, dei sipari teatrali che, come cornici fluide, rimandano a ” I Teatrini” di Fontana (1964-1966).

Un esemplare de “I Teatrini” di Lucio fontana

Poi nuovi suoni, più materici, sembrano condurci in sculture d’intrecci d’amore, così simili alle ceramiche di Fontana.

Lucio Fontana, “Ballerina” 1952 ceramica policroma smaltata 

Ma basta una torsione, un voltarsi dei corpi, per uscire da questa nuova cosmologia.

Tornando con i piedi per terra. Ma con gli occhi ancora pieni di Infinito.

Una meraviglia di spettacolo.

Uno spettacolo di fantascienza

TEATRO INDIA, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

E se tutte le sovrastrutture che ci rassicurano tanto cadessero giù e rotolassero in acqua come i trichechi “tondi tondi” giù dalla banchisa, anche loro come noi mammiferi in via d’estinzione ? Se provassimo a spogliarci di tutti i nostri falsi “habiti” mentali, con i quali crediamo di identificarci ? Se la fine arrivasse all’inizio, perché è all’inizio che c’è l’immaginazione?

Andrea Cosentino, Petra Valentini e Liv Ferracchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

Il “Teatro di Liv” è così incredibilmente credibile che è “fantascienza” !

Il “Teatro di Liv” è un “racconto” e come tale porta in scena lo “sforzo” compiuto da chi pretende di comunicare. Il racconto è solo un tentativo. “Tenta tanto tanto “.

Il linguaggio non aiuta ad esprimere ciò che veramente proviamo perché è una convenzione, così come i platonici principi della logica: quello di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. La Logica non riesce ad identificarci singolarmente. È un codice sul quale si è convenuto di convergere, di trovarci tutti d’accordo per poter comunicare. Più o meno consapevoli che la nostra autenticità è altrove.

Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati e Petra Valentini in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

La prima parte di “Uno spettacolo di fantascienza” (che in realtà può essere anche “il finale” in una concezione aperta del racconto, così come aperta è la vita) spiazza e diverte lo spettatore portando in scena un racconto privato dei due principi della logica sopracitati. I personaggi-persona infatti non comunicano più grazie al “significato” codificato delle parole, bensì attaccandosi ai loro “sottotesti”, espressi dalle intenzioni, dalle intonazioni, dalla musicalità, dalla cromaticità. Ad esempio, risulta chiarissimo come basti utilizzare un cappotto dal colore diverso per inscenare una nostra diversa identità .

Petra Valentini e Liv Fernacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

E di fronte al “non senso” non ci si scandalizza ma ci si accorda, ci si sintonizza. Ed è bellissimo. È ricchissimo. È tutto e niente insieme. È il caos. Ma è verità.

Nel racconto autentico anche la rappresentazione della neve non deve “sembrare vera”, non deve essere ciò che non è. Ecco allora che, a vista, il tecnico rivela l’artificio. Ed è bellissimo, più che se fosse nascosto.

Il tricheco tondo tondo e Liv Fernacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

“Prova a dirmi cosa senti. Ma so già che non ci riuscirai” – dice lei a lui. È una crisi? No, è una svolta. Però su una cosa concordano: è la fine del mondo. Ma solo la “fine” prelude ad un possibile nuovo inizio (momentaneo). E ciò che ci tiene vivi non è l’illusione di dare un solo senso, un unico significato alle cose ma, come sanno bene i trichechi, sono le carezze, l’amore. “Che confusione, sarà perché ti amo…ma dopo tutto che cosa c’è di strano: se cade il mondo allora ci spostiamo”.

Petra Valentini e Liv Ferlacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

I tre attori in scena “danzano” con le parole e con i gesti. Il senso, il presunto significato, passa in secondo piano. Ed è un miracolo di bellezza incontrollabile. Sanno darci prova che si può fare a meno anche di lasciare gli spazi tra le parole: è la musicalità, il ritmo, che riuscirà a guidarci verso “un accordo” istintivo. Perché sotto ciò che è finto (il linguaggio) c’è sempre del vero (i vari sottotesti).

Liv Ferlacchiati, Petra Valentini e Andrea Cosentino

Ciò che ci fa più paura, ora sappiamo, grazie al “Teatro di Liv”, che può essere bellissimo. Perché ci si può orientare anche mentre si fanno giravolte.

E tutto ciò sa molto di decadentismo, alla Treplev de “Il Gabbiano” di Cechov.

Ma “il finale” ? “Aperto” – sentenzia il tricheco, quasi fosse un oracolo.

Aperto come il vento, che dall’inizio alla fine avvolge tutto lo spettacolo.

Petra Valentini e Liv Ferlacchiati in una scena di “Uno spettacolo di fantascienza”

Un testo, da “teatro dell’assurdo”, ferocemente raffinato, onirico, metafisico. Eppure brillante e davvero molto divertente. Una scena (curata da Lucia Menegazzo) affamata di vuoto, necessario per poter dar vita a piccole-grandi meraviglie, potentemente fragili: come quelle nascoste nel cappello a cilindro della vita.

In scena Liv Ferracchiati è un performer dal tenero fascino ambiguamente cechoviano; Petra Valentini un’eccellente attrice vorticosamente spumeggiante; Andrea Cosentino brilla in ricchezza di maschile e di femminile. Il suo lavoro a ferri, registicamente, è la metafora del “racconto”, dell’intreccio di identità che ci costituiscono.

Il “Teatro di Liv” è “Uno spettacolo necessario” .

Liv Ferlacchiati

autore, regista e performer di “Uno spettacolo di fantascienza”


Leggi l’intervista a Liv Ferlacchiati su Rolling Stone


W.A.M. – Ironia della morte

TEATRO BELLI, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

Arduo accogliere o tollerare la multiforme singolarità di Wolfgang Amadeus Mozart: tutto coesiste in lui. L’enfant prodige che sottostà all’ossessione paterna di continue esibizioni “circensi” è anche un eccentrico buffone che di punto in bianco prende a saltare e a far capriole come un bambino capriccioso;

Il piccolo Mozart all’età di 6 anni durante un concerto nel castello di Schönbrunn. Alla sua destra la famiglia imperiale. Alla sua sinistra il padre e il principe-vescovo di Salisburgo.

l’artista che si trasfigura in un’estatica dimenticanza di sé e del mondo, totalmente immerso nello spirito del genio, è insieme un uomo misconosciuto, ignorato e confinato in un isolamento crescente; il compositore dallo stile chiaro, trasparente ed equilibrato è lo stesso da cui emerge anche una voluttuosa violenza.

Una sintesi del Grand Tour di Mozart, che in 3 anni ha sostato in 88 città

Se arduo è accoglierla, ancor più arduo è tentare di “rappresentarla” autenticamente, questa assoluta singolarità multiforme mozartiana. Ma lo spettacolo di Claudio Boccaccini ci riesce.

Claudio Boccaccini, il regista di “W.A.M. – Ironia della morte” al Teatro Belli di Roma

Proprio come in un palcoscenico psichico sul quale le rappresentazioni vanno e vengono in diversi stati in una multiformità irriducibile, così sulla scena cesellata dallo sguardo registico di Boccaccini, la vibrante drammaturgia di Carlo Picchiotti, interpretata dall’estro poetico di Patrizio Pucello e raffinatamente enfatizzata dal canto lirico del soprano Olimpia Pagni, fa sì che nei nostri occhi riesca ad entrare, a qualche livello, la consapevolezza visiva ed emotiva della capacità unificatrice dell’attività creativa .

A differenza della “coscienza” infatti, che tende a scindere le personalità contrastanti del genio Mozart, la creatività “incosciente” ci consente di tenerle tutte insieme, ri-collegandole in forme sempre nuove.

Perché la musica in generale, e quella di Mozart in particolare, non chiede di essere “capita”. Ma vissuta emotivamente. Il suo alfabeto musicale parla di noi, della “nostra condizione” umana, così fragile e insieme così misteriosamente affascinante. Ma soprattutto ci parla del bisogno che tutti abbiamo di essere “visti” dall’altro e apprezzati proprio nelle nostre più insolite singolarità. Perché sono loro a renderci “unici”.

Patrizio Pucello è Wolfgang Amadeus Mozart in “W.A.M. – Ironia della morte”

Così come “unico” è il tipo d’incontro che il pubblico, in una sorta di teatro nel teatro, si è trovato a vivere ieri sera, nell’intimità del Teatro Belli. Un convegno d’amore, quello che ci ha organizzato “a sorpresa” W.A.M. (un istrionico Patrizio Pucello).

Ci ha preceduti, facendo sì che sul palco, solo la sua giacca avvolgesse la schiena di una poltroncina e solo la sua musica trovasse carne nel corpo e nella struggente voce di una giovane donna (l’ammaliante soprano Olimpia Pagni).

Olimpia Pagni, il soprano in “W.A.M. – Ironia della morte”

Lui farà capolino solo dopo, per spiare le nostre reazioni. Poi entrerà per guardarci bene in faccia e, riconoscendoci tutti, uno ad uno, noi volubili aristocratici viennesi (perché questi sono i panni che ci troviamo a vestire noi del pubblico), troverà l’ardire per dare sfogo apertamente, senza filtri, a tutta la frustrazione che noi gli abbiamo alimentato e che lui per una vita ha represso.

Un convegno d’amore non esclude l’odio: è solo l’altra faccia dell’amore. E ieri sera W.A.M. ha deciso di “consumare” l’odio (un po’ come prescrisse a Tamino il vecchio prete del Tempio della Saggezza) con un altro tipo di rapporto d’amore. Con noi che, seppure sempre così disattenti ed insensibili ai suoi sinceri “corteggiamenti” musicali, continuiamo ad essere maledettamente irresistibili per lui.

Ci dice che ha deciso di morire. Ma è ironico: è un gioco d’amore il suo, una disperata e goliardica manipolazione. Fertile, però: quasi un rito di iniziazione che, solo, può preludere ad un nuovo inizio. Perché la morte, metaforicamente inserita in un processo di purificazione, non va temuta.

E, un po’ come ne “Il flauto magico”, il silenzio diventa una delle prove a cui deve sottoporsi il pubblico-aristocrazia viennese.

Potrà esserci, allora, un nuovo inizio. E risplendere potrà “un nuovo giorno, senza più ombra né velo”.

Tra noi.

Ora.

Illustrazione di Zoa Studio dedicata a W.A.M.

Patrizio Paciullo, l’interprete di W.A.M., attraverso una forte presenza scenica e una recitazione ricca e magnetica, risulta efficace nell’esaltare la feconda ispirazione creativa della drammaturgia di Carlo Picchiotti.

Carlo Picchiotti, l’autore del testo “W.A.M. – Ironia della morte”

Uno spettacolo, che si rivela un piccolo gioiello di cura, di attenzioni e di amore verso “l’uomo Mozart”, prende forma dal cesello del regista Boccaccini, che dà prova di saper dove e come “decorare”: imprimendo, da rovescio, i volumi degli sbalzi o incidendo da dritto variegati dettagli.

Claudio Boccaccini, il regista di W.A.M. insieme a Patrizio Pucello, l’interprete

7 Sogni

TEATRO PORTA PORTESE, 15 e 16 Aprile 2023 –

Quella che la preziosa sensibilità di Alessandro Fea ieri sera ha mandato in scena, con la complicità di quattro talentuosi attori (Matteo Baldassarri, Silvia Nardelli, Giancarlo Testa e Monica Viale) è una “Lettera dall’Inferno”: una di quelle in cui si cerca aiuto ma non lo si trova né in un Dio “che non si libera dagli impegni per liberarci dal male” (come canta Emis Killa), né nelle Istituzioni. È la condizione dell’attendere godottiano che qualcosa arrivi. Qui, però, la solidarietà umana vince comunque su tutto.

Alessandro Fea, autore, musicista e regista dello spettacolo “7 sogni” al Teatro Porta Portese di Roma

Siamo in un quartiere di periferia, o meglio nella periferia di ogni periferia, dove quattro persone, già in condizioni di precarietà fisica o psichica, rischiano lo sfratto esecutivo. La loro fragile esistenza è appesa ad un filo, come quello dei panni stesi ad asciugare che campeggia sulla scena.

Una scena dello spettacolo “7 Sogni” di Alessandro Fea al Teatro Porta Portese di Roma

Un destino da “esiliati”, il loro, perché i poveri oggi sono, per dirla con Beppe Sebaste, “extra-comunitari ontologici”. Uno stare al mondo, il loro, carico di impotenza e di rabbia, che gira intorno ad una panchina: unico luogo dove ci si può sedere gratis. A sognare. E forse non è un caso che le panchine stiano silenziosamente scomparendo: per scongiurare “gli indesiderabili”, i poveri. Il nuovo posto delle panchine, non a caso, è nei centri commerciali. 

Ma è “quello che non c’è”, in fondo, a rendere “speciale” questo “bordo di periferia”: perché è proprio intorno a queste assenze che si staglia la splendida umanità di quattro disperati. Umili sì, ma dall’umiltà nasce, non solo etimologicamente, l’humus, cioè la fertilità. Quella del prendersi cura dell’altro, del farlo sentire osservato e quindi desiderato dal nostro desiderio. I loro occhi “si sbracciano” nella muta richiesta di un “Mi vuoi bene?” . E così, trovato in un dettaglio la conferma, possono affrontare la nuova odissea quotidiana. Occupandosi degli altri, del branco, anche in previsione di quando loro non ci saranno più. 

Una scena dello spettacolo “7 Sogni” di Alessandro Fea al Teatro Porta Portese di Roma

Sanno sognare: si nutrono di sogni; si curano con i sogni. Per loro è un gioco: serio, fondato su delle regole. Sono ammessi sogni belli e sogni brutti: entrambi utili a sopravvivere. Perché, poi, si condividono: sulla panchina. Una zona franca: un teatro nel teatro. 

Alessandro Fea, autore, musicista e regista dello spettacolo “7 sogni” al Teatro Porta Portese di Roma

La bellezza di questo spettacolo è impreziosita da interessanti brani musicali dal denso sentore urbano, composti e riarrangiati da Alessandro Fea, poliedrico autore, regista e musicista. 

La Compagnia Teatrale “Sofis”: Giancarlo Testa, Monica Viale, Silvia Nardelli e Matteo Baldassarri

I suoi attori della Compagnia Teatrale “Sofis” brillano nel loro essere “persone” prima ancora che “personaggi”. Perché il Teatro è un po’ come stare su una panchina: ha uno scopo in sé. È un atto di civile anarchia. 


Qui, la mia intervista ad Alessandro Fea