Recensione dello spettacolo ANTONIO E CLEOPATRA di William Shakespeare – regia Valter Malosti –

TEATRO QUIRINO

dall’11 al 16 Febbraio 2025

L’amore è una demenza?

Perdersi nel suo risucchio – e quindi allontanarsi dalle strade segnate dai principi della logica, per esplorare territori sconosciuti della nostra mente e della nostra anima – è davvero sminuente per la nostra realizzazione come persone?

La regia dal graffio rock di Valter Malosti e l’attento lavoro di traduzione e d’adattamento – curato dallo stesso Malosti unitamente alla scrittrice, anglista e traduttrice Nadia Fusini – dona brillantezza a quel concetto di amore, inteso come possessione del divino Eros, che così diversamente si declina tra Oriente e Occidente.

Dario Guidi (Eros), Anna Della Rosa (Cleopatra), Valter Malosti (Antonio)

Il demone che possiede Cesare, in cosa differisce da quello posseduto da Antonio?  Si tratta solo di una maggiore quantità di fortuna associata al demone di Cesare, o forse è in gioco un diverso concetto di “sacro”, che muta da Roma ad Alessandria D’Egitto?

A Roma, “sacra” è una gestione ordinata del proprio demone; in Egitto è il disordine a restituirne la valenza. Incluse le cadute che non fanno soccombere ma che trascinano con se la fine, per dare vita ad un nuovo inizio.

Massimo Verdastro (Indovino), Valter Malosti (Antonio)

Antonio sperimenta entrambe le declinazioni del “sacro” e scopre che ciò che per lui davvero conta – ciò che lo fa sentire realizzato e vivo come persona – non è tanto diventare il padrone del mondo, quanto piuttosto dedicare tempo ed energie nell’avventurarsi a percorrere territori, che si trovano oltre i confini che delimitano la razionalità logica. Da qui “la diagnosi”, da parte degli occidentali, di una sua “demenza amorosa”. 

Lo sguardo registico, ricco in sperimentazione, di Malosti fa emergere queste due diverse modalità di stare al mondo, enfatizzandone le differenti intensità vitali. Ci riesce lavorando sui “costumi” intesi come “habiti”, cioè come modi di essere. Un lavoro che passa attraverso una particolare attenzione a rendere “incisive” la postura (ricca in plasticità), la prossemica (che molto esplora le zone di confine, così come la vertigine delle diagonali) e il fascino della vocalità, così musicale seppur vitalmente irregolare. 

Massimo Verdastro (Indovino), Noemi Grasso (Incanto), Danilo Nigrelli (Enobarbo)

Una vocalità assai rispettosa della tonica liricità shakespeariana, enfatizzata e restituita, qui, dal “colore” del surplus energetico, proprio di ciascun personaggio. La Cleopatra di Anna Della Rosa e l’Antonio di Valter Malosti possono contare infatti sulla meravigliosamente difforme sinergia vocale del Cesare Ottaviano di Dario Battaglia, dalla vocalità tagliente e feroce; sulla carnalità metafisica dell’Indovino Massimo Verdastro; sulla esuberante prestanza del Messaggero di Cleopatra Paolo Giangrasso; sulla morbidezza melodiosa dell’Agrippa di Ivan Graziano; sull’affascinante spudoratezza dell’Incanto di Noemi Grasso; sulla divina fluidità dell’Eros di Dario Guidi; sul piglio astuto del Messaggero di Roma Flavio Pieralice; sulla feroce prestanza del Soldato di Antonio Gabriele Rametta e sull’altera e soffice risolutezza dell’Ottavia di Carla Vukmirovic.

Anna Della Rosa (Cleopatra), Valter Malosti (Antonio)

Ne scaturisce una visione del mondo – che nelle immagini e nei sensi attinge all’immenso e al prodigioso – immersa in “habitat musicali” (composti da GUP Alcaro), capaci di evocare suggestivi e continuamente mutevoli paesaggi emotivi. Metafisicamente edificati intorno ad una scenografia solidamente feconda di pieni e di vuoti, eretta sopra un piano inclinato. La cura delle scene – costruite nel Laboratorio di ERT / Teatro Nazionale – è di Margherita Palli

Questa fluidità degli spazi riflette un montaggio di piani temporali, dove tensioni belliche si concertano a propulsioni creative, teatro esistenziale proprio di quei periodi di passaggio che ciclicamente abitano la nostra Storia.

Anna Della Rosa (Cleopatra), Noemi Grasso (Incanto)

Arriva così in dono allo spettatore, tutto il sapore di quella fertile e generosa abbondanza, propria di “un umano” le cui acque sanno tracimare una densità aperta all’indistinto: a quell’ignoto informe che ci atterrisce non meno di quanto ci affascini. Tanto esso si rivela ricco di diversità, finanche opposte, eppure coesistenti.

Gabriele Rametta (Soldato di Antonio)

E’ l’elogio di quel disorientamento creativo – che va in scena fin dall’apertura del sipario – definito come “demenza amorosa” da un morigerato soldato romano, che con subdola complicità sente il bisogno di avvisarci preventivamente, per manipolare il nostro sguardo, su quella che a Roma è definita la degenerazione che affligge Antonio, uno dei tre pilastri del mondo.

In verità, quello a cui assistiamo è un rituale di sacra giocosità, che sa accogliere e interscambiare la succulenza del femminile e la virilità del maschile; lo scintillio delle luci e la tenebrosità delle ombre; la vita e la morte; la giovinezza e la vecchiaia; l’inizio e la fine. 

Fertile ricettività restituita stupefacentemente dall’interpretazione della Regina d’Egitto di Anna Della Rosa, che scivola con profonda leggerezza osmotica dalla ieraticità del profilo statuario di una dea, alla carnalità di femmina affamata di vita e di morte, fino all’allure tutto occidentale di una Marlene Dietrich. Complice la cura dei costumi di Carlo Poggioli, realizzati da Maria Vittoria Pelizzoni, Adriana Cottone per ERT /Teatro Nazionale e da Tirelli Costumi

Tutto in lei parla di questa predisposizione umana all’apertura, al non censurare nessun luogo del suo condominio psichico. Tutta aperta com’è verso una totale esplorazione avventurosa della vita, che si nutre per poi metabolizzare creativamente l’altra tensione tutta umana: quella alla chiusura e alla protezione securitaria. 

Ma ciò che incanta sopra ogni cosa nella Cleopatra di Anna Della Rosa, è l’articolazione del suo parlare, così profonda e larga; tridimensionale eppure elegante. Desiderosa di suggere tutto il gusto da ciascuna parola, alla scoperta di nuovi confini. Laddove ogni fine contiene un nuovo inizio. Come in un amplesso amoroso. 

Ivan Graziano (Agrippa), Valter Malosti (Antonio), Dario Battaglia (Cesare Ottaviano)

Dell’Antonio di Valter Malosti brilla la bellezza decadentemente libera del suo perdersi, per cercare e trovare sempre nuovi cieli e nuove terre. Resa da una vocalità dilatata e insieme incalzante. Affascina fino al disorientamento, poi, la sua proposta di virilità così fertilmente femminile, enfatizzata dal confronto con la virilità mascolinamente impermeabile dei triunviri romani.

Paolo Giangrasso (Messaggero di Cleopatra), Anna Della Rosa (Cleopatra), Noemi Grasso (Incanto)

E poi quel suo sguardo così ricco d’accoglienza, ospitato in una postura solida eppur flessibile. Una morbidezza maschile impensabile a Roma, in occidente, dove si ostenta la morigeratezza che passa tra l’ammonire e l’adempiere. Se ne hanno tracce solo nel suo luogotenente: l’Enobarbo dalla sensibilità musicale di Danilo Nigrelli.

Danilo Nigrelli (Enobarbo)

Il Malosti regista, come Shakespeare, ci invita a guardare con curiosità, più che con pregiudizio, alla meravigliosa complessità da cui tutti siamo abitati. Appassionandoci ad una forma di conoscenza di noi stessi, e quindi dell’altro, che doni valore al nostro viaggio sulla Terra. Conoscenza che, sola, può realizzarci come persone, rendendoci unici e “incomparabili”.

Proprio come sono arrivati a definirsi Antonio e Cleopatra: consapevoli di poter fare della diversità, del difetto e del buio della mancanza, il desiderio di ricerca di un nuovo cielo. Rintracciabile negli occhi dell’altro.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AMEN di Massimo Recalcati – regia di Valter Malosti

FESTIVAL NARNI CITTA’ TEATROChiostro di Sant’Agostino – 14 Giugno 2024 –

In una notte racchiusa dalle pareti affrescate di un chiostro del XVIII secolo ma libera di brillare sotto un cielo tempestato di stelle, i rintocchi dell’orologio della Torre dei Priori hanno segnato l’amen: il tempo della fine dell’attesa e quindi l’ora dell’inizio dello spettacolo. 

Un raggio di luce accompagna allora l’entrata in scena degli artisti del suono: co-protagonisti insieme agli interpreti dello spettacolo immaginato dallo slancio creativo di Valter Malosti, regista del testo teatrale scritto da Massimo Recalcati.

Valter Malosti

Malosti sceglie, in fertile accordo con l’essenza del testo, di “concertare” le voci di Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli – alle quali affida l’interpretazione di una selezione di brani della drammaturgia – ai suoni dello sperimentalismo in continua evoluzione del sound designer e musicista Gup Alcaro e alla chitarra laconica e brumosa, gravida di suggestioni, di Paolo Spaccamonti.

“Concertare” significa preparare per un’azione comune ed è qualcosa di diverso da una fusione; è piuttosto una cooperazione che riconosce le diverse peculiarità messe in campo. E quella del “concertare” è la cifra stilistica scelta da Valter Malosti per restituire registicamente il fecondo contrasto che agita il testo di Recalcati.

Massimo Recalcati

Le parole scelte dal celebre psicoanalista e saggista sono parole che sanno di esprimere il loro potere creativo: prendono vita da un eccesso di dolore che, lungi dalla tentazione alla rassegnazione, si trasforma in un desiderio disperato di lotta e di resistenza.

Sono parole che sanno di essere anche suoni dal potere fonosimbolico. E quello che prorompe dalla drammaturgia come un grido è un eccesso anche acustico, che ci viene restituito attraverso la sapienza di chi conosce intimamente quell’asprezza del suono vibrantemente acuto e quel carattere di esplosione polmonare, proprio dell’atto di alzare la voce in un grido.

Un grido che, al di là di una singolare esperienza personale, desidera richiamare l’attenzione della comunità, anch’essa coinvolta in questa disperata ed eccitante esperienza dello stare al mondo. 

Ecco allora che all’ “uomo” Massimo Recalcati si affianca lo “psicoanalista-antropologo” per restituire il valore di quella che è la radice etimologica di ogni nostro “gridare”: quel chiamare aiuto inteso dai nostri progenitori come l’atto di chiamare a condivisione  tutti i concittadini. Quel “quiritare”, da cui deriva il nostro “gridare”, significava infatti chiamare a raccolta i concittadini di allora: i Quiriti, appunto. Una parola dall’impatto unico: quello del suo originarsi dalla consapevolezza che avevano gli abitanti di una piccola cittadina dell’Italia centrale – nata su una sponda del Tevere ventotto secoli fa – che quando si gridava aiuto, si stringeva come cittadinanza.

Un grido che qui si origina dal ricordo di un’incubatrice: Recalcati, infatti, nato prematuro in tempi in cui non esisteva ancora la neonatologia, racconta di aver ricevuto insieme battesimo ed estrema unzione. Lui stesso, incarnazione del possibile coabitare di vita e morte. Un ricordo che si fa materia emozionale attraverso la sublime messa in scena acustica del regista-artista Valter Malosti. 

Un’incubatrice che ci parla di quel mortificante isolamento protettivo, durante il quale si è privati del contatto uterino con la propria mamma. Ma a qualche livello “l’imprinting” del suo battito cardiaco continua a insistere nel battito di suo figlio. Di concerto alla sua voce che, anche in quest’utero di vetro, riesce ad insinuarsi e a nutrirlo. 

Paolo Spaccamonti, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli, Gup Alcaro

Torbida  e pulsante come linfa vitale ci scorre dentro la voce di Federica Fracassi, scelta per interpretare la Madre, primo esempio della relazione e quindi della “concertazione” tra vita e morte. E nonostante il lutto che già veste, ma che non la abita e da cui eccedono guizzi di vibrante rosso sangue, “nuda” e distante ci si dà iconograficamente come una Venere botticelliana pervasa da “furor maliconicus”: quello de “La nascita di Venere”, allegoria neoplatonica incentrata sul concetto di amore come energia vivificatrice.


Una relazione, quella della vita “con” (e non “contro”) la morte, indispensabile ma che rischiamo continuamente di smarrire. Lo abbiamo sperimentato macroscopicamente durante i lunghi mesi di pandemia, dove a salvarci era il momentaneo allontanamento dalle relazioni. Anche noi, in qualche modo, chiusi terapeuticamente in un’incubatrice di vetro: quella delle pareti della nostra casa, che si estendevano attraverso i vetri dell’incubatrice-computer.

Marco Foschi, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli

Ed è intorno al fertile “concertare” di vita e di morte, reso acusticamente dall’elettricità melmosa e metallica dei suoni e delle voci, che Valter Malosti costruisce l’epifania della vita. Che ritorna: ancora e ancora. Anche nei momenti più mortiferi: basta non smettere di accordare il nostro orecchio ai richiami acustici del nostro essere battuti dal battito cardiaco “concertato” al ritmo del nostro passo, espressione invece della nostra volontà disperata, a insistere a continuare a vivere. 

Perché sebbene ci sia sempre qualcosa di irrisolto che resta e che tende a riproporsi, noi abbiamo facoltà di accordare la nostra luce al buio di questa irresolutezza. Attraverso un nostro “come”, simboleggiato dalla parola “Amen”: un suggello d’apertura alla vita, che si fonda sulla chiusura della morte. Come avviene nell’atto della nascita, nell’atto dell’amore, nell’atto della morte: “concerti” di vita e di morte. 

Ecco allora che questo testo teatrale, che nasce come un “grido”, si apre in un meraviglioso elogio del potere della “relazione”: il solo davvero efficace nel rievocare la vita anche nei momenti di morte. 

Federica Fracassi, Paolo Spaccamonti, Danilo Nigrelli, Marco Foschi

Della madre è l’insegnamento a desiderare la vita nonostante tutto, a cantarne un inno attraverso la trasmissione di quel battito del cuore che non smette di insistere. E che, quasi come un ancestrale imprinting, il figlio Recalcati ritroverà nel ritmo del passo del padre-soldato : qui un solennemente sfibrato Danilo Nigrelli, che sa rendere con efficacia l’eroe dal fascino rigorosamente decadente, incontrato dall’adolescente Recalcati tra le righe de “Il sorgente nella neve” di Mario Rigoni Stern . Ma quel battito del cuore è rintracciabile anche nell’imprinting di cui si nutriranno i battiti-carne con la sua amata donna.

Paolo Spaccamonti e Gup Alcaro

Quei battiti resi succulenti dalla voce e dalla rievocazione del sopravvissuto e ancora affamato di vita Marco Foschi, interprete di Enne 2, il partigiano di “Uomini e no” di Elio Vittorini, altro eroe incontrato nelle prime letture del giovane Recalcati. Il suo impaziente desiderio di vita trova massima espressione nella relazione palpitante con la sua donna, di cui Marco Foschi rende tutta la gustosa e drammaticamente impetuosa forza vitale, che lubrifica i sensi.

Uno spettacolo esperienziale – questo di Valter Malosti ispirato al testo di Massimo Recalcati – denso di quella sacralità che invita lo spettatore a parteciparne, aprendosi in un ascolto libero dai rigidi principi della logica. Un ascolto indifeso che, solo, riesce a rendere onore al potere della parola, che qui si fa carne. E di cui riusciamo a sentirne la lacerazione innamorata. Fino a toccarla. Contagiandoci di vita pulsante.

Andrée Ruth Shammah

Fertilmente visionaria, com’è nella sua cifra artistica, Andrèe Ruth Shammah: la direttrice artistica del Teatro Franco Parenti che ha scelto di produrre questo spettacolo, la quale non appena ricevuto in lettura il testo di Recalcati ne ha colto le potenti vibrazioni dionisiache, confluenti in un punto di fuga che ha dell’apollineo. Le vibrazioni necessarie per riaprirsi alla vita, e quindi al teatro, dopo l’oscurità dei mesi vissuti durante la pandemia. E non solo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del testo teatrale AMEN di Massimo Recalcati –

EINAUDI, Collezione di teatro 456


Da questo testo il Teatro Franco Parenti ha prodotto l’omonimo spettacolo che l’8 Luglio 2021 ha debuttato al Festival di Spoleto, con Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli e con la regia di Valter Malosti.


La bellezza di certe verità è inafferrabile. Ma ci ospita. Possiamo lasciarci le nostre tracce. È così. 

Come accade con la neve: quella, ad esempio, sul fondo della scena qui descritta. 

Una neve che abita un confine.

In quanto tale, un confine si dà come inizio e come fine di qualcosa.

Ma può darsi anche come coesistenza di un inizio e di una fine di qualcosa: come soglia di un incontro, di una comunione.

Come i protagonisti di questa narrazione: sono 3 ma anche 1.

E’ la bellezza di certe verità, come quella della religione cristiana e dell’inconscio psicoanalitico.

I tre – un figlio, una madre e un soldato/padre spirituale – non si rassegnano a concepire il confine tra la vita e la morte come una “separazione” tra un prima e un dopo.

La narrazione dei loro vissuti ci parla di un desiderio di vita che non esclude la morte ed è così consapevole da fare di questo presunto confine – sperimentato in molte occasioni della loro vita – un luogo d’incontro e quindi di coesistenza:

Tra un passo e l’altro

Tra un battito e l’altro

Tra un sentire e un mancare 

Tra il totale altruismo di madre e l’insostenibile leggerezza dell’essere dei padri 

Tra battesimo ed estrema unzione

Tra l’amore diverso di ciascuno dei due amanti

Tra il restare di un nome e il corpo che muore

Tra il durare e il resistere

Massimo Recalcati

E’ così che la scrittura di Massimo Recalcati, noto psicoanalista e saggista, ci porta a fare esperienza dell’ eternità del caduco: dell’irresistibile trascendenza legata al piacere dei sensi. 

In primis, il vedere: quello che riceviamo in dono dai nostri “piccoli occhi mortali” accesi dalla luce, partorita dal buio.

Luce che a sua volta partorisce la vita e insieme la morte. E rende possibile l’entrata in scena di un altro meraviglioso senso: il tatto. È la bellezza dell’aderire. Che non significa afferrare. Ma contagiarsi nell’abbracciare un’attesa. 

Recalcati canta la continua meraviglia di un giorno qualsiasi, quella trascendenza che scende sulla quotidianità, come la polvere sulla consuetudine immortalata nelle opere di Giorgio Morandi.

Recalcati canta la bellezza irripetibile dei nostri corpi, così come sono: lungi da un desiderio di perfezionamento. 

Recalcati fa venire alla luce un testo dalla viscerale e lisergica potenza sinestetica: che riusciamo a “sentire” anche acusticamente, olfattivamente, tattilmente e in bocca. Al di là dei principi della logica.

È il racconto della rievocazione della “passione del vivere”: la preghiera delle preghiere.

Un testo sull’urgenza di nascere, non solo una volta ma ancora e ancora: tutte le volte che la vita si scontra fertilmente con la morte. 

Tre personaggi, tre diversi modi di essere ebbri di vita. Per se stessi e per gli altri.

Tre declinazioni di ostinato insistere a voler vivere: anche quando l’ impossibilità a proseguire diventa direttamente proporzionale all’impossibilità a non proseguire. Uno strazio e un’eccitazione che non escludono la tentazione a lasciarsi andare e a gridare contro Dio, come Giobbe.

Ma su tutto vince l’urgenza dell’inafferrabile bellezza di vivere, ancora, ancora, ancora: battito dopo battito, passo dopo passo.

Sì, così: “…adesso e nell’ora della nostra morte”. 

“Amen”: così sia, così voglio.

Massimo Recalcati


Recensione di Sonia Remoli

LAZARUS di David Bowie e Enda Walsh- regia Valter Malosti

TEATRO ARGENTINA, dal 12 al 23 Aprile 2023 –

La cifra di Valter Malosti, il suo essere cioè un regista, attore e artista essenzialmente “visivo”, si manifesta epifanicamente all’apertura del sipario.

Valter Malosti, regista della versione italiana dello spettacolo “Lazarus”

In principio fu l’Immagine: un maxischermo tv proietta un affastellamento di immagini, una fertile confusione, essenziale al progetto di regia. Malosti sceglie, infatti, di rivelare “visivamente” allo spettatore solo il flusso di coscienza del protagonista, rendendo Thomas Newton il migrante interstellare, un Manuel Agnelli che, chiuso in se stesso, si cela prossemicamente al nostro cospetto. Terrorizzato dall’ignoto di cui noi spettatori siamo portatori, sprofonda con seducente decadenza nella sua poltrona, volgendoci le spalle.

Manuel Agnelli, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

In un allucinato e ossessivo flusso, le immagini del maxischermo progressivamente si quintuplicano su altri piccoli schermi che, come collegati da insolite sinapsi, riproducono dettagli di quelle stesse immagini. E non solo.

Il geniale effetto, travolge e volutamente strania lo spettatore, che si ritrova a perdersi nei loop mentali del protagonista. A scorrere ciclicamente non sono solo i pensieri di Thomas Newton-Agnelli ma, altra efficacissima trovata scenografica, anche il pianeta sul quale è caduto (la Terra), reso da un roteante studio-laboratorio (le scene sono di Nicolas Bovey). Straniamento suggellato dal primo brano di David Bowie, interpretato da un magnificamente tormentato Manuel Agnelli: “Lazarus” .

Manuel Agnelli, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

In questo sinergico adattamento, dove i brani musicali sono parte intimamente integrante della drammaturgia, il progetto sonoro è affidato alla cura di Gup Alcaro e prevede in scena anche una band di 7 elementi, così efficacemente “metafisica” da sembrare essere stata scelta con la stessa folle dovizia con la quale David Bowie andò alla ricerca della propria per realizzare il suo musical. Quasi come sfere celesti, quindi, l’Immagine, la Musica e la Parola si armonizzano come attraverso moti di rotazione e di rivoluzione.

La band in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Ma ciò che rende il tutto un’eccellenza, è la capacità registica di far sì che questo sofisticatissimo meccanismo tecnico-filosofico-psicologico risulti una realtà fruibilissima: di immediata comprensione per ciascuno di noi del pubblico. Perché, in fondo, ciò di cui si parla è la natura della nostra quotidianità: di come “ci incagliamo”, per un barlume di sicurezza, rinunciando alla nostra più autentica libertà: quella del perdersi per poter rinascere. Ogni volta: come “quell’uccellino azzurro”.

Cromaticamente, infatti, l’azzurro è il colore che fa da filo conduttore a tutto lo spettacolo: azzurri, ad esempio, sono i capelli delle Moire: le dee del destino nella mitologia greca.

Le Moire, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Onnipresenti nella vita reale e in quella “immaginata” da Thomas Newton, così come il destino è onnipresente alla vita di ciascuno di noi. Ma lungi dall’essere solo un’ossessione di insicurezza, l’adattamento del testo di David Bowie e di Enda Walsh realizzato da Valter Malosti enfatizza una “visione” del destino traducendolo in un input vitale potentissimo: “volgiti e affronta l’ignoto !”. E, quindi, apriti all’insicurezza ! Ogni volta. Sarai sempre “un assoluto principiante” sì, ma anche “un eroe”. Anche solo per un giorno. In una ciclicità tragica ma piena di grazia.

Casadilego, in una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Ciclicità come quella sulla quale è costruito il giro di accordi di ” This Is not America”, tale da tollerare lo spostamento di tono ad un’altra altezza. Qui, a “osare” reinterpretare il brano-profezia è una diafana Casadilego che riesce, con la sua umana e celestiale fragilità vocale e posturale, a rendersi carismaticamente “trasparente”, permettendo così anche a noi, come in un incanto, di passare attraverso la pesantezza della natura umana. Come in un gioco di luce. Perché se la prima consapevolezza che gli umani hanno è quella di sapere “ciò che non si è”, è però possibile attraverso l’Altro venire a conoscenza “di ciò che si è”. Se si ama e si è ricambiati. In un perdersi, senza controllo, per potersi scoprire. Non dando le spalle all’ignoto (postura magnificamente resa dal Thomas Newton-Manuel Agnelli di Valter Malosti) ma “voltandosi verso di esso e affrontandolo”. Come il migliore degli incontri. Ogni volta. “Finché ci sarai tu, finché ci sarò io”. 

Una scena dello spettacolo “Lazarus” di Valter Malosti al Teatro Argentina di Roma

Valter Malosti ancora una volta, come un alchimista impegnato a lavorare in primis su se stesso, riesce a dare prova di sapere come avvalersi dell’ arte del mescolare elementi della Tradizione a quelli dell’ Avanguardia, dove tutto trova un equilibrio grazie alla valorizzazione di ciascuna preziosa diversità. E così, ciò che arriva al pubblico è un trionfo di coralità. Una “pietra filosofale” nella quale lo spettatore stesso è invitato a prendere parte, dando vita ogni sera a qualcosa di misteriosamente e meravigliosamente nuovo. Perché così è la vita.

Il cast al completo agli applausi


Qui, intervista su Corriere.it


Qui, intervista su RadioDeejay


Qui, intervista su Rolling Stone



Recensione di Sonia Remoli