LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG -scritto e diretto da Massimo Odierna

TEATRO LO SPAZIO

dal 29 Aprile al 4 Maggio 2025

Bianco è il pavimento di nuvole sul quale veniamo gettati alla vita.

Bianco perché risultante di tutti i colori; bianco perché  mescolanza di bene e male.

Non c’è niente di dolcemente ovattato: i colpi arrivano in purezza.

Ma questo bianco pavimento di nuvole resta comunque un eden: un eden di appuntamenti,  e quindi di incontri, che modellano la forma della nostra vita e stimolano il nostro desiderare.

Massimo Odierna

In questo testo ferocemente poetico di Massimo Odierna, che ne cura sinfonicamente anche la regia, si racconta con visionaria ruvidezza di quanto sia complesso –  ma irrinunciabile  –  entrare in relazione con gli altri.

Soprattutto quando l’altro è così “diverso”, così intraducibile; soprattutto quando ci limitiamo a decodificare il suo “fare” anziché  provare a sintonizzarci sul suo ”sentire”.

Un eden terreno, quello di cui ci parla Odierna, alla ricerca di  un quid di  “sacro”: quel sacro che significa tensione verso  la consapevolezza che proprio quella fragilità – che è cifra della nostra umanità –  se condivisa, ci fa  splendere di possibilità vitali .

Federica Quartana, Enoch Marrella, Irene Ciani, Francesco Petruzzelli, Sofia Taglioni, Giovanni Serratone

Tutto sta nel disintossicarsi dall’ossessione a pretendere di vivere, con se stessi e con l’altro,  in  sempre maggiore sicurezza: sempre più confortevolmente protetti nella “bam-bagia”. Sempre più dipendenti da “organizzazioni settimanali”. E riscoprire, invece, la potente magia della parola, del raccontare e del raccontarsi. Dell’immaginare e quindi del prendersi cura dell’altro, ascoltandolo con attenzione.

Siamo affamati di relazioni – di amicizia, d’amore – perché di relazioni ci nutriamo. Ed è per questo che la vita ci chiede di  aprirci alla possibilità di “aggiungere un posto a tavola”. Continuamente.

Massimo Odierna in questo suo testo impreziosisce quella che potrebbe essere definita una black comedy con accattivanti sentori esistenziali propri dell’enigma della tradizione classica. Dove “l’altro” che si è allontanato e che ci si impegna avventurosamente a ricercare, non è solo quello esterno a noi. 

Ed è così che si arriva a scoprire che la vera ricerca che si è affrontata cercando la figlia di Kioto Zhang è quella verso il conoscere se stessi. Per imparare la virtù dell’accoglienza del “diverso”.

Efficacissima l’organizzazione dello spazio teatrale che vuole la scena immersa nel pubblico – e da esso circonda su tutti i lati – creando un’esperienza ancor più intima e coinvolgente. Seducente la scelta di abitare lo spazio attraverso una prossemica decisamente intrigante. Suggestiva la cura dei costumi di scena, che ben riesce a visualizzare il gioco sinergico degli opposti.

Gli attori in scena  –  Irene Ciani, Enoch Marrella, Francesco Petruzzelli, Federica Quartana, Giovanni Serratone, Sofia Taglioni  – brillano in concertazione. E così la loro meravigliosa coralità non manca di  lasciare spazio all’emergere dei fulgenti colori interpretativi di ciascun artista.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo MOBBING DICK – di e con Caroline Pagani –

TEATRO LO SPAZIO, 9 e 10 Ottobre 20224 –

Si apre con un prologo tratto dall’VIII canto dell’ “Orlando furioso” lo spettacolo di Caroline Pagani che  – con fine sagacia –  lancia un monito a guardarsi da coloro che si nascondono dietro l’incantesimo della parola – prima magia dell’uomo – per dare vita alla genesi dell’impossibile.

Una giovane attrice piena di entusiasmo si presenta ad una audizione. Trafelata arriva in teatro e sale sul palco con una valigia piena di costumi di scena. Non sa ancora che salire su un palco questa volta significa salire a bordo della nave di un ostinato Capitano Achab, ossessionato dall’idea di poter riuscire a “catturare” le ignote profondità di una Moby Dick attraverso l’esercizio del potere che il ruolo gli conferisce. E sebbene il tema affrontato sia serissimo, la Pagani riesce ad affrontarlo con la giusta dose di ironica comicità.

Cavallo di battaglia dell’attrice-esaminanda è Shakespeare, o meglio le figure femminili delle sue opere: donne di cui il Bardo analizza mirabilmente i diversi volti della psiche.

Convinta di essere opportunamente preparata e quindi pronta – “perché come dice Amleto essere pronti è tutto” – scoprirà che il vero fine dell’audizione è un altro. Ma ciò nonostante lei si dimostrerà comunque “pronta”.

Sebbene infatti il regista esaminante fin da subito semini dubbi sul suo autentico intento e l’attrice a qualche livello lo percepisca, lei continuerà a rispondere – senza smarrire coraggio e consapevolezza – alle richieste tendenziose del regista cambiando continuamente pelle.

E così, dall’ ambigua austerità monacale di Isabella (protagonista del dramma shakespeariano “Misura per misura”) approderà – attraverso continui cambi d’abito e d’ ”habitus” – alla dichiarata sensualità di Cleopatra. E da qui arriverà un finale di riscatto, tutto personale.

Uno spettacolo, questo che ci propone Caroline Pagani, che indirizza lo sguardo dello spettatore “sulla  parte acquea del mondo”, non solo attoriale. Senza perdere il sorriso, però. Proprio come riesce a fare un’altra donna che il personaggio della Pagani porta sempre con sé: l’indipendente e autoironica Betty Boop, dall’irresistibile fascino surrealistico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo DONNE SENZA CENSURA scritto, diretto e interpretato da Patrizia Schiavo

TEATRO LO SPAZIO, dall’ 1 al 3 Marzo 2024 –

«Lasciami qui / lasciami stare / lasciami così / non dire / una parola / che non sia / d’amore / per me / per la mia vita / che è / tutto quello / che io ho / tutto quello / che io ho / e / non è ancora finita»

E’ un gesto d’affetto quello che si dona e ci dona Patrizia Schiavo.

Un modo, il suo spettacolo, per onorare la sacralità del femminile: radice dello spazio teatrale.

Un grido, il suo, che si fa lamento fino a divenire evanescenza di sussurro.

Da un’esplorazione interiore prende vita una rievocazione personale che si traduce in teatro: attraverso lo pseudonimo di Letizia Servo (una sagace scelta di sinonimi) Patrizia Schiavo dà voce a tutte le parti di sé che la abitano, incluse le più oscure. 

Silvia Grassi, Patrizia Schiavo e Sarah Nicolucci

Non ascoltarle e non lasciarle esprimere avrebbe rischiato di formare dannosi blocchi. Fluisce invece un racconto che riesce ad abbattere il muro del silenzio, delle ipocrisie e del perbenismo di una società che vuole le donne solo a determinate condizioni.

Un risultato raggiunto anche grazie agli efficaci interventi a specchio delle due alter ego Silvia Grassi e Sarah Nicolucci che, al di fuori di ogni vittimismo o moralismo, si espongono senza censura oltre quel velatino di scena, che contribuisce a creare la magia di renderle improvvise visualizzazioni dei pensieri. Epifanie della mente di Patrizia Schiavo, alias Letizia Servo.

Perché la bellezza, non tanto quella della forma, richiede una particolare cura per essere tutelata. E l’intensità della vocazione all’autenticità della Schiavo ci porta alla suggestione di ripensare ad Annarella, la Benemerita Soubrette di Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP.

Annarella Benemerita Soubrette CCCP Fedeli alla Linea – Prefazione di Marco Belpoliti
con fotografie inedite di Luigi Ghirri – Quodlibet Edizioni

Perché è proprio da un disagio che un’artista coglie l’urgenza della propria ricerca. E la Schiavo da sempre sceglie di fare un teatro “necessario”, propedeutico al raggiungimento di una consapevolezza e quindi di una metamorfosi.

Un teatro come luogo d’incontro, strumento di denuncia e impegno civile contro la violenza. Luogo che attualmente ha preso la forma del Teatrocittà: una realtà artistica di altissimo livello, coraggiosamente insediatasi in una difficile periferia della capitale: Torrespaccata.

Ecco allora che anche la platea diventa “uno spazio di periferia” che necessita di aprirsi e di sperimentare. E infatti con generoso acume la Servo, rompendo la quarta parete, cerca continuamente il contatto e lo scambio con il pubblico, che provoca e insieme ristora. La risposta non tarda ad arrivare. Ed è generosa, complice, creativa.

Patrizia Schiavo è Letizia Servo

E poi, nel corso della rievocazione del suo complesso e fertile percorso a tutela di un’autonomia come donna e come attrice, arriva il momento di svolta: l’incontro con il Maestro e padre spirituale Carmelo Bene.

Ed è qui che la Schiavo ci regala una splendida testimonianza di come l’eredità che più conta è il modo in cui quello che abbiamo ricevuto viene interiorizzato e trasformato. Non si tratta tanto di uno spalmarsi passivo sull’eredità consegnataci ma di un fare proprio ciò che si è “respirato”.

Patrizia Schiavo è Letizia Servo

Consapevoli che nel destino di erede è incluso anche quello di essere orfano, come anche l’etimologia greca della parola erede ci ricorda. Perché un erede non può limitarsi a ricevere ciò che gli è stato lasciato, ma deve, proprio come un orfano, compiere un movimento di riconquista della sua stessa eredità. Perché quello che conta è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, come direbbe Massimo Recalcati.

E infatti la parola chiave di tutta la rievocazione della Schiavo – incentrata sul poter salvifico del raccontare – è “ancora”: la parola che meglio di ogni altra esprime l’essenza del desiderio, dell’entusiasmo, dello slancio vitale.

Patrizia Schiavo è Letizia Servo

Come anche il brano musicale che suggella lo spettacolo rivela con densa e malinconica potenza. Una malinconia che al di là dello stagnante rimpianto, si libera in una straordinaria forma di gratitudine: erede e orfana. E quindi creativa, viva. Ancora.

«Lasciami qui / lasciami stare / lasciami così / non dire / una parola / che non sia / d’amore / per me / per la mia vita / che è / tutto quello / che io ho / tutto quello / che io ho / e / non è ancora finita». 

Davvero uno spettacolo necessario.

Recensione dello spettacolo PUPA & ORLANDO – da Giuseppe Fava

TEATRO LO SPAZIO, 1 e 2 Febbraio 2024 –

– Tratto dai testi di GIUSEPPE FAVA –

Dov’è la verità ?

E’ notte: Pupa va in strada per fare “carezze d’amore” . Spaventata, sussurra di Nino Rota Canzone arrabbiata. Ma una struggente malinconia domina sulla rabbia.

Canto per chi non ha fortuna

Canto per me

Canto per rabbia a questa luna

Contro di te…

Contro chi e ricco e non lo sa…

Chi sporcherà la verità

Penso all’illusioni dell’umanità

Tutte le parole che ripeterà…

Dipinto di Giuseppe Fava

Gli avventori le dicono che lei è una cosa inutile; si dimenticano il suo nome. Ma lei non perde la consapevolezza della sua identità.

Perchè si racconta a noi. E così grazie al potere del racconto può continuare a tenere insieme tutti i ricordi che le danno la prova di esistere. 

Pupa s’innammora: riesce sempre a trovare qualcosa di cui innammorarsi. E ne è felice. Scopre di diventare madre ma prima che nasca suo figlio muore il suo Michele. Allora il bambino si chiamerà come suo padre e oltre al nome ne erediterà il destino.

Marco Aiello (Orlando) e Claudio Pomponi (Pupa)

L’amore poi prende il nome di Orlando ma lui la fa esibire nelle piazze: è il suo amore e il suo pappone. Sono storie d’amore e di morte. Pupa lo sa: basta chiudere gli occhi e immaginare che quelle carni siano del suo Orlando.

Ma le narrazioni di Pupa e di Orlando differiscono: dove sarà la verità?

Dipinto di Giuseppe Fava

Pupa si strugge per i suoi figli, per le contraddizioni dell’essere madre: desiderare di spingere fuori – alla vita – il proprio figlio ma poi desiderare anche farlo rientrare nel proprio grembo. Proggerlo dal crescere, dall’allontanarsi, dall’essere indipendente. Dal morire.

Quanto vale la vita di un uomo ?

Claudio Pomponi (Pupa) e Marco Aiello (Orlando)

In un’epica del sopravvivere dolce-amaro, Marco Aiello (Orlando) e Claudio Pomponi (Pupa) – a scena quasi nuda – riescono a “riempirci gli occhi di parole e la gola di sospiri per amore”.

La Pupa di Pomponi brilla di un femminile in purezza: candido e sordido; delicato e prorompente. E di una vocalità sinuosa e suadente. Un femminile trasversale all’ontologia del genere.

Di Marco Aiello emerge la versatilità, nella quale si muove attraversando le pluripartiture che in lui prendono vita: dall’avventore al musicista (di lacerante bellezza i suoi interventi contaminanti con l’armonica a bocca); dall’avvocato al pappone. Sostiene con efficacia e credibilità un dialetto siciliano parlato con un ritmo vorticoso eppure chiarissimo, netto, opportunamente articolato.

Entrambi ricordano un po’ i guitti della commedia dell’arte ma il riferimento più esplicito e ai cantastorie erranti siciliani. 

Uno spettacolo che brucia il cuore.

È il teatro di Giuseppe Fava: il teatro che punta la luce sulla “normalita”, sullo stile popolare dal linguaggio denso e marcato. Sull’ “antica ed eterna contraddizione di vivere tra infelicità e speranza”. Un teatro come esercizio del potere investigativo verso la ricerca di quella libertà, che non è un dono di natura ma ardita e consapevole conquista.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GUARDIANO di Harold Pinter – regia di Duccio Camerini

TEATRO LO SPAZIO, dal 16 al 19 Novembre 2023 –

Se l’acutezza di spirito di Harold Pinter è riuscita a provocarci ad immaginare negli ipotetici panni di un “guardiano” un ladro; il mordace sguardo registico di Duccio Camerini riesce a solleticarci a riflettere su come i panni del “ladro” possano essere vestiti da Mick – una delle vittime del furto – “lasciando in mutande” il ladro.

Ed è vero, è proprio così: per natura l’istinto alla sopraffazione ci unisce tutti. È ciò che più profondamente costituisce un essere umano. Sì, l’odio viene prima dell’amore: ci fonda.

L’ amore no. L’ amore – e quindi l’accoglienza, la condivisione, la misericordia, l’amicizia, l’altruismo – è tutto da imparare. Così come il concetto del “custodire”: dello sviluppare la fiducia a lasciare in custodia qualcosa di nostro ad un altro. 

Ma cosa c’è da custodire in una stanza dove regna la fatiscenza e il caos ?

L’interno.

Qui, nel penetrante sguardo registico di Duccio Camerini, “il territorio da segnare” è un teatro abbandonato, roccaforte su un “esterno” minaccioso.

Ma cosa c’è di più accogliente di uno spazio teatrale? Uno spazio dove “deve” esserci qualcun altro che viene dall’esterno, per poter dar vita all’epifania del teatro?

In un’allucinata metateatralità, qui il living dei personaggi è un “territorio segnato” da un quadrato impermeabile. Ma un teatro non resta mai davvero asettico, abbandonato: per sua natura è permeabile, osmoticamente comunque visitato da presenze, da “fantocci” continuamente nuovi – spesso fedeli – che desiderano guardare, assistere, condividere, proteggere. Custodire.

Lo sguardo registico di Camerini non manca di valorizzare anche l’altra forma – oltre quella territoriale – in cui si esprime l’esigenza dei personaggi pinteriani di “segnare il territorio”: quella linguistica. Quella dei significanti: lo spazio nascosto e sottostante il significato delle parole. Uno spazio “interno” autentico e sofferto. Così lacerante che nessuno dei personaggi può e vuole sostenerne il peso: né il mittente riesce a tradurlo in una comunicazione intima e sincera; né il destinatario riesce ad accoglierlo ascoltando davvero la confessione dell’altro. Laddove l’ascolto è la condizione base per permettere ai sintomi della sofferenza di trasformarsi in parole. Non appena uno dei tre pare tentare di raccontarsi, l’altro si distrae a fare altro oppure parla contemporaneamente anche lui. Evitando che si lasci spazio al silenzio, presupposto che onora la parola dell’altro. “Guardiano” è quindi ciascuno dei tre protagonisti, nell’accezione riflessiva che ciascuno “si guarda” dall’Altro.

La vita, sembra dirci lo spazio teatrale, è una partita, dove le squadre avversarie, o i contendenti, sono realmente divisi. La separazione infatti è il presupposto di ogni partita. Non a caso Mick, il fratello di Aston, presentandosi all’ospite inatteso Davies (il ladro) lo accoglie con la provocazione: “A che gioco giochiamo?”. E a quante partite scoprirà di dover giocare Davies, in una metateatralità del gioco della vita !

In una visione registica che riesce a far coabitare ritmo ed eloquenti silenzi, fedeltà ed opportuni tradimenti, Duccio Camerini scende anche in scena vestendo i panni di un Davies carismatico e scoppiettante, che sottovaluta l’altruismo rappresentato da Aston (un Leonardo Zarra credibile nella sua vellutata e ossessiva sofferenza) e la diffidenza del fratello Mick, resa con efficace isterica violenza da Lorenzo Mastrangeli.

Uno spettacolo che – nell’apparente freddezza – brucia di passione.  

Uno spettacolo che cela e rivela verità esistenziali.

Perché il Teatro ci salva. Sempre. È la nostra roccaforte da dove “guardare” la Vita.

Come nel Teatro così nella Vita, infatti, ci “deve” essere l’altro per esserci un noi.


Recensione di Sonia Remoli

Bambola – La strada di Nicola

TEATRO LO SPAZIO, dal 30 Marzo al 2 Aprile 2023 –

La nostra identità è davvero espressa dal nostro nome proprio ? E come potrebbe ? Il nostro nome è scelto da altri, i nostri genitori, che inevitabilmente finiscono per caricarlo di tutte le loro aspettative. E’ un po’ come se già prima di nascere “venissimo scritti” da altri . Ma a noi resta ancora la libertà di scrivere qualcosa di “davvero nostro” .

Paolo Vanacore, autore del testo dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola”

Questo ci ricorda il testo pieno di bellezza “Bambola, la strada di Nicola” scritto da Paolo Vanacore, interpretato con estroso ardore da un poliedrico Gianni De Feo e musicato dal Maestro Alessandro Panatteri.

Il Maestro Alessandro Panatteri

Nicola è il nome di ripiego di Nicoletta (Strambelli, in arte Patti Pravo) la dea adorata dalla madre di Nicola: quel tipo di donna che la mamma non era riuscita ad essere. Ma ora poteva riuscirci sua figlia: si sarebbe chiamata come lei, Nicoletta, e avrebbe ereditato la sua stessa personalità: libera, vera, autentica. La signora non lascia minimamente spazio, tra le sue aspettative, alla possibilità di poter dare alla luce un figlio. Quando accade se ne dispera. E non smette di farlo, silenziosamente, per tutta la vita.

La cantante Patty Pravo

Tra frustrazione e inevitabile assecondamento, Nicola cresce. Ma già da bambino inizia a sentire “di essere chiamato” per lasciarsi andare in un’altra direzione. Il primo segnale lo sperimenta nei momenti in cui suo padre, che non nutre invadenti aspettative su di lui e lo ama così com’è, riesce a ritagliarsi degli spazi da dedicargli. Quando cioè, soliti stendersi a terra, il piccolo Nicola ama chiudersi in posizione fetale all’interno del corpo di suo padre, come in un guscio. Quasi l’immagine di una nuova gestazione.

Un paradiso tu vivrai se tu scopri quel che hai…” . Scoprire ciò che si ha, scoprire il proprio “valore”, la propria autentica identità e potervi accedere per “realizzarsi” come persona: questo cantava Patty Pravo, un’avanguardia negli anni ’60. Ma quanta (apparente) sicurezza siamo disposti a cedere per non tradire il nostro desiderio, il nostro talento, senza farlo dipendere totalmente dagli altri ?

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

Il padre di Nicola muore quando lui ha solo sette anni e dieci anni dopo sua madre sceglie di suicidarsi. Nicola resta orfano e qualcosa, già vivo in lui, inizia a prendere forma: Bambola. Un nome che Nicola sceglie pensando a quel tipo di donna cantato da Patty Pravo. Una donna che aspetta godottianamente qualcosa che deve arrivare e che con sensibilità leopardiana non può fare a meno di rivolgersi alla Luna per constatarne però ogni volta il suo disinteresse.

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

Una storia avvincente, personale e insieme universale, immersa nella Roma degli Anni ’60, dove nelle periferie si vivevano i fermenti dei moti di emancipazione: il femminismo, la libertà sessuale, la contestazione giovanile. Periferie laboratorio, dove Pasolini ambientava, tra l’altro, le interviste dei suoi “Comizi d’amore”. Tra le voci di un’umanità che inizia a trovare l’ardire di parlare di sessualità, intervistato è anche un Giuseppe Ungaretti che dichiara che in amore non esiste un concetto di “normalità” che lega gli uomini alla propria natura. A salvarci è solo uno “sforzo di poesia”.

Giuseppe Ungaretti e Pier Paolo Pasolini in “Comizi d’amore”

Poesia che Gianni De Feo dimostra di saper portare in scena: sua infatti è la capacità di utilizzare il corpo per catalizzare l’attenzione per poi scoccare il dardo dell’emozione sul pubblico. Con grande controllo di gestualità e mimica: senza mai incorrere in eccessi.

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

La cifra stilistica di Gianni De Feo trova espressione in una capacità registica ed attoriale sincretica, che si avvale della complice sinergia di linguaggi diversi. La canzone, ri-arrangiata per essere messa al servizio dell’interprete ad esempio e’ una componente drammaturgica imprescindibile che, unita alla lingua da proscenio, dà vita ad una proposta di teatro canzone davvero molto interessante. Frutto della particolare affinità tra Gianni De Feo, Paolo Vanacore (autore del testo), il Maestro Alessandro Panatteri e Roberto Rinaldi (curatore delle scene e dei costumi).

Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio

DAIMON – L’ultimo canto di John Keats

TEATROLOSPAZIO, dal 2 al 5 Febbraio 2023 –

Prendendo posto in sala, lo troviamo seduto sul palco. Di spalle, su un cubo di marmo. Legge un’iscrizione: la “sente”. Non parla, così sembra. Ma le parole più belle sono quelle che naufragano nel silenzio. Si sta lasciando guidare dal suo “daimon”: lui sa cosa è più fertile per “fare anima” . Di Gianni De Feo fin da subito ci arriva la fascinazione della sua “percezione”. La sentiamo.

Gianni De Feo nell’intro allo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Poi si alza, si volta e dà inizio alla sua seducente narrazione: un ripercorrere a ritroso i momenti del palesarsi, subdolo o manifesto, di un singolare “daimon”. 

In perfetta corrispondenza con il “fare anima ” di James Hillman, De Feo, che oltre ad interpretare l’appassionante testo di Paolo Vanacore ne ha curato anche la regia, dà vita ad un meraviglioso montaggio pluri-disciplinare collegando ed enfatizzando il potere della narrazione a contributi artistici di varia natura: dalla musica alla pittura; dal canto alla danza.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

La musica è quella che si immagina esca da una radio degli anni ’20 e viene scelta per fare “da tappeto” alla narrazione, seguendone simbolicamente i diversi climi. Per la pittura, De Feo sceglie di proiettare delle tele del pittore Roberto Rinaldi: davvero di forte espressività. Il canto e l’accenno a degli eleganti passi di danza arrivano con l’entusiasmo di un’amabilissima sorpresa: De Feo rivela dei colori vocali molto interessanti e dà prova di un’intensissima interpretazione avvalendosi di un accattivante uso delle mani che, in alcuni momenti, ricorda la magia delle “mudra”.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Come nelle poesie di Keats, De Feo riesce ad evocare gli oggetti nelle sue molteplici qualità mediante l’accostamento di diverse sfere sensoriali. In questo modo le immagini risultano così vivide che non solo se ne immagina la fisicità ma si riesce a partecipare della loro vita intima.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Il testo di Paolo Vanacore immagina di ripercorrere il riappropriarsi della vocazione, “dono dei guardiani della nostra nascita”, da parte di un bambino che nasce dall’ondivago fluttuare delle onde di “un hotel di passaggio” di Atlantic City e che lascerà un’indelebile traccia di bellezza sulla Terra.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

È un teatro di narrazione colmo di intima poesia, quello in cui s’immerge Gianni De Feo. Rompendo continuamente i piani, quasi fossero onde da fendere. E ci trascina con lui. Ne “sentiamo” il carisma, ne apprezziamo il ritmo, il “farsi anima” dei gesti. Dei silenzi. Della parola. Non si può non percepire infatti la bellezza con la quale De Feo riesce a riprodurre le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici) che abbondano nei versi di Keats e che donano musicalità e grande freschezza espressiva. Particolare attenzione pone De Feo all’utilizzo delle vocali che, così come amava Keats, sono impiegate alla stregua di note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. E, così sedotti da tale bellezza, non possiamo non “lasciarci andare”. Naufragando. Paghi del nostro esserci venuti a cercare.