Recensione FILIPPO TIMI LIVE – Non sarò mai Elvis Presley – di e con Filippo Timi

TEATRO ARGOT STUDIO

dal 10 al 13 Aprile 2025

Il palco del Teatro Argot Studio di Trastevere – a coronamento dei festeggiamenti per i suoi primi 40 anni (1984-2024)  – ieri sera ha ospitato l’incandescente debutto della prima delle 4 serate live del  “Filippo Timi Live Non sarò mai Elvis Presley”, prodotto da Argot produzioni.

A concertarsi con la sinergica performance musical-canoro-teatrale di Timi, il produttore e compositore romano Lorenzo Minozzi.

Il giocoso exploit di Timi – ricco in improvvisazioni dal fascino esistenzialista – trova avvincenti sinapsi artistiche e filosofiche con la sperimentazione sonora di Minozzi, compositore che fa sua la manipolazione armonica e ritmica di campionamenti ambientali.

Quello di Timi è un canto – e quindi un racconto poetico – sulle origini e su quello che ognuno di noi può farne. Un tema che tutti ci riguarda questo sull’eredità familiare, che come un imprinting ci modella e ci guida, fino ad un certo punto del nostro stare al mondo. E che poi va fatta propria, manipolata criticamente e quindi anche fedelmente tradita. 

Il canto di Timi é meraviglia: viscerale e ludico; ironico e sensuale; provocatorio e tenerissimo. Ha qualcosa di indelebile, di sacro. I temi di cui canta – personalissimi – arrivano con tutta la potenza vibrante di modelli archetipali, dove la burla sa di tragedia e la tragedia dell’abbraccio accogliente di un sorriso.

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi

Nel live di ieri sera, come un aedo che ama accompagnarsi non con la cetra ma con l’handpan – uno strumento composto da due gusci in metallo che opportunamente sfiorati producono vibrazioni eteree ed ipnotiche – ha intessuto il canto delle gesta della sua vita, lasciandolo contrappuntare dalle creative sonorità, sapientemente artigianali, del compositore Minozzi. 

Il tutto sullo sfondo di “paesaggi”, che contribuiscono a rievocare l’immaginario del progetto. Ad echi distorti di paesaggi televisivi – parco giochi dell’infanzia – si susseguono così visioni di riscritture paradisiache dell’età adulta. 

In scena “il paesaggio dei paesaggi”, dove le coordinate spazio-temporali si fondono e si confondono: dove il sopra si mescola al sotto; il prima al poi; il pieno al vuoto; il sacro al profano. Dove la giocosità di un circense stare al mondo felliniano si sovrappone ad una francescana natività. Dove “a incarnarsi” è un live, sul quale fa eco la cometa di rituali proiezioni.

Timi ricorda “la sua natività” come un luogo dal buio opprimente e dagli echi disorientanti propri della putrefazione. “Cosce dell’assurdo” da cui scappare “fuori dall’incompiuto”. Un paesaggio chiuso e cupo, ritemprato dalla musicalità della sua lingua natia: il perugino di Ponte San Giovanni.

E poi arriva la magia delle vibrazioni dell’handpan per accompagnare la scoperta della sconsiderata generosità dell’amore: quel “per te”, capace di cambiare i connotati alla realtà. “Per te farò sanguinare i fiori del pregiudizio”: una dichiarazione, un racconto di lotta, di speranza, di resistenza. Veicolato dall’espressività dell’armonica a bocca di Lorenzo Minozzi.

E se poi arriva la scoperta che la felicità “dura il tempo di una bancarella a Santa Marinella”, la cenere può comunque diventare “cipria”. Perché il finale sta anche a noi modellarlo: sdrammatizzando il “cemento ruvido” familiare con il politicamente scorretto dei “Griffin”. Perché l’essere nati da “sassi” immobili, sempre fermi nella loro orizzontalità – così suggestivamente visualizzata anche dalla modalità di percussione della chitarra di Lorenzo Minozzi – non esclude la ricerca e il raggiungimento di quella fluidità espressiva libera dal “giudizio universale”, cancro di prevedibilità.

Un “live” questo di Filippo Timi che scuote e che piacevolmente sorprende, fino ad inebriare lo spettatore di possibilità vitali. 

Perché Timi canta dell’importanza di accorgersi del paradiso nascosto nell’imperfezione dell’imprevisto, così diverso dai nostri progetti.  E fiorire: spuntando comunque, nonostante tutto. Prendendoci “cura anche dei simboli che ognuno di noi è”.

E allora poco importa non essere come Elvis Presley. Anzi, è meglio così.

Un teatro, quello di Filippo Timi, che prende e regala attenzione, in un gioco scenico misterioso e complesso fra parola, suono, musica, teatro. 

Un teatro che è prima di tutto coinvolgimento e come tale “fa volare”: un sogno che se non si può realizzare con le ali, si può assaporare però a piccoli sorsi. Un pò come quel cocktail  che Timi “ci offre”, già entrando in sala. 

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CORTILE – di Spiro Scimone – regia Valerio Binasco –

Produzione Compagnia Scimone Sframeli

TEATRO ARGOT STUDIO

dal 16 al 19 Gennaio 2025

Sembrerebbe che Godot sia arrivato: è in cortile. Anzi, Godot è “il cortile”: quello di cui parla Tano e che giustifica le sue evasioni da Peppe. 

L’esistenza di un “cortile” contribuisce a dare forma ad uno scenario di coordinate spazio-temporali: a un qui e un là; a un prima e un dopo. Là, nel “cortile” – dice Tano – si va a cercare e a trovare l’amore. Si va a riempire il sacco vuoto. Qui, invece, è sempre tutto uguale.

Solo chi, come lui, si interroga sull’altezza e sulla profondità della desiderabilità dello spazio quotidiano, cerca e trova una retta immaginaria che passa per i punti-luce A e B: con questa retta si può comunicare, quasi fino a toccarla, avvicinandole un’altra retta, questa però in ferro. Una retta percorribile, scalabile. La relazione tra le due rette e la base sulla quale poggiano dà vita ad una sorta di cortile triangolare semi-illusorio. Lì si può andare a fare l’amore, dice Tano. E l’amore, si sa, è la più efficace misurazione del tempo.

A dire il vero, anche la parola – e il darsi della sua assenza attraverso il silenzio – concorre all’individuazione di diversi piani spazio/temporali. Così come l’amicizia – o meglio la relazione di assenza per troppa presenza tra Peppe e Tano – crea una sorta di subdolo principio causa-effetto. 

L’amore però è diverso: fa proprio “contare i giorni”.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano

Ciò che si dà nell’ambiguità della parola e delle dinamiche relazionali, viene messo a nudo dalla prossemica: Tano sceglie sempre di stare lontano da Peppe, per difendere un suo tono, una sua identità. Peppe invece, che sa usare le leve psicologiche della forza di attrazione-manipolazione, riesce (quasi sempre) a calamitarlo verso di se.

Soffre infatti Peppe quella tensione verso “il mare del desiderare” del suo Ulisse (Tano) e oltre a lamentarsi per essere lasciato sempre solo – un po’ come una Maga Circe – ordisce piccoli sortilegi per trattenerlo. O almeno farlo avvicinare. 

Perché Peppe, pur essendo bloccato su una sedia ruotante solo su se stessa, è un tipo sagace e vive la sua postura come un’investitura regale. Il suo è un trono dal quale “divide et impera”, seducendo e manipolando Tano. Con la sua voce flautata e suadente come quella di una sirena, lo incanta: il suo ipnotico tono cantilenato, sussurrato con soave ferocità, blocca Tano come in un incantesimo. Così da smorzare il suo anelito verso “il cortile”. Quando poi accade che Tano dimostri un’insopportabile resistenza, Peppe arriva a boicottare la sua autostima, facendogli credere che la libertà di movimento di cui dispone si è ora privata di energia.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano Gianluca Cesale è “uno”

Come se non bastasse, a mettere in pericolo l’imperio di Peppe sullo spazio scantinato, un terzo uomo rivela la sua presenza, balzando – come un burattino – da dietro a quel che resta di un diroccato mobile. Apparentemente lui non è pericoloso come Tano, perché ha scelto di smettere di camminare e di desiderare: preferisce infatti strisciare. Preferisce suscitare pietà: questa è la sua forza. Ha rinunciato anche ad essere identificato con un nome. E’ un simpatico parassita. 

Variazioni di una medesima condizione esistenziale, sono quelle rappresentate da questi tre uomini infantili e argutamente decadenti. Dove chi desidera conoscere ed esplorare la realtà con i propri occhi e con il fiuto del proprio olfatto deve fare i conti con chi lo seduce subdolamente a preferire il quieto “buio”. Come accade a Tano: lui si dichiara infatti non disponibile a dover solo “digerire” quello che gli si vuole somministrare, rivendicando il suo diritto a poterlo anche “vomitare” . “Perché quando ti abitui, non senti più nulla”. Ma insidiosamente riesce a trovare un varco la melliflua sicurezza dell’abbraccio di “un cortile”, rappresentato da un sacco vuoto, senza luce: dove perdersi al sicuro. Senza desiderare più nulla. Restando imprigionato nel buio.

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone

Un testo poeticamente feroce questo di Spiro Scimone, che avviluppa lo spettatore in una tela magica intessuta di una ritualità che rassicura e soffoca. Il pubblico ne resta intrigato e arruffato. Siamo noi. O forse no. Però intanto ci solletica. Fino a pungerci. 

Complice l’accattivante regia di Valerio Binasco: una partitura musicale “scritta” per la lingua di ciascun personaggio. Un concerto capace di esaltare le diversità di ciascuno, in un’armonia irresistibilmente umana.

Sono il Peppe di Francesco Sframeli, dallo sguardo adorabilmente impertinente fino alla maleficienza e dalla tempra musicalmente tagliente; il Tano di Spiro Scimone, la cui solida presenza sa darsi plasticamente come un’assenza anelante di arrampicarsi verso un altrove,  fatto di “sorrisi”: anche loro dei piccoli cortili.  E poi l’eleganza del verme burattino di Gianluca Cesale, entità inscindibile dal luogo che lo ospita. Ne indossa lo stesso “color indecisione” in un ambiguo presentarsi come carta bianca dalla pungente acidità verdeggiante. Fascinoso, come il suo piangere immobile e muto.

Tre diversi modi di stare al mondo. Tre diversi modi di condividere il vuoto e di fargli argine. Tre diversi modi di scambiare il valore di una persona con il bisogno che riveste per l’altro; l’arte di vivere con l’utilità; la solidarietà con la sottomissione. Sguardi miopi che, in diverso modo, si lasciano “mettere nel sacco” da una perversa ricerca di sicurezza. 

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo JAGO – di e con Roberto Latini

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 19 al 22 Dicembre 2024

S’insinua tra noi. 

Nel buio.

Ci versa parole nell’orecchio.

Non sono solo parole. 

Sono un’amplificazione tridimensionale del loro significato. 

Sono la sua eco. 

Ma non solo: lui stesso si fa eco, distorce e si distorce, altera e si altera, deforma e si deforma, risuona ed è risuonato, è armonia e corrispondenza semantica. Si rende suono, si fa udire, si rende palese. 

E’ un concerto.

“Volete ascoltarmi ?”.

Questo il suo esordio: la sua proposta. 

La condizione affinché ci sia “teatro”. 

La condizione affinché Jago possa esistere. Perché prestargli attenzione significa riconoscergli un’identità: la sua, quella autentica. Non come ha fatto Otello.

Si rivela a noi come ad un cielo abitato da stelle: noi spettatori.

Seducentemente si confida: sa come usare le attese, i vuoti. E nel farlo ci fornisce come delle inedite “note di regia”. 

Perché Jago ha un autore, sì, ma poi si fa regista, attore e spettatore.

Entra in scena: la luce lo bagna appena, con sapienza inquietante. 

Si muove di un moto sinuoso, scivoloso, strisciante, quasi una danza. Perché, per far scivolare le volontà dei suoi nemici portandole in un’altra direzione – la sua – lui stesso deve farsi corpo che si lascia plasmare dalla scivolosa seduzione dell’incertezza. 

Ondeggia, s’avvita e si svita. 

Ansima, difatti: la fatica è notevole ma solo così può temprarsi per resistere e vincere (forse), laddove le sue vittime si lasceranno sopraffare.

Solo così potrà dire: “io ero, sono e sarò”.

Indossa un lungo impermeabile: l’impermeabilità vuole essere la logica conseguenza del suo allenarsi ad essere fluido. Così da non lasciarsi permeare dalla paura, dalle raccomandazioni, dai sentimenti gentili.

Ed è così, in questo continuo processo che abita il suo sottosuolo inconscio, che lo Jago di Roberto Latini stupefacentemente “diviene e contiene” tutti i personaggi della tragedia.

E in un’epifania visivamente sonora, ci rende consapevoli di come loro, ciascuno a suo modo, “sono quello che non sono”. 

Rivelazione resa particolarmente mirabile da Latini attraverso l’evocazione di un’immagine che riguarda Otello: “perché vi mordete le labbra – gli chiede sconcertata Desdemona pochi istanti prima di essere da lui uccisa – siete irriconoscibile”. E lui: “C’è una ragione”. Le labbra, qui in Latini, riescono a parlarci di un voler far altro di Otello, di cui resta solo una traccia in quel suo gesto di mordersi le labbra.

Perché “c’é una ragione” che non lo rende libero di essere libero.

Perché “c’è una ragione” che “lo costringe” ad essere libero, in un modo diverso da quello rivelato dal quel mordersi le labbra.

Perché i nostri gesti non coincidono con chi noi siamo, essendo noi un “poter essere”.

Dice infatti anche lo Jago di Latini: “E’ ancora presto. Sono in prova, sono in attesa di scegliere le parole”.

Anche lui, come noi, come i personaggi della tragedia, non è libero di essere libero. Siamo costretti a essere liberi: siamo costretti a scegliere. 

Perché “c’è una ragione”: perché c’é sempre una ragione.

Su questa realtà ci illumina, come solo la luce del buio sa fare, lo “Jago” di Roberto Latini.

Una performance, la sua, dove la luce è gesto. E dove il gesto, così come la parola e il suono, incarnano la cifra del “verde”: il colore la cui definizione ha per lungo tempo predato la curiosità degli artisti, tanto indecifrabile si rivelava il suo essere mescolanza fluida. 

Uno studio, un approfondimento, un’amplificazione, necessari.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo INTERNO ABBADO – scritto e diretto da Andrea Baracco –

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 5 all’ 8 Dicembre 2024

Desiderare epidermicamente aderire. 

Fino a fondersi.

Un desiderio erotico? 

Una possibile definizione di amore?

Un peccare nel desiderare tanto l’altro?

Sicuramente qualcosa che ci racconta visceralmente del nostro essere misteriosamente umani. Qualcosa che ha l’irresistibile afrore dell’arcaico sopraffare. Ma anche qualcosa della simbiotica tensione alla completezza, propria di una dimensione mitica. Quell’unità platonica che rendeva gli uomini simili a dei. 

Ma quanto, di divino, noi umani siamo capaci a esprimere, a godere, a tollerare?

Quanto il nostro corpo finito riesce ad arginare quella scintilla divina, che tutti ci abita?

Qual è il nostro desiderio più profondo, più viscerale, più erotico ?

Quello di essere guardati, forse.

Perché essere guardati, con continua curiosità, ci fa esistere.

Perché guardare è intrigante non meno dell’essere guardati.

Perché ciò che davvero appaga costantemente la nostra folle scintilla divina, costretta a bruciare dentro i confini di un corpo, è il cimentarsi nell’apprendere l’arte di intessere una partitura di vuoti e di pieni epidermici. E’ l’arte di entrare in relazione con l’altro.

Andrea Baracco

Anche di questo ci parla la bellezza spietata di “Interno Abbado”, un testo di Andrea Baracco sul mistero di essere umani.  Un testo che, oltre ad essere cucito sartorialmente come un noir, ci parla hegelianamente di come non ci sia niente di più profondo di quello che appare in superficie.

La cute in superficie e l’Io in profondità raccontano la stessa storia di assorbimento e di termoregolazione.  

La cute in superficie e l’Io in profondità rappresentano un complesso àmbito di separazione-unione-comunicazione: con se stessi e con il resto del mondo.

La cute in superficie e l’Io in profondità rivelano i segreti l’una dell’altro: quei segreti sprofondati nel nostro inconscio, spesso propri del vissuto di un organismo, che soffre da così tanto tempo da non poterlo più nascondere. 

Baracco cura callidamente anche la regia dello spettacolo e individua in Giandomenico Cupaiuolo l’interprete capace di incarnare e, a qualche livello, sublimare “la summa” delle esistenze interne ed esterne, che abitano questo racconto. Così come il nostro essere gettati al mondo.

Giandomenico Cupaiuolo

Il regista con elegante e tagliente acutezza si avvale poi di un’estensione fisica e metafisica alla “summa” delle esistenze del racconto: il suono di un particolare strumento musicale e la presenza scenica del suo interprete Edoardo Petretti.

Edoardo Petretti

Uno strumento musicale, la fisarmonica, che accende e infiamma l’anima. Ma che da sempre è considerato un pò troppo “pop” e quindi scarsamente preso in considerazione dai compositori classici (fatta eccezione per Čajkovskij , Verdi e pochi altri). 

 In verità, la fisarmonica è “uno strumento-orchestra” pieno di imprevedibili possibilità. Perfetto, anzi speciale, per questo testo di Baracco che è, tra le altre mille cose, anche un racconto sull’imprevedibilità umana. 

Imprevedibilità resa con sapiente follia da un Giandomenico Cupaiuolo che si fa lui stesso “strumento musicale”. Il suo apparato respiratorio, quasi come un mantice, cerca e trova un respiro che riesce a far vibrare la scala delle “voci” delle sue esistenze. 

Un respiro che si origina da una sorta di gocciolio: un suono indecifrabile, arcaico, magicamente animalesco ma non lontano da uno schioccare di lingua umano. E che poi si sviluppa attraverso la ricerca di una contrazione e di una apertura estensiva, necessari ad estrarre il potenziale sonoro dalle voci esistenziali che abitano “la summa” dei suoi personaggi.  Ne parlano visivamente le sue spalle: “mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste…” per dirlo alla G. G.Marquez.

L’ampiezza di registro e di voci utilizzabili, unita ad una grande duttilità nelle dinamiche, nei modi di attacco e di articolazione del suono, fanno delle sue spalle un fulcro di sublime espressività timbrica e ritmica.

L’estro registico di Andrea Baracco è tale da rendere “strumento musicale” un corpo umano e “corpo umano” uno strumento musicale. Lo spettatore ne riceve in dono un incredibile senso di avventura, riccamente denso del brivido della scoperta.

Che cosa sappiamo in fondo di noi?

Siamo più o meno consapevoli di impiegare spesso tutta una vita a tenere a bada certi nostri inquieti slanci “interni”, attraverso “rassicuranti” rituali tra il sacro e il profano (come argutamente suggerisce la messa in scena del regista Baracco). Ma il lavoro di contenimento di una vita può rompere gli argini senza preavviso. E rivelare racconti stupefacenti di noi stessi. 

Quel “the dark side of the moon” che può manifestarsi epifanicamente, ad esempio, quando quel certo nostro amore scompare come spuma tra le onde. E, di quello che è stato, non resta nulla nell’aria a ricordarci che siamo amabili perché siamo stati amati.

Quel “the dark side of the moon” che denuda un “interno”, fisico e psichico, imprevedibile. Sguardi e attenzioni, mancati o subiti, che qui ci si illude follemente di recuperare attraverso i mille occhi della pelle dell’altro.

“Mentre la luna di lassù sta a guardare”.



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA RELAZIONE PER UN’ACCADEMIA di Franz Kafka – interpretato e diretto da Tommaso Ragno

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 21 al 23 Novembre 2024 –

Ieri sera l’Accademia del Teatro Argot Studio ha ospitato Pietro il Rosso: la scimmia che in 5 anni ha raggiunto un livello d’intelligenza di un uomo medio.

Per la sua relazione è stato predisposto uno spazio, abitato da una struttura geometrica, che non manca di alludere al gusto e alla funzionalità di un verticale intreccio vegetativo di foresta. Una splendida metafora della tensione che abita ancora l’ospite della serata. Tensione suggellata da due linee di neon, che ricreano parzialmente una struttura contenitiva.

L’entrata in sala dell’ospite è stata preceduta da un servitore in livrea a lui dedicato, incaricato della cura del luogo e dell’ospite.

Ma ecco che si odono passi. Uditivamente, e poi visivamente, l’andamento risulta insolito, quasi baldanzoso: una compensazione del ritmo e del gesto della brachiazione.

Il servitore, quasi un servo di scena, lo aiuta nel togliersi il cappotto e il cappello ma Pietro il Rosso, nonostante la tensione al contegno geometrico, appare vagamente disorientato e maldestro. Più volte gli cadono cose dalle mani. E, dopo aver misurato e verificato lo spazio che lo sta ospitando, si rassicura estraendo dalla sua cartella una banana. E’ un rituale: basta guardarla e toccarla. 

Ora può estrarre i fogli della relazione. E con l’agilità di un balzo, sale sullo sgabello e si aggrappa al leggio, come ad un ramo.

Tommaso Ragno è Pietro il Rosso

Inforca gli occhiali: le sue prime parole “Illustri Signori …” escono incertamente, come conservando un’eco di quel disorientamento appena rivissuto. Ma è un attimo. Con uno scatto si alza in piedi sullo sgabello e la voce sale per proseguire e ringraziare. Il suo, ora, è un andamento di lettura che procede (quasi provocatoriamente) come quello di un bambino delle scuole elementari: a comando. Ma poi, quando arriva il punto in cui dice che noi Accademici gli abbiamo chiesto una relazione sulla sua precedente vita di scimmia, tutto cambia. Si ferma. E, tremante, si toglie gli occhiali dicendo: “non mi è possibile”. Colpo di scena.

Adesso, per tentare di spiegare non ha bisogno di leggere, tanto che socchiude gli occhi come trasportato da un senso di ricordo. Dal quale, però, non riesce ad attingere informazioni: è un periodo della sua vita come rimosso, nel momento in cui – ferito e catturato – ha preso la decisione di “tradirlo”, fuggendo verso un altro sapore di libertà. 

In questo senso una “relazione” intesa come “resoconto di informazioni” non gli è possibile. Può invece, “entrando in relazione con noi”, raccontarci di come ha imparato ad entrare in relazione con gli uomini. 

Una relazione “utile” ma non “fertile”: pur avendo condiviso insieme esperienze di vita, gli uomini che ha incontrato si sono sempre mantenuti “a distanza dalla barriera” tra le loro diverse nature. E, anche lui, non è mai stato davvero attratto dal loro modo di stare al mondo.

Ma, consapevole che una vita da scimmia non gli sarebbe più stata possibile, realizza (“calcola”) che non gli resta che fuggire alla scoperta di una vita da uomo. Il segreto per riuscirci – ci confida – è stato quello di eliminare progressivamente dalla propria natura “ogni ostinazione”: segreto di ogni relazione umana. Ed è curiosamente provocatorio come Kafka ci inviti a prendere lezioni da una ex scimmia, per capire “come si diventa un uomo”.

Quello che Pietro il Rosso ha imparato per dovere, per necessità (“mi sono piegato”), nel nostro stare al mondo può essere la magia dell’incontrarsi e del contaminarsi vicendevolmente con l’altro. Con uno sguardo. Con una stretta di mano. Con un bacio.

Ed è di strabiliante bellezza come questo Pietro il Rosso di Tommaso Ragno sappia sottolineare poeticamente certi passaggi della relazione: elevandosi ora ad un allure metafisico-ieratico, ora invece ad uno spleen spudoratamente animalesco, balzando giù dallo sgabello verso di noi. 

E poi c’è il suo respiro: l’inspirazione è sempre silenziosa ma l’inspirazione invece si sente, proprio là dove serve. E ci arriva tutta la tempesta di un’entità che si muove tra minaccia e piacere.

E ancora, la rabbia del nome ricevuto in sorte: un nome che non lo identifica, che lo riduce a qualcosa di insignificante come una lieve ferita al viso. Anche qui Kafka è tremendo: rende consapevole di una finezza esistenziale una ex scimmia, quando noi umani spesso neanche ci facciamo caso al nostro “essere fatti dagli altri”. 

Ma non è tutto: Kafka desidera – proprio attraverso questo racconto – renderci consapevoli di come nonostante ciò – nonostante cioè siano gli altri a darci un nome, a immaginarci, a educarci, a trasmetterci i loro desideri – ognuno di noi, proprio come Pietro il Rosso, può fare qualcosa di proprio di quello che di lui hanno fatto gli altri. Qui è la misura della nostra libertà. Un po’ quella “via di fuga” di cui lui ci parla continuamente.

Via di fuga impossibile da raggiungere senza il secondo segreto: se il primo era quello dell’eliminare “ogni ostinazione” dalla propria natura, il secondo è quello di “osservare” molto bene gli uomini. Con calma. Prestare loro attenzione: dedicare loro tempo, per rimanerne contagiato. 

Nella circolarità di un rituale, la relazione giunge al termine e si conclude con un’anticipazione di ciò che accadrà in albergo, dove una piccola scimpanzè semi addestrata lo sta aspettando. 

Il cui sguardo, se incontrato di mattino – ci confida Pietro il Rosso – diventa inquietante come uno specchio: c’è qualcosa in esso che va al di là della possibilità offerta dal linguaggio. Ma che su di esso spinge. Ed è un qualcosa che può solo essere visto: un animale addestrato e confuso. 

Proprio come quello che Tommaso Ragno ha mirabilmente cercato di renderci visivamente attraverso quel disorientamento maldestro di cui era preda, prima che iniziasse la relazione, il suo Pietro il Rosso.

“Ma non si dica che non ne è valsa la pena”- conclude il Relatore.

Ed è proprio così: tentare di entrare in relazione con un altro, inteso come qualcosa di diverso dalla nostra natura, è ciò che dà più sapore al nostro stare al mondo.

Tommaso Ragno


Recensione di Sonia Remoli

Molly B.

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 16 al 19 Marzo 2023 –

Prendendo posto nell’intima sala del Teatro Argot non si può non costeggiare il letto disfatto nel quale giacciono un uomo e una donna. Sembrano addormentati, probabilmente colti dalla mollezza della fine di un convegno amoroso: sono rimasti sfalsati, lei con la testa tra i cuscini, lui con la testa tra i piedi di lei.

Il letto che li ospita ha un’insolita testiera nella quale sono stati attirati e catturati tutti gli oggetti di scena, quelli che possono arredare uno spazio. Come se una potentissima forza di attrazione li avesse calamitati. E bloccati. Per dare vita ad un altro spazio. Tutto suo. Solo suo. E insieme di tutti.

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

È una notte d’estate dai sentori ancestrali: canta la cicala e a lei, talvolta, s’unisce l’upupa. La donna, immersa profondamente in questa atmosfera magico-onirica, inizia a muoversi nel letto e nel dormiveglia, quasi come un ulteriore uccello, inizia ad emettere suoni che via via vanno assumendo la chiarezza di una serie di affermazioni: “sì … sì … è così …” .

Ora, può prendere avvio una lunghissima moltitudine di pensieri, di ricordi, di suggestioni, tipiche di chi si muove in quello stato primordiale qual è la fase tra la veglia e il sogno. È l’amore, l’argomento che li unisce tutti: l’amore come spinta vitale, come appetito, come affamato bisogno d’incontro e di scontro. Di complicità e di schermaglia. Di bugie e di confessioni. Di maschile e di femminile. In una parola: fame di sedurre e di essere sedotti.

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

Questo movimento dell’immaginazione richiama, coinvolge ed accende il corpo di lei che, dall’iniziale posizione fetale, inizia ad aprirsi sempre più generosamente, fino a bagnarle gli occhi.

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

Iaia Forte dimostra una potenza straordinaria a lasciarsi possedere dall’immaginazione. È talmente coinvolta che sembra rapita da un “daimon” che la rende sacra e le permette di fingersi, anzi di essere, maschile e femminile. E poi femminile e maschile. In un continuo scambio di ruoli. Non ci guarda, ma noi del pubblico il suo sguardo lo percepiamo con nitidezza: si insinua ovunque. 

Iaia Forte (Molly B.) in una scena dello spettacolo omonimo diretto da Carlo Cecchi

Lei è Mollly Bloom e siamo nel diciottesimo e ultimo episodio dell’ “Ulisse” di James Joyce, noto come il “monologo di Molly Bloom”. Un flusso ininterrotto di oltre quaranta pagine, che conta due soli segni di punteggiatura. E’ costituito da otto enormi frasi nelle quali Molly inizia a riflettere, prima di addormentarsi, su di una richiesta che il marito Leopold le ha fatto nel capitolo precedente. Per passare poi a considerazioni sui propri amanti, su di sé, sugli altri personaggi incontrati durante il romanzo, in un flusso incessante di idee, memorie, sensazioni, percezioni che scorrono liberamente e senza pause o cesure, proprio come fanno i pensieri nella mente umana.

Iaia Forte

La succulenza vocale di Iaia Forte, diretta do sguardo di Carlo Cecchi, da sempre attento al gesto, all’esattezza dei ritmi vocali e alla sottolineatura sonora, fanno di questo monologo una trascinante partitura musicale che rivoluziona il senso dello spazio, dove quel palpabile e insieme impalpabile spessore del corpo si fa scenografia.

Carlo Cecchi, regista dello spettacolo “Molly B.” con Iaia Forte

L’uomo dal fiore in bocca

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 31 Marzo al 10 Aprile 2022 –

Sta in un cantuccio e ci guarda: è una donna dal vestito nero, stretta ad un fascio d’erba. Ci spia mentre prendiamo posto in sala. A tratti parla tra sé. E poi, ripensa. Il regista Francesco Zecca ha scelto di allestire la scena sotto al palco: uno spazio fisico e ultraterreno, rettangolare e insieme concentrico, per ricordare un uomo, ormeggiato con l’ancora di un lembo di terra. Sul fondo tre specchi rettangolari, chiusi a semicerchio, replicano e rivelano sotto diverse angolature, tutto ciò che li attraversa.

La donna dal vestito nero esce dal suo cantuccio, si guarda intorno, si cerca e non si trova negli specchi sovrastanti. Ma nonostante tutto con sacra eleganza entra, un piede alla volta, nel luogo dove poter osservare gli affanni delle nostra assurda e passeggera esistenza. Un luogo privilegiato, per essere ammessi a riflessioni di respiro profondo, partecipi di un intimo e vitalissimo ciclo, che sempre riattraversa il grembo fertile della terra.

Qui, il regista Zecca immagina di donare la parola a chi, nel testo originale di Luigi Pirandello del 1923, era stata tolta: la moglie. Lì il marito l’allontana dalla propria vita, dopo aver scoperto di essere malato, preferendo attraversare gli ultimi mesi nel desiderio di penetrare dentro la vita degli altri, perfetti sconosciuti, di cui osserva con pignoleria ogni particolare.

L’adattamento di Zecca si apre invece con la moglie in visita alla tomba del marito. Lei, al massimo della spinta simbiotica, si appropria dell’urgenza del marito di attaccarsi con l’immaginazione alla vita degli altri, pur non avendo come lui un responso di morte con una imminente data di scadenza. Crede che spiare la vita degli altri la faccia sentire più libera.

Ma cosa sta spiando davvero? La vita o la morte degli altri? O forse come la morte spii sempre la vita? Lei resta ipnotizzata dalle mani, dagli abbracci, dalle lacrime, dai modi di camminare degli altri. E quando si accendono le luci di platea, si attacca con l’immaginazione anche alle nostre vite di spettatori. La musica accompagna ed enfatizza il suo gusto per la vita, che però è destinato a fermarsi in gola (come suggellato dalle micro-pause musicali) e quindi a non soddisfarsi mai.

“Si può sentire sapore solo nelle cose del passato”- arriva a sostenere. E si aggrappa sempre alle stesse frasi, che prima di lei erano state l’àncora di suo marito. Lo si legge dai suoi occhi: mai davvero centrati sul presente (neanche quando spia gli altri) e men che meno sul futuro. Occhi, i suoi, che guardano indietro, come ripercorrendo un film, la cui scena madre è quella delle poltrone della sala d’attesa, “occupate” da lei e da suo marito, prima di conoscere il responso consegnato dal medico.

Noi, come quelle poltrone, con un destino d’attesa, di accoglienza e di aderenza temporanea. Altri vi si siederanno e crederanno come noi di “occuparle” davvero. Tutto scorre senza possibilità di controllo ma la cosa più insopportabile è che noi rischiamo di scorrere nell’indifferenza. “Perché -si chiede la donna dal vestito nero- mio marito non ha chiesto a me di raccogliere i fili d’erba? Perché lo ha chiesto proprio ad un “avventore”?

Forse perché un avventore per sua natura sa di essere “di passaggio”, sa che la sua è una presenza occasionale ma unica, sa muoversi nell’incontrollabile, nel mistero che avvolge la vita. Forse solo un avventore, proprio quello che beve un liquore di menta con la cannuccia, può essere coinvolto nel nostro destino.

E nel momento di massima disperazione, un pensiero potente come un incubo, sottrae la moglie alla mortifera forza di attrazione verso la terra: quello del gusto erotico delle albicocche. E scoprirà, forse, che il destino in cui tutti siamo avvolti è un destino di continui inizi.

Una struggentemente alienata Lucrezia Lante della Rovere arriva e lascia il segno.

Il regista Francesco Zecca e l’interprete Lucrezia Lante della Rovere hanno dimostrato la loro solidarietà alla questione ucraina con questo potente gesto.

Recensione dello spettacolo COSI’ E’ (O MI PARE) – Spettacolo in realtà virtuale – adattamento e regia di Elio Germano –

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 24 febbraio 2022 –

Una riscrittura per realtà virtuale di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, adattata e diretta da Elio Germano, con la partecipazione di Isabella Ragonese e di Pippo Di Marca.

Un esempio di quando le nuove tecnologie scelgono di configurarsi come campi di ricerca, per affrontare “i classici” da un punto di vista differente, senza la pretesa di sostituirsi alla tradizionale fruibilità del teatro. Creazioni che nascono dal teatro e che al teatro ritornano. La sfida piuttosto è sui contenuti e sui modi per realizzarli.

Le riprese si sono svolte presso la Tenuta Bossi dei Marchesi Gondi e presso il Teatro della Pergola di Firenze, il cui Direttore Artistico, Stefano Accorsi, ha sostenuto fortemente questo progetto, che segna l’inizio di un cammino ideativo con Elio Germano.

Indossando cuffie e visore si entra direttamente dentro allo spettacolo, attraverso una ripresa in soggettiva, cioè nei panni del Commendator Laudisi, personaggio appositamente inventato rispetto al copione originale. A lui, anziano padre di Lamberto (interpretato da Elio Germano), tutti i personaggi si rivolgono con rispetto. Questa trovata, che procura un iniziale piccolo shock allo spettatore (che si scopre in una diversa identità) agevola una visione sferica della scena.

Il testo pirandelliano è stato riadattato da Elio Germano ambientandolo nella società moderna, nella fattispecie in un salotto dell’alta borghesia, dove l’umana perversione a “spiare l’altro” risulta amplificata dalla possibilità di usufruire dei nuovi media. Il risultato che ne scaturisce è che questo supporto aiuta a perdersi ancor di più all’interno dell’ossessione di trovare un’unica verità, universalmente riconosciuta.

La storia della signora Frola, del signor Ponza suo genero, della sua giovane moglie e di un paese che non può fare a meno di interrogarsi su di loro e sulle loro insolite abitudini, non smette di farci riflettere sul nostro umano bisogno di mettere argini, confini e quindi (apparenti) certezze all’indeterminatezza nella quale, per natura, siamo gettati. Indeterminatezza e quindi incertezza che da un lato ci spaventa (perché ci dà la misura di un’impossibilità di controllare totalmente la realtà) ma che dall’altro ci intriga, ci rapisce, perché i vuoti d’informazione liberano il nostro desiderio (di sapere, di spiare) incarcerato dentro alle regole apatiche di un cero modo di vivere, accettato solo in quanto riconosciuto dai più.


Recensione di Sonia Remoli