EDIPO RE – adattamento e regia Luca De Fusco

TEATRO ROMANO DI OSTIA

dal 2 al 6 Luglio 2025

Travolgente successo al Teatro romano di Ostia per la prima dell’ Edipo re di Sofocle nell’adattamento e regia di Luca De Fusco, traduzione Gianni Garrera.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo con Luca Lazzareschi, Manuela Mandracchia, Paolo Serra, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta – in prima nazionale dal 2 al 6 Luglio – che inaugura la prima edizione del Teatro Ostia Antica Festival- Il senso del passato.

Lo sguardo dello spettatore – incastonato nell’area Archeologica degli scavi e insieme solleticato dall’invitante brezza salata del ponentino romano- inizia a fare esperienza di quella ritualità propria del rapporto tra libertà e necessità, di cui il testo di Sofocle – qui tradotto dal filologo Gianni Garrera – ha cura di descriverci.

Emerge così, dal crepuscolo estivo, una scena sempre più ammiccante e notturna. Modulata in diversi livelli di scale, che ospitano presenze simboliche. Alludenti a identità segretamente celate sotto la formalità borghese di tre cappelli magrittiani e in una testa in gesso velata, sempre di magrittiana memoria, splendida allusione al rapporto dell’uomo con la conoscenza. 

Una scena essenziale e simbolica – curata dall’elegante estro scenografico di Marta Crisolini Malatesta, qui artefice anche dei costumi – che richiamandosi alle potenzialità dinamiche insite in una concezione scenica visionaria come quella di Adolphe Appia, va al di là della mera messa in scena di un testo letterario. E si apre al potere della luce come elemento visivo, capace di creare un’atmosfera: mutando assieme alle azioni e alle emozioni dell’attore. 

Concezione scenica efficacemente in sinergia con l’estetica surrealista magrittiana, in grado di insinuare dubbi su oggetti, paesaggi ed esperienze della più concreta e banale vita reale, proprio attraverso un maniacale realismo espressivo. Ne scaturisce così un paradosso dall’illusionismo onirico, perfetto per dare ospitalità alla tragedia dell’Edipo re, così come immaginata dallo sguardo registico di Luca De Fusco. 

Ecco allora che, furtivamente, lo spettatore si trova calamitato in un misterioso avvio, che coincide con l’introduzione a una dimensione altra. Attraverso un disegno luci atmosferico e narrativo – la cui cura è affidata a Gigi Saccomandi – entra in scena il linguaggio onirico/inconscio della luce insinuante delle ombre, accompagnato dalla misteriosa cromaticità di una tessitura drammaturgica al violino – le musiche sono di Ran Bagno – il cui virtuosismo, incarna quel quid di trascendentale, fascinoso e conturbante.

Complice una creazione video-scenografica che, come uno specchio, rimanda e visualizza surrealisticamente l’habitat inconscio della psiche dei personaggi  – le splendide creazioni video sono opera di Alessandro Papa – anche lo spettatore viene gettato nella situazione traumatica della carestia e della successiva peste, in cui è immersa Tebe. Edipo è il re, e a lui le varie aree della sua psiche, nonché la popolazione di Tebe, chiedono salvezza, liberazione.

L’adattamento e la regia di Luca De Fusco partono da qui, per  concentrarsi sulla fragilità delle dinamiche conoscitive di Edipo, così simili alle nostre. Non a caso Freud fece della storia di Edipo il fulcro dell’esplorazione delle modalità psichiche umane. 

Luca Lazzareschi

L’Edipo di Luca Lazzareschi è magnifico nel suo darsi in una sventurata ostinazione, che però non smette mai di commuoverci. Perché ci appartiene intimamente. Ce ne parla la sua postura così solenne eppure così tormentata: tutta incentrata nella tensione tra il suo ergersi da sapiente, la sua falcata sicura e il suo modo poi di abbassare il capo, proprio di chi viene colto e avvolto dalla confusione e dal dubbio. E lui, anziché restare in questo tunnel di fertili incertezze tutte da esplorare, le scaccia per poi inevitabilmente imbattervisi inconsapevolmente. E poi c’è la sua vocalità: così chiara e piena di ritmo, sicura fino all’impertinenza. E poi arrendevole, mortifera e mortificante.

E ancora, atterrisce e affascina il relazionarsi chiuso di Edipo verso Creonte (qui un efficace Paolo Serra), con il quale non riesce ad allacciare un equilibrio di posizioni divergenti. Edipo è il primo detective nella storia del romanzo giallo – come la lettura registica di De Fusco sa sottolineare – ma la sua capacità di indagine è efficace solo formalmente: Edipo sa chiedere attraverso un editto, sa da chi può farsi aiutare per ricavare indizi dalle tracce, ma poi non ce la fa a scendere ad analizzare le loro profondità.  

Paolo Cresta (secondo Nunzio, secondo Corifeo) – Luca Lazzareschi (Edipo) – Alessandro Balletta (terzo Corifeo) – Francesco Biscione (primo Corifeo)

Incantevolmente struggente è la visualizzazione che di questo concetto ci offre la regia di De Fusco, quando sceglie di far prendere in mano ai tre Corifei (Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta) la testa di gesso velata. Per poi svelarla.

E’ una tendenza tutta umana, infatti, quella per cui ci si affanna nella curiosità insaziabile di sapere, per poi rimanere sorpresi nello scoprire che siamo capaci di sopportare solo piccole dosi della verità che ci si mostra.

Manuela Mandracchia (Giocasta) – Luca Lazzareschi (Edipo)

E’ l’effetto che ogni volta l’oracolo ha su coloro che a lui si rivolgono, come ad una sorta di arcaico psicoanalista, quando sono in una crisi tale che non sanno da dove cominciare a dipanare la nebbia dei dubbi. Ad esempio quando Edipo scopre di essere stato adottato: l’oracolo non risponde alla sua domanda su chi sono i suoi genitori biologici ma gli dice che è importante che lui consideri – e quindi metta in relazione con le sue aree psichiche migliori – anche la realtà che dentro di sé esiste una tendenza che lo spinge ad uccidere suo padre, per poi sostituirlo nel ruolo di marito con la madre. 

Ma Edipo è così turbato da non riflettere bene sul significato metaforico del consiglio. Lo prende invece alla lettera e crede che la cosa migliore sia sfuggire dai genitori adottivi. Così qui: quando Edipo manda Creonte a chiedere all’oracolo come fare per liberarsi dalla peste e poi ascolta il responso, inizia a fare fatica a rimanere concentrato sulle prime testimonianze. Perché sente che si sta avvicinando ad una verità grande, difficile da accogliere e da mettere in relazione con la propria autostima. Sente, che proprio nell’indagare, è se stesso che sta cercando. Ed è di straordinaria bellezza tragica. 

Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio, Nunzio)

L’acme del disagio si raggiunge con Tiresia – qui reso attraverso una seducente ed efficace proiezione video, che ne fa una creatura volatile che dondola imprigionata in una gabbia. Lui che era un esperto dell’ arte divinatoria analizzando il comportamento, il canto e la direzione del volo degli uccelli . Assai avvincente la sua vocalità: dalla musicalità cantilenante distorta, vagamente gracchiante eppure così divina. 

Nella profonda lettura di De Fusco anche Tiresia  – così come il Servo di Laio e il Nunzio, essendo coloro che a qualche livello conoscono la verità – divengono aree diverse della psiche di Edipo, le quali entrano in tensione con la prepotenza del suo ”io”. Che – come sosteneva Freud – “non è padrone in casa propria”. Infatti la tensione con l’area psichica rappresentata da Tiresia diviene così ingombrante, da far arrivare Edipo a sospettare un complotto contro di lui da parte dello stesso Tiresia e di Creonte.

Luca Lazzareschi (Edipo) – Manuela Madracchia (Giocasta)

Non lo convince a desistere dall’andare ciecamente avanti nella sua ricerca, neanche l’approccio di Giocasta (qui una suadente Manuela Mandracchia, meravigliosa nube cumuliforme), che versa nell’orecchio di Edipo il dubbio che in fondo gli oracoli non sono poi così puntuali. E che preferibile per lui sarebbe, scegliere “il meglio” piuttosto che “la verità”.

E così Edipo impara, e noi con lui, che nessuno in quanto “figlio” può essere padrone delle proprie origini. Tutti noi, sosteneva Jacques Lacan, veniamo al mondo “a mollo nel linguaggio dell’altro”. E il nostro primo “altro” sono i nostri genitori, dai quali Edipo non eredita altro se non un abbandono e un (mancato) infanticidio. Eredità che ripeterà, non accettando di “conoscere se stesso” nel bene e nel male, così come di non poter conoscere tutto. Tra l’altro, sostenere massicce dosi di verità non è affatto semplice: Jung diceva ai suoi pazienti psicotici che “è bene non aprire tutte le porte: quello che può uscire, rischia di catturare la mente senza restituirla”. 

Ma se è vero che per Edipo, e per noi umani, fare esperienza di “libertà” significa conoscere se stessi nel bene e nel male ed accettarsi, dietro ad Edipo c’è anche “il destino” che parte dalla violenza subita da suo padre da parte dei Dioscuri di Tebe e poi a sua volta ripetuta da Laio su Crisippo. 

E’ per questo che l’oracolo dice a Laio che, se avrà un figlio, ne verrà ucciso e diverrà lui marito a sua madre. E Laio anziché decifrare questo messaggio metaforico, pensa di evitarne gli effetti dapprima proteggendo i suoi rapporti e poi consegnando il neonato affinché venga ucciso. Edipo sopravviverà e quando, scoprendo di essere un figlio adottato ne andrà a chiedere informazioni all’oracolo, lui stesso cadrà nello stesso errore di non decifrare l’oracolo ma di sfuggirne gli effetti interpretandolo letteralmente. E così, sconvolgendo i rapporti “sociali” di parentela, Edipo – che aveva risolto l’enigma della Sfinge – finirà per darà origine lui ad altri enigmi, del tipo: “chi è colui che ha un padre che è anche un suocero? Chi è colui che ha una madre che è anche una moglie? Chi è colui che ha fratelli anche come figli? Tanto che, nelle “Fenicie”, Seneca mette in scena un Edipo vecchio e disperato a cui fa dire: “Se io da qui raccontassi ciò che ho fatto della mia famiglia, proporrei enigmi più inestricabili di quelli della sfinge”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Accattivante lo sguardo registico di Luca De Fusco nel suo scegliere di indagare, fino a visualizzare negli occhi dello spettatore ciò che Edipo tende ad allontanare da sè.  

Lui stesso, il regista, un detective nel consultare e interrogare il passato.

Scoprendo di essere capace di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro, così da tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e fino a dove abbiamo la possibilità di spingerci.

Per non perdere niente di ciò di cui è fatta la nostra vita. Niente e nessuno. 

Da questo sguardo di cura sul passato che si riflette sul presente, prende forma anche il desiderio della realizzazione del Teatro Ostia Antica Festival-Il senso del passato: il Festival che a Roma ancora non c’era e che è stato fortemente immaginato da Luca De Fusco – ci confida Il Presidente della Fondazione Teatro di Roma Francesco Siciliano nel suo discorso di apertura, alla prima di “Edipo re”. Un nuovo inizio a cui la comunità romana ha risposto con grande entusiasmo.


Dopo i grandi successi dei primi due appuntamenti

“’Antigone di Mendelssohn” direttore Francesco Lanzillotta 

e

“Edipo re” per l’adattamento e la regia di Luca De Fusco

il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato

prosegue con

“Antigone” di Jean Anouilh per l’adattamento e la regia di Roberto Latini. 

il 18 e il 19 Luglio 2025


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della restituzione-spettacolo LE LACRIME DELLA DUSE – Il patrimonio immateriale dell’attore

NUOVO TEATRO ATENEO, 27 Ottobre 2023

Nietzsche la chiamava l’arte del “saper tramontare al momento giusto”.

E di questa arte seppe ben disporre Memo Benassi: colse infatti che quel “momento giusto” per lui arrivò quando a 63 anni si sentì spiato in camerino da un giovane Glauco Mauri, appena diplomato. Lo convocò allora per passargli in dono la giacca che lui aveva indossato recitando l’Oswald de “Gli spettri” di Ibsen. E sulla cui spalla, la Duse era solita piangere. “Tienila da conto” – gli disse – “a me inizia ad andare stretta”. Così avvenne il passaggio: l’inizio della trasmissione di un’eredità immateriale. 

Memo Benassi e Glauco Mauri

Arrivare a spiare Benassi in camerino, dopo averlo potuto veder recitare e provare sulla scena, significa qualcosa di speciale: che al giovane ed acuto Glauco Mauri non sfugge quel qualcosa “di immateriale” insito nella capacità attoriale di Benassi. Qualcosa che al giovane Mauri risulta ancora irresistibilmente irraggiungibile. E proprio per questo andava seguita, spiata. Per osservarla bene, entrarci in contatto, lasciarcisi attraversare e così in qualche modo gradualmente afferrarla, facendola propria. Come un amante farebbe con la sua amata. 

D’altro canto, accorgersi di essere spiato da un allievo, per Benassi era la prova che proprio a quell’ allievo poteva essere consegnato il suo “patrimonio immateriale dell’attore”. In lui, in Mauri, la sua eredità sarebbe stata in buone mani e avrebbe prodotto molto frutto.

A sua volta Glauco Mauri, anni fa, ha donato proprio questa giacca al suo Roberto Sturno. Inseparabili, loro, anche ora che Sturno se ne è apparentemente andato. A lui Glauco Mauri dedica tutto lo splendore di questo progetto. E lo fa personalmente, salendo sul palco a fine spettacolo: commosso e felice. Forte di questo sodalizio immateriale ma trascendente.

Glauco Mauri e Roberto Sturno

E’ allora in omaggio a questa antica pratica pedagogica che il progetto che ieri sera è approdato alla sua conclusione prende il nome “Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore”. E rappresenta il tentativo di recuperare il sistema di trasmissione del mestiere immateriale dell’attore.

Attualmente, infatti, uno spettacolo si produce in una ventina di giorni e in questo breve tempo non c’è modo di “sperimentare”, cioè di accompagnare i processi creativi degli attori. Si può solo replicare ciò che già si sa. Inoltre, l’attuale sistema del teatro italiano impedisce la circuitazione degli spettacoli, che così si esauriscono in una manciata di rappresentazioni.

Serviva ed è stato trovato così un “luogo protetto”, com’è quello offerto da questo progetto ricco e ambizioso: carico di un patrimonio artistico ed emotivo da recuperare nell’antica cultura artigiana del teatro. Non un semplice progetto formativo quindi ma, come avveniva una volta, vitali esperienze del teatro di tradizione e del teatro di ricerca del Novecento.

Già Mejerchol’d sognava un luogo protetto, svincolato cioè dalle urgenze produttive, dove fosse possibile per gli attori creare forme sceniche e soluzioni interpretative. E l’Università può offrire questa opportunità.

Il Nuovo Teatro Ateneo

Il progetto curato infatti dalla Compagnia Mauri Sturno e finanziato dal MIC ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza, che fornisce oltre al supporto logistico anche una consulenza culturale sia attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo, che attraverso il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie – del Dipartimeto di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma. Dipartimento diretto dal Prof. Guido di Palma.

Il prof. Guido Di Palma

“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura né tantomeno solo ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni diverse”.

Lo stesso Eduardo De Filippo, assiduo frequentatore del Teatro Ateneo, sosteneva che la tradizione, se la si sa usare, è un trampolino per saltare più in alto.

Ieri, un’insolita – e ben augurale – apertura serale del Nuovo Teatro Ateneo ha atteso e accolto il ritorno, e quindi l’approdo, dei viaggiatori partiti alla ricerca, alla scoperta e quindi al raccordo con quel sapere immateriale dell’attore, che rende così prezioso il lavoro a teatro. E nella vita. Un lavoro non solo tecnico ma anche etico ed estetico.

Al fine di rendere più fulgidamente puro il lavoro di ricerca svolto, i promotori del viaggio hanno scelto uno spazio e un corpo “nudi”, cioè scevri da tutto ciò che avrebbe potuto falsare il nuovo “habitus” acquisito dai giovani attori. Quindi niente scenografie, niente musica, niente costumi (solo abiti normali) e niente trucco.

Marco Blanchi

E proprio come William Shakespeare fece in quel magnifico inno al potere dell’immaginazione che è il Prologo all’ “Enrico V“, così anche Marco Blanchi – curatore dell’atelier didattico assiema a Danilo Capezzani ma ieri sera anche nella veste di presentatore dei singoli lavori – ha invitato gli spettatori in sala a far ricorso ciascuno alla propria immaginazione, per visualizzare più adeguati scenari ai frammenti delle 12 opere, che questi “nuovi” interpreti portano in scena.

Non a caso, proprio il Prologo all’ “Enrico V” dà l’avvio alla restituzione. Viviana Feudale, l’interprete, ci restituisce tutta la meraviglia contenuta nell’ebbrezza del saper immaginare. Tutto in lei è meraviglia, tutti i suoi sensi ne sono predati. Ed è contagio.

Si passa all’ “Edipo re” di Sofocle dove di Pietro Bovi (Edipo) e di Luca Lombardi (Tiresia) ci arriva il particolare fascino delle loro vocalità. E di Tiresia l’eloquenza degli occhi bendati, unita alla vitalità del bastone al quale si sostiene.

Arrivano poi Kostja (Giuliano Bruzzese) e Nina (Marta Cirello) de “Il Gabbiano” di Anton Cechov. Lui sembra la diteggiatura nervosa e tormentata di un pianista, tanto si nutre di inquietudine. Lei fa della voce, e quindi del suo animo, quello che farebbe un’equilibrista sul filo: l’elogio del disequilibrio. Entrambi così spazzati dal vento e insieme così in sintonia.

E poi “I fratelli Karamazov”di Fëdor Dostoevskij: dell’Ivan di Antonio Greco e dello Smerdjakov di Francesco Leonardo Marchionne rifulge il tavolo dei silenzi, preludio alle loro diversamente mefistofeliche ed allucinate esplosioni disperate.

Si passa all’ “Antigone” di Jean Anouilh: luminosa la tensione tra la sensualità androgina di Francesca Trianni (Antigone) e la morbida persuasione di Sofia Guida (Ismaele). Resta il sapore appagante di quando un confine riesce a diventare un punto d’incontro.

Scintille tra La Caterina di Beatrice Lotti e il Petruccio di Davide Varone de “La Bisbetica domata” di William Shakespeare. La selvatichezza di lei si carica di un sentore profumato quando accolta dalla disponibilità di lui a interagire fertilmente con la follia del femminile. Seducentemente comici gli a parte di Petruccio.

E poi l’autenticità tipicamente britannica dell’apertura alcolica del Jamie di Roberto Castello così come della serrata chiusura del rigido e sobrio Edmund di Giuseppe Fedele, in “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill.

E ancora “Finale di partita” di Samuel Beckett. Due fenomenologie dell’aspettare: quella statica e da contatto di Hamm (Francesco Zaccaro), un’attesa cioè da immaginare, protetto dietro lenti colorate e a specchio e poi quella diversamente intrepida di Clov (Antonio Greco) . La sua è l’attesa che s’immagina dietro le lenti “altruistiche” di un piccolo cannocchiale e che tanto ricorda l’attesa della Compagnia della Contessa da parte di uno degli Scalognati de “I giganti della montagna” di Pirandello.

Arrivano invece “Gli innamorati” di Carlo Goldoni. Un Pietro Bovi (Fulgenzio) decisamente incline a seguire l’imprevedibilità tutta femminile dell’Eugenia (Virna Zorzan). Nonostante la tentazione maschile ad arroccarsi, Fulgenzio lascia anche libera uscita al suo proprio femminile. Ammiccanti gli a parte.

Seguono alcuni “Sonetti” di William Shakespeare resi prevalentemente a tinte calde dalla lettura interpretativa di Davide Varone, laddove Antonio Laurino sembra prediligerne le tinte più fredde. E a seguire le “Lettere a Pierre” (dal Paolo Pini di Affori) di Alda Merini rese dalle diverse note della struggente e folle sensibilità di Enrichetta Ranieri Martinotti e di Costanza Maestripieri.

A completamento il “Macbeth” di William Shakespeare: fertile la profonda sensualità vocale della Lady Macbeth di Sofia Boriosi, così come il fascino della decadenza posturale del Macbeth di Luca Lombardi.

In tutti i ragazzi evidenti “riflessi di perla” che, se ancora pazientemente levigata per anni, emanerà progressivamente una lucentezza prima segreta. “Perla” come concetto di “maestria”, che la metafora di Tanizaki Jun’ichirō così mirabilmente esprime.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ELETTRA -Tanta famiglia e così poco simili – di Hugo Von Hofmannsthal – adattamento e regia di Andrea Baracco –

TEATRO VASCELLO, Dal 25 Marzo al 3 Aprile 2022 –


di Hugo Von Hofmannsthal
con Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Carlotta Gamba, Alessandro Pezzali

scene Luca Brinchi e Daniele Spanò 
costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche originali Giacomo Vezzani
luci Javier Delle Monache
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
adattamento e regia Andrea Baracco

produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello

con il patrocinio di Forum Austriaco di Roma


Quasi una Proserpina rock, l’Elettra, dea degli Inferi, messa in scena dal regista Andrea Baracco ieri sera in Prima Nazionale al Teatro Vascello di Roma: stesa a terra in posizione fetale, è attratta prepotentemente dalla terra-utero, dove sceglie d’imprigionarsi alla morte del padre. Lui si rende presente da un’aldila virtuale ma non la guarda: fissa noi del pubblico e si commuove. Quasi a chiedere la nostra misericordia verso questa storia. Anche Elettra (una potente Flaminia Cuzzoli) non lo guarda e gli dà le spalle. Ma lo canta: solo così riesce a instaurare una qualche forma di comunicazione emotiva. In un angolo, in un canto.

Flaminia Cuzzoli è Elettra

Dietro di lei, il castello-acquario con quel che resta della sua famiglia: incancrenita, al vetriolo.

Carlotta Gamba è Crisantemi

In fondo a sinistra, nell’angolo opposto rispetto a quello in cui si rintana Elettra, il rifugio colmo di abiti da sposa di sua sorella Crisotemi (la fremente Carlotta Gamba, ostinatissima nell’impugnare il suo bouquet nuziale) disposta ad accogliere qualsiasi marito decidano per lei, pur di essere gravida, pur di riempire quel vuoto così mostruosamente pieno di cose da nascondere. 

Al centro del castello troneggia lei, un’oniricamente lussureggiante Manuela Kustermann nei panni di Clitemnestra, la donna il cui sguardo semina morte. Dice di vivere in una vertigine (in cui riesce a muoversi su argentei tacchi) e per questo si serve di un bastone ( che però usa come uno scettro). Dice di essere infestata da Elettra, come dalla più irritante delle ortiche e di essere perseguitata in sogno dal figlio Oreste, che succhia sangue dal suo seno.

L’ Oreste di Baracco (un inquietante Alessandro Pezzali), ancor più di quello di Hugo von Hofmannsthal, è un eroe-non eroe spogliato di ogni propositività, che ha bisogno di tatuarsi sul petto il proprio nome per poter essere riconosciuto.

Carlotta Gamba, Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Alessandro Pezzali

Qui, la prossemica, cioè la comunicazione che si instaura nell’occupare lo spazio, parla delle dinamiche psicologiche che si instaurano tra i personaggi, più delle parole. E poi ci sono i loro corpi a parlare: dove qualcosa soffre, qualcosa parla. Perché il corpo è anche il luogo dell’altro: delle parole e dei gesti con cui ci crivella.

Il regista Alessandro Baracco adatta il testo di Hofmannsthal, enfant prodige della modernità letteraria austriaca, perla poetica (dimenticata e poi ritrovata da Antonio Taglioni) che continua ad essere di straordinario interesse per il pubblico di oggi.

Andrea Baracco

Un adattamento che evidenzia come i disagi psichici dei personaggi derivino da una difficoltà a “desiderare”, a gestire cioè quella vitale “mancanza”, che può raggiunge gli estremi di “vuoto” (Oreste) o di “troppo pieno” (Elettra).

Personaggi, tutti a loro modo, mitologicamente eredi del capostipite Tantalo, condannato dagli dèi, a causa delle sue efferatezze, ad essere dominato da un desiderio di fame e di sete, impossibili da placare. 


Recensione di Sonia Remoli