Conoscere se stessi è da sempre un’esigenza che tende a prendere le sembianze di un desiderio segreto: fatica ad esprimersi manifestamente, tanto è “proibito” il contenuto del desiderare.
Acutamente allora Stefano Massini, che con questo spettacolo sceglie di mettere in scena le dinamiche oniriche della nostra psiche, fa aprire la rappresentazione proprio a lui: il Desiderio.
Eccolo: sbuca da un lato del palco/psiche e attraversa con passo sinuoso il proscenio, per poi appostarsi in un altro lato. E’ un’affascinante donna. Veste un abito dalle nuove linee fluide proprie dello stile Liberty. Ed è tinto di mistero e di passione (i costumi e le maschere sono curati da Elena Bianchini).
Ci irretisce: ci porta dalla sua parte, ci seduce. Complice la sua voce insinuosa, solleticante, pungente e ossessiva: quella che ci sta traducendo il suo violino (Rachele Innocenti sulle note di Enrico Fink). E che risuonerà ancora, serpeggiando, lungo la messinscena.
Tutto si mescola, tutto si trasforma, all’interno delle nostre emozioni, delle nostre pulsioni, della nostra memoria: oltre ad avvertirlo, lo vediamo rappresentato sulla scena. Il caos che abita i sogni è visualizzato anche da una proiezione tridimensionale sul fondale: fondo del nostro sguardo interiore (le scene, curate da Marco Rossi, riproducono opere pittoriche di Walter Sardonini).
Uno sguardo spesso in bilico tra la nostra tentazione a tarparlo e quella a guardare, solleticati proprio dalla sua enigmaticità. Qui visualizzata da fiotti di fumo intrisi di ambigui richiami, musicati dal trombone e dalle tastiere di Saverio Zacchei e dalle chitarre di Damiano Terzoni . Sempre sulle note di Enrico Fink.
ph Filippo Manzini
“C’è qualcosa di terribile e al tempo stesso splendido nell’attimo in cui decidiamo di guardarci dentro”: con queste parole Stefano Massini commenta l’entrata in scena del Desiderio e le sensazioni da esso provocate.
Quando riusciamo ad avvicinarci alla “geografia” più autentica di noi stessi, così tumultuosa e disordinata, così accattivante e lacerante, qualcosa ci tenta però ad allontanarcene. Un dubbio ci attanaglia: “ma poi gli altri cosa diranno di me?”.
E così, troppo spesso, si torna ad indossare la nostra rassicurante (ma insoddisfacente) maschera sociale. Lo dice il “progresso”: se lo si segue, si è inseriti, accettati, protetti. Ma nonostante la nostra tensione a uniformarci, poi però pretendiamo costantemente l’attenzione degli altri.
ph Filippo Manzini
Urla quindi, e i morsi si fanno sentire, la fame a dare nutrimento alle parti più vere di noi: un ascolto che “noi” possiamo darci. Accettando l’invito del desiderio e quindi appassionandoci in una ricerca nelle buie profondità di noi stessi. Perché – come la drammaturgia delle luci di Alfredo Piras sa sottolineare – solo dal buio può nascere e liberarsi l’emozione.
Quest’ invito rivoluzionario di Freud, viene raccolto da Massini che sceglie di farci dono - proprio attraverso il potere immaginifico e catartico della parola e del gesto attoriale – della consapevolezza di come la messinscena del sogno celi una messinscena sociale.
A testimoniare come la psicologia sia strettamente connessa alla socialità – e quindi come lo psicoanalista guardando nell’interiorità dei pazienti abbia restituito indietro anche il sentore dei mutamenti sociali – è l’esigenza che si è sentita, proprio a fine Ottocento, di coniare il termine “onirico”: l’irreale del surrealismo, della libera associazione, della visione ermetica che suggestiona e richiede interpretazione.
ph Filippo Manzini
Recentemente l’attenzione al ruolo “antropologico” dello psicoanalista è stata riaccesa anche dal testo di Massimo Recalcati “A pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo“. Se quindi il ruolo dello psicoanalista non è confinato solo tra le pareti intime di una stanza e può e deve scendere in strada, anche il Teatro può farsi portavoce di questa missione sociale.
Vincente risulta la scelta di Stefano Massini di far incontrare il teatro di narrazione sul confine con la restituzione attoriale, mandando in scena le dinamiche oniriche della psiche umana attraverso il processo di osservazione interno ed esterno del neurologo e psicoanalista Sigmund Freud.
ph Filippo Manzini
Lo spettatore è coinvolto in un’immersione “a tutto tondo” nella quale accetta di viaggiare fuori e dentro di sé. Con disponibilità, senza necessariamente inquadrare nei principi della logica cosa stia avvenendo. È un incantesimo dove la parola, l’immagine e la musica sono le muse che ci guidano in questa avventura multiforme e multisensoriale. E finalmente riconosciamo attenzione a tutto ciò che ci rende unici. Irripetibili.
Ecco allora che Stefano Massini, a coronamento di un processo osmotico di attenzione tra interno ed esterno, a fine spettacolo sente l’esigenza di ringraziare – evocandoli con il loro nome e il loro cognome – tutti coloro che, parti necessarie di un tutto, hanno contribuito a dare forma a questo stupefacente viaggio.
Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’ Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior attore protagonista).
o il perdono, che nel “mutuo rispetto” tutela la nostra unicità ?
Il progetto di traduzione registica e filologica che ha portato a questa messa in scena è di portentosa bellezza. Tanta meraviglia nasce da un lavoro a sei mani tra Andrée Ruth Shammah, Luca Micheletti e Valerio Magrelli: un lavoro incentrato sull’elogio semantico della parola e della sua musicalità.
Andrée Ruth Shammah
Dal desiderio della Shammah – che da decenni si nutre della passione per Molière – di rendere ancor più consapevole lo spettatore della travolgente modernità di questo testo, nasce l’idea di alleggerirlo puntando dritto alla resa della sua essenza. Ecco allora che con accorta intelligenza la Shammah affida la traduzione de “Il misantropo” allo sguardo poetico del fine francesista Valerio Magrelli che – centrando l’obiettivo – ritraduce il testo portandolo in settenari incrociati.
Valerio Magrelli
Allo spettatore che si siede in sala, seppur ignaro di questo complesso progetto, arriva immediatamente la seducente delicata freschezza dell’ascolto. Ed è un incanto di spontaneità.
Spontaneità che è la cifra del Teatro che tanto ama la Shammah: quello del rituale delle prove. Del qui ed ora si sta svolgendo una prova: qui si sta mettendo in scena il teatro stesso. Quella magica e sacra tensione di ricerca propria del continuo sperimentare, del continuo mettere “alla prova”.
Ed è con questa tensione che si apre lo spettacolo: con i rituali di controllo che sia tutto in ordine sulla scena e con gli attori che entrano e stanno sul palco con quella tensione di fertile attesa di quando sono dietro le quinte. Un’atmosfera magica: pura e insieme disponibile a contaminarsi di tutto, che ricorda tanto quella che abita la nostra psiche, il nostro inconscio.
Lo stesso spazio scenico – le cui scene sono state costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e curate da Margherita Palli – rimanda a un condominio psichico dove interessi e scopi differenti cercano di accordarsi, sovente scontrandosi, per coabitare.
Tra gli inquilini del mondo interiore vi è anche una spinta ideale, una tensione ad essere secondo un modello virtuoso, positivo, realizzato (che Freud ha chiamato Super-io) nella quale si è depositata una grammatica delle nostre aspirazioni: ciò che abbiamo imparato a considerare etico, migliore, auspicabile. Un imperativo che ci indirizza ad essere leali, generosi, affermati, competenti, perfetti, coerenti.
Tensione che è un po’ la spinta iper protettiva che domina Alceste e che lo porta a non riuscire ad entrare in una vera relazione di reciproco scambio con gli altri, con la società nella quale è immerso.
Luca Micheletti è Alceste il misantropo
Riflesso di questo macrocosmo sociale, il microcosmo dei personaggi in scena. La specificità che contraddistingue ciascuno di loro allude alle varie spinte della psiche di Alceste, con le quali lui non riesce ad entrare in relazione. La sua ferrea integrità ha il sapore di un’epurazione: un’ossessione a separare, a purificare, a lavare ogni macchia, ogni colore che può sporcare la sua visione utopisticamente pura dell’essere umano.
L’estro della regista riesce a veicolare questo messaggio nell’orecchio e nell’occhio dello spettatore: ciascun personaggio ha infatti una sua cromaticità vocale ben riconoscibile. Anche rinunciando al conforto dell’immagine. La sublime succulenza dei colori degli abiti (seconda pelle) degli altri personaggi, non c’è in lui, che veste in nero. E dall’umor nero è pervaso. Un colore (e un habitus) ‘introverso’, che non riesce a riflettere luce: quella che sgorga dalle nostre ombre interiori. Tutti i magnifici costumi sono curati da Giovanna Buzzi e realizzati da LowCostume in collaborazione con la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dondoni.
Luca Micheletti (Alceste) e Marina Occhionero (Célimène)
Il microcosmo di Alceste – come un urlo muto – parla del suo immenso e irrinunciabile bisogno ad essere riconosciuto nell’unicità della propria identità. Bisogno non lontano dal vissuto personale in cui si trova a scrivere l’autore, del quale la regista – con delicata sensibilità – tiene attenta considerazione. E che si può rinvenire, ad esempio, in certe reazioni di tenera e disperata collera dal sapore infantile, che Alceste rivela in alcune occasioni.
E che forse possono leggersi anche nel suo ritrovarsi, alla nascita del fratello minore, privato del nome proprio. Tanto che a 22 anni rinuncia al nome di Jean, al quale solo successivamente i suoi aggiunsero quello di Baptiste per differenziarlo dal secondogenito Jean. Sceglie allora Molière, in omaggio ad un suo amato scrittore.
Ma nessuno di noi, come ci ricorda il noto psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, può darsi un nome da sé. Non funziona. Il nostro essere al mondo è inscindibilmente legato agli altri: sono gli altri a sceglierlo per noi. Noi però possiamo fare qualcosa di autenticamente nostro di quello che ci hanno dato gli altri. Questo è lo spazio in cui può muoversi la nostra libertà. E questo è il dissidio dell’autore che trova riflessi nel microcosmo di Alceste, che sua volta traspone nel macrocosmo sociale in cui è immerso ma dal quale prende risolutamente le distanze. La sua prossemica è eloquentissima. E tremenda.
Ma come è irresistibile, invece, la vicinanza che comanda il sentimento amoroso ! Soprattutto se ci si innamora della donna più irresistibilmente ribelle alle manipolazioni. Che ha un modo tutto “suo” di riconoscergli quell’unicità che lui tanto reclama. Un’unicità che non esclude la relazione vitalizzante con il tutto. Una corte (quella per lui) che non esclude l’appartenenza ad una corte sociale. Un’innocenza, che non esclude l’indecenza.
Mentre lui per la sua bella non si farebbe tentare nemmeno dall’avere in cambio Parigi. Ma quanti sottotesti si celano dentro dentro “la speranza” ! E quanto queste contraddizioni ci sono vicine anche oggi ! Quanto ci fa bene riportarle in scena, assecondate e contrastate dalla sinergia del contrappunto della drammaturgia musicale ( di Michele Tadini) e della drammaturgia delle luci ( di Fabrizio Ballini) !
Di grande bellezza l’uso delle tende che, come disponibili quinte – anche della nostra interiorità – creano magnifici primi piani o suggestivi campi lunghi.
Ma di sublime poesia è l’attenzione alle aree più misteriose: quelle dove si muovono soprattutto i due servitori (Andrea Soffiantini e Matteo Delespaul) . Lì la luce delle ombre, regalata dai candelieri, disegna interni dalla raffinata malinconia, propria dei pittori della scuola danese. Rapisce la naturalezza dell’eleganza coreografica dei due servitori (la cura del movimento è di Isa Traversi), dove nel più anziano (il Basco di Andrea Soffiantini) viene spontaneo ritrovare echi del First cechoviano .
Di lacerante intensità la prova attoriale dell’Alceste di Luca Micheletti. Il nero di cui si ammanta sa raggiungere le tonalità più assolute del vantablack, lasciando trapelare la tenerezza trasparente dell’ossidiana.
Angelo di Genio (Philinte), Luca Micheletti (Alceste) e Corrado D’Elia (Oronte)
Persuasivo il Philinte di Angelo Di Genio sulle dinamiche che possono generarsi all’interno di un rapporto di amicizia che, seppur fondato sulla fiducia e sulla nitidezza intellettiva – cromaticamente espressa e riflessa dal colore grigio – sa accogliere l’opportunità di un sano tradimento.
Interessanti i contrasti – che non escludono consonanze – sviluppati tra i rivali in amore. In primis, il carismatico Oronte di Corrado D’Elia, colmo dell’intensa energia del viola melanzana. Ma anche lo styloso Clitandro di Filippo Lai, dal crine platinato e dallo charme che si sprigiona proprio da quell’esotico “punto di rosa”. Senza dimenticare il sofisticato Lacasta di Vito Vicino : fasciato dall’eleganza dell’ambiguo ottanio.
Luca Micheletti, Filippo Lai (Clitandro) Matteo Delespaul, Vito Vicino (Lacasta), Angelo Di Genio
Illuminanti i contrasti e i cedimenti amorosi propagati dall’universo femminile, declinato nelle sue innumerevoli sfumature. La Célimène di Marina Occhionero è resa tutta nella sua miscela di volubilità e di pragmatismo. Splendidamente quindi si bea del mix esplosivo racchiuso nel verde di Scheele, che così bene la rappresenta.
Un’avvolgente connubio di saggia pacatezza con note di euforia connota l’ Eliana di Maria Luisa Zaltron. Una lucente acquamarina che sa che amare qualcuno significa accogliere anche i suoi difetti e quindi saper perdonare.
S’ammanta di giallo orpimento l’Orsina di Emilia Scarpati Fanetti che come il colore che la rappresenta sa rendere la luce affidabile dell’oro, scevra dalla sua nobiltà.
Completano l’efficacia del cast, il Du Bois di Pietro De Pascalis: una presenza enigmatica che fin dall’inizio teniamo a mente per il suo ambiguo far capolino dalla porta finestra di scena, unica apertura verso l’esterno del condominio psichico di Alceste. E un accurato Francesco Maisetti nel ruolo della Guardia.
Una traduzione registica – quella di Andrée Ruth Shammah – appassionatamente incuriosita da tutte le manifestazioni dell’animo umano e quindi scevra da giudizi.
Perché questo è il Teatro.
Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti il 30 Agosto ha ricevuto a Sirolo il Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – come Migliore Attore protagonista de “Il misantropo” di Molière per la regia di Andrée Ruth Shammah, con la seguente menzione di merito:
“Rompere con il mondo è il desiderio di Alceste, protagonista di questo “Misantropo” di Molière che rivendica un ideale d’onestà e purezza di cuore; interpretato in modo magnifico e convincente da Luca Micheletti, che duetta con gli altri personaggi della commedia in una specie di partitura polifonica dalla quale emerge e giganteggia la sua granitica padronanza del mezzo espressivo e la sua capacità di danzare dentro il verso. Diretto magistralmente da Andrée Ruth Shammah, che ne firma una regia moderna e attuale, riconsegnandoci la modernità di questo grande classico che rispecchia il mondo di oggi, con i suoi compromessi e le sue contraddizioni“.
Che cosa resta in noi dei traumi collettivi che ci hanno attraversato in questi ultimi venti anni ? Quanto ci hanno temprato e quanto, invece, hanno contribuito a lasciarci con i nervi scoperti ? Quale sarà l’eredità che lasceremo alle generazioni future?
In questo libro Massimo Recalcati, psicoanalista e saggista italiano, con affascinante chiarezza e audace profondità, esprime l’urgenza di riaprire il sipario sulla scenografia antropologica che ha caratterizzato “l’inverno del nostro scontento”: quello provocato in noi dagli eventi dell’ultimo ventennio.
In questi anni infatti si sono susseguiti, in un incredibilmente ristretto lasso di tempo, laceranti traumi: la grande crisi finanziaria, il terrorismo, la pandemia, la guerra. Recalcati riapre allora “le tende” del sipario facendo sentire la sua “voce” con la solennità propria di un testimone e con l’appassionata professionalità di chi sa individuarne ed analizzarne, con piglio “traumaticamente virtuoso”, le relative coreografie esistenziali.
Perché è da queste coreografie che hanno preso forma e corpo posture rigide, e quindi iper-protettive, verso i nostri confini personali. Ma quando “la vita si protegge dalla vita”, cioè diventa impermeabile all’incontro con l’Altro, “ci si incammina verso la dissoluzione”.
Ecco allora che l’analista e, in quanto tale, l’antropologo Recalcati può e deve uscire dalle pareti “isolate” del proprio studio, se è vero – come è vero – che l’interiorità dell’individuo non è mai da considerarsi a sé rispetto all’esterno in cui è immersa. Come scoprì Möbius attraverso l’elaborazione del suo nastro e teorizzò il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, attraverso i suoi studi sul rapporto tra psicologia individuale e società.
In questa continua osmosi tra esterno ed interno, anche le personalità politiche che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio preso qui in esame (da Berlusconi a Grillo, da Renzi a Mattarella, da Trump a Putin) risultano interessanti allo sguardo acuto e solerte di Massimo Recalcati. Ma non in quanto “persone”, ovvero come singole individualità da analizzare, bensì come “cifre simboliche del nostro tempo”.
Parallelamente l’analista Recalcati si riconosce lui stesso come cittadino e la sua postura “a pugni chiusi” è proprio quella di chi sente l’urgenza di indignarsi, per resistere ai continui tentativi di abuso di potere sulle soggettività.
Un’indignazione che non ha nulla del capriccio ma piuttosto la grazia dello sdegno che storna l’onore e la concretezza del severo e deluso disprezzo.
Un’indignazione a cui allude anche l’immagine scelta per la copertina e “la pesantezza” luminosa delle tonalità. Ma proprio su quel bianco&nero così saturo, che esprime appieno tutto il pathos dei momenti di passaggio e di trasformazione radicale della nostra esistenza, svetta un colore che regala personalità ai caratteri del titolo: quel colore che rimanda al coraggio unito allo spirito di sacrificio.
È il giallo zafferano: l’arancione che Vasilij Kandinsky associava al temperamento proprio di un uomo sicuro della propria forza. Infatti – sosteneva – “è quasi un rosso ma più vicino all’umanità del giallo”.
Massimo Recalcati, sempre attento alla resa iconografica dei suoi contenuti, sceglie per questo libro una copertina raffinatamente sagace, che trasmette tutta quell’audace intrepidità con la quale, come bambini, dovremmo porci. Andando così oltre le narrazioni che ci vengono riferite e sviluppando una nostra consapevolezza critica. Per osare inoltrarci attraverso ingressi celati. Ma percorribili. Insieme. Riattivando il nostro fiuto e il nostro desiderio. Ancora.
Solo così, dopo aver attraversato quell’ “inverno del nostro scontento”, si potrà arrivare ad assaporare una “gloriosa estate”. È questo il messaggio augurale, dal carattere di “rivolta” e di “preghiera”, che qui, in A pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo, Recalcati veicola.
Massimo Recalcati – psicoanalista e saggista –
Una “gloriosa estate” incentrata sul rispetto dell’umanizzazione della vita nonché sul rispetto del senso della Legge.
Due forme di rispetto che ci portano a sviluppare una libertà che non si sgancia mai dal senso di responsabilità e proprio per questo riesce a rivelarsi generativa di profonde passioni, di vere e proprie “vocazioni” talentuose, di desideri incandescenti.
Desideri che rompono quell’omeostasi nella quale stiamo tendendo a crogiolarci troppo e che finisce per condurci sempre più verso una cronica stanchezza e a successive tendenze depressive. Desideri quindi forieri di vitali soddisfazioni, a patto che non si incorra nella tentazione di legarli ad un oggetto.
Massimo Recalcati – Arena di Verona –
Complice di questo nuovo scenario possibile, la Politica potrà tornare ad essere un punto di riferimento culturale di alto livello, al quale i giovani guarderanno ancora con fiducia. Un luogo, come già sosteneva Aristotele, capace di tenere insieme le differenze dei singoli, per il bene comune della città.
Una Politica capace, quindi, di fornire anche un’autentica testimonianza di come “saper tramontare”: la virtù delle virtù umane. Quella che ci spinge ad avere cura dell’Altro, oltre che di noi stessi. Perché “lo specchio” che conta davvero per ciascuno di noi non è quello che riflette narcisisticamente la nostra immagine. Ma quello dell’Altro, quello cioè della socialità: delle persone che amiamo e che stimiamo.
Massimo Recalcati, reduce da quindici tutto esaurito al Teatro Carcano di Milano, ha portato e porterà sul palcoscenico (la prossima data sarà quella del 20 Luglio a Santo Stefano Magra (SP) presso la ex Ceramica Vaccari) una lectio con estratti del suo ultimo libro “A pugni chiusi” – edito da Feltrinelli.
Qui puoi guardare le interviste a Massimo Recalcati su questo libro:
La sensibilità e l’afflato di Lucia Calamaro fanno sì che dal buio prenda vita un’insolita “isola”, i cui costumi della specie che la abita possono essere interessanti da analizzare da parte di noi del pubblico.
Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo “Darwin inconsolabile”
Per una sera noi un pò come Charles Darwin (1809 – 1882): il biologo, naturalista, antropologo, geologo ed esploratore britannico – celebre per aver formulato la teoria dell’evoluzione delle specie vegetali e animali – che raccolse molti dei dati su cui basò la sua teoria, durante un viaggio intorno al mondo sulla nave HMS Beagle. In particolare durante la sua sosta alle Galápagos.
Charles Darwin (1809-1882)
Quella dello spettacolo di cui la Calamaro è autrice e regista è “un’isola” in cui una specie umana vive tra centro commerciale e casa. In cui si interpreta il contenuto del carrello della spesa un po’ come gli antichi greci consultavano l’oracolo di Delfi. La divinità qui è la plastica: immortale e sempiterna. Come Dio.
Gioia Salvatori, Simona Senzacqua, Riccardo Goretti e Maria Grazia Sughi in una scena dello spettacolo “Darwin inconsolabile”al Teatro India di Roma
Da buoni osservatori non possiamo non notare come in questa “isola” ci siano problemi di “imprinting”: la mamma soffre perché i suoi tre figli (ormai adulti) non la seguono più. Ad esempio, sebbene lei sia “creazionista” e creda che tutti noi “siamo preda del fato”, sua figlia Gioia è attratta da “teorie trans-evoluzionistiche” che auspicano le unioni tra specie diverse tra loro.
Gioia Salvatori, la figlia trans evoluzionista
La mamma prova il tutto per tutto allora (in realtà ormai da anni) mettendo in atto un esperimento di “tanatosi”: si finge prossima alla morte, un atteggiamento strategico che gli animali utilizzano quando si trovano in pericolo. Gioia perde i sensi, ripetutamente; Serena se ne va tentando di affogare la (solita) strategia materna nel vino e Riccardo avverte la mamma di non andare oltre con la solita pagliacciata.
Maria Grazia Sughi, la madre
L’arguto testo della Calamaro intreccia a doppio filo quelli che sono i bizzarri comportamenti “etologici” della specie umana alle relative dinamiche psicologiche. L’idea di base è che tutto ciò che appare visibile è sempre il risultato di un processo nascosto. Una sorta di archeologia.
Eduardo Urbano Merino, “Genetic neuropsychiatry“
Tra stanislavskjismo e cristianesimo la madre “sembra” preoccuparsi solo ed esclusivamente se alle sue “messe in scena” di tanatosi i figli “ci credano” o meno. Ma cosa nasconde in realtà questo atteggiamento? Quanto bisogno abbiamo di essere amati, accarezzati, coccolati, presi in considerazione? Cosa siamo disposti a fare per ottenere “calore” da parte degli altri? Di cosa ci parla questo bisogno?
Una scena dello spettacolo “Darwin inconsolabile”di Lucia Calamaro
Teatro India di Roma
Persa la capacità di relazionarci con gli Altri ma anche con la Natura che ci ospita, tendiamo a privilegiare atteggiamenti individualistici. E quindi egoistici: manipolatori. Ma il posto dove appoggiamo i piedi si muove tanto quanto quello che è sopra le nostre teste.
E a ricordarcelo è proprio Darwin: a mescolare e rimescolare continuamente la terra sono creature molto poco “considerate”, i vermi, i quali riescono a rendere “fertile” il rapporto con la terra grazie ad atti “performativi” piccoli e lenti ma costanti. Proprio come avviene per l’evoluzione degli esseri viventi sulla superficie della Terra.
I lombrichi, infatti, formano lo strato superiore del suolo – il terriccio vegetale fondamentale per la coltivazione – e poi vi depositano una gran quantità di terra fine, in forma di rigetti o deiezioni. Ciò che ci sembra così stabile ( il suolo) in realtà è l’effetto di un rimescolamento quasi invisibile.
Darwin era attirato da questa piccola ma costante “regolarità” d’azione, che porta a scendere verso il basso, nel terreno, pietre e rovine del passato. Ma anche uomini, se si pongono come ostacolo e non rispettano questo processo. Questa relazione con la Terra.
Simona Senzacqua, la figlia ostetrica, risucchiata dal timore per le nuove generazioni
Nella pagina iniziale del libro “L’azione dei vermi” – una delle opere meno note di Darwin, anche se all’epoca fu un vero e proprio successo editoriale e la sua diffusione fu superiore alla stessa “Origine della specie” – Darwin scrive una frase emblematica: “la massima de minimis lex non curat non si applica alla scienza”.
Una scena dello spettacolo “Darwin inconsolabile. Un pezzo per anime in pena” di Lucia Calamaro
Teatro India di Roma
Sono infatti gli effetti piccoli e cumulativi ad essere interessanti. Così come nelle relazioni umane.
Purtroppo ci siamo allontanati da questa direzione: “non stiamo facendo niente per noi e per gli altri” -sospira Gioia. “Quello che deve incombere, incomba” – ribatte la mamma “creazionista” .
Una scena dello spettacolo “Darwin inconsolabile. Un pezzo per anime in pena” di Lucia Calamaro
Teatro India di Roma
Ma forse si può ancora fare qualcosa per “consolare” Darwin e vivere meglio. Perché saranno quelli erroneamente definiti “stupidi” -cosi come tali vengono considerati i vermi- a sopravvivere e a permettere “una fertile” evoluzione della specie.
Una scena dello spettacolo “Darwin inconsolabile. Un pezzo per anime in pena” di Lucia Calamaro
Teatro India di Roma
Uno spettacolo pieno di ritmo: profondissimo e insieme esilarante. Grazie anche agli interpreti Riccardo Goretti, Gaia Salvatori, Simona Senzacqua e Maria Grazia Sughi che sanno come portare in scena, cioè con sapiente leggerezza, tutto il marcio delle nostre dinamiche familiari e sociali.
Una scena dello spettacolo “Darwin inconsolabile. Un pezzo per anime in pena” di Lucia Calamaro