Recensione dello spettacolo LA SUPPLENTE di Giuseppe Manfridi – regia Claudio Boccaccini –

TEATROSOPHIA, dal 2 al 5 dicembre 2021 –

Entra in scena una donna, stretta in un trench aperto. Una donna plumbea, dal biondo crine inutilmente raccolto. Sarà abbastanza poetica per straziare la voglia di vivere? Sarà riconosciuta e ossessivamente ricordata?

Silvia Brogi e Stella ( il personaggio) sono riuscite a turbarmi profondamente. Non sapevo cosa aspettarmi quando, guardando la locandina, ho provato a immaginare qualcosa. Così magnetica: un corpo celeste luminoso. Splendente di luce propria? Una cometa? No. Errante? Sì. E così distante da non poterne distinguere il movimento. “Vedere le stelle” equivale a sentire un acuto dolore. Come quello del “desiderare”, che etimologicamente e’ composto anche dalla parola “stella”. Desiderano, coloro che sono disposti ad aspettare sotto le stelle, che arrivi qualcosa che manca.

“Nomen omen”: già, il nome è un presagio. Stella infatti aspetta una telefonata che potrebbe concretizzare un suo desiderio, una cosa che manca. Ma qualcosa la fa desistere dall’aspettare. Che cosa rende un giorno degno di essere vissuto? E’ resistibile viverlo da “supplente”? Applicando cioè un modo di essere diverso da quelli normalmente classificati e classificabili? Sarà sufficientemente dilatato, tanto da poter diventare “eterno” ? 

O servirà una “ricreazione” ? Che cos’è un miracolo? E’ il “now”: il vivere ora. Con tutti. Ma viceversa, miracoloso è anche riuscire a provare “rispetto”: guadare indietro (non sempre avanti) ed avere un dubbio, un bisogno di ricerca, di riflessione, che ci fa fermare un attimo. Questo è il “segno” lasciato dalla supplente a Stella: l’attenzione per tutto ciò che sembra “minore e resta dietro”. Che poi è anche la differenza che intercorre tra la retorica e l’oratoria. 

In questo spettacolo si viene rapiti, in alcuni casi trafitti, da messaggi evidenti e nascosti. Anche perché veicolati magicamente da toni, sguardi, corpi, inquietantemente credibili. Carichi di estro e di competenza. Si esce con la sensazione di essere stati divampati da qualcosa di contagioso, di indomato, che continua a propagarsi anche quando la scena si chiude. 

Un grande momento di teatro sociale, etico e politico.

Silvia Brogi

Qui trovi l’intervista all’autore del testo Giuseppe Manfridi, all’attrice Silvia Brogi e al RegistaBoccaccini: https://www.lanouvellevague.it/la-supplente-teatro-marconi/


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO VITTORIA, dal 26 al 31 ottobre 2021 –

Lo spettacolo narra il mito di Fantasia, dea cospiratrice, che dona vita ad una storia senza un copione che contenga i suoi personaggi. Questi, peccando di “hybris”, cioè di vitale e quindi divina esuberanza, finiscono per irrompere nello spettacolo in allestimento dei figli di Immaginazione, dea un pò parassita. Non c’è tra le due narrazioni un confine; o se c’è è di natura porosa, osmotica. Perché un confine è anche il luogo dove ci si incontra.

Come ci viene suggerito già dall’inizio: un regista e il suo assistente “comunicano” anche se separati dal confine del sipario. Questo tema si ripete e insieme si arricchisce per tutto lo spettacolo, quasi come in un sistema organizzato per cerchi concentrici. Lo si ritrova nel confine che stabilisce quando passare dalle prove sedute (a tavolino) a quelle in piedi. E, ancora, nell’invito a far sentire il senso del guscio nello sbattere l’uovo.

Solo la dea Fantasia possiede il dono della creazione; solo lei plasma le percezioni che riceviamo, le emozioni che patiamo e le restituisce in forme coerenti. Per questo i suoi personaggi sono così vibranti, così vivi ! Ma nonostante ciò il regista decide di esortare i suoi attori, figli della dea Immaginazione, ad una “concertazione”, cioè ad un accordo o ad una sfida con i sei personaggi, figli della dea Fantasia. Il fine però è una cooperazione. Il regista promuove cioè, ancora una volta, un passaggio osmotico.

Lo stesso che fatica a crearsi tra i figli legittimi e quelli illegittimi. E ancora tra l’essere donna e l’essere madre di Amalia. Tra l’essere uomo e l’essere donna di Madama Pace. Tra una sartoria e una casa d’appuntamenti. Tra il “falla tua” e il “non è più nostra”. Tra l’illusione e la realtà. Tra il credere d’intendersi e il non intendersi mai. Tra il racconto e la drammaturgia. Fino alla fine. E quindi senza una fine.

Il sipario si apre su una sala prove di un teatro nudo: senza le abituali e così rassicuranti quinte. I muri perimetrali sono a vista, senza veli, esposti a possibili incontri e a reciproci contagi osmotici. Le corde provenienti dalla graticcia e che sostengono gli elementi scenici sospesi, sono lì, disponibili ad essere sciolte. Anche il fondale è diverso: non chiude nettamente lo spazio scenico. E’ della natura di una membrana, disponibile ad essere sfondata e attraversata.

Questo particolare spazio scenico inizia ad essere abitato da alcuni Attori che arrivano alle prove troppo sicuri e quindi aridi, annoiati, privi della sacra apertura a rendersi disponibili ad essere “posseduti” dal personaggio da interpretare. Sono figli di Immaginazione: combinano e ricombinano situazioni tecniche già conosciute, senza generare nulla di nuovo. Sono affatto inclini alla propositività e al rischio di un’osmosi; piuttosto si mostrano fermamente risoluti nell’arroccarsi in posizioni di sterile difesa.

Soprattutto quando il fondale verrà attraversato dall’invasione barbarica dei sei personaggi, figli di Fantasia. Neri, non solo perché visitati da una serie di lutti (desiderosi d’interpretare in una maniera sempre nuova) ma perché disponibili ad ospitare tutte le ombre che illuminano la vita. Lo leggiamo dalle loro posture, così plasmate e segnate dalle vicissitudini. Anche le più tenere. Su tutte la postura, la voce e soprattutto la risata della figliastra. Talmente scevra da sovrastrutture da incarnare la natura istintuale di una fiera. Che non resiste più alla forza di gravità. E si piega o s’inginocchia in un perenne attacco.

Una “spostata”, come l’etichetta subito il regista. Spostato è il suo sguardo: sempre immerso in un altrove irraggiungibile e che spesso crolla a terra. Mai indifeso. Eppure pudico. Si sente, anche se non lo possiamo leggere nei suoi occhi. Che se li incroci, ti possono pietrificare, come quelli di una Medusa. Ma anche lei ha subito questa pietrificazione dagli occhi di chi non l’ha “riconosciuta”. Per questo ora, come Perseo, sa che deve guardare altrove per resistere. E si aiuta ad orientarsi con le braccia, che diventano i suoi occhi. Anche il suo incedere è precario, come quello di un’equilibrista che tenta di camminare su una fune, per saggiare il proprio equilibrio. Un equilibrio che include numerose cadute verso quel basso che tanto l’attira. Come “La ragazza sulla ponte”, avrebbe bisogno di un lanciatore di coltelli che le faccia”sentire” i suoi speciali confini.

E che dire di quel suo fratellastro, così prossemicamente distante ma anche lui così tentato di cadere giù dal palco, di saltare fuori dalla quarta parete. Quasi come in un trompe l’oeil di Pere Borrel del Caso. E poi la matrigna: l’unica che si dà un nome. Anche lei ha una sua natura da fiera, che a differenza della figliastra si sforza di arginare in un dolore composto, che però non sfugge a involontarie torsioni cariche di pathos. Per poi esplodere in tutta la sua materna ferocia, nell’attimo in cui annusa puzza d’incesto. Trauma che rivive assumendo le sembianze posturali di una croce, contenente e contenuto. Dove a urlare è il silenzio. Come in un quadro di Munch.

E infine il padre: una diversa declinazione del vissuto di Mattia Pascal. Che qui dimostra di aver appreso il potere di attrazione degli oggetti: uno su tutti il cappello. Quello per evocare Madama Pace e quello di paglia, ornato da una ghirlanda di rose, per sedurre la sua giovane amante.

Una qualche “concertazione” alla fine viene raggiunta tra i figli delle due diverse Dee: gli Attori finiscono per disarmarsi, riuscendo ad assorbire le ombre dei Personaggi. Lo vediamo dai loro corpi, che perdono ognuno il caratteristico à plomb e si rendono malleabili ad essere piegati dalle emozioni. In particolare la prima attrice, che trasforma l’ossessivo accavallamento delle gambe in un “basic instinct” sguaiato. Di spalle, non per continuare a ricordare a tutti che lei non può perdere tempo ma perché finalmente inserita e catturata osmoticamente nel personaggio. E nel tempo.


Recensione di Sonia Remoli