Recensione dello spettacolo REGINE DI CARTONE – di Marina Pizzi – regia Silvio Giordani

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Novembre 2024

Chissà perché alla fine dello spettacolo – andato in scena ieri sera dal palco del Teatro Marconi – viene quasi da invidiare le tre barbone in scena. 

Che strano. Ma perché? Che cosa hanno in più?

Sanno entrare in relazione tra di loro, pur essendo molto diverse.

Sanno ascoltare e interessarsi davvero l’una dell’altra.

Sanno aiutarsi a vicenda nel decifrare la vita. 

Insomma: sono la testimonianza di una comunità ben riuscita. 

E quando arrivano ad esserne consapevoli anche loro, concordemente scelgono di strappare l’ultimo gruzzolo di soldi. 

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina), Maria Cristina Gionta (Ruvida)

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo che è una carezza in uno schiaffo (il testo è di Marina Pizzi, la regia di Silvio Giordani) : condizione necessaria per spingerci a riflettere. A non passare oltre. 

In fondo non sono mica persone così diverse da noi: sono intelligenti, belle, simpatiche. Brillanti, nonostante la polvere che le ricopre. E, come noi, insicure. 

Ma più sfortunate, perché abbandonate e lasciate ai margini: fuori dalla vita sociale “ufficiale”, fuori dalla loro famiglia di origine. A loro è toccata in sorte la realizzazione della paura che assilla tutti noi: rimanere soli dopo una disgrazia, un errore, una disavventura. Essere abbandonati. Per sempre. 

Marina Pizzi, l’autrice, scrive un testo davvero fascinoso: dapprima ti sequestra l’attenzione trascinandoti in una realtà surreale, quasi da teatro dell’assurdo. Tanto che le due barbone in scena, Regina e Tonta, ricordano quella tensione di “ansia, freddo buio e vuoto” anche di Vladimiro ed Estragone (“Aspettando Godot” di S. Beckett).

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Poi però il loro Godot arriva, anche se non se ne rendono conto subito: è Ruvida. E’ lei quella che desidera più intensamente realizzare una nuova famiglia e quindi un’autentica comunità: una polis. 

Una realtà aggregativa con valori specifici e comuni, dove i componenti desiderano il bene comune della collettività stessa. Perché si sentono parte integrante ed insostituibile della comunità. A tal punto da applicare i principi della fratellanza a quelli della collettività extra-familiare. Nasce così un piccolo popolo unito, forte e vigoroso, che si riconosce nella comunità e si prende cura della stessa. 

E sembra alludere all’estinzione di questo tipo di popolo l’incipit con cui Regina (un’Angiola Baggi di una luminosa raffinatezza fantasmatica) apre lo spettacolo, quando dice: “Dov’è finito? Non può essere scomparso…”. “E’ una barbarie con i fiocchi” – aggiungerà Tonta. E ancora Regina: “mi piacerebbe cambiare odore”.  

Perché se avere un odore significa avere un’identità, volerlo cambiare allude ad un desiderio di evoluzione. Anche Tonta desidera qualcosa di simile (una dolcissima e acuta Mirella Mazzeranghi che al di là del suo definirsi campata in aria come un anacoluto è invece assai consapevole): lei ama i nastri e i lacci. Rossi. Ama i legami, ciò che unisce. Ma che può anche soffocare. Come purtroppo è successo a lei. Eppure vale sempre la pena riprovare, ricominciare.

Maria Cristina Gionta (Ruvida), Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Anzitutto restituendo il giusto potere alla “parola”: prima magia nelle mani dell’uomo. E’ la bellezza del racconto. E del raccontarsi: “non ho più nessuno da chiamare” – confida Regina a Tonta. Ma inaspettatamente nella loro dualità si fa spazio un terzo elemento. Lei è più giovane, più propositiva, solo apparentemente aggressiva: è Ruvida (una Maria Cristina Gionta efficacemente graffiante). 

“Colazione, pranzo o cena qui?” – è il suo modo di presentarsi, di chiedere permesso, di dare un ordine alla tentazione del disordine. Le altre due sono sospettose, sono tentate a chiudersi tra loro appoggiandosi l’una sull’altra. Ma poi Tonta ricorda a Regina che non è efficace “appoggiarsi” a qualcuno, perché se poi quel qualcuno si sposta, si cade e si resta soli. Meglio imparare a contare su se stessi pur stando insieme. E allora con un balzo Ruvida – tenendo a bada il suo fare felino: “Insieme qualsiasi cosa si affronta meglio, no?”.

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Maria Cristina Gionta (Ruvida), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Ed è sorprendente vedere come partendo da un piccolo nucleo si possa fondare una comunità su basi “solide”.

E il tema della “solidarietà” chiama in causa, oltre alla nostra educazione sentimentale, anche le nostre conoscenze di geometria.

Se infatti la “solidarietà” si fonda sul sostegno reciproco, in geometria ogni parte di un “solido” é tale perché tenuta salda da tutte le altre. Quando non ci curiamo di qualcuno in difficoltà, generiamo una faglia nel solido, che tale non è più. E’ l’aiuto reciproco il cemento del corpo in cui viviamo. Perché “una società solidale” è “una società solida”.

La sapiente e audace regia di Silvio Giordani porta in scena un tema scomodo, affrontato con quella giusta dose di mistero e di ironia, tale da predisporre lo spettatore ad un ascolto più denso.

Quindi solido.

E’ in scena al Teatro Marconi fino al 17 Novembre 2024.

Mirella Mazzeranghi, Maria Cristina Gionta, Angiola Baggi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Dopo essere stata il 31 ottobre u.s. alla seconda delle 10 serate “Omaggio a Glauco Mauri”, nate dal desiderio di Andrea Baracco – direttore della Compagnia Mauri Sturno – di celebrare il ricordo del caro Maestro a un mese dalla sua morte, ho sentito l’esigenza di tornare ieri sera, alla settima serata. 

L’interprete del “De Profundis” di Oscar Wilde – ultimo lavoro a cui si appassionò il Maestro Mauri – ieri sera era lei: Federica Fracassi, un’attrice che non si dimentica, una donna dalla bellezza botticelliana. 

Federica Fracassi

Ma lei, come per incanto, per riuscire a farsi vivere da questa occasione, oscura ogni femminile seduzione, dandosi nel suo più fulgente maschile. Trattiene il suo corpo, incluse le mani. E se qualche ciocca si ribella uscendo sul viso, la riordina senza alcuna malizia femminile.

Si concede una densa dolcezza fatta di pause e di sguardi ricchi in compassione. Quasi sorpresi. La voce è bella: senza essere femmina, senza essere virile. E’ pulita, depurata. Buca l’attenzione. 

Di femminile resta in lei quell’innata inclinazione all’entrare in relazione con l’altro.Ed è proprio questa predisposizione alla relazione a caratterizzare la sua traduzione interpretativa dello Wilde del “De Profundis”. 

Oscar Wilde

In questo senso va letta la dolcezza con la quale si rapporta alla metabolizzazione degli errori del suo Bosie – passati in rassegna anche qui, nella lettera a lui indirizzata, oltre che nella sua mente. Un dolore nel ricordarli che può tradursi in compassione, solo dopo aver capito e sentito che negli errori di Bosie si specchia anche una parte di se stesso, a lui prima ignota. 

E se la sua autorealizzazione – che Wilde raggiunge grazie ad un’elaborazione introspettiva fornita proprio dall’occasione del carcere – si dà ora in quella compassionevole gratitudine che gli permette di dire – con la straziante, complice dolcezza della Fracassi: “Stavo bene quando eri via”; nella rievocazione della cronaca dei fatti fin nelle minuzie, invece, la Fracassi rintraccia e restituisce una particolare volontà a rifuggire la tentazione all’indugio. Un affascinante contrasto del ritmo del sentire, davvero umanissimo. 

Così come, a volte, l’espressività della Fracassi sembra  farsi “coltello”, per continuare – ancora nel racconto – a disegnare più precisamente alcuni suoi errori. Fino quasi a tatuarne un segno, una traccia indelebile.

Si fanno, invece, sussuro d’indulgente vergogna i momenti di confessione per aver trascurato l’inclinazione artistica a favore del rapimento amoroso. Ma sbagliando – o facendo solo il bene dell’altro – e quindi provando ed elaborando la sofferenza che ne deriva, si diventa coscienti di se stessi. Una sorta di cogito, questo di Wilde: “soffro dunque sono”.

E forse è così. C’è qualcosa di speciale che si attiva anche nello spettatore, nel partecipare alla rievocazione dell’esperienza esistenziale dell’ultimo Wilde. 

Andrea Baracco

Complice la progettualità di Andrea Baracco, che ha individuato questa modalità di rituale che di sera in sera, d’interprete in interprete, riesce a restituire quella “sinfonia del dolore” che Wilde mirabilmente compone, anche tra le lacrime. 

Quelle che continuano a farci commuovere – trattenute in un tremore all’apertura della lettera e poi sciolte per un attimo nel congedo – nell’indimenticabile interpretazione di Glauco Mauri.

Avvenuta  epifanicamente per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e rievocata ogni sera in questo straordinario rituale.

Mimmo Benassi e Glauco Mauri

Recensione dello spettacolo ASPETTANDO RE LEAR – regia Alessandro Preziosi –

TEATRO QUIRINO, dal 5 al 17 Novembre 2024 –

PATO srlTeatro Stabile del Veneto e Teatro della Toscana
presentano


ALESSANDRO PREZIOSI
NANDO PAONE
ASPETTANDO RE LEAR
di Tommaso Mattei
da William Shakespeare


opere in scena Michelangelo Pistoletto


costumi Città dell’arte/Fashion B.E.S.T
Olga Pirazzi
Flavia La RoccaTiziano Guardini
musiche Giacomo Vezzani
supervisione artistica Alessandro Maggi

personaggi e interpreti
Re Lear Alessandro Preziosi
Gloucester Nando Paone
Kent Roberto Manzi
Cordelia Arianna Primavera
Edgar Valerio Ameli

regia ALESSANDRO PREZIOSI

Il sipario si apre su una scena apparentemente abitata da oggetti, in verità ridotti al loro essere perimetro. 

Sono le stupefacenti opere visionarie di Michelangelo Pistoletto, perfette per raccontare il carattere di ambiguità dei nostri anni ma anche degli anni tra Cinquecento e Seicento: il periodo più straordinario vissuto dall’Inghilterra. Un periodo colmo di quel grandissimo dinamismo che incluse la terribile incertezza legata al tema dell’autorità e del suo fondamento. 

Ecco allora che le opere d’arte di Pistoletto si rivelano preziose per poter accogliere ed interpretare temi legati al delicato rapporto tra tradizione e innovazione; tra l’essere e il nulla; tra l’uomo e la natura; tra padri e figli.

Arianna Primavera (Cordelia-Matto) – Alessandro Preziosi (Re Lear)

Il Re Lear di Alessandro Preziosi siede sul perimetro di una struttura-trono a due posti: uno per lui, l’altro per la figlia che “dirà” di amarlo di più. Non sarà Cordelia, la sua preferita: per un errore di interpretazione tra realtà ed apparenza, tra generosità e possesso, Lear non riconoscerà nelle parole di Cordelia la prova del suo immenso amore.

Ecco allora che Cordelia, ripudiata, siede in un canto, sul perimetro di un angolo: prossemicamente distante dal Re.  Ma è solo un’apparenza. Lei continua a mantenere una vicinanza con il padre attraverso il canto: essenziale gioco linguistico che prende la forma di strambotti (piccoli componimenti poetico-satirici popolari) e dove racconta dell’amore fallace di un padre per le sue figlie. 

E nonostante l’odio accecante di cui vorrebbe “rivestirla” suo padre, lei continua ad indossare la sua generosa attitudine ad amare, che la spinge ancora a desiderare restargli vicina. Per poterlo consigliare, aiutandolo a vedere e a rendere in qualche modo fertile il suo peggio: la parte più inaccettabile di se stesso. 

Arianna Primavera (Cordelia-Matto) – Alessandro Preziosi (Re Lear)

Ma per poter realizzare questo suo desiderio deve necessariamente vestire nuove sembianze: sceglierà allora quelle insospettabili del Matto.

La drammaturgia di Tommaso Mattei – l’autore, produttore e coordinatore editoriale che assieme ad Alessandro Preziosi e ad Aldo Allegrini nel 2005 fonda la compagnia di produzione teatrale Khora.teatro – realizza un adattamento contemporaneo del testo shakespeariano con un evidente richiamo ad un altro testo: l’ “Aspettando Godot” di Samuel Beckett.  

Mattei sceglie poi di concentrare la narrazione intorno alla scena – spaccato esistenziale – della Tempesta, per approfondire con particolar cura il rapporto tra padri-figli, oggi così attuale.

A rendere magnifica la singolarità di questa messa in scena è la sinergica multidisciplinarietà tra Arte contemporanea e Teatro. 

Michelangelo Pistoletto e Alessandro Preziosi

E’ l’acuto declinarsi della vis drammaturgica, registica ed interpretativa con la poetica propria delle opere del percorso artistico di Michelangelo Pistoletto.

Una poetica che passa anche attraverso quel fecondo disequilibrio creativo che pervade la realizzazione artistica dei costumi iconici del Maestro – realizzati dal collettivo Fashion B.E.S.T. con materiali sostenibili – fino a risuonare nelle musiche composte da Giacomo Vezzani, ora subdolamente insinuanti, ora dal fermento di un rock epico. 

Perché tutti gli elementi scenici vivono una trasformazione, parallelamente alla trasformazione esistenziale di un uomo: Lear il rappresentante dell’inquietudine di un’umanità, inserita in un particolare contesto storico in evoluzione, in crisi, in tempesta. 

Ecco allora che il corpo dei gesti e della vocalità del Lear di Preziosi lascia andare in frammenti la rigida fissità dell’offesa, per s-catenarsi in un disordine che arriva a toccare il fondo dell’essenza umana. Anche i suoi occhi si denudano, rivelando una brace che spaventa e inevitabilmente eccita e infiamma tutto ciò che guarda. 

Alessandro Preziosi è Re Lear

Ma dalle rovine, dalla cenere, si fa strada un’energia che riesce a contattare l’esigenza di un nuovo inizio. Anche provvisorio: un’occasione di speranza. 

Complice di questa discesa agli inferi, non totalmente distruttiva e quindi tale da rendere possibile la successiva risalita – è la fertile follia di cui si veste Cordelia (una multiforme e piena di grazia Arianna Primavera) per continuare a sostenerlo in questa travolgente e necessaria trasformazione.

Una trasformazione che, in un mirabile flusso di disordine vitale, passa – come dicevamo – attraverso l’interazione con le opere d’arte sceniche, attraverso la sapiente suggestione delle splendide composizioni musicali di Giacomo Vezzani  e quindi anche attraverso i costumi. Che da favolosi abiti finiscono per darsi come materializzazione di “habiti” (di modi di essere, di maschere) di cui progressivamente si spoglia l’apparenza di ciascun personaggio in scena. Fino a riuscire a contattare, ciascuno, la propria nudità (opportunamente rappresentata dal restare vestiti di ombre), necessaria per poter ricominciare. 

Nando Paone è Gloucester

Un movimento che è sinonimo di maturazione: una maturazione a cui i due padri in scena, Lear e Gloucester (qui incarnato in un Nando Paone ricco in densità interpretativa) arriveranno anche grazie alla complicità di quei figli e amici che loro avevano disconosciuto come “illegittimi” (valida l’interpretazione di Valerio Ameli nelle vesti di Edgar; efficace il conte di Kent di Roberto Manzi).

“Essere maturi è tutto” – fa dire Shakespeare a Edgar – alludendo alla capacità umana di vivere e di morire, consapevoli che l’esistenza non è, malgrado tutto, solo il gioco capriccioso degli dei  né il palcoscenico dei pazzi. Ma un complicato cammino verso una verità che si rende oscura, ma che comunque esiste e alla quale si può attingere. Con compassione, solidarietà e amore. 

Perché ciò che davvero conta, forse, non è “Godot/Lear” ma “l’Aspettando”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della conferenza-spettacolo QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO -Dialoghi tra Scienza ed Arte

TEATRO ARGENTINA, 3 Novembre 2024 : ACQUA

QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO

Dialoghi tra Scienza e Arte – II edizione, 2024
Acqua, Aria, Terra, Fuoco
4 Elementi per 4 Domeniche

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

Entra in scena: il suo scorrere è musica. 

E già solo all’udirla, ci idrata. 

E’ lei: l’Acqua.

Suoi narratori nel viaggio-spettacolo che si è tenuto ieri al Teatro Argentina sono stati Roberto Danovaro, Presidente della Fondazione Patto con il Mare per la Terra; Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa; Federica Rosellini, attrice, scrittrice e regista teatrale.

E un po’ come rispondendo all’invito inscritto sul frontone del Teatro Argentina – “Alle arti di Melpomene, di Euterpe e di Tersicore” – i tre narratori si sono avvicendati sulla scena “cantando”  – su variazioni – il potere di questo elemento naturale: l’Acqua.

Teatro Argentina

La giornalista Battifoglia ha giocato il ruolo di stimolare sinapsi tra la trascinante narrazione scientifica del Prof. Danovaro e l’ammaliante interpretazione di testi letterari da parte di Federica Rosellini.

Enrica Battifoglia

Se dal  Prof. Donovaro apprendiamo come l’acqua sia insieme sfuggente ed invadente ma anche 830 volte più densa dell’aria e quindi capace di trasportare suoni,

Roberto Danovaro

la Rosellini  ci incanta nel trovare e nell’insufflarci nell’occhio e nell’orecchio la magia di un corrispettivo letterario in Eraclito (filosofo greco vissuto tra il VI e il V secolo a. C. ): 

“Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima. È fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e quant’altro. È dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui si viaggia, è piacere e paura, nemica e amica, è confine ed infinito, è cambiamento e immutabilità, ricordo e oblio.”

E a seguire propone un ulteriore corrispettivo in Emily Dickinson:

“Come se il mare separandosi
svelasse un altro mare,
questo un altro, ed i tre
solo il presagio fossero

d’un infinito di mari
non visitati da riva
il mare stesso al mare fosse riva
questo è l’eternità”.

E qui, nel suo interpretare, la Rosellini stessa diventa “mare visitato da riva”: nel suo ritmo se ne sente tutto il separarsi e lo svelarsi ripetuto.

Federica Rosellini

E poi è di nuovo il Prof.  Danovaro a illuminarci su come il mare, che esiste prima di ogni altra forma di vita, sia la porzione meno conosciuta del nostro pianeta. Quello che sappiamo sugli oceani ad esempio è solo qualcosa di “epidermico”: facciamo fatica a scendere più in profondità. E se da un lato la scienza è un continuo superamento di se stessa,  il mare – che unisce e spaventa – è la più grande sfida per noi umani: cambia continuamente e si rivela spesso illusorio prevedere l’andamento di questo “personaggio principale” della nostra storia.  

Qui, la Rosellini risponde al richiamo della Scienza con un brano tratto dal “Moby Dick” di Melville:

 “Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola”.

E poi, ancora,  con “Mediterraneo” di Eugenio Montale:

“Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche
quando si schiudono come verdi campane
e si ributtano indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro, mare,
ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro.

Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento del mio cuore
non era che un momento del tuo;
che mi era in fondo la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso”.

Qui l’ interpretazione della Rosellini ci rapisce in un modo nuovo: assumendo la musicalità di un canto medioevale a due voci.

Il Prof. Danovaro allora – riallacciandosi all’ultimo verso di Montale – ci ricorda che noi deriviamo dall’Acqua come l’ultimo dei suoi materiali di scarto. E se è vero che il mare da sempre è il luogo del mostruoso, è altresì vero che se noi respiriamo, lo dobbiamo proprio agli oscuri e mostruosi abissi, che producono quel fertilizzante di cui poi si nutrono le alghe. 

Qui la seducente ambiguità del mare viene resa dalla Rosellini con un canto come di sirena, che ci incatena non appena accenna le prime note di “By This River” di Brian Eno. 

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

E poi tanto altro ancora, in un crescendo pieno di meraviglia: come se “i tre 
solo il presagio fossero
/d’un infinito di mari/non visitati da riva/il mare stesso al mare fosse riva/questo è l’eternità”.

I tre narratori Roberto Danovaro, Enrica Battifoglia, Federica Rosellini con le loro parole, nate da interrogazioni, esplorazioni e da un generoso desiderio di condivisione, ci hanno fatto assaporare infatti – pur nella nostra  finitudine – il gusto dell’eternità.


I prossimi appuntamenti con i restanti 3 elementi della natura si terranno:

domenica 1° dicembre 

Aria 
Massimiliano Pasqui, ricercatore Istituto di Bioeconomia del Cnr 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Donatella Finocchiaro

domenica 15 dicembre 

Terra 
Carlo Doglioni, Presidente Ingv 

Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa

Letture poetiche Lino Guanciale

domenica 12 gennaio 

Fuoco 
Salvatore Passaro, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr 

Guido Ventura, ricercatore dell’Ingv 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Silvia D’Amico


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA VEGETARIANA – regia Daria Deflorian –

TEATRO VASCELLO, dal 29 Ottobre al 3 Novembre 2024 –

La fine regia della Deflorian – già dal prendere posto in sala – ci invita ad entrare in confidenza con un insolito spazio.

Una scena che è anche un luogo della mente: uno spazio del teatro dell’inconscio, dove non trovano ospitalità i principi della logica. 

Uno spazio vuoto: necessario per potersi riempire di tutto. 

Uno spazio senza sostegni – senza mobilio – senza legami, senza nette identità. Così, ogni cosa è libera di poter essere anche altro.

Uno spazio “sporco”, “imbrattato”: uno spazio che si lascia vivere, che si apre alle contaminazioni.  Dove bene e male possono essere limitrofi.

Uno spazio totalmente libero. E quindi anche inquietante.

Gabriele Portoghese (il marito) e Monica Piseddu (Yeong-hye la vegetariana)

Fin dalle prime battute prende corpo uno dei temi portanti della regia, così come dell’omonimo testo di Han Kang (Premio Nobel per la Letteratura 2024): la nostra incredibile difficoltà ad entrare in relazione con l’altro. Autenticamente: senza farne qualcosa di “confortevole”. Piuttosto provando a rendersi disponibili ad apprezzarne la sua irriducibile differenza da noi.

Quella “eccezionalità”, quella “straordinarietà”, che tanto ci affascinano ma che risultano così difficili da gestire quando proviamo a farle entrare in relazione con le nostre fragilità. Diversità così difficili da tollerare, perché occasioni di ricerca di nuovi equilibri. E quindi di necessarie crisi.

Monica Piseddu è Yeong-hye (la vegetariana)

Conseguentemente ad un trauma, la protagonista crede di poter risolvere l’inquietudine che il trauma le ha provocato smettendo di cibarsi di carne. 

Una decisione fuori dall’ordinario, ricca di quell’eccezionalità che dicevamo essere così difficile da accogliere nella nostra presunta normalità. E infatti i suoi familiari non riescono ad entrare in relazione con questo atteggiamento così estraneo alla logica razionale. Ma prossimo alla logica enigmatica del linguaggio onirico.

Familiari che in questo contesto onirico rappresentano le diverse tensioni che abitano il nostro condominio psichico.  In questo senso, quindi, tutta la messa in scena è la rappresentazione di un forte dissidio interiore.

Daria Deflorian (la sorella), Gabriele Portoghese (il marito), Monica Piseddu (la vegetariana)

Smettere di mangiare carne diventa qui un sintomo legato ad un forte disagio con la tattilità, anche ferina, che ci abita. Un disgusto per il nostro odore carnale, sensuale, tendente alla sopraffazione. Una nausea per quella totale libertà della carne che in noi umani non si dà in maniera lineare – e quindi istintiva come negli animali – ma può assumere la forma di infinite per-versioni.

Paolo Musio (il cognato), Monica Piseddu (la vegetariana)

Lo spettacolo ci porta a riflettere, quindi, anche su che cosa significhi davvero per noi essere liberi: su come può diventare talmente inebriante da provocarci angoscia. La libertà è qualcosa che eccede la nostra finitudine. E per questa difficoltà ad entrarci in relazione siamo tentati a rinunciavi. 

Ed è un po’ quello che avviene alla protagonista, che in un continuo crescendo angoscioso arriva a provare disagio anche per la linearità dell’istinto. Preferendo ad esso la quiete rassicurante del “vegetare”, del vivere senza l’impellenza della tensione a desiderare. 

Paolo Musio (il cognato), Daria Deflorian (la sorella)

Uno spettacolo che necessariamente provoca un’azione di “disturbo” nell’attenzione e nel coinvolgimento dello spettatore, che viene solleticato proprio su quelle corde che generalmente preferiamo non vengano “pizzicate”: quelle che, avvicinandoci allo stra-ordinario, sono motivo di fertili disagi. Piccole-grandi crisi, propedeutiche alla conquista di nuovi equilibri esistenziali.

E il Teatro anche questo deve saper fare e poter fare.

Di sublime bellezza – anche iconografica – il quadro finale raffigurante una sorta di deposizione dalla croce, priva di verticalità e di frontalità diretta. Una meravigliosa sintesi. Graffiante.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Giovedì 31 Ottobre 2024: GABRIELE GASCO

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Lì dove dal XV secolo avevano sede le principali prigioni di Roma (e dove vennero reclusi – tra gli altri – Benvenuto Cellini, Giordano Bruno e lo stesso Caravaggio); lì dove nel 1670 le carceri lasciarono il posto al Teatro Tordinona; ebbene proprio questo luogo così potentemente simbolico Andrea Baracco, direttore della Compagnia Mauri Sturno, ha scelto per accogliere l’essenza del testo del “De Profundis”: la lettera che Oscar Wilde scrisse in tre mesi – nel secondo anno di prigionia – non appena gli diedero la possibilità di avere in cella carta e inchiostro.

Una lettera che custodisce la testimonianza di una straordinaria evoluzione esistenziale: quella che Oscar Wilde realizzò grazie alla sua capacità di accogliere il dolore, quale preziosa opportunità per una fertile trasformazione vitale. Quel dolore che lo pervase all’indomani della condanna a due anni di lavori forzati e dal quale sarebbe stato annientato se non fosse scattata – proprio nel momento di massima umiliazione – la consapevolezza del potere insito nel nostro essere gettati al mondo nella sofferenza. 

Glauco Mauri al Teatro Rossini di Pesaro

Un passaggio esistenziale di cui si è reso interprete il caro Maestro Glauco Mauri: per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e – per almeno altre 10 sere qui – ancora con noi – al Teatro Tordinona. Luogo eletto da Andrea Baracco per celebrare il rito del ricordo del Maestro, a un mese dalla sua morte. 

Un omaggio all’indimenticabile attore e al meraviglioso uomo di teatro che fece della sua arte la sua vita e della sua vita la sua arte. Una profonda riconoscenza che qui assume la forma di una rievocazione, proprio di quelle che sono state le sue ultime parole pronunciate in teatro. 

Una rievocazione che si ripete per 10 sere ma con sempre nuove “variazioni interpretative” (quelle di attori diversi ogni sera) del testo del “De Profundis”. Testo del quale Glauco Mauri suggella qui – in una perfetta e quindi infinità circolarità – l’alpha e l’omega. Un Mauri profondamente commosso e di una fulgente dignità tale da far vibrare le corde più intime dello spettatore. 

Gabriele Gasco

Una dignità di cui l’interprete ieri sera in scena si è fatto splendido erede. Gabriele Gasco ha 27 anni e quando varca la scena buia lo fa con quella capacità speciale del mantenersi sul confine tra il mondo della fisica e quello della metafisica.

Indossa qualcosa di simile a una divisa da carcere ma non appena alza lo sguardo capisci che in verità è profondamente libero. Di quella libertà di cui si possono fregiare solo coloro, che come Oscar Wilde, hanno saputo usare il buio per fare luce dentro se stessi. Fino a riuscire a trasformare il veleno della vendetta e del rancore nell’elisir della gratitudine.

Il Wilde di Gasco conserva tracce della postura da dandy. Ma il corpo – abito della sua rinnovata anima – non “posa”: “è”. L’indiscutibile stile che modella i suoi gesti è il risultato dell’autentica consapevolezza di cui si dispone dopo essere stato costretto a una “remise en forme” esistenziale.

Oscar Wilde

Ora sa dove e perché ha sbagliato e come mai si è ritrovato a scontare questo tipo di sofferenza. Toccato il fondo più abissale dell’umiliazione, ha scoperto che proprio da lì può sprigionarsi un’energia che dà un senso alla sofferenza per cui siamo stati creati. E’ un ‘energia che per alcuni istanti la regia di Baracco materializza in un abbraccio musicale al suo Wilde più in difficoltà: un abbraccio intimo, lieve, magico.

Un Wilde il suo che, con quel suo stare che rompe il piano della frontalità e con quel suo protendersi costante e lieve indietro per poi slanciarsi pungente in avanti, rende il proprio corpo disponibile come un arco, dal quale vengono scagliate frecce di audace saggezza. Verso il suo amore: sì, nonostante tutto – nonostante i tradimenti, gli atteggiamenti da subdolo narcisista manipolatore e l’indifferente silenzio durante questi due anni di carcere – lui resta il suo amato Bosie. 

Andrea Baracco

Amato ora in maniera differente – dopo aver passato in rassegna tutta la tossicità dei suoi atteggiamenti – ma comunque amato. Perché l’amore può essere più forte dell’odio ma soprattutto perché l’amore è infinitamente generativo. Siamo fatti per soffrire – ci confida Wilde – e per amare. Poco importa l’essere ricambiati: “amare ci permette di rimanere fedeli al nostro desiderio” direbbe Massimo Recalcati. Questa è la potente forza vitale di cui siamo dotati, noi nati per soffrire. 

Il suo raccontare è fascinosamente irregolare. Ma costante. Uno stile sul confine tra disponibilità e seduzione; tra musicalità e assedio. Un ritmo che apre e chiude, continuamente, i confini del racconto. Un Wilde, quello di Gasco, fiero di tutto quello che gli è accaduto, perché tutto quello che gli è accaduto è servito a condurlo a questo tipo di consapevole libertà.

Gabriele Gasco

Una fierezza che si coniuga con la disponibilità all’ascolto e alla tolleranza, propria di quel suo inclinare il capo. Come Cristo sulla croce: perché “Cristo è il precursore romantico dell’artista”: “un contadino di Galilea che tiene sulle sue spalle il male di tutti” per trasformarlo, grazie alla bellezza del proprio dolore. 

Un dolore che non chiude, ma che anzi può aprire a nuovi inizi. “Un giorno dovrai vergognarti di te stesso … – dice Wilde al suo amato – per questo ti ho scritto così a lungo: per farti capire cosa sei stato tu per me”. Prima e durante questa occasione di sofferenza “terapeutica” in carcere.

Ora – prosegue Wilde – “vengo ad insegnarti il significato e la bellezza del dolore”.

Non è facile da spiegare. Ma qualcosa di “sacro” avviene durante la conclusione di questo intimo rituale.

Glauco Mauri


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Leggi anche:

INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo DAIMON 4.0 – Identità in download – scritto da Maria Grazia Aurilio e Tiziana Sensi – regia Tiziana Sensi

TEATRO MARCONI, 30 Ottobre 2024 –

Per realizzarci davvero dobbiamo perderci; dobbiamo cioè scoprire e lasciarci guidare dal nostro daimon. 

Nel linguaggio comune siamo soliti dire: “Per cosa sei portato ?”. Ecco, il daimon è questo: ciò da cui siamo portati. Un’attitudine, un talento: qualcosa che ci rende speciali, diversi, unici. E ci fa stare bene con noi stessi. Ci realizza.

Nessuno è privo di daimon. Ma occorre cercarlo. E poi lasciarlo libero di esprimersi. E seguirlo. Come in una danza.

E’ quello che appassionatamente  la caleidoscopica Tiziana Sensi ha cercato di farci “sentire” ieri sera. E il bersaglio è stato centrato. 

“Sono così eccitata che mi sono persa”: con credibile naturalezza, in più occasioni nel corso della sua performance, la Sensi si è lasciata guidare da alcuni complici del suo daimon: Caterina, Flavio… . E allo spettatore arriva quella fresca autenticità che ti fa “credere” a quello che lei dice.  E decidi di seguirla: perché seguendo lei, arrivi dentro te stesso. E ti ritrovi. E ti conosci un po’ di più.

E’ qualcosa di diametralmente opposto ad una subdola manipolazione: perché la parola teatrale è generosa, è altruistica, è senza secondi fini. 

Perché il Teatro è epidermico: si è prossimi, si è in presenza. 

Ci si guarda negli occhi, a Teatro, ma non da dietro uno schermo. 

Ci si annusa. E l’olfatto è il nostro cervello più antico, ancestrale. E non mente. 

La Sensi frequentemente nel corso dello spettacolo sente l’esigenza di chiedere alla regia che si alzino le luci sulla platea: anche lei ha bisogno di vederci e di annusarci, al di là dello schermo delle ombre che necessariamente cade sul pubblico. 

A lei non importa la perfezione: lei è disposta a correre il rischio di interrompere ripetutamente lo spettacolo per saggiare le nostre reazioni. Ma in verità non è un’interruzione: è un dono quello che lei ci sta facendo. Cercando la nostra attenzione, ci offre la propria. Non le interessa “ballare da sola”: è “il passo a due” quello che vuole. E’ la relazione che cerca di costruire con noi, al di là di ogni egoico narcisismo.

La sua è l’espressione del fascino di essere umani: in bilico tra fragilità ed eccellenza. Quell’eccellenza che ci regala l’unicità del nostro daimon. 

Qualcosa di diametralmente diverso dalla perfezione “verticale” a cui ci fa credere di poter raggiungere il mondo dei social.  Quella magia di luci, di filtri, di fallaci proiezioni di una maestosità onnipotente, con cui la Sensi-Social apre lo spettacolo. E ci si presenta con un fascino da sortilegio in un prologo di sublime bellezza .

Tutta la drammaturgia (un lavoro a quattro mani tra Maria Grazia Aurilio – psicologa, psicoterapeuta – e la stessa Sensi) sa fondere la luminosità della narrazione all’austerità dei dati scientifici, che la Sensi porta in scena a testimonianza di ciò che, con eleganza preoccupata, porta all’attenzione dello spettatore.

E’ un particolare teatro di narrazione il suo che dà ospitalità ad ogni colore del proprio condominio vocale. Ne risulta un personaggio polimorfico, che racchiude in sé una pluralità di individualità.

Partendo dalla ricerca del suo personale daimon, Tiziana Sensi – in un continuo confronto temporale tra passato e presente – piuttosto che demonizzare l’era digitale avverte l’esigenza di tentare di recuperare ciò che di prezioso è andato perso.

Ad esempio, un’equilibrata considerazione del giudizio degli altri.

Gilles Deleuze (noto filosofo francese) sosteneva che il peggiore degli incubi è vivere la propria vita come sogno di un altro. Ed è una tentazione in cui ci viene facile cadere, fuorviati dal fatto che -sebbene conoscere il proprio daimon sia ossigeno vitale – incontrarlo può essere spaesante. Il nostro daimon ci parla infatti di ciò che spesso ancora non conosciamo di noi stessi. Ma non è un motivo valido per allontanarcene e cadere nella trappola di dedicarci alla realizzazione del desiderio che gli altri hanno su di noi. E’ vero: è più semplice e in più ci rende “amabili”. Ma è la magra consolazione che riceviamo per aver rinunciato al nostro potere: il potere creativo.

Ne consegue un pericoloso e progressivo raffreddamento del desiderare, che conduce alla depressione. Anche tra i giovani. 

Perché quel senso di “mancanza” così prezioso per continuare a desiderare creativamente si trasforma in “vuoto” sterile, in nichilismo: conseguenza del seguire un desiderio che non ci appartiene, quello di qualcun altro appunto, spesso nascosto dietro lo schermo di uno smartphone.

Perché se è vero – come è vero – che la vita umana ha bisogno di “appartenenza”, è altrettanto vero che quest’esigenza va equilibrata anche con un’adeguata dose di “erranza”. Senza preoccuparsi di sbagliare: fallire e incontrare una momentanea crisi è necessario per crescere. Per esserci conoscenza deve esserci “dubbio”. Che non è un deficit, come spesso siamo portati a credere, ma una preziosa occasione che ci apre ad incontrare una verità più profonda, parti di noi che ancora non conosciamo. 

Insomma avere dei dubbi non è da “sfigati” che rischiano l’emarginazione sociale, come vogliono farci credere. Tutt’altro: farsi delle domande significa disporre ancora del potere creativo del proprio daimon, senza abdicarvi per un’ingannevole prospettiva di inclusione, all’interno di una massa anonima, dove ciascuno per appartenervi deve aver rinunciato alla propria personalità. 

Il Teatro, oltre ad essere il luogo giusto per parlare consapevolmente delle perdite conseguenti all’abbandono del nostro daimon, è anche un luogo dove queste perdite possono essere riconquistate.

Per questo l’idea che persegue lo spettacolo di Tiziana Sensi si rivela preziosa e necessaria nel recuperare il valore irrinunciabile della nostra voce, del nostro corpo, del nostro tempo.

Fino a riappropriarci progressivamente anche del piacere generativo dell’Attesa.

Tiziana Sensi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LE NUVOLE SOPRA FERRARA – la poesia e il viaggio in Italia di Zbigniew Herbert – regia Sergio Maifredi –

TEATRO VITTORIA, 28 Ottobre 2024

Oggi 29 Ottobre 2024 Zbigniew Herbert avrebbe compiuto 100 anni.

A celebrare questo anniversario con uno splendido evento – ospitato ieri sera nella calda accoglienza del Teatro Vittoria – è stato il desiderio del regista Sergio Maifredi, direttore del Teatro Pubblico Ligure e da anni interessato a restituire sviluppo e approfondimento all’interesse per la cultura polacca. Dal 2005 Maifredi è regista residente al Teatr Nowy di Poznań in Polonia.

Il regista Sergio Maifredi

Fondendo insieme poesia, narrazione e musica, Maifredi ha immaginato allora una Trilogia per raccontare un’ Europa scomparsa.

Il 7 Ottobre scorso la trilogia ha avuto inizio con una serata dedicata a Wislawa Szymborska – incarnatasi nelle voci di Maddalena Crippa e Andrea Nicolini e nelle composizioni eseguite dal vivo di Michele Sganga. 

Ieri sera 28 Ottobre, invece, in occasione del centenario della nascita di Zbigniew Herbert (Leopoli, 29 ottobre 1924 – Varsavia, 28 giugno 1998) Maifredi ha scelto di dare voce e corpo alla poesia e al racconto del viaggio in Italia di Herbert, affidandone la narrazione interpretativa a Giuseppe Cederna e quella musicale al pianoforte di Michele Sganga.

L’11 Novembre prossimo la trilogia troverà compimento con la rievocazione del viaggio del Generale Anders, capo di un’armata di uomini e di donne che dalla Siberia arrivò in Italia per partecipare alla Liberazione. Al loro seguito anche la più grande compagnia teatrale itinerante in tempo di guerra. Una storia vera mai raccontata. Qui la narrazione interpretativa sarà affidata a Massimiliano Cividati mentre quella musicale a Gennaro Scarpato e ad Andrea Zani.

Il compositore Michele Sganga

Ieri sera, all’apertura del sipario, le note di Michele Sganga hanno fatto entrare in scena lei: la meraviglia. Quel senso di stupore suscitato dal trovarsi difronte a qualcosa di straordinario, di impensato: esperienza fisica e metafisica che avvolge l’universo poetico ed esistenziale di Herbert .

Il compositore Sganga omaggia questa epifania con il bello – inteso in senso etico ed estetico -attraverso un trasporto che passa anche per la postura del suo corpo, che infatti si lascia attraversare da tensioni e rapimenti. Perché la meraviglia è una qualità dell’occhio e del cuore che non si esaurisce nell’oggetto che si ammira ma che si riflette anche su chi guarda, coinvolgendolo nella sua realizzazione come persona: portandola ad intuire il suo posto nel mondo. 

Giuseppe Cederna

Uno splendido preludio quello di Sganga che apre la strada al viaggio poetico ed esistenziale di Herbert, reso dalla grazia tattile propria della voce di Giuseppe Cederna. Ecco allora che Zbigniew Herbert ci si presenta raccontandoci (la drammaturgia è curata dallo stesso Cederna e da Maifredi) gli incontri, quelli speciali, che hanno fatto assumere sempre nuove forme alla vita del celebre poeta polacco.

Sua nonna fu il primo incontro con la meraviglia. Poi ci fu quello con la sua città, Leopoli, attraverso la quale assaporò il primo incontro con l’Europa: una città “dolce come l’Italia”, crocevia tra oriente e occidente. E ancora l’incontro con la scuola: lui, bambino silenzioso, affascinato dalla lingua latina ma anche dai popoli sottomessi. E poi dal professore di scienze: “un gentiluomo senza dio, innamorato della vita… e ucciso dai farabutti della storia”.

Giuseppe Cederna

La mimica di Cederna ci restituisce tutta la meraviglia e quindi quella seduzione del sapere che fece cadere innamorato il giovane Herbert. Ci arriva dagli occhi di Cederna: così disponibili a regalare attenzione, ad accogliere. E ad essere grato.

E ancora, l’incontro con suo padre: un uomo che lo introdusse fin dall’età di tre anni in un’altra famiglia, quella dei personaggi dell’Odissea. E più tardi nelle famiglie del mondo: quello da lui esplorato come un Sindbad e da Herbert conosciuto attraverso le cartoline che il papà gli spediva da ogni viaggio.

Giuseppe Cederna

E poi la fuga in treno verso Varsavia e l’incontro, questa volta, con il crollo di un mondo. Arriva così l’urgenza di ricostruire, ricontattando gli ideali della tradizione classica. Si laurea in economia e poi ancora in diritto fino ad approdare alla filosofia. Qui l’incontro con un grande maestro: H. Elzenberg e il suo neoplatonismo. “Chi sarei oggi se non ti avessi incontrato ? …. Un ridicolo ragazzino intimorito dal suo stesso esistere… invece la tua severa mitezza mi ha insegnato come resistere al mondo… con lo sguardo di chi perdura, come quello di un sasso”. 

Zbigniew Herbert

Acutamente la drammaturgia affianca al ritratto che Herbert dà di se stesso, quello che gli altri intellettuali del tempo danno di lui.

E arriva finalmente il disgelo politico del ’56 e la possibilità di viaggiare con una borsa di studio. E’ qui che si rivela il suo daimon (talento): proprio nell’avventura del viaggio.

Giuseppe Cederna

Nei momenti più commossi della narrazione la regia di Maifredi fa avanzare l’Herbert di Cederna verso il proscenio, così da potersi aprire con noi del pubblico in complici e commoventi “a parte”. Ad essi s’intreccia – quasi come il commento di un coro – la narrazione musicale di Michele Sganga, dalla quale ci arriva la vibrante sensazione di un procedere del passo e del respiro, attento a non perdere nulla con lo sguardo, nonostante la fatica del camminare. Fino a culminare in quell’eccitazione propria di ogni approssimarsi.  

Ma di Sganga  “parlano” anche i suoi momenti di ascolto: il suo esserci, proteso, incline ad ascoltare per poter regalare il suo commento.

Zbigniew Herbert

In anteprima poi ci viene donata da Maifredi la possibilità di conoscere alcuni passi di un’opera di Herbert in fase di traduzione in Italia, a cura di Andrea Ceccherelli, che uscirà prossimamente per Adelphi. E’ “Un barbaro in giardino “, la raccolta di saggi che racconta i viaggi compiuti in Italia dal poeta polacco tra il 1959 (a 35 anni) e il 1964. 

E’ dapprima l’incanto per Orvieto: la seduzione della cattedrale che non ti molla mai con lo sguardo, neppure se ti permetti il lusso di un piatto di pastasciutta nel ristorante limitrofo. E poi l’esperienza di degustare il vino, quello che porta il suo nome: “un atto cognitivo”. E che dire della passione del Signorelli nel restituire i corpi in azione ?

Arriva poi l’epifania delle nuvole sopra Ferrara: un incontro così incisivo da essere scelto come titolo per questo spettacolo: “la prima volta che le vedi – ci confida Herbert – credi di star ammirando un dipinto del Ghirlandaio”. 

E ancora Siena con il suo Duccio da Buoninsegna, da cui dovrebbero andare a lezione registi ed attori.

E che dire di quel “caffè aromatico che chiamano cappuccino ? 

Ma il suo viaggio delle meraviglie prosegue ancora e tocca San Sepolcro, Tarquinia, Arezzo, Firenze.

Sempre dentro la vita, come dentro un viaggio.

Un camminare guidati da poeti – quello a cui ci invita questo prezioso spettacolo di Sergio Maifredi, nonché l’intera Trilogia –  per continuare a stupirci del piccolo e dell’infinitamente grande. Perché la poesia è la gratitudine dell’essere in cammino. Una letizia senza tornaconto; sazi del continuare a meravigliarsi di ciò che scaturisce dalla vicinanza con il mondo e con noi stessi. Un modo di intendere l’esistenza dove ironia, disperazione ed equilibrio continuano a farci amare disperatamente la vita, nonostante tutto.

Uno spettacolo di poesia civile, un camminare necessario. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di IO – con Antonio Rezza – spettacolo a più quadri di Antonio Rezza e Flavia Mastrella –

TEATRO SAN RAFFAELE , 24 Ottobre 2024

Veniamo gettati al mondo come note su di un pentagramma.

Senza sceglierlo. 

E poi finiamo spesso per preferire al concertarci, il far emergere la nostra singolarità.

Il risultato dell’habitat immaginato dall’estro poeticamente surreale di Flavia Mastrella è un pentagramma di note-monadi, dove ogni “nota” di tessuto è una scena, che il genio poliedrico di Antonio Rezza abita – e in qualche modo indossa come un “habitus” (un modo di essere) – penetrandovi dentro da feritoie, tagli, buchi. Vuoti relazionali ai quali si riesce ad accedere, nonostante il predominare dell’istinto alla sopraffazione.

Antonio Rezza

Con seducente ferocia verbale, parossismo gestuale e fantastico lavoro mimico, Rezza dà vita a situazioni di quotidiana perversità – figlia della tracotanza di tanti “io” – che oscillano dalle pretese genitoriali sui figli, all’incuria di certi ambiti medici; dall’egoismo galoppante, alla nichilistica mancanza di autostima; dalla manipolazione attiva a quella passiva; dalla totale sottomissione, all’autoerotismo.

Antonio Rezza

Perché intorno al nostro ”io” edifichiamo la principale certezza sulla quale ci affanniamo a dare forma alla nostra vita. Ma che, proprio in quanto certezza, rende impossibile qualsiasi forma di fertile accoglienza esterna e quindi di crescita personale e sociale.

Perché si cresce solo quando permettiamo a qualcosa o a qualcuno di mettere in crisi le nostre certezze: avere la certezza di “pensare di essere quello che si è” equivale ad una forma di ignoranza.

Per esserci conoscenza, deve esserci “dubbio”: solo così arriviamo a conoscere qualcosa in più, e di diverso, su noi stessi.

Flavia Mastrella e Antonio Rezza

Ad Antonio Rezza e a Flavia Mastrella però concediamo la possibilità di mettere in scena il teatro del nostro inconscio. Che non conosce né etica, né principi della logica: è un linguaggio enigmaticamente onirico e sapientemente surreale che Rezza sa tradurci nella sua barbara misericordia, che così tanto ci diverte. Chiave efficace per coinvolgerci e quindi farci raggiungere da certi contenuti altrimenti repellenti. 

Antonio Rezza

Ieri sera la sala del Teatro San Raffaele era stracolma di spettatori così eccitati nell’attesa di poter entrare in relazione con il loro Rezza, che prima ancora che varcasse la scena hanno dato avvio ad un preludio interattivo alla performance. Una sorta di minuetto di applausi e relative entrate-uscite di scena di Rezza, che giocava sull’interpretare l’applauso come coronamento della conclusione dello spettacolo. E non suo possibile inizio.

Antonio Rezza

Per tutta la durata della performance, la relazione con il pubblico è stata una continua ed intensissima partitura di trovate imprevedibili, di stupefacenti sorprese e acute provocazioni – in primis quella a non fidarsi di chi ama assecondarci – sulle quali si è sovrapposto un contrappunto di risate e di applausi. Interminabili.

Flavia Mastrella e Antonio Rezza


Performazione Sociale 2024

Spettacoli e Laboratori per avvicinare il pubblico alla arti performative


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo TUTTI TRANNE LUI – scritto e diretto da Andrea De Rosa –

TEATRO ANFITRIONE, dal 21 al 23 Ottobre 2024 –

Con fresca naturalezza e impeccabili tempi comici, Andrea De Rosa porta in scena una commedia – da lui scritta e diretta – con la quale riesce a catturare l’attenzione dello spettatore grazie a quella dose di stimolante leggerezza, che gli consente di poter veicolare anche contenuti di interessante profondità.

De Rosa parte dalla classica situazione di un’uscita a quattro per giocare con i concetti di “accettabile uniformità” e di “diversità da tenere ai margini”. 

E così, in un clima intrigante ed ironico, va in scena cosa siamo disposti a fare pur di risultare graditi agli occhi degli altri. E come chi, tendenzialmente escluso perché di una sincerità imbarazzante – e quindi sconveniente per la stabilità della messa in scena sociale che gli altri intendono portare avanti – risulti in verità il più sveglio, il più creativo. E quindi il meno falso. Insomma, quello di cui ci si può fidare di più.

Sarà lui, infatti, con la sua brillante acutezza senza filtri, ad intuire gli intrighi e a far cadere i finti ruoli dietro ai quali gli altri si nascondono, rivelando come ciascuno di loro, in realtà, oltre ad ingannare se stesso, inganni anche colui che definisce “amico”.

Senza mai giudicare ma anzi ponendosi sempre in amichevole comprensione verso la natura umana, la commedia è un invito ad osare essere se stessi e quindi ad esprimere la propria autentica natura creativa. Liberi da tutte quelle sovrastrutture, apparentemente necessarie per essere accolti nella società di massa, ma che in verità alla lunga si rivelano sempre fallimentari. 

La commedia altresì è un’esortazione a resistere alla tentazione di rimanere bloccati nell’utopica ricerca di una sicurezza – di “un centro di gravità permanente”- perché spaventati dall’entrare in relazione con la bizzarra natura dell’altro. E di se stessi. La nostra creativa diversità – così come quella dell’altro – sono in realtà molto gratificanti!

I quattro attori in scena – Celeste Savino, Renato Solpietro, Chiara Mastalli e lo stesso Andrea De Rosa – ben accordati tra loro, trascinano il pubblico con ritmo ed efficace comicità nelle loro contorte avventure, così vicine alla nostra quotidianità. 


Recensione di Sonia Remoli