Recensione dello spettacolo UNA RELAZIONE PER UN’ACCADEMIA di Franz Kafka – interpretato e diretto da Tommaso Ragno

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 21 al 23 Novembre 2024 –

Ieri sera l’Accademia del Teatro Argot Studio ha ospitato Pietro il Rosso: la scimmia che in 5 anni ha raggiunto un livello d’intelligenza di un uomo medio.

Per la sua relazione è stato predisposto uno spazio, abitato da una struttura geometrica, che non manca di alludere al gusto e alla funzionalità di un verticale intreccio vegetativo di foresta. Una splendida metafora della tensione che abita ancora l’ospite della serata. Tensione suggellata da due linee di neon, che ricreano parzialmente una struttura contenitiva.

L’entrata in sala dell’ospite è stata preceduta da un servitore in livrea a lui dedicato, incaricato della cura del luogo e dell’ospite.

Ma ecco che si odono passi. Uditivamente, e poi visivamente, l’andamento risulta insolito, quasi baldanzoso: una compensazione del ritmo e del gesto della brachiazione.

Il servitore, quasi un servo di scena, lo aiuta nel togliersi il cappotto e il cappello ma Pietro il Rosso, nonostante la tensione al contegno geometrico, appare vagamente disorientato e maldestro. Più volte gli cadono cose dalle mani. E, dopo aver misurato e verificato lo spazio che lo sta ospitando, si rassicura estraendo dalla sua cartella una banana. E’ un rituale: basta guardarla e toccarla. 

Ora può estrarre i fogli della relazione. E con l’agilità di un balzo, sale sullo sgabello e si aggrappa al leggio, come ad un ramo.

Tommaso Ragno è Pietro il Rosso

Inforca gli occhiali: le sue prime parole “Illustri Signori …” escono incertamente, come conservando un’eco di quel disorientamento appena rivissuto. Ma è un attimo. Con uno scatto si alza in piedi sullo sgabello e la voce sale per proseguire e ringraziare. Il suo, ora, è un andamento di lettura che procede (quasi provocatoriamente) come quello di un bambino delle scuole elementari: a comando. Ma poi, quando arriva il punto in cui dice che noi Accademici gli abbiamo chiesto una relazione sulla sua precedente vita di scimmia, tutto cambia. Si ferma. E, tremante, si toglie gli occhiali dicendo: “non mi è possibile”. Colpo di scena.

Adesso, per tentare di spiegare non ha bisogno di leggere, tanto che socchiude gli occhi come trasportato da un senso di ricordo. Dal quale, però, non riesce ad attingere informazioni: è un periodo della sua vita come rimosso, nel momento in cui – ferito e catturato – ha preso la decisione di “tradirlo”, fuggendo verso un altro sapore di libertà. 

In questo senso una “relazione” intesa come “resoconto di informazioni” non gli è possibile. Può invece, “entrando in relazione con noi”, raccontarci di come ha imparato ad entrare in relazione con gli uomini. 

Una relazione “utile” ma non “fertile”: pur avendo condiviso insieme esperienze di vita, gli uomini che ha incontrato si sono sempre mantenuti “a distanza dalla barriera” tra le loro diverse nature. E, anche lui, non è mai stato davvero attratto dal loro modo di stare al mondo.

Ma, consapevole che una vita da scimmia non gli sarebbe più stata possibile, realizza (“calcola”) che non gli resta che fuggire alla scoperta di una vita da uomo. Il segreto per riuscirci – ci confida – è stato quello di eliminare progressivamente dalla propria natura “ogni ostinazione”: segreto di ogni relazione umana. Ed è curiosamente provocatorio come Kafka ci inviti a prendere lezioni da una ex scimmia, per capire “come si diventa un uomo”.

Quello che Pietro il Rosso ha imparato per dovere, per necessità (“mi sono piegato”), nel nostro stare al mondo può essere la magia dell’incontrarsi e del contaminarsi vicendevolmente con l’altro. Con uno sguardo. Con una stretta di mano. Con un bacio.

Ed è di strabiliante bellezza come questo Pietro il Rosso di Tommaso Ragno sappia sottolineare poeticamente certi passaggi della relazione: elevandosi ora ad un allure metafisico-ieratico, ora invece ad uno spleen spudoratamente animalesco, balzando giù dallo sgabello verso di noi. 

E poi c’è il suo respiro: l’inspirazione è sempre silenziosa ma l’inspirazione invece si sente, proprio là dove serve. E ci arriva tutta la tempesta di un’entità che si muove tra minaccia e piacere.

E ancora, la rabbia del nome ricevuto in sorte: un nome che non lo identifica, che lo riduce a qualcosa di insignificante come una lieve ferita al viso. Anche qui Kafka è tremendo: rende consapevole di una finezza esistenziale una ex scimmia, quando noi umani spesso neanche ci facciamo caso al nostro “essere fatti dagli altri”. 

Ma non è tutto: Kafka desidera – proprio attraverso questo racconto – renderci consapevoli di come nonostante ciò – nonostante cioè siano gli altri a darci un nome, a immaginarci, a educarci, a trasmetterci i loro desideri – ognuno di noi, proprio come Pietro il Rosso, può fare qualcosa di proprio di quello che di lui hanno fatto gli altri. Qui è la misura della nostra libertà. Un po’ quella “via di fuga” di cui lui ci parla continuamente.

Via di fuga impossibile da raggiungere senza il secondo segreto: se il primo era quello dell’eliminare “ogni ostinazione” dalla propria natura, il secondo è quello di “osservare” molto bene gli uomini. Con calma. Prestare loro attenzione: dedicare loro tempo, per rimanerne contagiato. 

Nella circolarità di un rituale, la relazione giunge al termine e si conclude con un’anticipazione di ciò che accadrà in albergo, dove una piccola scimpanzè semi addestrata lo sta aspettando. 

Il cui sguardo, se incontrato di mattino – ci confida Pietro il Rosso – diventa inquietante come uno specchio: c’è qualcosa in esso che va al di là della possibilità offerta dal linguaggio. Ma che su di esso spinge. Ed è un qualcosa che può solo essere visto: un animale addestrato e confuso. 

Proprio come quello che Tommaso Ragno ha mirabilmente cercato di renderci visivamente attraverso quel disorientamento maldestro di cui era preda, prima che iniziasse la relazione, il suo Pietro il Rosso.

“Ma non si dica che non ne è valsa la pena”- conclude il Relatore.

Ed è proprio così: tentare di entrare in relazione con un altro, inteso come qualcosa di diverso dalla nostra natura, è ciò che dà più sapore al nostro stare al mondo.

Tommaso Ragno


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STANZA AL BUIO di Giuseppe Manfridi – regia Claudio Boccaccini

TEATRO BELLI, dal 19 al 24 Novembre 2024

Il mistero è ciò che meglio ci racconta come individui: la sua penombra è quell’habitat fisico e psichico in cui riescono ad esprimersi le molteplici personalità che ci rappresentano. 

Differentemente da quanto accade alla luce del sole, dove invece scegliamo di palesare qualcosa di selezionato: il nostro “dover essere”.

Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che ci capita di fare. 

Non è la volontà a parlare di noi, quanto piuttosto l’istinto, le nostre pulsioni più personali – dirà la Donna in scena (una Giulia Morgani efficacemente enigmatica).

E’ il sapiente disegno luci del regista Claudio Boccaccini ad immergerci in questo nostro “poter essere“, che ama stare in penombra e che così efficacemente ci dispone a prestare ascolto al mistero che ci abita. Quel mistero che, in una geniale esemplificazione, vedremo rappresentato in scena.

Ed è così che dalla penombra iniziano a prendere corpo delle voci: una donna insiste per poter entrare in un appartamento dove da poco si è consumato un delitto. L’uomo che è in possesso delle chiavi e che potrebbe gestire la situazione non riesce invece a prendere una decisione. Continua a ripetere “preferirei non entrasse”. E poi, ancora senza troppa convinzione, l’accompagna. 

Entrambi non hanno un nome. Opportunamente l’autore Giuseppe Manfridi – uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo e che già in occasione della prima rappresentazione di questo testo (andata in scena al Teatro dell’Orologio esattamente trenta anni fa) ottenne un grande successo – non affida loro un solo nome. Perché ciascuno di loro, tutti li racchiude. L’Uomo e la Donna in scena infatti parlano di noi, in quanto rappresentano parti della nostra psiche.

L’Uomo (un irresistibilmente nebuloso Stefano Scaramuzzino) ha quel qualcosa di tapino disneyano e di inquietantemente inafferrabile, che per certi versi ricorda il Bartebly di Melville. 

La Donna invece è come se parlasse una lingua diversa: è misteriosamente raffinata, osserva tutto preferibilmente di nascosto, ama indossare guanti. Rappresenta il linguaggio proprio della nostra parte più inconscia.

Nonostante la sua apparente mediocrità, anche l’Uomo odora di clandestinità. Quella che cela è una profumazione più subdola rispetto a quella indossata dalla Donna, dove invece si intuiscono note di un sensuale afrore.

Entrambi, anche se in modo diverso, ci parlano del nostro essere mistero anche a noi stessi. Un mistero che, pur zelantemente nascosto, in certi frangenti manifestandosi violentemente perché troppo a lungo represso – infrange ogni illusione di integrità e di univoca identità personale.

L’appartamento in questione, quello dove insiste a voler entrare la Donna, prima che del delitto si macchia dell’onta dell’ “estraneità”: con il suo essere stato “messo in vendita” (anziché continuare a seguire la  prassi della successione di padre in figlio) ha rotto l’ordine sul quale per l’Uomo si reggeva il condominio. Il suo.

Un condominio che qui non è infatti solo un luogo fisico ma anche il luogo della psiche dell’essere umano, dove “l’estraneità” è rappresentata dal “diverso”, ovvero da ciò che risulta “straniero” al nostro “dover essere”.

Un’ estraneità di cui anche la Donna, spudoratamente, si fa interprete: lei – che non a caso – ha sempre sulla bocca la parola “piacere”, risulta profondamente destabilizzante per Lui che si definisce “uomo dai pruriti improvvisi e ostinati”.

Lei è infatti colei che insiste: atteggiamento proprio del nostro desiderare. E poi è colei che tentenna nel “restituire” ciò che custodisce (qui, la spilla e il tappo): materiali “rimossi”, necessariamente da recuperare per superare e quindi risolvere un evento traumatico (qui, il delitto). 

Ed è così che lo spettatore – per effetto dell’intrigante sinergia tra l’estro drammaturgico di Giuseppe Manfridi e l’estro registico di Claudio Boccaccini – si ritrova ad addentrarsi in quella misteriosa “stanza al buio”, attraverso una modalità insolita ed accattivante : quella di un Thriller.

Lo spettacolo resta in scena al Teatro Belli fino al 24 Novembre p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA SCORTECATA – testo e regia Emma Dante

TEATRO VASCELLO

dal 19 Novembre al 1° Dicembre 2024

Desiderare essere desiderati dal desiderio dell’altro è una tensione vitale che ci eccede. Supera la nostra capacità di stare al mondo. Può non trovare argini nella saggezza, né nella volontà. Ed è così, fino all’ultimo dei nostri giorni. 

Ce ne parla con indulgente ferocia questo spettacolo di Emma Dante: una riscrittura, la sua, di una favola tratta da “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille” di Giambattista Basile (1634). Una raccolta di 50 favole, raccontate in 5 giorni da 10 vecchie donne il cui nome, in napoletano, ricorda il difetto che le contraddistingue.

Emma Dante

Con “La scortecata” la Dante riprende e rielabora la favola de  “lo trattenimiento decemo de la iornata primma”: Rosina (104 anni) e Carolina (99 anni) sono due sorelle per le quali la vita è diventata un peso. E sognano la morte come una liberazione dal tempo, che la noia tende a far stagnare. I loro ruoli sono affidati dalla Dante a due uomini – Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola – interpreti di mirabolante bravura.

Carolina è la più insofferente e fin dall’inizio ci confida che desidera ardentemente “prendere una scorciatoia per i campi celesti”. 

Nell’attesa, si tengono vivacemente impegnate ad immaginare di essere protagoniste di una storia d’amore (“a noi non ci ha mai voluto nessuno”). E siccome quando si sogna lo si fa in grande, loro sognano una storia d’amore con un re. 

Salvatore D’Onofrio (Rosina) – Carmine Maringola (Carolina)

L’eros spazza via la loro malinconia tanto che, nello stabilire chi delle due potrà sedurre il re, decidono di intavolare una competizione su chi riuscirà – almeno nella superficie ridotta del dito mignolo – a raggiungere una levigatura e una morbidezza di pelle migliore. Per raggiungere questo obiettivo sono d’accordo che sia necessario succhiarsi il dito con zelo.

Sebbene siano entrambe ripiegate su loro stesse a causa di un’artrosi deformante, non desiderano tanto ritrovare una postura eretta, quanto una pelle liscia e tonica. La pelle ricopre tutto il nostro corpo ed è il nostro involucro, ciò che delimita il nostro mondo da quello esterno. E’ la nostra barriera ed attraverso di essa esprimiamo ciò che siamo, i nostri stati d’animo e le nostre emozioni. Sulla pelle sono disegnate e trattenute tutte le nostre memorie esperienziali e le emozioni che le hanno accompagnate. Desiderare una pelle nuova significa allora desiderare una vita nuova.

Salvatore D’Onofrio (Rosina) – Carmine Maringola (Carolina)

La Dante – da sempre appassionata dalle storie di famiglie, in quanto è in questo microcosmo che prende forma un individuo –  immerge i due attori in un’epifania, che si manifesta dentro una scena vuota. Fatta eccezione per due seggioline e un castello in miniatura, che materializza il loro sognare diventare regine. In verità di una scenografia non se ne sente affatto il bisogno: i due attori sono loro stessi poetico paesaggio. Attraverso la loro lingua – un dialetto napoletano di strada dal sapore vagamente arcaico, che si traduce in una mirabile riscrittura sui loro corpi acciaccati ma non intorpiditi – sono gustosamente il contenente e il contenuto della scena.

Ma non tutto invecchia in un corpo centenario: la favola ci racconta che in verità il re resta sedotto dalla voce di Carolina, tanto da scambiarla per quella di una giovane vergine. Esiste quindi un corpo, quello della voce, che può mantenersi vivo e continuare a regalare vibrazioni ma quando poi il re si reca da Carolina per conoscerla, lei si palesa solo attraverso il suo mignolo, per il quale il re impazzisce.

Carmine Maringola (il re) – Salvator D’Onofrio (Rosina)

Arriva così il momento dell’incontro d’amore ma i due – sebbene siano distratti da odori e sapori poco giovanili – trasportati dalle note veloci ed eccitanti di un mambo trascorrono una notte d’amore.

Ed è stupefacente vedere come all’estro registico della Dante – complice la solida e multiforme interpretazione degli attori – basti un telo bianco, che alluda ad un letto e che poi plasticamente venga coreografato in movimenti di avvicinamenti e di allontanamenti eroticamente sagaci, per far sognare ed entusiasmare lo spettatore.

Carmine Maringola (Carolina) – Salvator D’Onofrio (Rosina)

Ma al risveglio il re vede con gli occhi chi è Carolina e la allontana per la sua bruttezza e vecchiezza. Tramutata in giovane donna da una fata, viene poi ripresa dal re, ora in moglie.  Anche qui, per raccontare una notte d’amore solleticando l’immaginazione dello spettatore, la regia della Dante ha solo bisogno del suo irrinunciabile baule, dal quale far uscire quella polvere di stelle che si materializzerà dapprima in un profumatissimo talco per impreziosire la pelle e che poi darà forma ad una fulgente parrucca e ad una veste. Per suggerire meraviglie, come dietro ad un ventaglio.

Carmine Maringola (Carolina) – Salvator D’Onofrio (il re)

Con il finale Emma Dante introduce un cambiamento: alla sua Carolina non basta il divertimento dell’immaginazione, offerto dalla favola. Non basta la seduzione del far immaginare. In lei eccede la consapevolezza di non essere mai stata desiderata dal desiderio di un altro. A maggior ragione adesso che è così invecchiata, come impietosamente gli occhi rivelano. Il suo, non è tanto un peccato di vanità, come nella favola di Basile: la Dante allude ad una nostra natura, ad una condizione esistenziale che ci accomuna tutti.

Ma si può ancora fare qualcosa, secondo Carolina. C’è ancora un altro “sogno” che può accompagnarla più vicino ai campi celesti. E ancora una volta sarà Rosina ad aiutarla.

Uno spettacolo che ci rapisce gli occhi e il cuore. E che – pur posando lo sguardo su una nostra tensione esistenziale –  ci dimostra con allegra spietatezza come anche la vecchiaia possa essere arditamente, eversivamente, estrosamente, erotica. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della docu-performance NEVER YOUNG – un progetto di Biancofango – drammaturgia Francesca Macrì e Andrea Trapani – regia Francesca Macrì –

TEATRO INDIA, dal 13 al 17 Novembre 2024

E’ nebbia, è paradiso, è inferno, è pensiero, è fantasia, è delirio, è viaggio. E’ una sensazione attiva e passiva essere Lolit*.

Sono coloro che – dalla politica al marketing pubblicitario, dalle relazioni lavorative a quelle amorose, dalla scuola alla famiglia – ci seducono e quindi riescono a portarci da un’altra parte (la loro) rispetto al nostro desiderare. 

Si avvalgono del potere dell’immaginario, del sembrare qualcosa di diverso da quello che in realtà sono e che sanno che ci piacerà irresistibilmente. Perché essere Lolit* significa anche studiare la propria preda, per poi rendersi perdutamente desiderabili ad essa. 

E’ una sensazione così inebriante cadere nell’incantesimo dei Lolit*, da renderci barbari. 

Francesca Macrì e Andrea Trapani – Biancofango –

E il primo “specchio” nel quale i Biancofango Francesca Macrì e Andrea Trapani ci lasciano riconoscere, è racchiuso in quell’esasperato-grottesco-convulsivo “Brav*, brav*”, che veicola il sottotesto “t’appartengo”. Noi, risucchiati in una dinamica come quella descritta dal brano che va in sottofondo e che rese celebre l’Ambra Angiolini di “Non è la Rai”, emblema di quelle che Umberto Eco definì “le nuove Lolite”.

Perché “t’appartengo” significa accettare la dittatura seduttiva del “e adesso giura!”, al quale siamo portati a rispondere: “io ci tengo e se prometto poi mantengo”.

Ma arriva un contrappunto: “Ve lo meritate!” . E’ quello di Andrea Trapani, un pò “il fool” dello spettacolo.

Andrea Trapani

E come siamo arrivati a questo?

All’indomani del “dio è morto” nietschiano: caduti i valori morali che ci stutturavano, abbiamo assaporato lo stordente sapore della libertà dell’”io ora posso essere dio”. Ma all’ebbrezza si è affiancata inaspettatamente l’angoscia. E quindi il nichilismo. Evapora così la funzione simbolica dei padri che attraverso la legge dei valori sapevano mettere un argine, un limite, all’erranza dei figli. Figli che, a loro volta, vivono l’angoscia della “troppa libertà”, conseguenza dell’assenza o dell’invasione emulativa dei genitori.

La docu-performance si articola grazie alla sinergia con un coro di cittadine e cittadini – Vera Borghini, Tina Cannavacciuolo, Luciano Ciamillo, Daniele Di Lazzaro, Daniela Iannola, Francesco Lepore, Giuseppe Prestano, Pasquale Rispoli, Claudio Sacchi, Antonia Stazi – intorno ad un interessante sguardo dialogante tra dentro e fuori, tra prima e dopo, tra (il credere) essere attori e l’essere spettatori di una stessa realtà. La narrazione prende avvio “dai moti rivoluzionari degli anni ’90 del Novecento”, dove ci siamo fatti persuadere dall’ambigua capacità retorica di alcuni “dei” della scena politica e sociale. Maschere che nel cerchio magico al centro della scena vengono “smascherate”, decodificate, nella loro ambiguità prossemica e posturale. 

In un gioco di cerchi concentrici, anche la platea viene coinvolta nel processo di riscostruzione di una distruzione deformante. E se ancora non fossero state sufficienti le parole, le immagini, i gesti, a scuoterci arrivano i volumi e i ritmi dei suoni, resi stroboscopici come luci.

Sara Younes, Irma Ticozzelli, Marco Gregorio Pulieri, Cristian Zandonella

Eredi di questo inquietante sistema, sono i nostri figli pre-adolescenti ai quali non abbiamo in verità lasciato alcuna eredità, alcun imprinting che possa fornire loro gli strumenti per orientarsi nel loro essere “giovani”. Ansiosi senza riuscire ad arrivare ad essere rabbiosi, li abbiamo abbandonati al loro “risveglio di primavera”, che con modalità opposte continua a produrre gli stessi effetti di 133 anni fa, quando nel 1891 uscì il testo denuncia di F. Wedekind. 

Noi, che ci siamo lasciati sedurre da chi ci diceva: “Lascio ai miei eredi tutto quello che bisogna inventarsi per essere ancora giovani”. Una sorta di maledizione. Perché i nostri figli – da noi condannati perversamente ad essere le nostre guide – si sono “inventati” modalità di attenzioni dispenser da consumare a scadenza. Voracemente affamati di amore, di cure, di attenzioni. E di regole, necessarie per il formarsi di un fecondo desiderare: regole da interiorizzare per farne propri criteri critici con cui affrontare l’età adulta. 

La docu-performance si conclude con un ultimo affondo: un commosso rammarico-rimprovero da parte di chi ora è ancora nell’età dell’infanzia ma che a breve si affaccerà alla pre-adolescenza.  Sulle note di un hendeliano “lascia ch’io pianga mia cruda sorte/ E che sospiri la libertà” di irresistibile bellezza.

Un fare teatro questo della docu-performance dei Biancofango – che rientra in una costellazione poetica dedicata al tema di Lolita – che dà vita a un nuovo genere di fare teatro, in cui si uniscono e si contaminano elementi artistico/fictional con elementi documentaristici, raccolti nel corso di una serie di laboratori realizzati dalla compagnia in svariate realtà italiane.

Un lavoro che scuote tutte le nostre corde, per ridestarci da questo stato di delirante annebbiamento delle coscienze, che troppo spesso ci fa dimenticare il vuoto emotivo ed esistenziale in cui stiamo abbandonando i nostri figli e i figli dei nostri figli. 

Noi – che ci siamo ritrovati incapaci ad invecchiare e a saper tramontare acquisendo sapienza da trasferire – siamo tentati a regredire perversamente nella nostra seconda adolescenza. Illusi che più che energici riferimenti genitoriali, i nostri figli abbiano bisogno di noi come amici alla pari.

Ma la struttura del lavoro dei Biancofango  ci suggerisce anche come si renda necessario e possibile costruire su nuove basi un fertile dialogo. 

Perché la nuova generazione ha diritto al formarsi di una propria identità ontologica, impossibile senza il contributo formativo di adulti che riacquisiscano la loro funzione formativa, capace di generare in loro un autentico modo di desiderare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO NOI SOLI PENSIAMO ALLA MORTE E AL SESSO – drammaturgia Tommaso Cardelli e Tommaso Emiliani – regia Alessandro Di Murro –

TEATRO BASILICA, dal 14 al 17 Novembre 2024

Metti una sera al Basilica con la platea insufficiente ad accogliere un’onda di ventenni;

metti 5 interpreti del collettivo “Gruppo della creta” in scena con una performance ispirata alle opere di Juan Rodolfo Wilcock;

metti un titolo “Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso”

ne scaturirà una pubblica manifestazione di consenso e ammirazione.

Juan Rodolfo Wilcock (1919 – 1978)

I giovani hanno apprezzato l’idea di una performance-rituale, musicalmente accogliente, libera da una rigida architettura.  Come la scena: un luogo della mente abitato da un unico oggetto di scena – un divano gonfiabile bianco – nella duplice valenza etimologica di luogo di confine e di luogo poetico. 

Ma niente di statico, però: proprio così come nel mondo persiano, le decisioni più importanti erano prese nei divani a cavallo (riunioni condotte in sella) così, qui, il divano è l’occasione per fare altro.

Interrogarsi, ad esempio. 

Un interrogarsi immaginato come un movimento rituale con un dentro e un fuori dal confine della dogana-divano: quasi un’area psichica inconscia, foriera di continue domande. E identificata in un tronco nudo e secco. 

In effetti è questa la struttura della performance: un rituale tra una parte e l’altra del confine, tra conscio e inconscio, tra domande e risposte, non necessariamente chiare ed esaustive. Ma in rapporto osmotico.

E’ il ritratto di una generazione, quella attuale, che s’interroga sulla morte, sul sesso, sulla verità. Meno sul successo. Lo fa con dolcezza sensuale ma anche feroce. Ma ciò che conta è non smettere di interrogarsi. 

E poi continuare, sempre, ad immaginare. 

Come Wilcock raccomandava a suo figlio: 

“… Ricorda che c’è una sola cosa/ affermativa, l’invenzione; /il sistema invece è caratteristico/della mancanza d’immaginazione./Ricorda che tutto/ accade /a caso e che niente dura, /il che non ti vieta di fare/ un disegno sul vetro appannato,/né di cantare qualche nota/ 
semplice quando sei contento;/può darsi che sia un bel disegno,/che la canzone sia bella: /ma questo non ha certo importanza, /basta che piacciano a te…”.

E immaginando, vivere. Anche, in attesa di passare all’atto, stazionando su un divano: luogo-dogana in cui si trasportano le energie prima di introdurle nel paese di destinazione. Immaginando come poter arrivare lì, dove si desidera andare. Perché, come diceva Wilkock:

Vivere è percorrere il mondo
attraversando ponti di fumo;
quando si è giunti dall’altra parte
che importa se i ponti precipitano.
Per arrivare in qualche luogo
bisogna trovare un passaggio
e non fa niente se scesi dalla vettura
si scopre che questa era un miraggio”.

Una performance, questa del Gruppo della Creta (qui in scena Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia, Alessandro di Murro) che fotografa una criticità attuale e ne propone una lettura non necessariamente fatalista. Anzi, incline a quella propositività dello “stessere ciò che c’incuora” di cui parlava Wilcock:

“Ripudiamo la facilità/come si allontana un serpente;/la facilità/dissolvente quasi-verità./ Del pensiero troppo ordinato/scoraggiamo la seduzione;/negli eccessi dell’argomentazione/non sperperiamo il nostro legato./Cerchiamo soltanto di stessere/dal tessuto di ogni ora/ciò che ci nutre, ciò che/c’incuora,/ l’universalità dell’essere.

La platea sembrava respirare assieme agli interpreti, tanta la partecipazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CAPITOLO DUE – uno spettacolo di Massimiliano Civica

TEATRO VASCELLO, dal 12 al 17 Novembre 2024

A volte ci vuole un bel sospiro. 

Può sembrare incredibile, ma per superare un dolore occorre aprire ciò che di solito resta chiuso. Come quando istintivamente sospiriamo, e apriamo gli alveoli polmonari che di solito restano chiusi durante la respirazione normale. 

Sospirare è la prima cosa che fanno spontaneamente sia Jennie che George, i due protagonisti che hanno subìto rispettivamente un lutto e una separazione. Entrambi sono stati lasciati soli.

Sospirare, a qualche livello, aiuta a poter “tornare”, a poter ricominciare. Infatti laddove il respiro (che è vita) subisce cali di frequenza, è il sospiro che – nello spezzarne il ritmo – lo resetta.

In soccorso di George e di Jennie, che si stanno chiudendo in loro stessi, arrivano il fratello di lui (Leo) e l’amica di lei (Fey). Per attivare un reset o, per dirla con Fey, “per ridipingere la vita”. Perché noi umani siamo fatti per vivere in relazione e di relazioni. 

Massimiliano Civica

Massimiliano Civica – pluripremiato regista teatrale e acuto direttore artistico – ama indagare l’animo umano. Lo fa attraverso la messa in scena dell’incontro-scontro tra possibili diversità di “essere”. Il suo teatro è una vera e propria esperienza esistenziale: un teatro dell’umano e sull’umano che – evidenziando la permanenza di alcune questioni fondamentali – prende la forma di un rito. Per apprendere – attraverso un ascolto partecipato – sempre qualcosa di più sulla vita. 

Con “Capitolo Due”, Civita sceglie di tradurre e adattare un testo di Neil Simon che fotografa gli esseri umani così come sono: con le loro debolezze e le loro incoerenze. Immuni dal peso del giudizio dell’altro.

Aldo Ottobrino (George) – Maria Vittoria Argenti (Jennie)

Quando infatti George (Aldo Ottobrino) supera l’atarassia – quel respiro imperturbabile nel quale era sprofondato a seguito del lutto di sua moglie – di quel filo, necessario per resettare e quindi osare contattare Jennie (Maria Vittoria Argenti), scopre che il suo presentarsi ridicolmente ondivago fa breccia sulla “diplomata in disciplina” Jennie. 

La quale coglie, nel continuo ritentare giustificato di George, l’occasione per il riaffiorare in lei (implacabile pianificatrice) di un sorriso di tenera lusinga, risultato del vibrante impegno di George di dare un arguto senso al proprio rituale di corteggiamento.

E si sente: avviene come un cambio di respiro. E la temperatura del desiderio si alza in entrambi. “Parliamo con un ritmo armonioso” – constatano increduli.

Maria Vittoria Argenti (Jennie) – Aldo Ottobrino (George)

A riaccendere la loro capacità di desiderare – e quindi di poter ricominciare – non sarà tanto la volontà, né la competenza (il saperci fare) quanto piuttosto la capacità di ascolto a entrare in relazione l’un l’altro. 

Riscoprono così il potere generativo della parola, il suo magnetismo, la capacità di dare vita a qualcosa di imprevisto, che esula dallo sguardo dominato dal controllo, tipico dell’ “indagare” o dello “scrutare”. Si lasciano andare a quello che chiamano “un metodo sperimentale” per tutelarsi dalle delusioni ma in realtà quello che sta accadendo tra loro è un incantesimo. Il solo che può dare avvio alla genesi dell’impossibile.  

Maria Vittoria Argenti (Jennie) – Aldo Ottobrino (George)

Genesi che passa per la diversa intonazione della voce, per la scelta delle parole. Per il ritmo del respiro (che non è più quello di una “recensione” ma di una “reazione”). Passa poi attraverso la riscoperta dei sottotesti (ad esempio quello degli “Ah,ah!” e degli “Eh!”), dal riconoscere che avere dei problemi non discrimina ma anzi accomuna: “Chi non ne ha!”. E ancora passa dallo scoprire che farsi conoscere subito con ironica serietà attraverso le proprie fragilità, può diventare un gustosissimo gioco erotico. 

Un irresistibile solletico che fa dire a lei : “Adesso so che mi piaci… anche all’inizio l’avevo avvertito, sentendo che dovevo stare all’erta per tenerti testa!”. 

E lui : “E’ stato bello incontrarti, ancora, per la prima volta!”.

Francesco Rotelli (Leo) – Aldo Ottobrino (George)

Ma come in tutte le relazioni vitali, arrivano situazioni che fanno da “scoglio”.  E va saggiato se questo scoglio è tale da “arginare il mare” a cui ha dato vita la relazione. Tra “discese ardite e risalite/Su nel cielo aperto/E poi giù il deserto/E poi ancora in alto/Con un grande salto”.

I quattro attori in scena – Aldo Ottobrino (George), Maria Vittoria Argenti (Jennie), Francesco Rotelli (Leo), Ilaria Martinelli (Fey) – ci regalano, complice lo sguardo registico di Massimiliano Civica, un’interpretazione del testo che non smette di sorprenderci, per il fascino così credibile del loro essere assurdamente veri, autentici. 

Maria Vittoria Argenti (Jennie)

Un teatro di parola che, grazie alla fissità del corpo e degli sguardi, ci catapulta nell’emozione pura del respiro e dei colori della parola. Inclusa la splendida partitura dei silenzi.

Quei colori con cui Civica arreda lo spazio scenico in una dualità relazionale, che si ripropone negli abiti – non solo di scena ma simbolo di veri e propri “habiti” (modi di fare) – dei personaggi.

Quei colori che, in un crescendo di emozioni, si trasferiscono passando dalle parole e dal respiro fino a comporsi e scomporsi nella luce del silenzio.

“Il Silenzio è tutto ciò che temiamo.
C’è Riscatto in una Voce —
Ma il Silenzio è Infinità.
In sé non ha un volto”.

Emily Dickinson


Romaeuropa Festival – dal 29 Ottobre al 17 Novembre 2024


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RISVEGLIO DI PRIMAVERA – di Frank Wedekind – regia di Gabriele Vacis –

NUOVO TEATRO ATENEO

(Sapienza Università di Roma)

11 e 12 Novembre 2024

in scena:

Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Lucia Raffaella Mariani, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera

Una scena nuda, da “lavori in corso”, senza protezione sulle aree più pericolose.

Una scena metafora di una stagione della vita: l’adolescenza.

Un periodo di “lavori in corso” in cui i ragazzi sono al massimo della loro vitalità ma anche al massimo del loro rischio di morte. 

Biologicamente la corteccia prefrontale del cervello, infatti, adibita alla valutazione dei rischi delle azioni, negli adolescenti è ancora “in fase di costruzione”. Prevalendo quindi in loro l’azione sulla riflessione, sono ad alto rischio di morte. 

Nel 1891 Frank Wedekind pubblica “Risveglio di primavera” ma non riesce a mandarlo in scena. E quando dopo vari anni ci riuscirà, e sarà la regia di Max Reinhardt a farlo debuttare nel 1906 a Berlino, dopo la prima replica sarà censurato. Perché? 

Con “Risveglio di primavera” Frank Wedekind fu il primo ad avere il coraggio di affrontare il conturbante tema dell’adolescenza, evidenziando le cause e le conseguenze di una mancato ascolto delle pulsioni che si affacciano nei corpi e nella mente dei ragazzi, una volta messe a tacere da regole morali.

Con uno stile molto audace, Wedekind solleva ogni velo perbenistico sull’argomento e fotografa la cruda realtà del rapporto tra gli adolescenti e le istituzioni familiari, scolastiche e religiose.

Ne emerge un fallimento, come sempre accade quando si crede che tacere sia meglio di ascoltare e mettersi in discussione. 

I ragazzi infatti non ricevendo informazioni sul perché e sul come cambiano il loro corpo e la loro mente durante l’adolescenza – ma invitati anzi a un muto e vergognoso ascolto moralistico – difronte ai prepotenti segnali della necessaria tempesta ormonale, perdono ogni orientamento, desiderando fuggire, anche nella morte.

In un clima di ignorante repressione moralistica, riuscire a trovare le parole per dirle certe sensazioni, oppure osare condividerle con qualcun altro, non è affatto semplice per gli adolescenti. Tutt’oggi, anche se non si parla più di morale, essendo passati nell’eccesso opposto. Eppure restano ancora sintomi, tracce, di questo retaggio culturale. Ad esempio, quando si parla delle conseguenze dell’abito troppo poco lungo di una ragazza.  Episodio con cui si apriva “Risveglio di primavera” 133 anni fa.

Con acuta poesia invece lo spettacolo dei PoEM (Potenziali Evocati Multimediali) prende avvio da un canto, dolcemente ombroso: un canone. Una composizione contrappuntistica che unisce a una melodia più imitazioni, che le si sovrappongono progressivamente. 

Ed è splendida, la scelta di un tipo di canto che rimanda ad un atteggiamento proprio dell’adolescenza: quello che passa per la necessità dell’imitazione di una regola, di un canone appunto.

E la performance canora ed interpretativa dei 9 ragazzi in scena (ne seguiranno di diverse nel corso dello spettacolo, posizionate in punti nodali della drammaturgia) è davvero molto coinvolgente nel rendere “naturale” la scoperta di come non sia più nettamente separabile il dolce dall’amaro, la luce dal buio, il bene dal male.

Gabriele Vacis

Fin dall’inizio dello spettacolo prende forma uno dei temi centrali della regia di Gabriele Vacis: come in questa età adolescenziale sia vorticosamente travolgente la sensazione “di non sapere dove mettere le mani”.

Un gesto – molto ben declinato nel linguaggio non verbale di ciascun personaggio – ma anche un modo di dire del linguaggio comune, che può assumere varie espressioni: non saper cosa fare, non saper da dove cominciare.  Ma anche non saper dove mettere le proprie mani sul proprio corpo e su quello dell’altro. 

Molto interessante drammaturgicamente l’inserimento e la modalità di “a parte” con funzione narrativa: aiutano a chiarire, a fare il punto della situazione, a stabilire nessi e differenze tra passato e presente. Facendo riflettere il pubblico, soprattutto sulla mancata assunzione di responsabilità dei genitori riguardo l’educazione sentimentale e sessuale dei propri figli.  Wedekind nel 1891 fu il primo a sentire l’esigenza di assumersi pubblicamente questa responsabilità: nessuno prima di lui ne ebbe il coraggio. Non a caso questo testo è citato da Sigmund Freud come documento di storia della civiltà.

I genitori, come la mamma di Wendla (protagoniste del testo), per un eccesso di protezione preferiscono “fermare” la naturale crescita dei propri figli: “Io ti conserverei così come sei” – confessa la madre a  Wendla, dopo non essere riuscita a trovare il modo per aiutarla a decifrare  i suoi naturali turbamenti. Nell’illusione così – perseverando nel riproporre l’assente linea educativa dei propri genitori – di tenerli al riparo dai turbamenti della crescita verso l’età adulta: “bene avrà chi non muta”. Molto efficace anche la prossemica portata in scena, che parla ancor più eloquentemente del testo di queste dinamiche. 

Di contro, per effetto, i ragazzi disarmati e confusi si scoprono ferocemente curiosi. Emblematico l’interrogativo ontologico degli adolescenti, ricorrente nel testo e nello spettacolo: “perché siamo al mondo? Che senso abbiamo?”. Interrogativo esistenziale che si porta dentro domande quali: “che senso ha il pudore? Cosa si prova a subire violenza? E ad esercitarla? Perché sogno mia madre?  Perché appena guardo una ragazza penso subito a qualcosa di sensuale? Perché non mi piacciono più i giochi ma solo le ragazze, ora?”. 

Tutte domande che trovano un enigmatico habitat nei sogni e che poi entrano con serpeggiante prepotenza anche nella vita diurna. Ma nella realtà è difficile sostenerne il peso. Ed è commovente vedere come nel tentativo di gestirlo, posturalmente i ragazzi in scena osano trattenerlo, senza eccessi, o solo su una gamba, o alternando il peso prima sull’una e poi sull’altra gamba. In Moritz è evidentissimo e parimenti efficace.

Un’insostenibile leggerezza dell’essere che si affaccia ora per la prima volta in una sublime curiosità senza argini, che rischia di farsi mortale. Una morte ingenuamente desiderata come unica via di fuga e insieme come godimento.

Uno spettacolo tragico e poetico dove emerge un meraviglioso “canto” corale a più voci, libero da muri e in cerca di nuovi confini.

Molto intensi anche gli ascolti e gli sguardi di chi resta “a vista” in scena, anche se non primariamente coinvolto nel “canto” interpretativo.


Stagione Sperimentale 2024 Nuovo Teatro Ateneo – Sapienza Università di Roma –


Recensione di Sonia Remoli

Roberto Herlitzka: serata in ricordo del talento e della genialità del grande attore

TEATRO BASILICA, 11 Novembre 2024

Si vive tentando di entrare in relazione con qualcuno. Autenticamente. Qualcuno con cui continuarsi a guardare, con curiosa meraviglia. E non si muore davvero se la vita, passando nella morte, continua a generare nuovi inizi. 

La morte di Roberto Herlitzka germoglia meraviglia. Così come era avvenuto in vita. Pur avendo vissuto con ostinata precisione la sua missione teatrale, non smetteva infatti di risultare imprevedibile. E’ la qualità di alcuni: quelli che hanno scoperto il loro desiderio vitale e se ne sono lasciati guidare. Con generosità.

Ieri sera al Teatro Basilica ci si è ritrovati per ricordarlo: una mostra fuori scena accoglie scatti di Tommaso Le Pera, che riescono a raccontare suggestivamente il silenzio di Herlitzka.

Ad una platea gremita di inquieti – desiderosi di occasioni in cui venire a contatto con la sua unicità – si sono resi testimoni del meraviglioso contagio herlitzkiano  il critico teatrale Rodolfo Di Giammarco, il regista Antonio Calenda, il regista cinematografico Marco Bellocchio, l’autore e regista Ruggero Cappuccio. Ciascuno di loro ha scelto di condividere emozioni, sentimenti, frammenti di lavori, aneddoti dell’uomo e dell’artista. Tutti splendidi. 

Ma ciò che davvero si rendeva tangibile, ieri sera, era la sincera meraviglia verso il talento di un uomo e di un artista, che continua a darsi con fertilità in chi lo ha conosciuto.

Antonio Calenda, che ha condiviso con Roberto Herlitzka oltre 50 di vita a teatro, ci ha rivelato di aver individuato in lui lo “Spirito Tutelare del Teatro Basilica”.  

Perché Roberto Herlitzka è “una costruzione sentimentale” e “un moltiplicatore di sogni” ( Ruggero Cappuccio);  è colui che “sa lasciare un segno nel farsi della parola” (Antonio Calenda); “è l’evento della parola” (Marco Bellocchio); “é ossigeno di alta montagna” (Rodolfo Di Giammarco).

Roberto Herlitzka, nella sua delicata “selvatichezza”, nel “darsi implicito” dei suoi sentimenti, c’era sempre: si percepiva la sua attenta presenza.  Anche ora, se ci voltiamo a cercarlo, lui continua a guardarci. Con quel suo piglio meraviglioso. Al quale non vogliamo rinunciare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo NOTTE MORRICONE – regia e coreografia Marcos Morau – Musica Ennio Morricone – Direzione e adattamento musicale Maurizio Billi – Sound design Alex Röser Vatiché, Ben Meerwein –

TEATRO ARGENTINA , 24-26 Ottobre Romaeuropa Festival – 27 ottobre 10 Novembre 2024

Al centro di una scena nuda, con corde e mantegni a vista, campeggiano delle pareti di lavagna sovrascritte con del gesso: è un luogo della mente, quella di Ennio Morricone, con il  suo vissuto in formazione. Nuove nozioni ed emozioni si stanno inscrivendo anche ora. Mentre intorno scorre la vita. 

L’estro visionario di Marcos Morau – recentemente nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese; selezionato come miglior coreografo dell’anno 2023 dalla rivista tedesca TANZ, e ad oggi il più giovane coreografo ad aver ottenuto il Premio Nazionale di Danza, il più alto riconoscimento in Spagna – sta mandando in scena la visualizzazione dell’attività creativa di Ennio Morricone. 

Marcos Morau

E nel farlo immagina di donare corpo e anima ai suoi percorsi mentali ed emozionali facendo interagire sinergicamente tra loro – grazie alla preziosa complicità dell’accattivante corpo di ballo, composto dai 16 danzatori del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto, diretto da Gigi Cristoforetti – le musiche del Premio Oscar, la danza, le arti visive e suggestioni cinematografiche. 

Ed è grazie a questa esplorazione della geografia psichica di Morricone che scopriamo come il linguaggio creativo del suo inconscio attinga nutrimento sia dal mondo onirico che dal linguaggio del gioco degli scacchi, di cui Morricone era fortemente appassionato.

Entrano allora in scena pensieri contrastanti, a cui prestano corpo i danzatori (guidati da Leonardo Farina e Giovanni Leone) in una coreografia di combattimento, dove l’energia di ciascuno si esprime per primeggiare, vincere. Proprio come nel gioco degli scacchi. 

ph. Christophe Bernard

In questo caos creativo sentiamo Morricone chiedersi “come fare per comporre una nuova melodia? A cosa credere ed affidarsi? Dove invece non va persa la testa?“. 

Ecco allora che – per effetto di una straordinaria pulsione di disagio creativo – la scena si apre e con essa i confini della razionalità creano un varco: Morau ci sta visualizzando il passaggio dal linguaggio razionale della logica, al linguaggio enigmatico dell’inconscio.

Dal crepuscolo iniziale, la cui luce tenue e diffusa  ancora contemplava tracce di razionalità, si passa ora al buio notturno, habitat dell’area linguistica più inconscia. Ma non mancano passaggi luminosi anche esplosivi, resi da un disegno luci straordinario. 

ph. Christophe Bernard

E si fa strada un pianoforte a coda, i cui martelletti sembrano ossessivamente impazziti, come posseduti da qualcosa che ha urgenza di farsi sentire e che trascina con se il pianoforte e Morricone stesso, nell’atto di creare.

I danzatori si fanno tasti che sembrano scappare presi in vortici, rombi, vibrazioni, associazioni di idee. E viene spontaneo l’andare con il pensiero a qualcosa di simile che avveniva attraverso sistemi rumoristici anti-musicali nelle improvvisazioni del collettivo “Nuova Consonanza”, di cui fece parte anche Morricone: quei suoni portati ai loro estremi e quegli strumenti valorizzati anche nel loro essere “oggetti”.

“Serve aprirsi a orizzonti nuovi” – dice la voce di Morricone – “per riuscire a trovare soluzioni sempre nuove e quindi originali”. Lui lo definisce riuscire a realizzare una sorta di “collage”, alludendo alle contaminazioni fra le arti. 

E questo è anche il principio ispiratore dello stupefacente lavoro in scena di Marcos Morau, scelto per sviluppare questo singolarissimo omaggio a Morricone. Ed è così che Morau raccoglie con fedele tradimento tutta l’eredità sincretica di Morricone e ne diviene uno splendido testimone.

Ma ora la forza creatrice in scena prende molteplici direzioni: si fa giostra. E i ballerini sono le tensioni che fanno ruotare l’artista e il suo strumento musicale.

Una tempesta creativa che sembra placarsi e che prima di andarsene crea sinapsi: i danzatori riescono a visualizzarci fascinosamente queste connessioni attraverso movimenti di un’articolazione così fluida da sembrare quasi metafisica. 

ph. Christophe Bernard

E ora, è il momento della verifica sonora delle sinapsi appena create. Di come cioè il corpo e la mente dell’artista siano mutati a seguito di questa invasione creativa dionisiaca. Ed è strabiliante vedere come in una specie di esame ecografico i microfoni sfiorano le varie zone del corpo dell’artista per auscultarne i nuovi rimandi musicali. E quando lo scorrimento del microfono si fa veloce e continuo, le diverse sonorità si avvicendano, dando vita ad una nuova base melodica su cui poter lavorare. 

E il risultato di queste sinapsi sempre nuove e straordinariamente originali porta Morricone verso i riconoscimenti ufficiali: è di nuovo la voce di Morricone a fare il suo ingresso, dicendo che per lui ogni riconoscimento è un punto di partenza per fare ancora meglio. Era il 2007, quando dalle mani di Clint Eastwood riceveva l’Oscar alla Carriera, accolto da un’interminabile standing ovation.  E nove anni dopo, è arrivato il riconoscimento dell’Academy per la migliore colonna sonora, per il film The Hateful Eight di Quentin Tarantino.

Tutto questo è reso possibile perché “il mio più grande desiderio – continua Morricone  – è riuscire sempre a sorprendere”. E l’applauso che ne deriva “riesce ad appagare un mio trauma di bambino”.

ph. Christophe Bernard

Il ricordo del trauma si fa tempesta: le pareti mutano i loro confini e danno origine a nuovi habitat, che coinvolgono anche la platea. E dal rosone del lampadario di sala partono fulmini. 

Torna la voce di Morricone a confidarci che tutto ciò che lui aveva dentro di più urgente lo ha raccontato in musica: dal far risuonare la disperazione, al voler scoprire e riprodurre il suono della coscienza, in bilico tra cieca fede e disobbedienza.

Fino a rendere la sua musica capace di tradurre tutto ciò che non si riesce ad esprimere a parole. Una musica che proprio per il suo carattere di esplorazione dell’intimità collettiva, fa salire un nodo alla gola, ascoltandola. 

Le tracce di Morricone scelte per lo spettacolo sono state registrate dall’Orchestra Cherubini, diretta da Maurizio Billi, musicista, amico e collaboratore del compositore. Vengono rievocati così il tema  d’amore di Nuovo cinema Paradiso, quello di Deborah da C’era una volta in America, il tema de La Califfa, On earth as it is on heaven da The Mission, The man with the Harmonica da C’era una volta il West, e ancora Se telefonandoHere’s to you, canticchiata dai danzat

ori a fine spettacolo. Motivi che nello spettacolo si intrecciano al sound design elettronico di Alex Roser Vatiché e Ben Meerwein , a stralci di discorsi di Morricone fino alle parole dal vivo dette dai danzatori.

Ma più di tutto – conclude Morricone – volevo sapere che suono ha un uomo, quando nessuno lo guarda”.

ph. Christophe Bernard

La genialità avanguardista di Marcos Morau riesce a rintracciare e a rendere, con una meravigliosa plasticità in movimento, un nuovo modo per esplorare il potere dell’intimità collettiva, continuamente generativa, propria della musica di Ennio Morricone. In un luogo nuovo, il Teatro.



Ieri sera era il compleanno

del grande compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore 

Ennio Morricone (10 novembre 1928 – 6 luglio 2020)

Lui, oltre ad essere uno dei più importanti, prolifici e influenti compositori cinematografici nella storia della musica, era anche un Uomo con la sua quotidiana straordinarietà e con i suoi legami familiari. E ieri sera proprio a coronamento di questa ultima replica dell’omaggio a lui tributato dalla magnifica creazione di Marcos Morau e in occasione dei festeggiamenti per il suo compleanno, è avvenuta la presentazione del libro Ennio Morricone. Il genio, l’uomo, il padre” di Marco Morricone e Valerio Cappelli (Sperling &Kupfer 2024).

La presentazione è stata moderata da Fabrizio Roncone, scrittore e giornalista del Corriere della Sera. Ospiti d’eccezione: Monica Guerrritore, Michele Placido, Gabriele Lavia, Claudia Gerini e i loro racconti inediti, che hanno svelato il lato più umano e personale del Maestro. Valentina Morricone, nipote di Ennio, ha letto degli estratti dal libro di Marco Morricone e Valerio Cappelli. Erano presenti in sala Maurizio Billi, direttore d’orchestra e storico collaboratore di Ennio Morricone e Gigi Cristoforetti, direttore del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto. 

Un momento di grande commozione che ha contribuito a rendere ancor più presente tra noi

il Maestro e  l’Uomo Morricone.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della presentazione-spettacolo del libro LE FAVOLETTE DI WITTGENSTEIN di Giuseppe Manfridi –

EDIZIONI EFESTO, Collana Satyrikà, 2024

Libreria Koob, 9 Novembre 2024

Prolungati in uno stato di frizzante sospensione, ci siamo lasciati guidare negli spazi favolosamente reali, immaginati dagli interrogativi preferibilmente insoluti di Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo. 

Suoi complici in questa presentazione filosoficamente poetica, il rinomato critico teatrale e giornalista Marcantonio Lucidi e Dario Pisano, esperto di italianistica e divulgatore dei classici della letteratura italiana.

Marcantonio Lucidi

Dario Pisano

Il ritrovo per questa Festa del Pensiero era nella sala sotterranea della Libreria Koob di Piazza Gentile da Fabriano, 16: una libreria in purezza, deliziosamente accogliente.

Ingresso della Libreria Koob

L’occasione era quella di poter incontrare, in un felice tardo pomeriggio del novembre romano, l’autore del libro “Le favolette di Wittgenstein”: Giuseppe Manfridi.

Come anticipato dal tratto sagacemente raffinato dei disegni di copertina di Antonella Rebecchini, Manfridi immagina – esaudendo un desiderio irrealizzato di Wittgenstein – di proseguire il suo “Tractatus logico-philosophicus” con una raccolta di piccoli componimenti umoristici. 

Antonella Rebecchini, Giuseppe Manfridi

“Le favolette” sono infatti delle brevi e vivaci creazioni dove Manfridi narra in maniera sapientemente semplice verità fascinose, perché digressive. L’allontanarsi momentaneamente e in maniera mirata dal prevedibile, rende infatti l’ascolto e la comprensione disponibili al piacere irresistibile dell’imprevedibile. E la verità racchiusa nella favoletta se dapprima predispone al sorriso, poi indugia ad aleggiare nella mente e nel cuore di chi legge, in una sorta di solletico metafisico.

“Le favolette” non essendo ancora state scritte da Wittgenstein sono ciò che davvero è degno di importanza per Wittgenstein.  Quello di Manfridi è un Wittgenstein “picaro del positivismo” affascinato dall’incomprensibile. Non comprendere, infatti, al di là dell’essere un deficit, è un fecondo stato d’animo che permette alle cose di restare belle. Attraenti.

Ludwig Wittgenstein

Veniamo a conoscere così che “la favoletta” preferita da Marcantonio Lucidi, critico dal guizzo fertilmente polemico, è quella del “francobollo”, massimo esempio di come l’arte di Manfridi riesca a contattare in un istante ciò che il ragionamento logico catturerebbe solo dopo una lunga trattazione. 

Dario Pisano invece è impareggiabile nel suo fiorire dentro le dissertazioni attraverso improvvisi slanci, nei quali propone citazioni poetiche imprevedibilmente calzanti. E tutte rigorosamente a memoria.

Perché la fertilità è sempre nell’imprevedibile, nel non ancora conosciuto. E “Le favolette di Wittgenstein” di Giuseppe Manfridi ne sono un luminoso esempio.

Giuseppe Manfridi

Da questa momentanea interruzione della Festa del Pensiero – perché come ama ricordare Manfridi “nulla finisce, tutto s’interrompe” – siamo usciti pieni di stupore, guardando alla realtà così com’è: un luogo delle meraviglie, da immaginare più che da catturare. 

Una realtà indissolubilmente legata al desiderio che qualcosa accada.

Qualcosa di miracoloso.


Recensione di Sonia Remoli