COME NEI GIORNI MIGLIORI – regia Leonardo Lidi

TEATRO INDIA

dal 14 al 25 Maggio 2025

Il titolo si dà, con enigmatica suggestione, come una similitudine: figura retorica qui però mutilata del primo termine, il termine che fa scaturire il paragone, la similitudine appunto.

Ed è bellezza.

Perché sebbene la similitudine nasca dall’esigenza di chiarire meglio un concetto, la scelta di rendere in tal modo il vuoto di un inesprimibile linguistico è splendida. 

Perché tale vuoto – riconosciuto come assenza carica di significato – è come una pienezza straripante. E quindi indicibile attraverso il linguaggio basato sui principi della logica.

Alfonso De Vreese (B) – Alessandro Bandini (A)

Si può tentare di esprimerne in qualche modo tale magnificenza – come qui ardisce fare l’autore Diego Pleuteri – apportando un taglio ad un artificio linguistico, la figura retorica, per rendere più efficacemente suggestivo il concetto. 

E funziona.

E poi arriva la messa in scena teatrale: una vertiginosa “visualizzazione” di questo pressocché inafferrabile concetto. Una testimonianza di quell’ “Ama e fai quel che vuoi” con cui si apre lo spettacolo. E insieme lo specchio di come può essere difficile, nelle relazioni, fidarsi dell’altro. Anzi affidarsi all’altro.

Ecco allora lo spazio teatrale e della mente vuoti: liberi da egoicità. Spazi dai confini osmotici, tali da poter essere invasi dall’energia del dio Pan: un’energia parossistica, da eccitazione, da pan-ico. Ed è seducentemente da capogiro per l’occhio (anche alla lettura della drammaturgia) e per l’orecchio, lasciarsi trascinare insieme agli interpreti dai rapimenti osmotici da uno spazio all’altro: dallo studio dell’analista, alla pinacoteca e poi alla discoteca e così via. Ma anche nel passaggio repentino tra una fine e un inizio, tra il vomito e l’eros, tra un lutto e una rinascita. Spazi resi ambientazioni immersive da un efficacie disegno luci su stativi, curato da Nicolas Bovey.

(ph. Luigi De Palma)

Ma nonostante queste stupefacenti esperienze, resta sempre qualcosa che tiene i due protagonisti ancorati a terra: la minaccia dell’altro, della sua diversità così mal conciliabile con la propria personale voglia di avere tutto per sè e fare sempre a modo proprio.  

E poi ci sono le parole.  Se si potesse fare a meno delle parole!

“Diciamo di amarci, e magari è vero” – sceglie di scrivere Pleuteri in epigrafe al suo testo, citando il Raymond Carver, di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.

Leonardo Lidi

Però qualcosa che può venirci in aiuto c’é.

Ed è un po’ il messaggio che serpeggia dentro questo interessantissimo lavoro diretto da Leonardo Lidi.

Allenarci ad avere fiducia.

Che é qualcosa di  diverso dall’avere fede, anche se appartenente alla stessa chioma di parole. Addirittura, anche quel fidanzato/a, dal sapore oramai antico, appartiene alla stessa famiglia dove nessuna parola ha un significato netto. Si tratta di parole dai confini osmotici – concetto vitale, finanche divino, ben reso in scena – dove fiducia si intreccia a confidenza, ma anche ad affidamento e poi a coraggio e anche a fedeltà

Perché la fiducia è libera: liberamente si fonda e si rifonda. Senza il rigore ubbidiente della fedeltà.

E quindi, nonostante tutto, possiamo ancora ri-concedere fiducia a noi stessi e all’altro: “…E quest’anno ho fatto trent’anni, lo so che non sono niente, ma a trent’anni una volta erano vecchi e prima ancora morti e allora se abbiamo lottato per vivere tutto questo tempo in più forse possiamo prenderci qualche rischio e magari cambiare idea e provare a raggiungere queste cose belle che sembrano così lontane, sì insomma, non ci corre dietro nessuno o comunque abbiamo un tempo in più per sbagliare, è come se avessimo vinto qualche giro di giostra e possiamo girare ancora, e io sono un imbranato di dimensioni colossali, non ho mai vinto niente, ma con te mi piacerebbe provarci, senza fretta che poi mi viene l’ansia ma senza neanche lasciarti andare come se niente fosse…”

(ph. Luigi De Palma)

” …e possiamo girare ancora…”: ancora è infatti la parola che meglio riesce a descrivere noi umani, noi e l’amore, noi e le relazioni, noi e la comunicazione. Perché come diceva Hannah Arendt “gli uomini non sono fatti per morire ma per continuamente incominciare”. 

Questo di Leonardo Lidi è uno spettacolo disperatamente vitale. A qualche livello legato osmoticamente a “Giorni felici” di Beckett, dove quel comune dramma della conversazione trova proprio nel quotidiano più quotidiano (finanche qui nel pane e nei cioccolatini) echi di “sacro”. 

Dove l’affogante rigidità esistenziale può essere pervasa da un caos così vitale da appanicarci: fino a riuscire “a sparire da noi stessi”.

Dove ognuno di noi può appassionarsi, proprio come un detective, a trovare in superficie e in profondità tracce di quella meraviglia che si diverte ad infiltrarsi nel dramma di vivere. 

Di più: queste indagini vitali possiamo condurle anche “insieme”. Anzi insieme sono più efficaci: perché insieme si impara a mettersi nei panni dell’altro (come assai efficacemente viene visualizzato dal lavoro sui costumi, curato da Aurora Damanti). Dove “il mio” indossato da te, non solo finalmente “lo vedo” ma mi fa anche un effetto diverso, nuovo.

Lidi fa sì che lo scambio di habiti arrivi a contagiare  anche scena e platea, attore e spettatore: che qui divengono spazi e ruoli osmoticamente fluidi. Capaci di “sparire” ciascuno nell’altro, in un freschissimo “conosci te stesso” delfico.

E così anche il pubblico, per certi versi, viene invaso da Pan: il dio amico di Dioniso, che si aggira tra noi come tra pascoli e montagne. Il pubblico, infatti, investito da questa energia straripante si spaventa, si eccita, si commuove. E aspetta che si abbassino le luci in dissolvenza per liberarsi in un’onda di complice entusiasmo. E di riconoscimento.

Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese lasciano il segno: si danno come sublime energia vitale. Loro stessi corpi emozionali osmotici, che amano e fanno quello che vogliono.


Recensione di Sonia Remoli