Il Giardino dei Ciliegi: Progetto Čechov al Teatro Vascello

PROGETTO ČECHOV, terza tappa

Anton Čechov / Leonardo Lidi

TEATRO VASCELLO, dal 3 all’8 Dicembre 2024


C’è qualcosa che rischia di essere spazzato via, di andare perduto. 

C’è qualcosa che stiamo privando della sua “eccezionalità”, soppiantandolo con qualcosa di “utile”.

Ma cosa significa “utile”?

Diversamente dall’uso comune che siamo soliti attribuirle, la parola “utile” non allude tanto all’ “usare” e “all’essere usato”, quanto piuttosto al “rendere utile”. 

Non si tratta quindi di una furbizia o di una sottomissione, quanto piuttosto di un’attività creativa. “Utile” non è  solo una funzione economica ma anche un valore esistenziale, sociale e politico.

“Utile” è ciò che rende fertile qualcos’altro: la qualità della vita personale e comunitaria, ad esempio.  

Ma come siamo arrivati a questo punto ?

Com’è che siamo arrivati a buttar via cose, pensando solo alla loro “utilità” economica?

Leonardo Lidi

Anche da queste domande si genera il “Progetto Čechov”  di Leonardo Lidi: dalla sua urgenza di erede del passato, che desidera rendere onore alla tradizione. Per poi tradirla sapientemente, al fine di renderla vicina e d’ispirazione per il presente.

Un presente che, come ogni volta accade nei momenti di transizione, ci chiede di non sottrarci all’esigenza di rivalutare le nostre responsabilità, per poter affrontare fertilmente, insieme, i necessari cambiamenti.

Responsabilità vitali che il teatro da sempre – e con sempre nuove modalità – fotografa e racconta, mosso dall’urgenza di affrontarle.

Ecco allora che la penetrante sensibilità di Leonardo Lidi si mette al servizio di un’attiva presa di coscienza su come il passato – anche teatrale – può fornirci delle “utili “idee per affrontare periodi di particolare difficolta adattativa, che ciclicamente si presentano nel corso della storia.

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Quello che infatti accade ora ne “Il giardino dei ciliegi” è il risultato di qualcosa che si era già presentato ne “Il gabbiano” , che si era manifestato in “Zio Vanja” e che ora qui, nella terza opera della trilogia, produce i suoi effetti devastanti.

Acutamente Lidi già entrando in sala ci immerge in un’atmosfera scenica “barbarica”: qualcosa è passato a spazzare via quelle sedie che ne “Il gabbiano” erano allineate in fondo alla scena – in un dietro le quinte a vista – dove gli attori sedevano in attesa di entrare in scena.

Ora invece quello che lì era dietro (il futuro) è divenuto qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, il presente. Ma gli attori, ognuno con il proprio ruolo e quindi con la propria responsabilità – proprio così come nella vita – hanno tardato ad agire. E ora quello che prima accoglieva la loro attesa è divenuto inaccogliente, visto che nessuno di loro ha considerato “utile” entrare in scena. 

“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi

Quel presente che ne “Il gabbiano” era così aperto – e che veniva così ben rappresentato da una scena totalmente libera e quindi disponibile ad essere plasmata – già spaventava assai. 

Perché è questo l’effetto che può farci la libertà: può non solo inebriarci ma anche angosciarci

“…Ti senti sola 
Con la tua libertà
Ed è per questo 
Che tu 
Ritornerai…”

Lo spazio scenico, allora così ampio, era già un po’ troppo prudentemente vissuto. Ci si accalcava spesso tutti intorno a quella panchina, che ora ne “Il giardino dei ciliegi” scopriremo essere tornata sul fondo, laddove una volta erano le sedie degli attori in attesa di entrare e prendere il loro ruolo nella scena. Non solo teatrale. Per dare voce alla loro interpretazione del presente e quindi alla loro vocazione esistenziale. 

“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi

Una prudenza che inizia a diventare terrore in “Zio Vanja” dove gli attori scelgono di muoversi in una scena presente, il cui sguardo è reso miope da un alto muro di legno. Sul quale si desidera aderire, quasi a restarne epidermicamente ed esistenzialmente incollati. Concedendosi giusto lo spazio per mantenere la postura seduta e quella eretta. E pochi passi di libertà.

Un presente “in  campo corto”, dove ci si limita alla fisiologia del mangiare  e del dormire. Ma soprattutto dove si beve molta vodka. Per mantenere ancora vivo un barlume di ardire in amore. 

Ma continuando a restare paralizzati dalla libertà esplorativa offerta dal nuovo contesto storico in mutamento – quello tra 800 e 900 certo, ma così vicino anche al nostro – si finisce per ritrovarsi ancora in attesa di “debuttare”. Ancora alla prova. Anzi: ancora in attesa. Ma non c’è più nulla d’attendere, se non le conseguenze di una difficoltà sempre più atarassica ad affrontare i mutamenti.

Così facendo si finisce col perdere anche la preziosa relazione con la natura. Qui ne “Il giardino dei ciliegi” è impossibile non notare il trionfo della plastica sul legno. Un legno che resta solo come cielo di un passato che, come un deus ex macchina, a volte plana sul presente con le ali della nostalgia.

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

E quella plastica – apparentemente così economicamente “utile”, così fallace sinonimo di benessere e di democrazia dei consumi – arriva a contaminare anche i tessuti degli abiti di scena, seconda pelle di “habiti”, ovvero modi di fare e costumi etico-sociali. Laddove, infatti, ne “Il gabbiano” sopravviveva la preziosa naturalità del lino, che poi in “Zio Vanja” declina in cotone, qui ne “Il giardino dei ciliegi” diventa il trionfo del tessuto tecnico e quindi sintetico. 

“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi

“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Della stessa tragica involuzione Lidi ci rende partecipi anche attraverso il riflesso che questa produce sulla recitazione degli attori, sul loro diverso modo di esprimere lo stato di disagio. 

Se infatti ne “Il gabbiano” il linguaggio espressivo conservava ancora una fertile malizia, che trovava una particolare forma musicale nei ritmi sostenuti – sebbene tentati dalla fuga nell’irrazionalità dell’assenza dei segni d’interpunzione, così come dei principi della logica- ; in “Zio Vanja” Lidi rende più perturbante l’incarnazione attoriale ed esistenziale spingendola verso un ondivago senso delle parole, esaltato per contrasto da una solida immobilità del corpo dell’attore, che si apre solo meccanicamente ad una rottura dei piani. Quasi burattini nelle mani del fato. Per poi arrivare qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, ad assistere paradossalmente a come la paralisi d’azione abbia provocato una rottura quasi totale degli argini tra tragico e comico; tra riso e pianto; tra causa ed effetto. Anche la stessa arte medica ha perso la sua capacità terapeutica. E laddove la conoscenza di se stessi è maggiormente oscura, anche i generi si prestano a scivolare più fluidamente l’uno nell’altro. 

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

E così, quasi come un contrappasso, quella duttilità e quell’entusiasmo che di almeno un pizzico avrebbero potuto superare la paura dei cambiamenti, ora si scatenano in una fluidità indistinta. Che provoca, per reazione, il sorriso ma che, subito dopo, stringe la pancia dello spettatore in un giro di morsa.

Perché una Dunjasa che si ostina a rimanere giovane, rifiutando la responsabilità dei suoi anni racconta molto di noi, della nostra tendenza, ad esempio genitoriale, a farci complici dei nostri figli, più che loro testimoni del segreto di un sano desiderare. 

Perché un Lopachin così subdolo ci ricorda il fare tipico da presentatore delle nostre amate televendite. 

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Perché un First ridotto in sedia rotelle e a sua volta in sedia, ci parla di come anche noi oggi tendiamo a dimenticarci del nostro passato. E, così facendo, non possiamo se non condannarci a ripeterlo. Come provocatoriamente ci invita a cantare Lopachin: 

“Ritornerai…

Ritroverai 
Tutte le cose che
Tu non volevi 
Vedere intorno a te

E scoprirai
Che nulla è cambiato

Che sono restato 
L’illuso di sempre…”

Perché la tensione a non modificarci è innata al nostro corredo genetico, orientato all’autoconservazione.

Perché ad affrontare con coraggio la libertà e i suoi mutamenti si impara. E solo poi, si può trasmetterla.

“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi

Ma Lidi inserisce anche un alito di speranza. E lo fa, ad esempio, quando sceglie di ambientare la festa da ballo in un’atmosfera di denuncia e di ribellione, quale quella espressa dalla musica rap. Un genere e una filosofia che abbracciano elementi del rock, dell’elettronica e del jazz, dando vita a nuovi stili e a suoni unici. 

Perchè questo di Leonardo Lidi è il compimento di una trilogia capace di “rendersi utile e di renderci utili ”. Grazie al suo spingerci verso una presa di coscienza : quella che precede l’audacia di difendere i valori che ci rendono creativamente umani; quella che ci stimola a cercare in noi e nella vita qualcosa di “utile”, cioè di creativamente interessante. 

Perché quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame “utile”, qualcosa che ci avvicina a qualcosa, o a qualcuno. 

Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno. 

Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.

Applausi per “Il giardino dei ciliegi” di Leonardo Lidi

Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.

Coerentemente il Teatro di Leonardo Lidi si dà come un teatro di attori inclini a riconoscere preferibile un desiderio di crescita e di testimonianza collettivo, piuttosto che miopemente individuale. Un teatro e uno stile di vita sociale e politico dove ciascuno è consapevole di splendere in quanto parte irrinunciabile di un tutto. 

Un Teatro che non smette di divertire, pur non proponendosi mai come un teatro “innocuo”. 

Un Teatro “utile”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ZIO VANJA di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi


PROGETTO ČECHOV

(Seconda tappa)

di Leonardo Lidi


TEATRO VASCELLO – dal 9 al 14 Aprile 2024

Cosa succede quando il passato invade il presente? 

Quando i ricordi fagocitano gli impulsi creativi? 

Succede che si riduce notevolmente la visione prospettica sulle nuove possibilità di “riempire gli anni”. Ieri come oggi.

La regia di Leonardo Lidi affida a Nicolas Bovey la cura per la realizzazione di un’efficacissima struttura scenografica capace di veicolare – già solo attraverso l’impatto visivo – la claustrofobia di questa perversa modalità di stare al mondo.

In verità questo possibile modo di vivere esprime la tensione più potente che abita la natura dell’essere umano. E non è quindi propria di un determinato periodo storico. Per natura infatti siamo tutti inclini a conservarci, a proteggerci dall’ignoto. A ridurre il nostro campo visivo e quindi il nostro campo d’azione.  Preferiamo renderci innocui. 

Ecco allora che il confine che separa il passato dal presente avanza smisuratamente appropriandosi di grand parte dello spazio d’azione. Anche sul palco. Ed è subito afa.

Ne deriva la sensazione di un presente schiacciato, opprimente, senza un fiato di vento. Dove ci si accontenta di anelare – attendendola più o meno compostamente tra richieste di compatimento e imbambolimento vario – l’azione rigenerante di un temporale.

Un presente “a campo corto”, dove si mangia e si dorme. Ma soprattutto dove si beve molta vodka: per acquisire – almeno per tutto il tempo della sbronza – “un simulacro di vita”. E così provare ad agire, ad osare. Perché tutto il resto, è noia. 

Una noia che non è la serenità della pigrizia. Piuttosto la logica conseguenza emotiva di quel senso di disinteresse che non conosce uno sprone che punga, facendoci contorcere alla disperata ricerca di qualcosa di non monotono, di interessante. E’ quella noia che è la cifra di chi non immagina progetti, di chi non coltiva interessi di stupore partecipe.

Una noia piena di fiumi di parole che, sebbene scorrano via a ritmi vorticosamente accelerati, restano in bilico sul loro stesso valore logico. Di conseguenza anche quel che resta del sistema emotivo va in tilt. O si scolora.  E assieme all’ habitus (il modo di fare, il costume sociale) perde vivacità anche la seconda pelle, ovvero l’abito, che non osa spingersi oltre le tenui tonalità pastello (la cura dei costumi e di Aurora Damanti). 

Lidi sceglie allora che la recitazione degli attori incarni questo ondivago senso delle parole sia attraverso un’apparentemente solida immobilità del corpo, sia attraverso una totale rottura dei piani del corpo. Quasi burattini nelle mani del fato. Ed è bellezza. 

Una bellezza che fiorisce da un lavoro attoriale che riesce ad esprimere l’urgenza simbiotica del corpo di “aderire” allo spazio. Di “spalmarsi” su di esso, lungo ogni coordinata. Un corpo quasi totalmente privo di autentici slanci d’entusiasmo, se non espressi con la complicità della vodka. 

Ma che fine hanno fatto i desideri? Quella spinta, il desiderio, che regala così tanta tonicità alla psiche umana? In un habitat atarassico, dove si desidera solo l’autoconservazione, sono bandite le tensioni di qualsiasi natura. Troppo pericolose: sono fucina di cambiamenti. E i cambiamenti spaventano assai. 

Ma la scelta di votarsi alla sicurezza di un male conosciuto piuttosto che a un bene tutto da scoprire risucchia linfa vitale: quella che spinge ad andare alla scoperta, alla ricerca. Anche della propria vocazione: anzi no, “quella la conosce solo Dio”. 

E ci si chiede, fuori da ogni consapevolezza logica, se chi verrà dopo si ricorderà di loro come coloro che hanno “spianato la via”. Valore che Puskin riconosceva all’opera di Batjuskov, autore così amato dal Professor Serebrjakov. Ma per essere onorati dagli eredi occorre essere padri “interessanti”.

E poi ci si rammarica di invecchiare troppo velocemente. Ma come evitarlo se si vive all’insegna della monotonia: dove niente di quello che si fa è “interessante”? Dove niente è più capace di destare curiosità, di suscitare attenzione o partecipazione ? Dove niente coinvolge e appassiona? Neanche l’amore. Neppure quello per la natura. Perchè – come riconosce zio Vanya – “si vive di miraggi quando manca l’autentica vita”.

Tentazione così maledettamente vera anche oggi.

E pensare che quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame, qualcosa che sta in mezzo e ci avvicina a qualcosa o a qualcuno. Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno. Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.

Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.

La regia di Leonardo Lidi affida allora a Franco Visioli la cura di  creare sonorità labirintiche e lunari e a Nicolas Bovey una drammaturgia delle luci proveniente da un cielo basso e vagamente sinistro. Tali da enfatizzare la vacuità sterile delle crepe esistenziali dei personaggi, resi con sconcertante verità extratemporale dagli attori in scena.  Si ride. Ma da qualche parte ci arriva una fitta.  

Lidi sceglie – ed è la sua filosofia – un teatro di attori dove un desiderio collettivo risulti superiore ad un desiderio personale. E infatti Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna splendono restituendoci l’agrodolce miseria dei loro personaggi, proprio in quanto consapevoli parti irrinunciabili di un tutto. 

Leonardo Lidi ha un talento che brilla per la capacità di “tradire fedelmente” i testi del grande teatro classico. Il suo è un modo di gestire l’eredità dei padri del teatro che onora il valore di testimonianza. Un teatro, il suo, con una particolare raffinatezza di gusto: un teatro divertente che si guarda bene dall’essere “innocuo”.

Un teatro necessario.

Leonardo Lidi, il regista

“Zio Vanja” è la seconda tappa  – dopo “Il Gabbiano” – del suo Progetto Cechov, prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino e Festival dei Due Mondi. La trilogia si completerà con “Il giardino dei ciliegi” che debutterà tra qualche mese al Festival dei Due Mondi di Spoleto. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GABBIANO di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi


PROGETTO ČECHOV

(Prima tappa)

di Leonardo Lidi


TEATRO VASCELLO, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023

Nessuna musica. Nessuna quinta. Il sipario si apre su uno spazio teatrale (le scene e le luci sono di Nicolas Bovey) completamente nudo e massimamente aperto. Indifeso e quindi pronto a essere plasmato. Come nella vita, gli attori in scena sono “gettati” in un luogo da riempire solo con la propria interpretazione. Con la propria vocazione.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Unico oggetto in scena: una panchina in proscenio. E delle sedie disposte in un’unica fila sul fondo dello spazio: una sorta di dietro le quinte a vista. Un dietro che avanza. La panchina, così come la fila di sedie, “margini” sui quali “sedersi” . L’atmosfera è più quella di una sala prove che quella di un debutto.

Una scena del film “Vanya sulla 42esima strada” di Louis Malle (1994)

E fa tornare alla memoria il film di Louis Malle “Vanya sulla 42esima strada”, tratto da un adattamento teatrale di David Mamet. Anche per il tipo di recitazione affidata agli interpreti: più smaliziata, dai ritmi più sostenuti (a volte addirittura scevra da segni d’interpunzione), più gradevole, più attuale.

Il cast dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

A parlarcene sono anche i costumi che indossano (curati da Aurora Damanti): la scelta dei tessuti, il tipo di taglio, le scelte cromatiche. Poco nero, se non dove è indispensabile. E laddove (drammaturgicamente) consentito, alleggerito dal bianco. Contribuendo così, in sinergia al tipo di recitazione più essenziale e quasi autoironica, a rendere il confine tra riso e pianto meno netto.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Fino a riuscire a strapparci di tanto in tanto un sorriso. O una risata. Di comprensione. Di complicità. Come sarebbe piaciuto a Čechov, visto che inalterata resta l’intensità e la bellezza del testo teatrale. Sono, questi rivisti dal regista Leonardo Lidi, personaggi che rispecchiano poeticamente la nostra stessa difficoltà, variamente declinata, di stare al mondo. Soprattutto nei momenti storici di passaggio. Vivono in una, a tratti consapevole, coesistenza di disperante malinconia e irresistibile comicità. E li comprendiamo: senza giudicarli.

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

Oscillano: siedono sulla vita volteggiando su se stessi, anche quando sono in due a ballare. Senza avanzare davvero. Tentati dalla rassegnazione. Un desiderio, il loro, che non conosce vera intrepidità se non nei giovani, diversamente contagiati dal nuovo che sta entrando. “Silenzio, viene gente !” è il loro mantra per sfuggire a qualcosa che potrebbe invaderli: l’amore. “Come siete tutti nervosi ! E quanto amore ! “.  

Una scena dello spettacolo “il Gabbiano” di Leonardo Lidi

E quando cadrà su di loro il cielo del nuovo tempo, non li toccherà. Se non anagraficamente. Invecchieranno riuscendo ancora a schivare ciò che li sta investendo. Convincendosi, come il Dottore, di continuare a batterlo loro il tempo. Ipnotizzandosi. Impreparati, ancora, a debuttare. Nella vita.

“La bohème, la bohème, 

indietro non si torna mai”

(Charles Aznavour, La bohème)


Recensione di Sonia Remoli