Recensione di MISURA PER MISURA – regia Giacomo Bisordi

di WILLIAM SHAKESPEARE

– Traduzione e adattamento Chiara Lagani –

TEATRO INDIA

dal 2 al 14 Dicembre 2025

“Tu ce l’hai un desiderio?”

Si apre come un diario il prologo di questo spettacolo del regista Giacomo Bisordi, per confidarci la genesi del suo lavoro di ricerca sul darsi del desiderio nella società, soprattutto nei periodi di crisi.

Infatti se il desiderio è quanto di più soggettivo e singolare possa esserci – l’uomo è il suo desiderio – di conseguenza il desiderio è anche ciò che si rende meno adattabile e omologabile alle richieste della società in cui vive, dove la norma sociale parla alla collettività, è per tutti.

Il desiderio quindi è anche l’espressione di quel “disagio della civilta” di cui parlava Freud e di cui Misura per misura di W. Shakespeare è un esempio emblematico.

Giacomo Bisordi

Succede infatti, sopratutto quando salta in aria l’ordine a cui abbiamo creduto di dar forma stabile – degenerando in un disordine tale da rendere palpabile il senso di fine imminente – che prorompa in noi, per reazione, una potente spinta vitale del desiderio, di cui non si conosce “la portata e la natura”.  

Qualcosa di simile si verificò nella Vienna in cui Shakespeare ambienta questa commedia oscura, con alle porte la guerra. Ma qualcosa di simile si verificò anche, più recentemente, in occasione della pandemia.

Succede cioè una sorta di applicazione del principio “misura per misura” tra amore e morte, tra eros e thanatos, che fa fatica a trovare un equilibrio. E che scoperchia un nostro autentico modo di stare al mondo, in un’insolita sintonia con la natura.

(ph. Manuela Giusto)

Mettere in scena personaggi così ambigui e contraddittori risulta destabilizzante per lo spettatore. Ma proprio questa sensazione Bisordi, seguendo creativamente Shakespeare, desidera insufflare nel pubblico, avvalendosi della collaborazione di una giovane donna, interprete e traduttrice delle forme del desiderio umano. Un po’ come la Madama Sfondata di Shakespeare.

Un lavoro “a quattro mani” il loro, per rileggere il testo shakespeariano, qui tradotto e adattato dalla fine e poetica sensibilità di Chiara Lagani. Che riesce a restituire nel passaggio da una lingua all’altra – come in uno specchio – la caduta di esseri umani magnificamente mostruosi, sulla superficie scivolosa della vita. 

Chiara Lagani

Bisordi allora lascia come cadere a terra le pagine del diario, rese in scena da un telo impermeabile: metafora di un nostro atteggiamento incline a rendere impermeabile la mente dal corpo, il dovere dal volere. Anziché cercare sempre nuovi modi di tenerli in relazione. 

La caduta di questo telo rivela “un non luogo” fisico: la Vienna alle cui porte incombe la guerra e di cui in lontananza si sente l’eco di un bombardamento, reso suggestivamente da un motivo di musica techno. Una Vienna che è anche un luogo mentale: la mente del Duca Vincenzo  (le scene e le luci sono di Marco Giusti).

Un sovrano che ha scelto di de-regolamentare il desiderare di ciascun cittadino, togliendo efficacia creativa ai limiti che le Leggi mettono al desiderio individuale “di essere tutto e di volere tutto”.

Un siffatto modo di fare ha prodotto un decadimento tale del desiderio, che il Duca stesso anziché trovare il modo per rimediare creativamente ai propri errori, sceglie di fingere di assentarsi e di affidare pro-tempore la gestione della città all’intransigenza di un vicario. Per godere nel vedere come i cittadini lo avrebbero odiato: un desiderio narcisistico-voyeristico di chi preferisce eccedere nella clemenza, per un proprio ritorno personale d’immagine.

(ph. Manuela Giusto)

Il passaggio di consegne al Vicario Angelo avviene in questo spazio privo di coordinate, dove campeggia – libero anche dal vincolo della forza di gravità – il luogo della liberazione corporale. Bisordi lo visualizza in un bagno chimico, simbolicamente luogo delle soluzioni temporanee per necessità primarie.

Per far arrivare subito allo spettatore la sensazione dell’incapacità di Angelo di relazionarsi con gli altri, chiuso com’è nel rigore delle sue regole, Bisordi sceglie non solo di ri-vestirlo di un impermeabile ma anche di mettergli in bocca un’altra lingua. 

Il primo segno che il vicario Angelo imprime al suo governare è dare forma ad una bilancia, convinto di poter trovare un equilibrio nell’applicazione del principio “misura per misura”. Un equilibrio disumano, non meno di quello opposto, scelto dal Duca Vincenzo. 

(ph. Manuela Giusto)

Ostinandosi, poi, a voler condurre la propria amministrazione seguendo la linearità delle regole, Angelo dimostra, a differenza del Duca, di non conoscere affatto le contraddizioni dell’animo umano e di quanto l’irrazionalità superi in potenza la razionalità. Su questa linearità mentale crea urbanisticamente anche il suo spazio fisico. Ma il terreno sul quale edifica non è solido: affonda.

(ph. Manuela Giusto)

E poi c’è lei: Isabella.

Isabella è la sorella di Claudio, che Angelo con il suo criterio iper rigoroso del “misura per misura” ha condannato a morte per aver messo incinta una donna fuori dal matrimonio. Claudio chiede allora alla sorella di convincere Angelo a cambiare idea. Lei sta per prendere i voti per diventare suora ma “nella sua giovane presenza c’è un certo muto e sommesso linguaggio ch’ha la virtù d’intenerire gli uomini”.

Infatti la prima cosa che Isabella fa quando Lucio, un amico di suo fratello, l’avvisa di andare da Angelo, è quella di entrare in sintonia con lui preparandosi a parlare la sua stessa lingua. E poi gli rivela qual è il suo desiderio e perché Angelo deve esaudirlo.

(ph. Manuela Giusto)

E così, in un gioco di specchi, lei gli confida di sentire spinte contrastanti che dividono il suo sentire tra il dovere e il volere. E che anche lui “se volesse”, potrebbe concedere la grazia a suo fratello.

Nei pensieri prefabbricati di Angelo, “uno che nelle vene non ha sangue, ma neve liquefatta”, qualcosa inizia a vacillare: ”Ella parla, ed è come se il suo senno m’accenda i sensi”.

Ecco allora che Angelo, complice quell’arrossire con presenza di spirito proprio della verecondia di Isabella, inizia a vedere il desiderio di lei da un altro punto di vista: ne parla anche la sua prossemica. Si va a sedere infatti in un altro lato della sua stanza. Ma ormai non riesce più a guardarla dritto negli occhi: lei riesce ad accendergli un desiderio perverso.

E Isabella lo sente. E cambia corpo: s’inginocchia ma, più che devozione, il suo è il risultato dell’accordo della sensualità della voce a quella dei gesti. Come quello di raccogliere una manciata di terra e sassi iniziando a strofinarla sul tavolo. L’effetto è irresistibile sul Vicario Angelo.

Tanto che ora è Angelo a sentire di voler cambiare lingua per parlare quella di lei. Ora scopre il piacere dell’essere condotto, anziché quello del condurre; di essere governato, anziché governare. E si contamina lui stesso con la terra. Angelo scopre che nel suo corpo scorre sangue. E scappa.

Ma Isabella torna e insiste con il suo desiderio di ottenere la grazia per il fratello. Angelo a fatica riesce a negargliela ma non ce la fa a vederla andar via: “ resta ancora un po’ ” – le dice.  E lo spazio diviene più intimo, la prossemica più confidenziale. Tanto che lui si lancia nel dichiararsi. Ma credendo ancora di poter applicare il principio “misura per misura”: la grazia in cambio di una notte d’amore. 

Isabella si rifiuta categoricamente di tenere in equilibrio sulla bilancia peccato e carità. Perché “la purezza” – dice – “pesa di più della vita di un fratello”.

Lo spettacolo procede in un susseguirsi di colpi di scena verso un finale a lieto fine, che volutamente non ci concede piena soddisfazione. Shakespeare nel 1603 portava al cospetto del suo pubblico una commedia dilemmatica perfetta per ricordare, in tutti i momenti di crisi, chi siamo e come risulta difficile coordinare individualmente e collettivamente il volere al dovere. 

E come invece ci viene facile renderci impermeabili a questa tensione: il telo che cade all’inizio viene poi nel finale ricercato per rendere di nuovo impermeabile quella sorta di “giudizio universale” nel quale si crogiola il Duca Vincenzo.

In scena un cast, composto da  

Dimitri Galli Rohl (Duca di Vienna), Arne De Tremerie (Angelo, vicario del Duca), Vanda Colecchia (Isabella, una novizia), Edoardo Raiola (Claudio, suo fratello), Michele Lisi (Escalo, prefetto di Vienna), Francesco Russo (Lucio, un borghese cliente di prostitute), Irene Mantova (Mariana, Suor Francisca, La Signora Gomito), Miruna Cuc (in video),  

che sa rendere assai efficacemente la tortuosa esplorazione della natura umana e dei suoi grovigli, anche insolubili. Ma soprattutto il cast sa restituire quanto risulti complessa la gestione del rapporto – individuale e collettivo – tra carità e merito; tra amore e giustizia. 

E’ il Duca – sebbene con un’intenzione ipocrita – a dire al Vicario Angelo qualcosa di estremamente vero,  all’inizio del Primo Atto:

Tu e le tue doti non siete solo cosa tua,

da esaurir te stesso nelle tue virtù, e loro in te.

Il cielo fa con noi come noi con le torce,

che non s’accendono solo per se stesse:

se dalle nostre virtù non si irradia luce,

tanto varrebbe non averle

E’ questa affermazione che poi conduce lo spettatore a riflettere su come il desiderio di ognuno di noi abbia in sé anche la carica erotica di un daimon: di un’attitudine talentuosa che chiede di realizzarsi con una generosità che raggiuga altri, oltre che noi stessi.


Recensione di Sonia Remoli