Attesissimo ospite dell’incontro “Bibbia e Psicoanalisi” di venerdì 7 marzo u.s. – organizzato dalla Cattedra “Gaudium et spes” diretta da Pierangelo Sequeri (teologo, musicologo, compositore) – è stato il celebre psicoanalista e saggista Massimo Recalcati.
Occasione dello stimolante dialogo, moderato da Sequeri, con l’apprezzata filosofa e teologa Isabella Guanzini è stata la discussione sul recente lavoro editoriale di Recalcati “La legge del desiderio – Radici bibliche della psicoanalisi” (Einaudi, 2024).
Questo testo, insieme al precedente “La Legge della parola – Radici bibliche della psicoanalisi” (Einaudi, 2022) – già esplorato in un precedente incontro, sempre organizzato dalla Cattedra Gaudium et spes – costituisce un dittico, frutto di 12 anni di elaborazione, dedicato alla dimostrazione della tesi relativa a una non contrapposizione tra il pensiero biblico e la psicoanalisi.
Spingendosi al di là della critica freudiana della religione, così come delle fondamenta atee della psicanalisi, Recalcati individua come proprio nell’humus del logos biblico affondino le radici più profonde della psicoanalisi.
Non è la sua una tesi teologica, né una dimostrazione filologica. Piuttosto è stato l’esito di un suo personale incontro con le Scritture a consentirgli di identificare in esse l’esistenza di quei grandi temi che saranno ereditati dalla psicoanalisi, con particolare riferimento all’opera di Freud e di Lacan.
Un incontro, quello tra Recalcati e le Scritture, di cui Pierangelo Sequeri coglie tutta la portata straordinaria, essendo cifra del lavoro teologico e filosofico di Sequeri l’esplorazione di quelle fertili zone di confine che contagiano osmoticamente le scienze religiose, la filosofia, la psicologia e l’estetica.
In dialogo con Massimo Recalcati, la stimata filosofa e teologa Isabella Guanzini ha restituito una sua personale lettura de “La legge del desiderio” dall’appassionato e appassionante rigore.
Isabella Guanzini
Una lettura e un ascolto, i suoi, all’interno dei quali si è lasciata condurre rintracciando una kierkegaardiana via dell’ironia, sulla base della quale riconosce a Recalcati quella fertile distanza che consente di fare della tradizione “la proprietà di nessuno”. Perché una tradizione resta fertile “se si consegna a chi desidera risignificarla”. E Recalcati l’ha risignificata entrandovi in relazione, senza limitarsi a “prelevarla”. Volgendo lo sguardo – proprio come invitava a fare Jacques Lacan – alla “grazia” che ivi si cela.
A Recalcati – prosegue la Guanzini – il merito di aver “elevato” il desiderio alla dignità della Legge, senza nulla togliere alla Legge. Facendo cioè finalmente “divampare quel fuoco” che Gesù è venuto a portare. Senza paura. Perché così esortava a fare Gesù: “non abbiate paura!”, invitando a prestare attenzione, e a rimanere fedeli, alla vocazione desiderante a cui ciascuno di noi è chiamato.
Senza necessità di impaludarsi in inutili ansie da prestazione. Perché l’obiettivo non è tanto “l’oggetto” del desiderio, quanto “la causa che ci chiama”, che ci anima, che ci fa fiorire continuamente. E che, nonostante tutto, ci fa dire “sì”. Ancora. Rendendoci “promessa” non di stabilità ma di continuità. E di sempre nuovi concatenamenti collettivi , che vivono e si alimentano di “testimonianza”.
Pierangelo Sequeri
Senza perdere di vista che il luogo della “grazia” – e quindi della “causa che ci chiama” – è sempre il luogo di un “incontro”.
Proprio come occasione di grazia si è rivelato questo incontro con Massimo Recalcati, organizzato dalla Cattedra Gaudium et spes del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e magnanimamente condiviso con la comunità.
Testimonianza di come siano possibili esplorazioni sempre nuove tra saperi, se aperte ad un vibrante dialogo e a raffinate avventure dello spirito.
Quanto ci rassicura il suo spaventarci, il suo tenerci in pugno, fermi in attesa, chiusi nel dover essere, sterili nell’essere?
In fondo è lei – l’idea del doverci sacrificare – a sorreggerci.
E com’è disorientante scoprire, invece, che il sacrificio è un po’ un miraggio: un rallentamento e una deviazione della radiazione luminosa della parola. Un inganno della temperatura del cuore, che confonde quello che è il nostro autentico realizzarci: aprirci alla fede nell’inebriante insicurezza trasformativa della libertà. Realizzazione che trova un equivalente nell’aprirsi a scoprire la fertilità del “fare amicizia con il proprio peggio” (ovvero con il nostro inconscio), di cui ci parla la psicoanalisi.
Quella libertà cioè di fiorire per portare a maturazione i frutti del nostro talento: quel qualcosa che ci è stato donato, a cui siamo chiamati, e che ci rende speciali. Da far fruttificare qui e ora. Tutti: ciascuno il proprio, perché tutti ne abbiamo ricevuto almeno uno, di talento.
Anche di questo si è parlato ieri nell’Aula I del Dipartimento di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, che ha accolto con grande entusiasmo il celebre psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, invitato da Gaetano Lettieri, Professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese e direttore del dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacoli.
La prima eredità, ci ricorda Recalcati, è quella costituita dalla “parola”, che già nel testo biblico si rivela nel suo duplice valore di eccedenza e di Legge. E’ eccedenza perché il suo significato va oltre il suo essere strumento di comunicazione: la parola “è luce” e in quanto tale “fa esistere il mondo”. Ma la parola è anche Legge, perché ci porta a fare l’esperienza “del non tutto è possibile”, cioè di una separazione dal tutto. Ma proprio in questo spazio vuoto, e solo in questa mancanza, può originarsi la potenza generativa del desiderio.
Un desiderio quindi che non si consuma libertinamente, fino a svuotare la vita, quanto piuttosto un desiderio che “rende la vita capace di vita”. Capace di distinguere l’impossibile margine d’azione sul darsi di alcune realtà e la possibilità di manovra, e quindi di generazione, invece sul resto. Una postura esistenziale che fa della Legge del “non tutto è possibile” una scaturigine da cui zampilla il desiderio.
Lo stesso Gesù dichiara di essere venuto “per far divampare il fuoco del mondo”. La sua Legge del desiderio – che non abolisce la Legge di Mosè ma si dà come sua continuazione – non si limita a trasmettere la freddezza rigida delle Tavole della legge. Piuttosto fa sì che la Legge attizzi un fuoco.
Un fuoco che rianima la vita. Perché Gesù prima, e lo psicoanalista dopo, sanno che la tensione verso la sicurezza a chiudersi alla vita – che spaventa non meno della morte – è la tensione più forte che abita il nostro essere “umani”.
“Chi vorrà conservare la propria vita la perderà – dice Gesù, e continua – chi per causa mia (cioè chi seguendo la Legge del “non tutto è possibile” come causa del desiderio) sarà disposto a perderla, la troverà”. Così come più tardi Freud dirà che la tendenza all’autoconservazione, cela una pulsione di morte.
In questo orizzonte, il concetto di “peccato” riacquista la sua luce, perdendo quell’alone di opacità che ne fa l’onta della trasgressione. Gesù sa che non siamo fatti per identificarci totalmente con la Legge: conosce la nostra natura. Si è fatto uomo come noi. E ha detto di “non essere venuto per i giusti”. Lo stesso sostiene Freud: in quanto esseri pulsionali, non possiamo identificarci mai con la Legge.
“Peccato” è allora mancare il bersaglio, perdersi un’occasione: mancare l’incontro con la grazia. “Peccato” è seppellire il proprio talento: non aprirlo alla tensione verso la fioritura e la maturazione dei frutti. Jacques Lacan diceva che il vero peccato è quello di non agire in conformità al desiderio che ci abita. Quel desiderio che guida il nostro agire: che ne è causa. Un desiderio poietico, creativo, generativo: un fare che non attende, chiuso nel lamento passivo.
Al paralitico che vive ai bordi di una piscina attendendo da 38 anni il passaggio di un angelo che gli restituisca la salute, Gesù si rivolge dicendogli “ma tu, vuoi guarire ?”. Domanda sulla quale si fonda la stessa psicoanalisi: per vivere da vivi, occorre un movimento di ricerca. Iniziando subito: partendo da quello di cui al momento si dispone. “Cosa c’è ?” – domandava Gesù quando gli chiedevano di fare un miracolo. Ed è dall’acqua sporca in cui tutti si erano lavati le mani, che Gesù parte per trasformarla in vino. Perché quella lì, avevano da trasformare.
Perché il “miracolo” non è il prodigio, non è la magia. Piuttosto è l’aver fede nella possibilità della trasformazione.
La cifra fulgente dei contenuti, dell’eloquio e dell’ascolto del Prof. Recalcati è stata occasione di un vibrante dibattito con il Prof. Lettieri, che ha introdotto e coordinato la presentazione. Così come, mosse da un fertile solletico conoscitivo, si sono rivelate le numerose e stimolanti domande da parte dei partecipanti all’evento.
Un incontro, quello di ieri con Massimo Recalcati, che è andato oltre la presentazione di un testo, rivelandosi un‘occasione di grazia con un maestro.
Cosa c’è di meno omologante – e quindi di più scandalosamente creativo – del colore giallo?
Già per Van Gogh e per tanti pensatori della sua epoca il giallo era il simbolo del rifiuto dei valori vittoriani di repressione del sé. Il giallo induce a una vita versatile e vagabonda e tale è anche la natura del pigmento stesso: instabile, facile ad annerirsi. Gli artisti sapevano bene quanto fosse insidioso questo colore. Più recentemente però è Claudio Parmiggiani ad offrirne un magnifico esempio in una sua opera – Senza Titolo, 1995 – dove brilla tutta la bellezza esplosiva del potere creativo del giallo. Opera non a caso scelta per vestire la copertina di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio: “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore, 2024).
Claudio Parmiggiani, “Senza titolo”, 1995
E di giallo si avvolgono i protagonisti in scena ieri sera sul palco del Teatro Le Maschere: Serena Abrami, Pietro Babina, Alberto Fiori. Per la parte inferiore del corpo scelgono il nero: un colore in perenne espansione, pronto ad inghiottire tutto. Come l’omologazione. Ma gialle sono anche le loro postazioni: luoghi fisici e della mente. E il fondale grigio alle loro spalle è sì metafora di un muro ma dove ogni blocco è in comunicazione con l’altro grazie a dei confini osmotici e quindi creativi. Gialli, appunto.
Questa tensione cromatica incarna perfettamente un tema portante di “Sole & Baleno” – l’opera originale di teatro musicale di Pietro Babina – e cioè quanto sia necessario, ma maledettamente complesso, resistere alla tentazione di restare inghiottiti in una paralizzante e mortifera omologazione.
Infatti nel tentare di superare la nostra inclinazione naturale alla sopraffazione, dobbiamo anche confrontarci con la paradossale tentazione di desiderare abdicare alla nostra libertà. Consegnandola nelle mani di chi ci promette di prendersene cura, sgravandoci dal peso della sua ebbrezza. Perché la libertà porta con sé anche l’angoscia legata alla sua grande apertura. Ma mentre noi fatichiamo a rendercene consapevoli, chi in società pretende di presiedere ai nostri desideri ne è così consapevole da approfittare, quasi come sciacalli, del fragile potere della libertà umana.
Pietro Babina e Serena Abrami ci veicolano attraverso la musicalità polimorfica della loro voce – prima ancora che con il significato delle parole – lo straniamento necessario per ridestarci da quell’eccessivo bisogno che per natura abbiamo di sentirci al sicuro. Perché sentirsi al sicuro spesso implica il lasciarsi manipolare da qualcuno. Ecco allora che allo straniamento vocale Babina concerta quello musicale prodotto dalle mutevoli, fluttuanti, instabili, incostanti, imprevedibili composizioni musicali di Alberto Fiori. Brecthianamente straniare aiuta infatti a “de-automatizzare” la nostra percezione, inducendo nel fruitore della percezione un’impressione insolitamente viva di un determinato contenuto.
L’occasione di quest’affascinante opera originale di teatro musicale viene da un fatto di cronaca di alcuni anni fa, passato in sordina dai media dell’informazione. Negli ultimi anni ’90 del Novecento, in una stagione di lotte e sabotaggi contro la costruzione della TAV Torino-Lione, furono arrestati due giovani attivisti: Soledad Rosas (qui Sole), ragazza argentina, e il suo compagno Edoardo Massari (qui Baleno, il suo soprannome) anarchico italiano. Imputati di associazione sovversiva e soggetti a reclusione preventiva, si suicidarono a breve distanza l’uno dall’altro. Dopo 4 anni, però, la Corte di Cassazione lasciò cadere per mancanza di prove l’accusa di sovversione e terrorismo.
Il lavoro drammaturgico di Pietro Babina parte da questo fatto di cronaca e va molto oltre. Attraverso la sua capacità di lettura e di interpretazione della realtà, Babina infatti indaga e fa emergere quelle che sono le grandi potenzialità insite nella realtà, provocando un’interessante interrogazione su che cosa sia umano e cosa vada oltre.
Un indagare il suo che è l’attitudine a non dare per consolidato né per esaurito nessun livello dell’agire umano e artistico, per poter restare curiosi verso sempre nuove letture. Così dall’osservazione dei mutamenti sociali, tecnologici, estetici nasce quel tipo di comprensione che porta Babina all’individuazione di potenzialità applicabili anche agli ambiti dell’arte.
Ad esempio il concetto di “occupazione”: un concetto che contiene una potenzialità preziosa che è quella del “non rimanere indifferenti”. E quindi quella di non limitarsi al lamento solipsistico, solo perché unica forma di pensiero (addomesticato) conciliabile con quell’omologarsi alla massa, così rassicurante ma così anonimo.
Un germe fecondo, quello della potenzialità insita nel concetto di occupazione, del quale Babina si è lasciato più volte fertilmente contagiare in gioventù: quando rimase affascinato da una fabbrica di scatolame abbandonata e occupata, nella quale riuscì a dare vita – concordando uno spazio con gli occupanti – a quella che fu la prima idea del suo “Teatrino clandestino”. E ancora quando, durante gli anni dell’Accademia, frequentò un laboratorio di Leo de Berardinis nel primissimo luogo occupato di Bologna.
E proprio durante gli ultimi anni dell’esperienza del “Teatrino clandestino” nasce “Candide”: una performance sui generis dove prende forma una evoluzione concertata tra scena, musica e personaggio. E dove al giovane Babina si affianca già il musicista Alberto Fiori. Una performance dove qualcosa del personaggio “Candide” sembra ora passare nella Sole di Serena Abrami: quel suo splendido “perdersi nel mondo” e quella certa necessita di “coltivare il proprio giardino”, così necessari anche oggi.
Obiettivo dell’indagine di Babina è infatti far sì che il Teatro e la Musica trovino il modo per essere efficaci – e quindi magnetici – nel ridare vitalità a posture ossidate della società, in concorrenza con la tensione manipolatrice dei mass media.
Ed effettivamente in questa opera originale di teatro musicale che è “Sole &Baleno” Pietro Babina cerca e trova in noi percorsi sotterranei e giacimenti emozionali preziosi per il nostro risveglio esistenziale.
Carlo Emilio Lerici sceglie di immergere il testo di Colm Tóibín in un ambiente abitato da sonorità oniriche: il luogo di un altro linguaggio, di un linguaggio di là dei principi della logica, che dà la parola al silenzio delle ombre.
E’ il luogo di Ismene: la figlia nell’ombra, che sta dietro la fulgente Antigone, la figlia nell’angolo e che percepisci solo con l’angolo dell’occhio: per la quale non ti volti. Perché lei è la figlia “opaca”; dall’altro canto c’è Antigone: la figlia che brilla, che brucia, che accieca.
Colm Tóibín – che nel 2018 si appresta a riscrivere la tragedia sofoclea sulla scorta di recenti casi di cronaca legati a «questioni di genere, di abuso di potere, di silenzio e comunicazione», temi a lui cari e trasversali alla sua produzione – sente una speciale attrazione per le figure del mito oscuramente chiare, a cui si è trovata una casella e un’etichetta nelle quali confinarle per metterle poi a tacere in un canto, in un angolo. Ma lui da queste figure si sente come chiamato: ascolta il loro grido di richiesta d’attenzione e le fa rivivere togliendole dagli impropri confini in cui sono state asfissiate. Riattivando così la luminosità delle loro ombre, perché sono ombre che plasmano – o possono plasmare – ogni essere umano. E che quindi è utile conoscere: per conoscerci meglio e per riuscire a farne un buon uso. Un uso creativo.
Carlo Emilio Lerici, regista solleticato dalle scelte difficili e dalle sfide drammaturgiche che richiedono un‘inclinazione a misurarsi con orizzonti culturalmente ambiziosi, sceglie il testo di Tóibín, lo adatta e lo mette in scena calibrandolo al suo sentire.
E fa di Ismene prima ancora che un personaggio, l’espressione di un luogo della nostra psiche. Un luogo dove sopravvivono resti, rovine, traumi che, sapientemente illuminati dal basso e resi più prossimi, parlano di noi più di mille parole. Perché il silenzio di ciò che è andato dimenticato, sotterrato, rimosso, parla. Ci parla.
Lerici fin da subito evidenzia come proprio attraverso quel luogo in cui è immersa Ismene – un sottosuolo da cui sta riemergendo come sul confine tra il sogno e la veglia – le arrivino quegli indizi, quei resti mnemonici andati persi e attraverso i quali lei – solo dopo aver attentamente osservato in silenzio – riuscirà a condurre un efficace mutamento.
Perché è proprio di chi si sa mantenere sul confine – ovvero sul margine inteso come luogo d’incontro e non solo di separazione con l’altro – riuscire a cogliere la preziosità della vita.
L’Ismene di Lerici diventa “la sorella minore” anche perché minore ha tra i suoi significati quello di “marginale” appunto, al quale noi siamo tentati però di dare esclusivamente il significato di trascurabile, di irrilevante, di inferiore. E’ nella nostra natura cadere in questo terreno paludoso, perché il primo istinto che ci viene dato a corredo al momento in cui veniamo gettati nella vita è l’istinto alla sopraffazione. Per poter sopravvivere. Poi, per vivere, si impara ad amare e quindi ad entrare in relazione. Resta sempre però la tentazione a non mantenersi in dialogo con l’altro sul margine che ci separa, quanto piuttosto a scavalcarlo.
Antigone è in questa visione colei che ha scelto di allontanarsi da quel luogo fisico e psichico che è la camera dove le sorelle dormivano, scegliendo di andare ad abitare un’area mortifera della psiche: quella della grotta. Quella di un eccesso di giustizia insensibile a mediazioni, al dialogo, alla relazione.
Ismene non è solo preoccupata, lei “sente” l’avvicinarsi del pericolo in cui sta per affidarsi la sorella. Lei, Ismene – come è mirabilmente evidenziato dall’interpretazione di Francesca Bianco – è una donna che acutamente trova risposte – più che nelle parole – nella prossemica, nella postura, nelle espressioni non verbali del viso dell’altro. Nei silenzi. E proprio perché interessata a “fare amicizia con il proprio peggio” – per citare il titolo di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio – proprio perché ascolta le sue ombre, riesce a leggere e a decifrare quelle dell’altro.
Quelle ombre così incantevolmente rese in tutte le loro variazioni dal canto di Eleonora Tosto: un canto opportunamente enigmatico eppure pungentemente chiaro, risuonante, perturbante. Così come il contrappunto della chitarra elettrica di Matteo Bottini.
Carlo Emilio Lerici ha trovato una modalità raffinata e umbratile per mandare in scena il teatro del nostro inconscio mettendolo in dialogo con il teatro della luce diurna del conscio. Una luce apparente, ma che è così facile far diventare certa, netta, tagliente e quindi mortifera per gli altri e per se stessi. Perché non è possibile fare del bene senza calarsi ogni volta nella situazione specifica, senza incontrarsi con l’altro sul margine che vorrebbe dividerci.
Per riuscire a dire “io non ho paura di te”: come fa Ismene, anche su consiglio dello stella spettrale di Antigone, che come le stelle morte del cielo continua a essere luminosa anche se ormai morta. Luminosa di una luce diversa ora, meno eccessiva, meno accecante perché intrecciata e in dialogo alla luce delle ombre di sua sorella Ismene.
Una dichiarazione “io non ho paura di te” che impropriamente siamo tentati di cogliere come un atto di sfida (come fa Creonte) ma che invece può diventare la base di un possibile dialogo. Possibile appunto solo a patto che si deponga a terra, sul confine, l’arma della paura.
Un testo necessario, tradotto da Lerici in una messa in scena che riesce a farci tornare a casa con delle domande, necessarie per “fare amicizia” con nuove prospettive.
Fabio Stassi ha una voce che sorride, una narrazione sognante e una tenerezza di quelle che lasciano il segno. E che non dimentichi.
Pensare che la tenerezza sia una vulnerabilità è improprio perché la tenerezza è un sentimento che – potente senza essere prepotente – ci spinge oltre la superficie di noi stessi e degli altri. La tenerezza scende dentro e scopre. Ma non giudica. Non spreca troppa energia per il rancore, né per il narcisismo. Il suo è uno scuotere che ci fa resistere con calviniana leggerezza. Un’inclinazione da coltivare e di cui non aver paura, come ci sollecita a fare anche Papa Francesco.
Forse è anche per questo che la casa editrice Sellerio chiede proprio a Fabio Stassi – scrittore, bibliotecario e paroliere italiano di etnia arbëresh – di immaginare e proporre poi al pubblico una conferenza sul potere terapeutico di Dante.
Non sarebbe stata la stessa cosa fatta da qualcun altro. Ma lui, non appena ricevuto questo invito, è colto dal panico – così ci confida. La tenerezza però lo libera, prima ancora che la fantasmagorica cultura di cui si nutre e che condivide con generosità.
E allora accetta. E desidera – proprio come Dante – un compagno di viaggio: un suo Virgilio. Lo trova in Franco Piana: trombettista, flicornista, compositore e arrangiatore, uno dei più importanti jazzisti italiani. Un uomo che sa fare un buon uso della malinconia: che ne è grato. Uno che apre il canto e che sa attendere, ascoltare, senza mai scegliere soluzioni ma piuttosto proporne il ventaglio dei possibili colori. Un po’ come in un setting psicoanalitico, nel quale anche noi del pubblico ci riflettiamo come in uno specchio.
Franco Piana e Fabio Stassi
Perché se è vero – come è vero – che la parola è una magia, il tramite è dato dal respiro, dal ritmo e quindi dalla musica. Ecco perché la scelta di Fabio Stassi cade su un fiato, un ottone dal timbro caldo e pastoso con un buon virtuosismo tecnico – il flicorno – che musica il respiro della parola. Quella in movimento, quella di chi sta facendo un percorso, anche interiore.
Una parola che in quanto magia è terapeutica attraverso la ritualità delle ripetizioni, l’incastro degli endecasillabi e perfino attraverso le metafore delle avventure di Sigfrido, così amate dallo Stassi bambino.
Perché la parola, la letteratura, la scrittura ci liberano proprio per la loro capacità di metterci in contatto con la nostra fragilità. Che va guardata senza vergogna ma anzi con tenerezza. Così da poterla valorizzare in maniera creativa.
E’ quello che accade anche a Dante che – grazie allo scrivere – “ripristina o modifica le sue funzioni fisiologiche compromesse”. Un farmaco per lui che, fin dai primi anni di vita, è stato messo così a dura prova con i legami e più in generale con il senso d’appartenenza.
Franco Piana e Fabio Stassi
Dante – ci racconta con fascino onirico Stassi – tende a perdersi, a smarrirsi: ad appanicarsi diremmo oggi. E non riuscendo a trovare sul momento un orientamento, è solito fuggire nel sonno: si addormenta di colpo.
Ma non se ne vergogna, anzi lo racconta a tutti nei suoi libri: racconta e analizza fin nei minimi dettagli – con una cura scientifica oltre che poetica – quello che gli succede. “Fraile” si definisce: una parola che acusticamente rimanda a una vulnerabilità ancora maggiore della parola “Fragile”.
Una “frailità”, la sua, che col doveroso affetto della pietà e della tenerezza Dante riesce a tradurre creativamente in scrittura musicale di smisurata bellezza.
Perché grandi cose possono prendere vita dalla nostra vulnerabilità, dalla nostra intelligenza inconscia che si cela dietro a delle apparenti “impresentabilità”: quelle che siamo tentati di nascondere, vergognandocene, perché inefficaci. Tentati di affidarci a chi – in cambio della nostra intelligenza più creativa – demagogicamente ci promette la sicurezza del far parte di una massa tutta uguale e quindi informe in cui saremo accettati. Prigionieri di quell’omologazione che mette a tacere il fulgore della bellezza delle diversità, necessariamente vulnerabili.
Sala Ottagonale della Domus Aurea
Per una buona salute poetica e politica è necessario quindi allenare la nostra inclinazione alla tenerezza, al doveroso affetto che la pietà riconosce alla ricca fragilità di noi umani.
“Non c’è cura dell’anima e del corpo, se non accompagnata dalla tenerezza che, oggi ancora più che nel passato, è necessaria a farci incontrare gli uni con gli altri, nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà” – ci ricorda Eugenio Borgna nel suo “Tenerezza“ (Einaudi 2022).
E anche Massimo Recalcati in ”Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore 2024) ci ricorda – già dalla prima prefazione al libro – che non salvaguardare l’esistenza della nostra intelligenza creativa inconscia “significa mettere in giocoun’intera concezione dell’uomo che si sostiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particolare e incommensurabile del desiderio soggettivo”.
E così, con la complicità di Fabio Stassi e di Franco Piana, ha trovato espressione ieri sera il canto della Musa Euterpe “ …che dona a coloro che l’ascoltano cantare letizia…” (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica IV, 7.3). Un canto che è una carezza che, insieme, ci libera e ci unisce. Lì, negli insoliti vani del complesso della Sala Ottagonale, straordinaria macchina scenica creata dagli architetti Severo e Celere per rispondere al progetto visionario di Nerone.
Uno spettacolo – questo di Fabio Stassi e di Franco Piana – prezioso, necessario, terapeutico.
Sono “care” e quindi preziose le “tante cose”, ovvero i tanti incontri, che Massimo De Lorenzo – noto attore di cinema e di teatro – desidera rievocare in questo delizioso libro sorprendentemente profondo, pubblicato da Bibliotheka Edizioni.
Incontri che l’autore ha vissuto lasciandosi arricchire da donne e da uomini che hanno dato una forma sempre più complessa e piú completa alla sua vita. Donne e uomini che lo hanno messo in contatto con parti diverse della sua psiche, facendo sì che potesse giungere a conoscersi meglio.
E infatti, cosa si augura ad una persona a cui si vuol bene ? “ Tante care cose!”: di fare interessanti incontri, quelli cioè che stimolano a crescere, a migliorare. In ogni momento dell’ esistenza.
“Care” sono infatti le “cose” cifra di un mondo in cui ciò che più si ha di caro non è caro, non avendo un costo economico. Perché quando ci si vuol sentir ricchi davvero, conta proprio ciò che si ha e che non può essere comprato.
Massimo De Lorenzo
E’ “la casualità” a caratterizzare gli incontri indimenticabili che Massimo De Lorenzo ha vissuto e qui rievocato. Ma “suo” è stato il desiderio a far diventare “necessità” ciò che si è presentato sotto le vesti della “casualità”: suo – grazie alla disponibilità ad entrare in un’autentica relazione con l’Altro – l’aver saputo intercettare, proprio in quel particolare incontro, la possibilità “irrinunciabile“ per accedere ai suoi desideri più nascosti, più personali, più veri. Ad esempio, quei desideri d’amore che sanno andare al di là dei confini fissati dal vivere civile e religioso. O anche quei desideri di conoscenza “erotici”, perché al di là del nozionismo: desideri di fedeli tradimenti, necessari per “rifare proprio” un insegnamento, un’eredità.
Desideri, più in generale, quali “ponti” capaci di mettere in comunicazione due linguaggi differenti: quello fondato sui principi della logica (identità-non contraddizione e causa-effetto) e quello libero da questi principi e vicino al linguaggio inconscio dei sogni. Linguaggi che narrativamente danno vita ad una duplice prospettiva: una dall’alto e l’altra che scende nelle profondità, proprio laddove sono restati incastrati alcuni desideri più personali. Con il risultato che, tornando in superficie, si scopre di conoscere meglio se stessi. Per aver “lasciato le vesti” precedenti: quelle che portano a dire – come alibi al non mettersi in gioco – “…nessuno ti vuole bene come la tua famiglia, la Calabria è sempre la Calabria e nessun posto ci rende felice come starcene a casa propria, che noi abbiamo il cibo più buono, il mare più bello e poi la famiglia…”.
E così quella che apparentemente si presenta come una gradevolissima raccolta di mail reali o immaginarie – una collana di perle di saggezza comica e poetica – in verità ha l’essenza di un’esplorazione “in soggettiva”, dove ogni mail narrativamente “è montata a schiaffo” all’interno di una narrazione quasi cinematografica.
Sono mail che non nascono per avere una risposta: Massimo De Lorenzo non scrive a loro (ai suoi destinatari) ma a tutti, di loro. Perché se é vero che é a loro che l’autore si è raccontato e sono loro che hanno saputo ascoltarlo con autentico interesse ( “ci aprivamo la testa con chiacchierate meravigliose”), le sue mail sono piuttosto degli atti di gratitudine alla Vita per avergli permesso di assaporare com’è “ bellissimo perdersi in questo incantesimo”: quello che riesce a distorcere immobili certezze.
Efficacissima anche la scelta di copertina: un raffinato e spiritoso disegno di Livia Alessandrini che raffigura un Massimo De Lorenzo schiacciato da una prospettiva che lo riprende dall’alto. L’immagine s’intitola “Figurante” e può alludere al fatto che assecondare chi ci guarda dall’alto ci schiaccia a vivere da “figuranti” . Solo osando – e quindi essendo curiosi di scendere dentro di noi portando alla luce i nostri desideri più autentici – ci fa evolvere da “figurante” non solo a “personaggio” ma anche a “persona”.
Perché “niente di grande è stato fatto senza passione” – ricorda hegelianamente l’autore. E perché “chi cerca, prima o poi trova, dappertutto “. Se stesso.
Un libro, questo di Massimo De Lorenzo, che ci legge. E che si fa leggere come un prezioso invito a non perdere mai la curiosità a conoscere noi stessi. Ricordandoci di essere sempre grati nei confronti di quegli incontri che ci hanno saputo plasmare contribuendo a valorizzarci o spingendoci a fare conoscenza – e, nel migliore dei casi, “amicizia – con il nostro peggio”, come direbbe Massimo Recalcati.
In questo libro di accattivante bellezza Massimo Recalcati, noto psicoanalista e saggista, dimostra quanto sia vantaggioso non mettere a tacere il nostro inconscio.
Pur essendo un “elogio”, al tono della solennità Recalcati preferisce quello di una narrazione dalla sapiente pragmaticità, per invitarci a non lasciare andare – ma anzi a difendere – i nostri desideri inconsci: quelli in attesa di essere guardati con nuovi occhi.
E, attraverso il racconto di quell’esigenza vocazionale – tesa ad individuare lo stato di salute dei ciliegi nel loro rinnovato bianco rifiorire, piuttosto che nella realizzazione di una rossa maturazione – ci arriva tutto l’inebriante profumo del libero uso del linguaggio dell’inconscio.
Capace di rassicurare stimolando, Massimo Recalcati desidera fin da subito trasmetterci la sensazione che i nostri desideri, le nostre inclinazioni, non meritano di essere snaturati – e quindi traditi – per essere piegati a diventare qualcosa che risulti conforme alle richieste della società. Che ci vuole efficienti e prestanti come macchine, piuttosto che creativi come persone.
Richieste sociali dalle quali ci lasciamo tentare per essere accettati, piuttosto che allontanati ai bordi della società come diversi. Solo perché interessati a conoscere meglio noi stessi – e quindi le nostre potenzialità – fino a “diventare ciò che siamo” : quel qualcosa di speciale e unico che si manifesta attraverso continue rifioriture. Ed è proprio qui la nostra dignità, la nostra salute e la nostra felicità.
Accettare di desiderare ciò che invece è la società ad obbligarci subdolamente a desiderare, all’insegna di una piatta etica del sempre nuovo – vale a dire desiderare possedere oggetti e affetti sempre “più nuovi” al fine di ritrovarci tutti anonimamente in una innocua felicità omogenea – comporta che i nostri autentici desideri inconsci abdichino alla loro originalità, per farsi numeri spenti di una massa informe, dove ciascuno replica lo stesso desiderio dell’altro. Senza utilità per nessuno, se non per chi ci vuole mansueti, addomesticati e quindi non pericolosi perché non pensanti.
E non vale la pena aspettare di essere morti – come ci suggerisce la lettura dell’ Antologia di Spoon River – per immaginare di poter esprimere tutta la verità su noi stessi.
Anche la scelta iconografica per la copertina del libro di Recalcati – l’opera di Claudio Parmiggiani“Senza titolo”, 1995 – contribuisce fascinosamente nell’emanare tutta la bellezza esplosiva del potere creativo, chiuso nella nostra razionalità inconscia. La luce stessa di quel pigmento di giallo di cadmio puro, per sua essenza, ha una carica simbolica di prorompente vigore, come già gli artisti di fine Ottocento ben sapevano.
Claudio Parmiggiani, “Senza Titolo”, 1995 – Vetro, pigmento di giallo di cadmio puro, tavola 100×140
In questo saggio Massimo Recalcati sceglie di tessere l’elogio dell’inconscio freudiano passando attraverso il “dar voce” a tutte le critiche avanzate dai suoi detrattori contemporanei più agguerriti – soprattutto i terapeuti cognitivo-comportamentali e una parte della cultura filosofica, in particolare Jean-Paul Sartre, Herbert Marcuse e Gilles Deleuze – per poi arrivare a confutarle, dimostrandone l’inefficacia.
Così facendo, Recalcati ci fornisce un’audace testimonianza del rispetto del principio freudiano secondo il quale chi la pensa diversamente ha comunque diritto di essere accolto e ascoltato con attenzione.
Perché pensare diversamente non significa essere inefficienti; ma soprattutto perché l’ossessione all’efficientismo spegne in noi ogni originalità, predisponendoci verso la prepotenza tipica degli intolleranti.
Con questa postura Massimo Recalcati manifesta anche la sua vocazione antropologica di psicoanalista, consapevole che l’interiorità di un individuo non è mai da considerarsi a sé rispetto all’esterno in cui è immersa.
Recalcati, quindi, resiste e ci invita a resistere “a pugni chiusi” contro la tendenza che vuole estinguere l’intrepidità del nostro inconscio, lui che solo sa aprirsi all’eventualità dell’inatteso.
Perché non salvaguardare l’esistenza dell’inconscio e quindi smarrire il nostro rapporto singolare con il desiderio significa mettere in gioco “un’intera concezione dell’uomo che si sostiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particolare e incommensurabile del desiderio soggettivo” – scrive Recalcati nell’ Introduzione alla prima edizione di questo libro.
Perché chi non è disposto ad ascoltare una voce diversa rispetto a quella del proprio “io”, è destinato a perdere il contatto con la propria linfa vitale, che ci consente di dare forma al nostro desiderio.
Ecco perché è fondamentale riallacciare un rapporto di confidenza e di amicizia anche con la razionalità di quella parte di noi stessi che ci sembra meno “presentabile” .
Preziosissima, anche, per bilanciare quelle pretese narcisistiche che derivano da un’eccessiva consapevolezza della propria identità. O per non rimanerne succubi, visto che chi sceglie di disconoscere la presenza di un inconscio, attribuisce paranoicamente all’altro le proprie responsabilità. Ma così facendo non potrà mai aprirsi né al dono della gratitudine né a quello del perdono. Doni che implicano la conquista della consapevolezza che la nostra parte “oscura” non è poi così diversa da quella che vediamo nell’altro.
A sua volta la razionalità del desiderio chiede, nonostante il suo impeto – anzi proprio per l’irruenza del suo impeto – di trovare un limite, un ostacolo, nelle leggi del vivere civile, così da poter offrire il meglio di sé: essere creativa, senza correre il rischio di essere impositiva.
Per questo, per un vivere davvero costruttivo, è indispensabile che entrambi i tipi di razionalità (quella del controllo e quella della libertà creativa dell’inconscio) siano in fertile conflitto.
Annullare la presenza di una delle due razionalità diventerebbe davvero limitante.
Fino a diventare distruttivo.
E’ questo di Massimo Recalcati un libro che attrae magneticamente e che, pur nella complessità dei temi trattati, stimola una seducente e trepidante simpatia in chi legge.
In una notte racchiusa dalle pareti affrescate di un chiostro del XVIII secolo ma libera di brillare sotto un cielo tempestato di stelle, i rintocchi dell’orologio della Torre dei Priori hanno segnato l’amen: il tempo della fine dell’attesa e quindi l’ora dell’inizio dello spettacolo.
Un raggio di luce accompagna allora l’entrata in scena degli artisti del suono: co-protagonisti insieme agli interpreti dello spettacolo immaginato dallo slancio creativo di Valter Malosti, regista del testo teatrale scritto da Massimo Recalcati.
Valter Malosti
Malosti sceglie, in fertile accordo con l’essenza del testo, di “concertare” le voci di Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli – alle quali affida l’interpretazione di una selezione di brani della drammaturgia – ai suoni dello sperimentalismo in continua evoluzione del sound designer e musicista Gup Alcaro e alla chitarra laconica e brumosa, gravida di suggestioni, di Paolo Spaccamonti.
“Concertare” significa preparare per un’azione comune ed è qualcosa di diverso da una fusione; è piuttosto una cooperazione che riconosce le diverse peculiarità messe in campo. E quella del “concertare” è la cifra stilistica scelta da Valter Malosti per restituire registicamente il fecondo contrasto che agita il testo di Recalcati.
Massimo Recalcati
Le parole scelte dal celebre psicoanalista e saggista sono parole che sanno di esprimere il loro potere creativo: prendono vita da un eccesso di dolore che, lungi dalla tentazione alla rassegnazione, si trasforma in un desiderio disperato di lotta e di resistenza.
Sono parole che sanno di essere anche suoni dal potere fonosimbolico. E quello che prorompe dalla drammaturgia come un grido è un eccesso anche acustico, che ci viene restituito attraverso la sapienza di chi conosce intimamente quell’asprezza del suono vibrantemente acuto e quel carattere di esplosione polmonare, proprio dell’atto di alzare la voce in un grido.
Un grido che, al di là di una singolare esperienza personale, desidera richiamare l’attenzione della comunità, anch’essa coinvolta in questa disperata ed eccitante esperienza dello stare al mondo.
Ecco allora che all’ “uomo” Massimo Recalcati si affianca lo “psicoanalista-antropologo” per restituire il valore di quella che è la radice etimologica di ogni nostro “gridare”: quel chiamare aiuto inteso dai nostri progenitori come l’atto di chiamare a condivisione tutti i concittadini. Quel “quiritare”, da cui deriva il nostro “gridare”, significava infatti chiamare a raccolta i concittadini di allora: i Quiriti, appunto. Una parola dall’impatto unico: quello del suo originarsi dalla consapevolezza che avevano gli abitanti di una piccola cittadina dell’Italia centrale – nata su una sponda del Tevere ventotto secoli fa – che quando si gridava aiuto, si stringeva come cittadinanza.
Un grido che qui si origina dal ricordo di un’incubatrice: Recalcati, infatti, nato prematuro in tempi in cui non esisteva ancora la neonatologia, racconta di aver ricevuto insieme battesimo ed estrema unzione. Lui stesso, incarnazione del possibile coabitare di vita e morte. Un ricordo che si fa materia emozionale attraverso la sublime messa in scena acustica del regista-artista Valter Malosti.
Un’incubatrice che ci parla di quel mortificante isolamento protettivo, durante il quale si è privati del contatto uterino con la propria mamma. Ma a qualche livello “l’imprinting” del suo battito cardiaco continua a insistere nel battito di suo figlio. Di concerto alla sua voce che, anche in quest’utero di vetro, riesce ad insinuarsi e a nutrirlo.
Paolo Spaccamonti, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli, Gup Alcaro
Torbida e pulsante come linfa vitale ci scorre dentro la voce di Federica Fracassi, scelta per interpretare la Madre, primo esempio della relazione e quindi della “concertazione” tra vita e morte. E nonostante il lutto che già veste, ma che non la abita e da cui eccedono guizzi di vibrante rosso sangue, “nuda” e distante ci si dà iconograficamente come una Venere botticelliana pervasa da “furor maliconicus”: quello de “La nascita di Venere”, allegoria neoplatonica incentrata sul concetto di amore come energia vivificatrice.
Una relazione, quella della vita “con” (e non “contro”) la morte, indispensabile ma che rischiamo continuamente di smarrire. Lo abbiamo sperimentato macroscopicamente durante i lunghi mesi di pandemia, dove a salvarci era il momentaneo allontanamento dalle relazioni. Anche noi, in qualche modo, chiusi terapeuticamente in un’incubatrice di vetro: quella delle pareti della nostra casa, che si estendevano attraverso i vetri dell’incubatrice-computer.
Marco Foschi, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli
Ed è intorno al fertile “concertare” di vita e di morte, reso acusticamente dall’elettricità melmosa e metallica dei suoni e delle voci, che Valter Malosti costruisce l’epifania della vita. Che ritorna: ancora e ancora. Anche nei momenti più mortiferi: basta non smettere di accordare il nostro orecchio ai richiami acustici del nostro essere battuti dal battito cardiaco “concertato” al ritmo del nostro passo, espressione invece della nostra volontà disperata, a insistere a continuare a vivere.
Perché sebbene ci sia sempre qualcosa di irrisolto che resta e che tende a riproporsi, noi abbiamo facoltà di accordare la nostra luce al buio di questa irresolutezza. Attraverso un nostro “come”, simboleggiato dalla parola “Amen”: un suggello d’apertura alla vita, che si fonda sulla chiusura della morte. Come avviene nell’atto della nascita, nell’atto dell’amore, nell’atto della morte: “concerti” di vita e di morte.
Ecco allora che questo testo teatrale, che nasce come un “grido”, si apre in un meraviglioso elogio del potere della “relazione”: il solo davvero efficace nel rievocare la vita anche nei momenti di morte.
Federica Fracassi, Paolo Spaccamonti, Danilo Nigrelli, Marco Foschi
Della madre è l’insegnamento a desiderare la vita nonostante tutto, a cantarne un inno attraverso la trasmissione di quel battito del cuore che non smette di insistere. E che, quasi come un ancestrale imprinting, il figlio Recalcati ritroverà nel ritmo del passo del padre-soldato : qui un solennemente sfibrato Danilo Nigrelli, che sa rendere con efficacia l’eroe dal fascino rigorosamente decadente, incontrato dall’adolescente Recalcati tra le righe de “Il sorgente nella neve” di Mario Rigoni Stern . Ma quel battito del cuore è rintracciabile anche nell’imprinting di cui si nutriranno i battiti-carne con la sua amata donna.
Paolo Spaccamonti e Gup Alcaro
Quei battiti resi succulenti dalla voce e dalla rievocazione del sopravvissuto e ancora affamato di vita Marco Foschi, interprete di Enne 2, il partigiano di “Uomini e no” di Elio Vittorini, altro eroe incontrato nelle prime letture del giovane Recalcati. Il suo impaziente desiderio di vita trova massima espressione nella relazione palpitante con la sua donna, di cui Marco Foschi rende tutta la gustosa e drammaticamente impetuosa forza vitale, che lubrifica i sensi.
Uno spettacolo esperienziale – questo di Valter Malosti ispirato al testo di Massimo Recalcati – denso di quella sacralità che invita lo spettatore a parteciparne, aprendosi in un ascolto libero dai rigidi principi della logica. Un ascolto indifeso che, solo, riesce a rendere onore al potere della parola, che qui si fa carne. E di cui riusciamo a sentirne la lacerazione innamorata. Fino a toccarla. Contagiandoci di vita pulsante.
Andrée Ruth Shammah
Fertilmente visionaria, com’è nella sua cifra artistica, Andrèe Ruth Shammah: la direttrice artistica del Teatro Franco Parenti che ha scelto di produrre questo spettacolo, la quale non appena ricevuto in lettura il testo di Recalcati ne ha colto le potenti vibrazioni dionisiache, confluenti in un punto di fuga che ha dell’apollineo. Le vibrazioni necessarie per riaprirsi alla vita, e quindi al teatro, dopo l’oscurità dei mesi vissuti durante la pandemia. E non solo.
Andrée Ruth Shammah ci invita a salire a bordo della sua nave – la nuova sala A2A – e un po’ come il Prospero shakespeariano fa scoppiare una tempesta.
Che non colpisce solo gli interpreti in scena. No, coinvolge anche noi del pubblico. Perché siamo tutti nella stessa barca: qui si parla della vita e di come possa essere desiderabile anche la morte.
E’ naturale – come ama ricordare Roy Chen autore di questo appassionante e commovente testo – che la vita sia abitata da conflitti, da tempeste. Ma tutti noi sappiamo che possiamo contare sul “dialogo”: quel movimento che fa sì che due (o più) persone si lascino attraversare dal potere della parola.
Roy Chen
Quel movimento che fa “incontrare” due (o più) singolarità che scoprono di preferire alle proprie ragioni rigidamente individuali quelle che nascono dall’incontro con le ragioni dell’altro. Perché il dialogo è il linguaggio della “relazione” e renderla possibile è lo scopo della nostra esistenza, qui in questo mondo. Perché solo attraverso la relazione ci riveliamo “creatori” e quindi artisti del vivere quotidiano.
Misurare il nostro spazio vitale, definirlo rigidamente, ci regala l’illusione di sentirci sicuri e quindi forti. Ma in realtà ci rende “poveri”, sterili, proprio perché “separare” non genera vita, non fa nascere alla realtà cose nuove.
Sala A2A
Di questo ci parla la postura con la quale ci accoglie questa sala: la A2A il cui nome è un omaggio allo sponsor che ha permesso l’ultima trance dei lavori.
Una postura che ci commuove: regala una scossa ai nostri individualismi e li fa crollare. Questa sala è così bella – una vera “figata” – perché così può essere la vita, se ci ricordiamo che siamo tutti sulla stessa barca e che “insieme” si ottiene molto di più che custodendo “da soli”, sterilmente, i nostri confini esistenziali.
Non si poteva trovare modalità migliore, forse, per ricordarci “chi siamo”. E che per scoprirlo abbiamo bisogno di stare “insieme” agli altri, così diversi da noi e proprio per questo così preziosi per noi.
Perché “la libertà non si definisce, si testimonia”, sosteneva Vitaliano Trevisan.
Vitaliano Trevisan
Qui siamo nel libro di Roy Chen.
Qui siamo nel libro della vita.
Questa è la prossemica che possiamo tenere per essere “ricchi”, per essere “forti”: la prossemica del mescolarci, dell’incuriosirci compassionevolmente dell’altro. La cui diversità ci parla anche di noi e ci permette di amarci. E di avvicinarci al miracolo del “perdono”: ciò che resta di una “tempesta”, non solo shakespeariana. Ciò che resta di un conflitto.
La diversità è tra noi: non a caso il reparto di igiene mentale nello sguardo registico ed esistenziale della Shammah non resta confinato sul palco ma ci raggiunge in platea. E ci contamina fertilmente. L’allestimento scenico é curato da Polina Adamov.
La sala A2A
La diversità è in noi: ciò che notiamo nell’altro, in qualche forma, è anche in noi. E’ quello che consideriamo il nostro peggio e con il quale ci guardiamo bene di venire in contatto, mantenendo accuratamente le distanze, rinforzando i confini. Indossando maschere.
Invece è lì, in quella stranezza, in quel “difetto” provocato in noi da “una ferita” che ci ha segnati, che si nasconde qualcosa capace di generare cose meravigliose di noi.
Sa parlarne con sapiente fascino la nuova edizione di “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” di Massimo Recalcati (Castelvecchi).
Più forte però è la tentazione a vergognarci dei nostri “difetti”: allora rinforziamo i nostri confini per delimitare la stranezza, per non farla uscire da lì. Addirittura riusciamo a dimenticarla. Convincendoci – e impegnando tutte le nostre energie a convincere anche gli altri – del contrario.
Ecco allora l’importanza di allenare invece quell’ abilità – che tutti noi possediamo – del chiederci e del chiedere “Chi come me”.
Abilità al cui “sboccio” partecipiamo attraverso questa stupefacente rappresentazione teatrale. Che in verità è la semplice ed autentica riproposizione di qualcosa che è realmente accaduto all’autore del testo Roy Chen nel 2019: quando fu invitato a partecipare ad una lezione di teatro nel reparto giovanile di un centro di salute mentale di Tel Aviv.
In scena – anzi tra noi – 5 splendidi adolescenti “diversi” con la freschezza e la grazia del loro essere ragazzi e con la pesantezza di essere diventati precocemente adulti. Sono interpretati da intensissimi attori esordienti (dai 14 ai 21 anni): Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani.
Sono ragazzi che hanno la fortuna di essere guardati con meravigliosa attenzione dallo psichiatra direttore del reparto ( un appassionato Paolo Briguglia) che ogni mattina prima di svegliarli si prende un attimo: “ode” i loro respiri quando dormono e li trova la più ammaliante delle sinfonie.
Paolo Briguglia e Federico De Giacomo
Desidera essere inserito – e quindi incluso, accettato – nei loro respiri: non tanto nelle loro menti. Perché il respiro è qualcosa di più profondo: regge la vita alla base. E più in alto, regge anche architetture senza le quali stenteremmo a pensare.
E parla di loro all’insegnante di teatro, la signorina Dorit (una commovente Elena Lietti), con l’incanto di “chi sa che sono come noi”. Ma con un contrappunto di Seriquel, Helydol, Prisma e Ritalin.
Sarà l’azione sinergica della cura dello sguardo e dell’ascolto poetico dello psichiatra mescolati all’erotica della didattica teatrale della signorina Dorit a produrre rigogliosi frutti nei 5 ragazzi, nonostante le non sempre favorevoli “condizioni atmosferiche”.
Elena Lietti
Perché efficaci nel lasciare il proprio segno sono quegli insegnanti che con il loro stile hanno la “capacità di immedesimarsi” rendendo possibile l’esistenza immaginifica di nuovi mondi. Riattivando così quel desiderio capace di accendere la vita e di allargarne l’orizzonte. Solo in questo modo ad ogni diversità sarà restituita la propria singolare bellezza.
Perché se è vero, come è vero, che l’empatia è importante, lo è ancor di più che non diventi un pretesto per imporre il proprio sguardo. Errore nel quale possiamo avere la tentazione di cadere noi genitori. Che infatti non possiamo non trovare qualcosa di nostro nella varietà degli atteggiamenti dei genitori di questi ragazzi, tutti interpretati con viva maestria da Sara Bertelà e Pietro Micci. Perché i legami che durano nel tempo sono quelli che si fondano sul riuscire ad amare l’altro proprio in quanto diverso da noi.
Pietro Micci e Sara Bertelá
E intanto, superata la tempesta, qualcosa è successo.
Perché scendendo dalla nave (la nuova sala A2A) si ha una strana voglia: quella di non voler essere poi così normali.
Il teatro contagia, per fortuna. E cura le nostre preziose fragilità.
E finché ci saranno urgenze che prenderanno forma attraverso regie di così profonda testimonianza, avrà ancora “sapore” il nostro stare al mondo.
Grazie Andrée Ruth Shammah: “randagia dello spirito”.
………………………….
CHI COME ME
di Roy Chen
adattamento, regia e costumi di Andrée Ruth Shammah traduzione dall’ebraico Shulim Vogelmann
con in o.a. Sara Bertelà, Paolo Briguglia, Elena Lietti, Pietro Micci e con Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani
allestimento scenico Polina Adamov luci Oscar Frosio musiche di Brahms, Debussy, Vivaldi, Saint-Saëns, Schubert … e Michele Tadini
assistente alla regia Diletta Ferruzzi assistente allo spettacolo Beatrice Cazzaro consulenza vocale Francesca Della Monica direttore dell’allestimento Alberto Accalai direttore di scena Paolo Roda elettricista Domenico Ferrari fonico Marco Introini sarta Marta Merico scene costruite da Riccardo Scanarotti – laboratorio del Teatro Franco Parenti costumi realizzati da Simona Dondoni – sartoria del Teatro Franco Parenti gradinate costruite da Pietro Molinaro – Scena4 Si ringrazia Bianca Ambrosio per averci fatto conoscere Roy Chen
E’ la frase che, forse, meglio racconta questa commedia del Goldoni – così perfettamente equilibrata ed elegante – che ruota intorno alle vicende di Anzoletto (uno Iacopo Nestori dalla multiforme sensibilità) : un uomo “nuovo”, continuamente alla ricerca di conferme al suo operare. Lui così insicuro, così “nuovo” nel gestire un patrimonio, nel dare forma ad una casa “nuova”. Così borghese, sebbene da poco arricchito, eppure così in buona fede.
E si sente come lo sguardo del Goldoni ami dipingerlo con tenerezza. E Gianluca Sbicca (a cui è affidata la cura dei costumi di questo spettacolo) vestirlo di verde : il colore dell’abbondanza. Ma anche del fluire costante di ciò che ci arriva.
Il regista Piero Maccarinelli
Ma “Ti piace?” – come con estro ha saputo cogliere il regista Piero Maccarinelli – è una frase simbolo anche del nostro tempo, così abitato dai social network. Anche noi ci costruiamo una “nuova casa”, una nuova immagine, soprattutto in risposta ai “Mi piace” di chi ci legge, di chi ci guarda, di chi ci invidia.
E non ci accorgiamo, come Anzoletto, di dare forma ad un mondo dove – sebbene crediamo di essere noi l’attrazione – in realtà sono gli altri ad attrarci. Con il loro consenso.
Un magnetismo perverso che l’impianto scenico di Maccarinelli riproduce fascinosamente. Una scena, la sua, dagli echi iconografici hopperiani che riesce a far sentire lo spettatore al tempo stesso dentro e fuori dal racconto.
Un realismo emblema della paradossale solitudine dell’uomo: ieri come oggi. Come l’acuta cameriera Lucietta (una Mersilia Sokoli ricca di quella preziosa forza, di quell’eros, che riesce a tenere uniti elementi diversi e talora contrastanti) ci confessa: prima si poteva “ciancolare”, ora invece sembra di essere state sepolte. Prima lei e la sua signora Meneghina avevano “i morosi”, ora qua “tutte e due senza un ca”. E forse non a caso Gianluca Sbicca la veste dell’austerità del nero, che però la sua forza vitale (metafora di un ceto sociale ancora autenticamente sano) tende a limitare, ad accorciare, a modellare.
Perché “il nuovo” non è automaticamente sinonimo di avanzamento, di apprezzamento, di realizzazione, di felicità, come la mentalità piccolo borghese immaginava e l’attuale ideologia capitalistica da un po’ vorrebbe farci credere.
Perché il nuovo è tale – come direbbe Massimo Recalcati – in quanto “piega dello stesso”. Dietro al “sempre nuovo” è in agguato infatti la stessa insoddisfazione che stagna nel “già conosciuto”. E così facendo, il presente si svuota di senso perché lo si lega ad un futuro destinato a non realizzarsi mai: irraggiungibile, perché fondato sulla natura insaziabile del desiderio. Altrui.
Le insicurezze di Anzoletto, seppure proprie di un uomo appartenente ad un diverso periodo storico, riusciamo a sentircele vicine. Vicinissime. Perché come a lui, anche a noi capita di restare incastrati nel desiderare sempre e solo quello che non abbiamo. Liquidi.
Ecco allora che anche sulla scena, vira alla subdola tonalità del verde-stagno la luce ( il cui disegno è curato da Javier Delle Monache) sulla maxi parete del fondo, la cui “fluidità” spaventa – quasi fosse la tela bianca di un artista – tante le possibilità che potrebbe ospitare. E si arriva così a scoprire che quella parete che “sembrava” avere la solidità di un muro capace di ospitare un maxi-televisore led si rivela in tutta l’impalpabilità di un velo. E mette a nudo la curiosità e il piacere voyeristico di chi abita al piano di sopra, proprio come fossero dietro ad uno schermo digitale.
E scoprono così che Anzoletto si trova costretto, per compiacere la sua neo-moglie che lo ha scelto credendo che fosse ciò che non è, ad un trasloco in un appartamento al di là delle sue possibilità. Non tanto e non solo economiche, quanto piuttosto “identitarie”: anche lui “fluido” nel non aver consapevolezza dei propri desideri. Della propria identità.
Geniale ed effervescente, in equilibrio tra tradizione e tradimento, l’adattamento del testo del Goldoni da parte di Paolo Malaguti – che ne ha curato anche la traduzione – raffinatamente punteggiato dalle musiche composte da Antonio Di Pofi.
Del “quotidiano parlare” della lingua veneziana del Settecento mantiene la succulenza del sentore di una fragranza calda e sinuosa, che ben si lega sinergicamente alle movenze di una scena così contemporanea. E’ una lingua che sa raccontare anche il nostro reale: una lingua materica, così voluttuosa da sconfinare a tratti nel metafisico.
La consapevole interpretazione, così ricca in calviniana leggerezza, propria dei 10 giovani attori e attrici diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico – Lorenzo Ciambrelli, Edoardo De Padova, Alessio Del Mastro, Sofia Ferrari, Irene Giancontieri, Andreea Giuglea, Ilaria Martinelli, Gabriele Pizzurro, Gianluca Scaccia – si coniuga mirabilmente con “la rustega” e fertile sapienza di Stefano Santospago nei panni di un magnifico zio Cristofolo.
Stefano Santospago (zio Cristofolo)
E nonostante gli innumerevoli errori alimentati dalla ricerca di un continuo e asfissiante piacere agli altri (“cosa dirà la gente?”), la morale di Goldoni – attualissima anche oggi – c’insegna che c’è sempre qualcosa di bello che si salva nel passaggio dal vecchio al nuovo. E – come direbbe l’Alessandro Baricco de “I barbari” – questo qualcosa non è tanto ciò che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma “ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse sé stesso, in un tempo nuovo”.
Lo spettacolo, da non perdere, è in scena al Teatro India fino al 24 Marzo p.v.