TEATRO VASCELLO, dal 3 al 14 Gennaio 2024 –

“Dio è morto”: l’idea di Dio non è più fonte di alcun codice morale o teleologico. Così, rotto il principale cardine della cristianità, scomparso l’ordine divino che sorreggeva la società cristiana, tutto cade nel caos nichilistico.
Da qui sembra prendere avvio la feroce genialità dello spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella: l’ hybris – l’orgogliosa superbia che porta l’uomo a ribellarsi contro l’ordine costituito sia divino che umano – fa sì che protagonista dello spettacolo sia un tracotante che si crede Dio e che come lui simuli di morire e di risorgere. Ma si tratta, ordinariamente, di un passaggio dal sonno al risveglio.
L’habitat in cui è immersa questa specie umana è solipsisticamente tecnologico. A presidio del “letto-sepolcro” del tracotante ci sono sua madre (un’affascinante e subdola Maria Grazia Sughi) seduta su una poltroncina da ufficio con ruote, un uomo, una donna e un simulatore ginnico di passeggiata immobile.
Anche i codici di comunicazione si sono moltiplicati: i principi della logica sono saltati (il letto può essere un sepolcro ma anche una porta) e con essi l’illusione di intendersi. Per sopravvivere vige, in purezza, l’istinto alla sopraffazione e l’abolizione dei tabù del vivere civile.
Scardinata da tutto il resto, il tracotante esibisce come uno scettro – e contemporaneamente vi si aggrappa come ad un’ancora – la porta divelta. La sua è una continua ricerca ossessivo-compulsiva di essere protagonista per dominare il vuoto esistenziale. E gli altri: stranieri da manipolare (in scena come un autentico ensemble Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Petrini, Enzo di Norcia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e con la partecipazione straordinaria di Maria Teresa Sughi). La sua porta diventa allora anche un’arma per tagliare fuori ciò che ci risulta straniero.
Perché la libertà è inebriante quanto angosciante. E gli uomini, staccati da qualcuno che a posto loro fa ordine, come se la cavano a gestisce il vuoto errante offerto dalla libertà? Che “gioco sacro” occorrerà inventarsi ora ? Come si fa a capire ciò che è dentro e ciò che è fuori? Un confine può ancora essere anche un punto d’incontro? Meglio l’amicizia o la manipolazione ? Quanto è facile scivolare nell’ipocrisia? Come si fa a “gustarsi” l’attesa dell’ignoto senza incorrere nella violenza, che brutalmente ti fa capire però se sei “dentro o fuori”? Perché “è la curiosità che ti buggera”.
E la famiglia? È davvero un nido accogliente e rassicurante? O il luogo delle ombre? E l’amore? Si divora compulsivamente senza dare valore all’identità. Anzi protegge ed eccita rimuovere per far sì che, perversamente, con la stessa persona “ogni volta sia come la prima volta”. Finendo per confondere la realtà e le proiezioni mentali.
Con energizzante ferocia Antonio Rezza ci scuote e ci percuote. Veste e si spoglia di tutte le nostre ipocrisie. E noi del pubblico ridiamo: velenosi e avvelenati. Sul confine tra il compiacimento e l’imbarazzo.
Rezza sa, con acume, trovare e cogliere – senza subordinarsi ad un precedente testo scritto ma lasciandosi di volta in volta scrivere dai vuoti dell’habitat e dalla sinergia, inclusi i suoi ammanchi, con gli attori e con il pubblico – i tempi e le temperature giuste per scatenare il riso. Le sue sono feroci iperboli, acrobazie logiche, linguistiche e performative che arrivano a scavalcare il senso anche dei gesti e delle prospettive associate. Fino a sfondare tutto. Anche il confine con il pubblico. Ed è contagio. Anche tattile.
È un far teatro civile involontario, per frammenti dissacranti e dissacratori. Necessario.
Recensione di Sonia Remoli














