ELEONORA DUSE di Andrea Chiodi – con Manuela Kustermann – regia Francesco Tavassi


6 DONNE CHE HANNO SEGNATO LA STORIA – 6 AUTORI CHE LE RACCONTANO

Progetto

di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann

TEATRO VASCELLO

10 Maggio 2025

E’ avvolta elegantemente in un morbido mantello che la cinge in un seducente abbraccio. E che lascia cadere all’indietro. Emerge dal buio con la complicità di una luce, divinamente crepuscolare. E’ la Eleonora Duse di un’incantevole Manuela Kustermann. 

Accanto alla poltroncina che l’accoglie con agio, il tempo in musica delle melodie al pianoforte di un’altra donna, Cinzia Merlin, accompagnano il suo ricordare. E la sospingono a condividerlo con noi, in platea, a cui vien voglia di sederci a terra, accanto a lei, per farci ancora più prossimi.

La rievocazione del suo daimon, ovvero la rievocazione della ricerca della sua felicità attraverso l’ascolto del proprio demone guida, è affidata alla penna capace di stupore di Andrea Chiodi, che ne sa cogliere anche l’intima femminilità dei dettagli.

Andrea Chiodi

La Kustermann indossa della piccola bigiotteria, proprio come amava la Duse: non serve altro per sottolineare il suo incarnato autenticamente vivo. Dall’avvincente panneggio del mantello, s’intravede un abito di leggero chiffon nero. Gli abiti erano la passione della Duse.

Fortuny, un designer e artista spagnolo, creò abiti e accessori per lei, declinando in essi la sua passione per la moda e per l’arte. La Duse apprezzava lo stile unico e la qualità dei lavori di Fortuny, sartoria celebre per un approccio innovativo verso la moda, ricco in forme fluide e dinamiche. Abiti al di là della moda convenzionale del tempo, questi, che sapevano parlare dell’ habitus della Duse: del suo autentico modo di stare al mondo e sul palco.

Eleonora Duse

Incontri femminili hanno dato forma alla sua vita.

Quello con la sua mamma: che fin da subito seppe sostenerla nell’entrare in relazione con l’affascinante mistero dell’arte teatrale. “E’ per ridere che ti fa male!” – le sussurrava quando a quattro anni salì per la prima volta sul palco ad interpretare la Cosetta de “I Miserabili” di Victor Hugo. E per aiutarla a piangere la sollecitavano con dei pizzichi.

Eleonora Duse e la sua mamma

Poi, alla morte della mamma in giovane età, fu l’incontro con Giacinta Pezzana a rendere più consapevolmente erotica la passione per l’arte teatrale. 

Giacinta Pezzana

La lunga carriera sulle scene della Pezzana – che inizia con l’unità d’Italia e si conclude con la Prima guerra mondiale – è spesso ricordata proprio per i rapporti artistico-pedagogici che stabilì con la giovane Duse e per l’interpretazione di Teresa Raquin di Zola. Sua la vocazione creatrice a tutto tondo e quell’anticonformismo che rese più difficile la sua carriera.

Eleonora Duse e Matilde Serao in vacanza a St. Moritz nel 1895. Fondazione Giorgio Cini

Altro incontro formativo fu quello con Matilde Serao. La loro amicizia, testimoniata da una fittissima corrispondenza, era autentica e piena di affetto. Fù, il loro, “un incontro spirituale, umano, oltre che letterario”. 

Sarah Bernhardt – Eleonora Duse

E poi ci fu il primo incontro con “l’artista prediletta dagli dei”: Sarah Bernhardt. Conosciuta in un periodo di crisi, tale da spingere Giuditta Pezzana a lasciare la compagnia, la Bernhardt rappresentò per la Duse una testimonianza così vibrante, da incoraggiarla ad osare nel non assecondare il pubblico, quanto piuttosto “meravigliarlo”.

E così fu meraviglia quando la videro recitare John Joice e il suo giovane figlio James, tanto da sentire l’esigenza di dedicarle una poesia. Tanto da ispirarsi a lei, proprio alla sua interpretazione de La Gioconda di D’Annunzio, per il personaggio di Molly Bloom ne l’ Ulisse.

La Duse ne fu onoratissima ma non si sorprese: “ogni forma d’arte alimenta sempre altre forme d’arte” – era solita sostenere.

Ma l’incontro più bruciante fu quello, a 14 anni, con la Giulietta del “Romeo e Giulietta” di Shakespeare. In questa sua interpretazione sentì di farsi “fiore di rosa” e come rosa si donò a Romeo, fino a ricoprire con i suoi petali il corpo di lui immobile. 

Sentire poi Romeo parlare di lei come “ella insegna alle torce ad ardere” fu folgorante per la Duse: le aprì la consapevolezza della sua vocazione per il teatro. Che in seguito definirà “non un’altra vita, ma vita”. Un prodigio che fa sì che lei sia tutte le donne che interpreta, e loro lei. 

Perché – diceva – “l’arte ci ricorda chi siamo veramente: attore è chi riannoda le fila dell’alfabeto”.

Manuela Kustermann

Una rievocazione meravigliosa, quella che ieri sera è andata in scena dal palco del Teatro Vascello. Manuela Kustermann ha dipinto con i colori della sua voce la poesia di un ritratto di Eleonora Duse, disegnato da Andrea Chiodi, davvero ammaliante.

Si conclude questo pomeriggio, il Progetto di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann  per la regia di Francesco Tavassi “6 donne che hanno segnato la storia – 6 autori che le raccontano”, trovando coronamento con il racconto di Maurizio De Giovanni su Billie Holiday.

Cinzia Merlin (al pianoforte) – Manuela Kustermann



Recensione di Sonia Remoli

Recensione SYRO SADUN SETTIMINO – Operina monodanza in un atto di notte di Sylvano Bussotti – Poema di Dacia Maraini

TEATRO VASCELLO, 25 Novembre 2024

Syro Sadun Settimino

o il trionfo della Grande Eugenia

Operina Monodanza in un atto di notte 

Di Sylvano Bussotti

Poema di Dacia Maraini (1974 rev. 2024)

Voce recitante Manuela Kustermann

Danzatore Carlo Massari della C&C Company

Ensemble Roma Sinfonietta

Direttore M° Marcello Panni

EVO Ensemble

Filmati e proiezioni da Sylvano Bussotti, RARA (film) 1968/ 1970)

nell’edizione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Bologna

Grande emozione ieri sera al Teatro Vascello per la Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale dell’Operina monodanza in un atto di notte di Sylvano Bussotti “Syro Sadun Settimino o il trionfo della Grande Eugenia”. 

Sylvano Bussotti fu Accademico Effettivo dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ma anche  compositore e artista dalla tempra spiccatamente poliedrica. Era noto infatti anche come pittore, poeta, romanziere, regista teatrale e cinematografico, attore, cantante, scenografo, costumista e direttore artistico di vari teatri italiani (ricordiamo la Fenice di Venezia, il Festival Puccini di Torre del Lago, la Biennale Musica).  

Sylvano Bussotti

Un lavoro quello del “Syro Sadun Settimino” che dai primi anni ’70 del Novecento non ha trovato ospitalità in alcun Teatro, a causa della scabrosa partitura teatrale. Nel 1974 riesce a vedere la luce  – ma solo in forma di concerto – a Royan, in Francia. Poi cala di nuovo il buio su questo lavoro. 

Ora, a tre anni dalla morte del suo autore (1931-2021),  il Festival di Nuova Consonanza – alla sua 61 edizione – decide di proporre la messa in scena teatrale di questo lavoro al Teatro Vascello che -cogliendone tutta la preziosa visionarietà – decide di farlo venire alla luce scenica il 25 Novembre di quest’anno.

Un anno dal valore potentemente simbolico, in quanto segna “i 50 anni di r(e)sistenza” e di continua sperimentazione del Teatro di Giancarlo Nanni e di Manuela Kustermann. Un Teatro, il loro, che da sempre si nutre d’immaginario e che lo restituisce in spettacoli che riescano a solleticare il linguaggio inconscio di giovani e di adulti.

Dacia Maraini

Ecco allora che Dacia Maraini, alla quale Bussotti alla fine degli anni ‘60 aveva commissionato il testo per voce recitante, rimette mano al testo riuscendo ad esaltarne ancor più la profonda liricità.

Testo che in questa indimenticabile occasione è stato recitato dalla stessa Manuela Kustermann, amica storica di Bussotti: una creatura che continua a far sua la magia dello stupore di chi sa incantarsi di fronte al mondo e di questo incanto, incantare.

La partitura di danza e la coreografia sono state affidate al performer, coreografo e creatore transdisciplinare Carlo Massari, la cui cifra stilistica gravita intorno alla ricerca di nuovi linguaggi performativi, approfondendo l’ibridazione e la commistione tra le diverse discipline artistiche.

Alla formazione dell’Evo Ensemble diretto da Virginia Guidi è affidata la fascinosa partitura del Coro.

Il M° Marcello Panni

Al M° Marcello Panni, attuale decano di Nuova Consonanza e “direttore d’orchestra di fiducia” di Luciano Pavarotti, nonché protagonista di importanti collaborazioni con Berio, Bussotti, Cage, Feldman, Glass – è affidata la direzione dell’orchestra Roma Sinfonietta, di cui cura anche la suggestiva mise en espace. Panni era sul podio anche mezzo secolo fa con Bussotti quando l’opera vide la luce solo in forma concertistica a Royan.

In occasione dello spettacolo di Lunedì 25 Novembre, domenica 24 nella Sala Cinema di Palazzo Esposizioni Roma, il pubblico è stato invitato alla proiezione del documentario “Bussotti par lui-même” (1976, 74′) di Carlo Piccardi. Sono intervenuti Rocco Quaglia, Marcello Panni e Daniela Tortora i quali hanno mirabilmente evidenziato la crucialità di questo documento autobiografico che racchiude la memoria e suggerisce le prospettive inaugurate dal genio di Bussotti. Ripercorrere l’opera di Bussotti infatti non si esaurisce in un atto classificatorio, sia pur esteso ed approfondito dai ripensamenti critici, ma si dà come un procedimento attivo e costruttivo, in cui i dati singoli si lasciano carpire in significati nuovi, svelando essenze mutevoli e contradditorie. 

Rocco Quaglia, Daniela Tortora, Marcello Panni

Si arriva così alla sera del 25 Novembre: sera della Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale di “Syro Sadun Settimino”. Ad introdurla, una presentazione curata da Alessandro Mastropietro, che ha coinvolto in fertile dialogo Dacia Maraini, Marcello Panni e Rocco Quaglia, coreografo, ballerino, collaboratore e compagno di una vita di Bussotti.

Mastropietro inizia con il disvelare cosa si celi dietro al lunghissimo ed enigmatico titolo che Bussotti ha amato attribuire a questa sua opera. La parola “Syro” consta della somma delle iniziali dei nomi dell’autore e di un suo amico: Sy(lvano) – Ro(mano); “Sadun” è il nome del pittore Piero Sadun, a cui è dedicato uno dei pezzi vocali dell’opera.

L’ispirazione arriva dall’ ”Histoire du soldat”  di Stravinskij (1918), un classico del periodo. Ma poi Bussotti va molto oltre: ai sette elementi d’orchesta (da qui “settimino”) Bussotti aggiunge un pianoforte, duplica le percussioni, introduce un coro, un dicitore, nonché una coreografia più articolata. Così come articolata è la sua scrittura musicale, che s’insinua negli interstizi della parole e che a qualche livello fa del clarinetto l’io narrante.

Il sottotitolo esplicativo “Il trionfo della Grande Eugenia” introduce invece l’argomento dell’opera. La “Grande Eugene”, piccolo cabaret parigino portato a rapida notorietà dall’abile conduzione del coreografo e pittore Franz Salieri, è il centro della vicenda. In questo locale notturno frequentato da travestiti si ritrova infatti il protagonista, la cui storia viene rievocata partendo dalla sua nascita prematura: di sette mesi appunto.

La Maraini – celebre esponente del teatro di sperimentazione – interviene per raccontare come Bussotti le chiese un testo lirico, narrato in prima persona, espressione di una  particolare duttilità di sentire: capace di muoversi tra le maglie del maschile e lo scatenamento proprio del femminile. Pulsioni così vibrantemente coesistenti nell’indole del giovane protagonista.

Rocco Quaglia aiuta invece lo spettatore ad entrare nella fenomenologia dell’opera, rivelando ad esempio che l’ occasione fu data da un giovane di nome Michel, nato di sette mesi, in una famiglia di clavicembalisti.

Marcello Panni ci confida con luminosa emozione che riprendere questa opera di Bussotti era un suo grande desiderio, che finalmente questa sera raggiungerà il suo compimento. 

L’Operina alterna – con sorprendente originalità – parlato, cori a cappella, balletto e un ensemble strumentale su una scenografia mobile di filmati e proiezioni da “Rara”,  film di Sylvano Bussotti (1968-1970) nell’edizione restaurata dalla Cineteca di Bologna.

L’attenta partecipazione degli spettatori in sala alla pluri sollecitazione fisica e psichica dell’opera, dimostra la capacità di Bussotti ad aprire la sua densità creativa in un movimento che riesce a coinvolge un pubblico vasto ed eterogeneo, attraverso differenti possibilità di accesso al fatto musicale.

Ed è così che ci arriva la consapevolezza gioiosa di un giovane venuto al mondo in una modalità diversa. Ma comunque leale, degna di onore: onesta. Commovente il suo stupore di sentirsi ricco e lussureggiante come uno smeraldo: una pietra che parla di rinascita, crescita spirituale, rigenerazione, speranza. Una pienezza, un’armonia, che però in quanto tale scandalizza e che quindi va falciata, spennata, resa incapace di spiccare un suo volo. 

Ma la sua sarà una duttile resistenza, nonostante l’immanente fragilità che lo rende predabile. Insistente sarà, la sua duplice tensione al maschile e al femminile che riesce ad esprimersi virtuosamente nella danza. Calda come la terra che lo ha generato, una “terra d’agosto che sa di coito”. Non a caso nasce di sette mesi: sospinto da una gioia eccessiva. E dall’urgenza di ballare, per esprimersi pienamente. Laddove tutti lo vorrebbero “sedentario e musone”.

Una tensione visualizzata da quella lirica dialettica che s’instaura cinematograficamente, ma non solo, tra il suo aprirsi all’avventura del mare e l’essere trattenuto dalla terra, che affonda, come su sabbia, i suoi slanci. E che contribuisce a disorientarlo al pensiero di scegliere – e quindi di rinunciare – ad una parte di sé, così essenziale.

Una tensione caratteristica dell’opera e della personalità di Bussotti: quel sistema di contraddizioni in continua espansione che fa delle relazioni e dei nessi, qualcosa che può essere colto nel suo complesso.

Qualcosa che lo spettatore è catturato a decifrare a vari livelli, divenendo protagonista di un’esperienza di straordinaria bellezza.

Assistere a questa Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale del “Syro Sadun Settimino o il Trionfo della Grande Eugenia” è stato un grande dono.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA FABBRICA DELL’ATTORE: 50 ANNI DI (R)ESISTENZA – progetto, drammaturgia e regia di Manuela Kustermann –

TEATRO VASCELLO, dal 2 al 6 Ottobre 2024

E’ una meravigliosa “bimba” la Kustermann: una creatura che continua a far sua la magia dello stupore.

Quello di chi sa incantarsi di fronte al mondo e di questo incanto, incantare.

Quello che “la bimba K come Kustermann” alimenta in sé quale primitivo e prezioso linguaggio vitale, avendolo appreso incontrando e continuando ad amare Giancarlo Nanni: un uomo, un Paese delle Meraviglie.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore che – come fermento – si è ancora una volta sprigionato ieri sera tra le pareti del Teatro Vascello, fino a contagiare il pubblico in sala, trascinato come per incanto a bordo del viaggio-spettacolo. Una splendida rievocazione che ha celebrato i primi 50 anni di continua sperimentazione del Teatro Vascello. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Quello stupore sapientemente restituito attraverso una scena caleidoscopica come un rullo fotografico; dinamica come un libro da sfogliare; segretamente doppia come uno specchio svobodiano.

Una scena dove luce e immagine si confermano elementi fondamentali della creazione dello spazio teatraleE dove – in un’immaginaria e potentissima continuità  – quel multiforme telo nero  che vestiva come “habitus” , prima ancora che come abito, i personaggi  allora in scena per “Il Gabbiano”, trova eco ora nella seconda pelle dei quattro testimoni in scena. Loro che sanno continuare ad “abitare” l’eredità di Nanni, facendo di un lutto “un risveglio”. Anzi, continui risvegli.

Una scena de “Il gabbiano” di A. Cechov regia di Giancarlo Nanni

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer

(ph. Tommaso le Pera)

Ecco allora che nella voce-corpo di Manuela Kusterman confluiscono – come colori di una stupefacente melodia – quelle di Massimo Fedele, di Gaia Benassi, di Paolo Lorimer e di Alkis Zanis. Voci che testimoniano e nutrono una memoria che suscita in noi del pubblico una grata e vibrante malinconia per quel rivoluzionario modo di fare teatro, il loro, che segnò un’epoca.

Manuela Kustermann

(ph. Tommaso le Pera)

Loro la creazione di un nuovo linguaggio multidisciplinare che scelse di privilegiare “l’immagine” sulla “parola” e – proprio attraverso l’immagine – tenere insieme tutte le arti: teatro, musica, pittura, danza, cinema. Quella che Giuseppe Bertolucci definì “la scuola romana”.

Un teatro che sceglie di “provocare”: intellettualmente – ancor più che fisicamente – emozioni, turbamenti, domande. Lutti e risvegli. 

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che si nutre di immaginario e che lo restituisce in spettacoli che riescono a solleticare il linguaggio inconscio di giovani e di adulti. 

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Un teatro che “si visualizza” in spettacoli storici come A come AliceRisveglio di primaveraL’imperatore della Cina, solo per citarne alcuni, nati dall’arte maieutica di Giancarlo Nanni, che riusciva a far liberare a ciascun interprete frammenti della propria singolarissima creatività. Solo così, attraverso continue improvvisazioni, venivano rilasciate tracce di un inconscio collettivo che Nanni componeva in immagini visionarie. A lui infatti – che veniva dalla pittura degli anni Sessanta e Settanta della “scuola di Piazza del Popolo” (Schifano, Festa, Angeli, Kounellis) – non interessava tanto la recitazione quanto piuttosto il tentativo di composizione di un quadro visivo. Senza la pretesa di “compiere” un’unificazione finale, quanto piuttosto di “evocarla” attraverso la ricerca di sempre nuovi frammenti.

Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Paolo Lorimer, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Evocazione che ieri sera ha raggiunto la Kustermann nel ricostruire i frammenti più significativi che hanno dato, e danno, vita a questo magnifico quadro esistenziale – ancor prima che artistico  – in continua evoluzione che è stato ed è il Teatro Vascello.  E che si è rivelata una testimonianza storica davvero preziosissima. 

Imperdibile soprattutto per i giovani, che a differenza degli adulti non hanno potuto contagiarsi di quell’aria carica di elettricità creativa che animava la Roma di quegli anni.  

Manuela Kustermann e Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)

Contagio possibile però ora, proprio grazie a questa straordinaria testimonianza, che si impreziosisce anche del film girato allora da Mario Schifano – e che la Kustermann ha fatto restaurare – relativo alla forza dirompente liberata da uno spettacolo quale fu “Risveglio di primavera” .

Una memoria storica – quella ripercorsa per salienti frammenti dalla Kustermann – che meriterebbe di essere “accolta” in un vero e proprio documentario.

Grazie.

Paolo Lorimer, Gaia Benassi, Manuela Kustermann, Massimo Fedele

(ph. Tommaso le Pera)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SOUVENIR DE KIKI da “Diario di una modella di Kiki de Montparnasse” – regia Consuelo Barilari

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Manuela Kurstermann ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2024 per un Teatro, un’Arte e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo, Cinema e Tv Sez. Grandi Attrici e Direttrici Artistiche) quale Premio alla carriera. Kustermann è una «attrice simbolo del Teatro italiano e internazionale…. Accanto alle sue interpretazioni teatrali, sono numerose e significative anche le presenze televisive e radiofoniche».

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TEATRO VASCELLO, dal 13 al 18 Febbraio 2024 –

Se il tempo tende a “velarla” (come anche la scena acutamente allude), è cura di questo spettacolo con un’appassionata Manuela Kustermann contribuire al dis-velamento della figura di Kiki de Montparnasse.

Uno spettacolo che nasce drammaturgicamente ed è curato registicamente da Consuelo Barilari: attrice e regista molto attiva sul fronte dei progetti interculturali (dirige dal 2006 il Festival dell’Eccellenza Femminile di Genova). Suo il desiderio di parlare di donne e di farlo a un livello alto, raccontando le figure poco conosciute. Perché – come non si stanca di ricordare – “anche le donne possono svolgere un’importante funzione storica rispetto agli avvenimenti”.

Consuelo Barilari

E’ il caso di Kiki de Montparnasse: una donna che – affamata di vita – cadendo e sbagliando sempre meglio arriva ad abitare il suo tempo, fino a “regnarvi”. 

A qualche livello Kiki sa di “aver segnato” il suo tempo ma intorno ai trent’anni avverte l’esigenza di rendere pubblica questa consapevolezza. Sceglie allora di affidarsi al potere della parola scritta, del raccontarsi, per riunire e dare forma a tutti i frammenti della sua tragica e luminosa esistenza. E’ così che – quasi come in una struttura metateatrale – dalla rievocazione dei momenti più fondanti della sua vita prende forma ad un tempo l’autobiografia “Memorie di una modella” del 1929 e lo spettacolo con Manuela Kustermann.

Cantante, ballerina, modella, Kiki è la stella delle notti di Montparnasse, sulla Rive Gauche della Parigi degli anni Venti. 

Caschetto nero, morbide spalle, fianchi che sanno come agitarsi: fino al 18 febbraio Kiki è in Manuela Kustermann, donna che come Kiki ha fatto dell’essere avanguardia la sua cifra stilistica ed esistenziale.

Kiki nasce Alice Ernestine Prin, figlia illegittima dalle origini povere e oscure. La sua spinta vitale è una fame inappagabile: un’urgenza a voler essere riconosciuta. Ad esistere perché accolta con entusiasmo. Il suo breve passaggio sulla terra è un viaggio doloroso alla conquista di se stessa attraverso il riconoscimento esterno, quello che fonda l’autostima e che la porterà ad essere vista in tutta la sua irresistibilità.

Manuela Kustermann è Kiki de Montparnasse

Kiki non è stata solo la compagna e la musa di Man Ray o la preferita da Calder e Modigliani, o di Cocteau e Fujita. Kiki fu molto di più: fu artista magnetica e irresistibile, pittrice dalla creatività esplosiva, attrice nei primi film surrealisti. Una donna imprendibile, con la quale la storia è stata ingenerosa. 

Questo spettacolo le rende omaggio, intessendo una trama in cui i fili del racconto di Kiki s’intrecciano ai fili dei racconti di quegli uomini con i quali ha condiviso momenti importanti della sua vita.

Ma esplorando insieme alla Kustermann l’eccezionalità della storia di una donna come Kiki, non possiamo non accettare l’occasione dell’incontro anche con noi stessi. E così anche noi tessere fili al nostro vissuto, da intrecciare e condividere con queste due donne stupefacenti. 

Manuela Kustermann continua a toccarci il cuore: emozionandoci e suscitandoci inquietudini.

Uno spettacolo, questo, da continuare a portare con noi all’uscita dal teatro: proprio come uno speciale souvenir. Un souvenir de Kiki.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV – regia di Luca Micheletti

TEATRO VASCELLO, dal 10 al 22 Ottobre 2023 –

“La vera vita degli uomini e delle cose comincia soltanto dopo la loro scomparsa” (Nathalie Sarraute).

La vita di Ivan Karamazov, ancora ferma al giorno del processo per parricidio, è quella di un personaggio pirandellianamente in cerca di un autore che gli possa regalare un finale.

Ad Umberto Orsini, suo interprete dal lontano 1969, arriva pungente l’urgenza di questa esigenza. E quello allestito, con sublime poesia, sul palco del Teatro Vascello è il luogo della mente del “personaggio” Ivan, che indugia e insiste nella mente della “persona” e ora anche “autore” Umberto Orsini. Autore assieme a Luca Micheletti.

Ma cosa significa regalare un finale ? Significa regalare, o meglio “restituire”, un’identità. L’identità, infatti, è un dono che ci possono dare solo gli altri. Perché nessuno di noi “si può fare” da solo. Drammaturgicamente ed esistenzialmente. I primi a farcene dono sono i genitori, per un periodo della nostra vita anche autori della stessa.

Ma poi entrano in scena tutte quelle persone il cui “incontro” è risultato essere stato per ciascuno di noi una folgorazione. Il cui incontro – direbbe Massimo Recalcati – ha interrotto l’abituale scorrere del tempo. Come è avvenuto tra Umberto Orsini e Ivan Karamazov.

Era il 1969 quando sulla rete nazionale della Rai andava in onda lo sceneggiato televisivo di Sandro Bolchi “I fratelli Karamazov” e un giovanissimo Umberto Orsini ne interpretava l’Ivan. Ma, a seguito di questo incontro, nulla è più come prima. E negli anni a seguire Orsini non smette di sentirselo intimamente connaturato alla propria essenza. E alla propria esistenza. Tenendolo insieme a sé con lo sguardo. E con il respiro.

Umberto Orsini è Ivan nello sceneggiato televisivo di Bolchi del 1969

Ma se l’incontro ha la cifra della folgorazione, l’identità è un processo che richiede tempo. Solo ora infatti Orsini sente che è arrivato il momento: sente di averne la giusta consapevolezza. Perché Orsini, così come Ivan, è un uomo che ha sempre tollerato di “essere disturbato” dalla polifonia di voci della sua coscienza e dalle relative contraddizioni che la abitano. Uomini, loro, che resistono alla tentazione di mettere a tacere gli elementi di disturbo della psiche (come accade ai più). Ma che anzi li accolgono. E danno loro la parola.

Uomini loro, che temono, ma di più amano la vastità del mare della vita. E nonostante tutto navigano, cercano, esplorano. Si perdono. E sognano un ritorno. Un “nostos“. 

Il regista e co-autore Luca Micheletti

Ecco allora che dalla lirica regia di Luca Micheletti, quasi come a cavallo di una slitta, i percorsi della memoria di Ivan scivolano giù, seppur spazzati insistentemente dal vento. E tornano. Tornano a riaffrontare il caos che avvolge “i resti archeologici” di un luogo fisico e mentale. Labirintico. Costruito per cerchi concentrici. Avvolto nel buio. Una scena ( curata con sublime poesia da Giacomo Andrico, dove il suono è affidato a Alessandro Saviozzi e le luci a Carlo Pediani) capolavoro del suo dramma.

E un po’ come un quadro di Mark Rothko, catalizza lo spettatore ad una contemplazione più intima e raccolta, permettendo un viaggio ipnotico che apre una finestra sull’incomprensibilità dell’io più profondo. Sul suo dramma interiore. Una rappresentazione concreta della tragedia esistenziale del personaggio ma anche dell’interprete-autore.

Umberto Orsini

Un personaggio che denuncia in sommo grado l’assenza di una figura paterna che sappia stabilire confini, fissare leggi. L’assenza di un dio che limiti il più gravoso peso dell’umano vivere: la libertà. Perché la principale pulsione umana è quella alla sopraffazione. E l’amore si può solo imparare.

Dell’interprete Orsini folgora la freschezza del disperato ardore. L’elasticità nervosa dei muscoli. Il guizzo dalle mille sfumature degli occhi e della voce. Il respiro. Le mani. Lui, insieme dio e demone.

E così, immaginando un nuovo processo e con una diversa spiegazione dei fatti, quasi come al termine della elaborazione di un lutto – che qui rischiava di diventare permanente, cronico – Orsini riesce a sublimare quell’oscura mancanza melanconica che avvolgeva l’esistenza di Ivan Karamazov. Riesce cioè “a far iniziare la vera vita di Ivan”, come direbbe Nathalie Sarraute. E così ora quell’ ” inverno del nostro scontento è reso fulvida estate”. Da Umberto Orsini. Assieme a Luca Micheletti.

Umberto Orsini e Luca Micheletti

Recensione dello spettacolo PENG di Marius von Mayenburg – regia di Giacomo Bisordi

TEATRO VASCELLO, dal 7 al 12 Marzo 2023 –

Un gorgoglio: questo è l’indizio che riceviamo prima di capire che siamo all’interno di un utero. È il  liquido amniotico a gorgogliare. Al suo suono si associa quello della voce  dei pensieri di uno strano neonato, che si presenta confidandoci il suo nome: Peng. Lo sa perché, sopra il sottofondo continuo della televisione che va, sente i suoi genitori fantasticare sulla scelta del destino da abbinare al suo nome proprio. E come ascoltando il mondo da un oblò (curatore dei suoni è Dario Felli), Peng si annoia un po’. 

Fausto Cabra (Peng neonato) nello spettacolo di Giacomo Bisordi

E allora per riempire l’attesa che lo separa dalla sua “uscita”, anche lui passa il  tempo a fantasticare sul suo nome. E lo fa derivare, etimologicamente, dal francese. In particolare, da quegli Ugonotti che sapevano, loro sì, come non annoiarsi: uccidendo migliaia di persone. In effetti questo sarà il destino collegato al suo nome: per poter essere l’ “unico”  figlio, Peng strangola sua sorella gemella cosicché non esca dall’utero. Dal parto verrà alla luce così “il primo figlio-bestia”. Già cresciuto: cammina, parla e ha i denti.

Una scena dello spettacolo “Peng” di Giacomo Bisordi

Ma che notizia !!! Ne approfitta subito un giornalista che propone ai genitori di diventare protagonisti di una sorta di reality. Pur di essere visti e seguiti dal grande occhio della telecamera, tutti i protagonisti della vicenda “vengono alla luce” attraverso una vera e propria competizione ad essere “il” protagonista. L’unico.

Fausto Cabra (Peng neonato) e Ado Ottobrino (suo padre) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

La scena (curata da Marco Giusti) semplice ed essenziale ma sempre efficacissima nel suo cambiare “a vista” a seconda delle  situazioni, si avvale della presenza di due schermi: uno per vedere l’inquadratura della videocamera e l’altro per far andare programmi televisivi. In particolare televendite, il cui monopolio è in mano ad una melliflua  presentatrice-divulgatrice: la mirabile Manuela Kustermann

Ma chi sono i genitori di questo Peng?

Aldo Ottobrino (padre), Sara Borsarelli (madre), Fausto Cabra (Peng) e Francesco Sferruzza Papa (giornalista) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Indossano una tuta rossa Adidas come fosse una divisa. E la fanno indossare anche al figlio. Apparentemente si propongono come esempi di autenticità: mangiano sano, praticano discipline orientali, accolgono chi è in difficoltà. Ma in realtà il loro credo è la violenza, suggellata dalle note  del “Lascia ch’io pianga” di Händel. Perché “ciò che è più efficace, è irrazionale”.

Fausto Cabra (Peng) in uno scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Peng, invece, non eredita la maschera dell’ipocrisia borghese dei suoi genitori. Viene subito alla luce come un crudele violento. E se ne compiace. Non si nasconde dietro alle buone maniere e va fiero delle rovine che lascia al suo passaggio. È una bestia sincera. Sia nascosto dall’ipocrisia sia scevro, quello in scena è un mondo che ha perso la sua “humanitàs”, quel misto di autentica solidarietà, compassione, comprensione, amore, perdono, cura, gentilezza.

Fausto Cabra (Peng bambino) e Francesco Giordano (Leone qui) in una scena dello spettacolo di Giacomo Bisordi

Qui “vale” ciò che puoi far vedere agli altri. Persuadendoli. Per essere un vero protagonista omologato. Dove non serve conoscere ma comprare. Dove ci si orienta attraverso i dictat  “mai più senza …”  e ” dillo guardando nella telecamera n….”. Perché la gente vuole che succeda sempre qualcosa nella vita degli altri, per distrarsi dalla propria: è lo show business

Giacomo Bisordi, il regista dello spettacolo “Peng”

Il regista Giacomo Bisordi  sceglie di portare in scena un testo denuncia di Marius von Mayenburg (scritto dopo l’elezione di Donald Trump) riadattandolo, attraverso la traduzione di Clelia Notarbartolo, alla situazione italiana. Ne scaturisce un lavoro volutamente feroce. Senza ipocrite edulcorazioni. Crudo ma necessario. L’originale regia si avvale della complicità di attori davvero molto efficaci, ciascuno nel ruolo o nei ruoli che è chiamato a rendere. Sono Aldo Ottobrino, Sara Borsarelli, Francesco Sferrazza Papa, Anna C. Colombo e Francesco Giordano. Su tutti brilla “la bestia” Fausto Cabra. Uno spettacolo che indaga sul tabù che ci porta a ridere di ciò di cui dovremmo vergognarci. Ma anche così è la natura umana.

Il cast agli applausi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ELETTRA -Tanta famiglia e così poco simili – di Hugo Von Hofmannsthal – adattamento e regia di Andrea Baracco –

TEATRO VASCELLO, Dal 25 Marzo al 3 Aprile 2022 –


di Hugo Von Hofmannsthal
con Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Carlotta Gamba, Alessandro Pezzali

scene Luca Brinchi e Daniele Spanò 
costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche originali Giacomo Vezzani
luci Javier Delle Monache
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
adattamento e regia Andrea Baracco

produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello

con il patrocinio di Forum Austriaco di Roma


Quasi una Proserpina rock, l’Elettra, dea degli Inferi, messa in scena dal regista Andrea Baracco ieri sera in Prima Nazionale al Teatro Vascello di Roma: stesa a terra in posizione fetale, è attratta prepotentemente dalla terra-utero, dove sceglie d’imprigionarsi alla morte del padre. Lui si rende presente da un’aldila virtuale ma non la guarda: fissa noi del pubblico e si commuove. Quasi a chiedere la nostra misericordia verso questa storia. Anche Elettra (una potente Flaminia Cuzzoli) non lo guarda e gli dà le spalle. Ma lo canta: solo così riesce a instaurare una qualche forma di comunicazione emotiva. In un angolo, in un canto.

Flaminia Cuzzoli è Elettra

Dietro di lei, il castello-acquario con quel che resta della sua famiglia: incancrenita, al vetriolo.

Carlotta Gamba è Crisantemi

In fondo a sinistra, nell’angolo opposto rispetto a quello in cui si rintana Elettra, il rifugio colmo di abiti da sposa di sua sorella Crisotemi (la fremente Carlotta Gamba, ostinatissima nell’impugnare il suo bouquet nuziale) disposta ad accogliere qualsiasi marito decidano per lei, pur di essere gravida, pur di riempire quel vuoto così mostruosamente pieno di cose da nascondere. 

Al centro del castello troneggia lei, un’oniricamente lussureggiante Manuela Kustermann nei panni di Clitemnestra, la donna il cui sguardo semina morte. Dice di vivere in una vertigine (in cui riesce a muoversi su argentei tacchi) e per questo si serve di un bastone ( che però usa come uno scettro). Dice di essere infestata da Elettra, come dalla più irritante delle ortiche e di essere perseguitata in sogno dal figlio Oreste, che succhia sangue dal suo seno.

L’ Oreste di Baracco (un inquietante Alessandro Pezzali), ancor più di quello di Hugo von Hofmannsthal, è un eroe-non eroe spogliato di ogni propositività, che ha bisogno di tatuarsi sul petto il proprio nome per poter essere riconosciuto.

Carlotta Gamba, Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Alessandro Pezzali

Qui, la prossemica, cioè la comunicazione che si instaura nell’occupare lo spazio, parla delle dinamiche psicologiche che si instaurano tra i personaggi, più delle parole. E poi ci sono i loro corpi a parlare: dove qualcosa soffre, qualcosa parla. Perché il corpo è anche il luogo dell’altro: delle parole e dei gesti con cui ci crivella.

Il regista Alessandro Baracco adatta il testo di Hofmannsthal, enfant prodige della modernità letteraria austriaca, perla poetica (dimenticata e poi ritrovata da Antonio Taglioni) che continua ad essere di straordinario interesse per il pubblico di oggi.

Andrea Baracco

Un adattamento che evidenzia come i disagi psichici dei personaggi derivino da una difficoltà a “desiderare”, a gestire cioè quella vitale “mancanza”, che può raggiunge gli estremi di “vuoto” (Oreste) o di “troppo pieno” (Elettra).

Personaggi, tutti a loro modo, mitologicamente eredi del capostipite Tantalo, condannato dagli dèi, a causa delle sue efferatezze, ad essere dominato da un desiderio di fame e di sete, impossibili da placare. 


Recensione di Sonia Remoli