Dopo essere stata il 31 ottobre u.s. alla seconda delle 10 serate “Omaggio a Glauco Mauri”, nate dal desiderio di Andrea Baracco – direttore della Compagnia Mauri Sturno – di celebrare il ricordo del caro Maestro a un mese dalla sua morte, ho sentito l’esigenza di tornare ieri sera, alla settima serata.
L’interprete del “De Profundis” di Oscar Wilde – ultimo lavoro a cui si appassionò il Maestro Mauri – ieri sera era lei: Federica Fracassi, un’attrice che non si dimentica, una donna dalla bellezza botticelliana.
Federica Fracassi
Ma lei, come per incanto, per riuscire a farsi vivere da questa occasione, oscura ogni femminile seduzione, dandosi nel suo più fulgente maschile. Trattiene il suo corpo, incluse le mani. E se qualche ciocca si ribella uscendo sul viso, la riordina senza alcuna malizia femminile.
Si concede una densa dolcezza fatta di pause e di sguardi ricchi in compassione. Quasi sorpresi. La voce è bella: senza essere femmina, senza essere virile. E’ pulita, depurata. Buca l’attenzione.
Di femminile resta in lei quell’innata inclinazione all’entrare in relazione con l’altro.Ed è proprio questa predisposizione alla relazione a caratterizzare la sua traduzione interpretativa dello Wilde del “De Profundis”.
Oscar Wilde
In questo senso va letta la dolcezza con la quale si rapporta alla metabolizzazione degli errori del suo Bosie – passati in rassegna anche qui, nella lettera a lui indirizzata, oltre che nella sua mente. Un dolore nel ricordarli che può tradursi in compassione, solo dopo aver capito e sentito che negli errori di Bosie si specchia anche una parte di se stesso, a lui prima ignota.
E se la sua autorealizzazione – che Wilde raggiunge grazie ad un’elaborazione introspettiva fornita proprio dall’occasione del carcere – si dà ora in quella compassionevole gratitudine che gli permette di dire – con la straziante, complice dolcezza della Fracassi: “Stavo bene quando eri via”; nella rievocazione della cronaca dei fatti fin nelle minuzie, invece, la Fracassi rintraccia e restituisce una particolare volontà a rifuggire la tentazione all’indugio. Un affascinante contrasto del ritmo del sentire, davvero umanissimo.
Così come, a volte, l’espressività della Fracassi sembra farsi “coltello”, per continuare – ancora nel racconto – a disegnare più precisamente alcuni suoi errori. Fino quasi a tatuarne un segno, una traccia indelebile.
Si fanno, invece, sussuro d’indulgente vergogna i momenti di confessione per aver trascurato l’inclinazione artistica a favore del rapimento amoroso. Ma sbagliando – o facendo solo il bene dell’altro – e quindi provando ed elaborando la sofferenza che ne deriva, si diventa coscienti di se stessi. Una sorta di cogito, questo di Wilde: “soffro dunque sono”.
E forse è così. C’è qualcosa di speciale che si attiva anche nello spettatore, nel partecipare alla rievocazione dell’esperienza esistenziale dell’ultimo Wilde.
Andrea Baracco
Complice la progettualità di Andrea Baracco, che ha individuato questa modalità di rituale che di sera in sera, d’interprete in interprete, riesce a restituire quella “sinfonia del dolore” che Wilde mirabilmente compone, anche tra le lacrime.
Quelle che continuano a farci commuovere – trattenute in un tremore all’apertura della lettera e poi sciolte per un attimo nel congedo – nell’indimenticabile interpretazione di Glauco Mauri.
Avvenuta epifanicamente per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e rievocata ogni sera in questo straordinario rituale.
Lì dove dal XV secolo avevano sede le principali prigioni di Roma (e dove vennero reclusi – tra gli altri – Benvenuto Cellini, Giordano Bruno e lo stesso Caravaggio); lì dove nel 1670 le carceri lasciarono il posto al Teatro Tordinona; ebbene proprio questo luogo così potentemente simbolico Andrea Baracco, direttore della Compagnia Mauri Sturno, ha scelto per accogliere l’essenza del testo del “De Profundis”: la lettera che Oscar Wilde scrisse in tre mesi – nel secondo anno di prigionia – non appena gli diedero la possibilità di avere in cella carta e inchiostro.
Una lettera che custodisce la testimonianza di una straordinaria evoluzione esistenziale: quella che Oscar Wilde realizzò grazie alla sua capacità di accogliere il dolore, quale preziosa opportunità per una fertile trasformazione vitale. Quel dolore che lo pervase all’indomani della condanna a due anni di lavori forzati e dal quale sarebbe stato annientato se non fosse scattata – proprio nel momento di massima umiliazione – la consapevolezza del potere insito nel nostro essere gettati al mondo nella sofferenza.
Glauco Mauri al Teatro Rossini di Pesaro
Un passaggio esistenziale di cui si è reso interprete il caro Maestro Glauco Mauri: per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e – per almeno altre 10 sere qui – ancora con noi – al Teatro Tordinona. Luogo eletto da Andrea Baracco per celebrare il rito del ricordo del Maestro, a un mese dalla sua morte.
Un omaggio all’indimenticabile attore e al meraviglioso uomo di teatro che fece della sua arte la sua vita e della sua vita la sua arte. Una profonda riconoscenza che qui assume la forma di una rievocazione, proprio di quelle che sono state le sue ultime parole pronunciate in teatro.
Una rievocazione che si ripete per 10 sere ma con sempre nuove “variazioni interpretative” (quelle di attori diversi ogni sera) del testo del “De Profundis”. Testo del quale Glauco Mauri suggella qui – in una perfetta e quindi infinità circolarità – l’alpha e l’omega. Un Mauri profondamente commosso e di una fulgente dignità tale da far vibrare le corde più intime dello spettatore.
Gabriele Gasco
Una dignità di cui l’interprete ieri sera in scena si è fatto splendido erede. Gabriele Gasco ha 27 anni e quando varca la scena buia lo fa con quella capacità speciale del mantenersi sul confine tra il mondo della fisica e quello della metafisica.
Indossa qualcosa di simile a una divisa da carcere ma non appena alza lo sguardo capisci che in verità è profondamente libero. Di quella libertà di cui si possono fregiare solo coloro, che come Oscar Wilde, hanno saputo usare il buio per fare luce dentro se stessi. Fino a riuscire a trasformare il veleno della vendetta e del rancore nell’elisir della gratitudine.
Il Wilde di Gasco conserva tracce della postura da dandy. Ma il corpo – abito della sua rinnovata anima – non “posa”: “è”. L’indiscutibile stile che modella i suoi gesti è il risultato dell’autentica consapevolezza di cui si dispone dopo essere stato costretto a una “remise en forme” esistenziale.
Oscar Wilde
Ora sa dove e perché ha sbagliato e come mai si è ritrovato a scontare questo tipo di sofferenza. Toccato il fondo più abissale dell’umiliazione, ha scoperto che proprio da lì può sprigionarsi un’energia che dà un senso alla sofferenza per cui siamo stati creati. E’ un ‘energia che per alcuni istanti la regia di Baracco materializza in un abbraccio musicale al suo Wilde più in difficoltà: un abbraccio intimo, lieve, magico.
Un Wilde il suo che, con quel suo stare che rompe il piano della frontalità e con quel suo protendersi costante e lieve indietro per poi slanciarsi pungente in avanti, rende il proprio corpo disponibile come un arco, dal quale vengono scagliate frecce di audace saggezza. Verso il suo amore: sì, nonostante tutto – nonostante i tradimenti, gli atteggiamenti da subdolo narcisista manipolatore e l’indifferente silenzio durante questi due anni di carcere – lui resta il suo amato Bosie.
Andrea Baracco
Amato ora in maniera differente – dopo aver passato in rassegna tutta la tossicità dei suoi atteggiamenti – ma comunque amato. Perché l’amore può essere più forte dell’odio ma soprattutto perché l’amore è infinitamente generativo. Siamo fatti per soffrire – ci confida Wilde – e per amare. Poco importa l’essere ricambiati: “amare ci permette di rimanere fedeli al nostro desiderio” direbbe Massimo Recalcati. Questa è la potente forza vitale di cui siamo dotati, noi nati per soffrire.
Il suo raccontare è fascinosamente irregolare. Ma costante. Uno stile sul confine tra disponibilità e seduzione; tra musicalità e assedio. Un ritmo che apre e chiude, continuamente, i confini del racconto. Un Wilde, quello di Gasco, fiero di tutto quello che gli è accaduto, perché tutto quello che gli è accaduto è servito a condurlo a questo tipo di consapevole libertà.
Gabriele Gasco
Una fierezza che si coniuga con la disponibilità all’ascolto e alla tolleranza, propria di quel suo inclinare il capo. Come Cristo sulla croce: perché “Cristo è il precursore romantico dell’artista”: “un contadino di Galilea che tiene sulle sue spalle il male di tutti” per trasformarlo, grazie alla bellezza del proprio dolore.
Un dolore che non chiude, ma che anzi può aprire a nuovi inizi. “Un giorno dovrai vergognarti di te stesso … – dice Wilde al suo amato – per questo ti ho scritto così a lungo: per farti capire cosa sei stato tu per me”. Prima e durante questa occasione di sofferenza “terapeutica” in carcere.
Ora – prosegue Wilde – “vengo ad insegnarti il significato e la bellezza del dolore”.
Non è facile da spiegare. Ma qualcosa di “sacro” avviene durante la conclusione di questo intimo rituale.
Nietzsche la chiamava l’arte del “saper tramontare al momento giusto”.
E di questa arte seppe ben disporre Memo Benassi: colse infatti che quel “momento giusto” per lui arrivò quando a 63 anni si sentì spiato in camerino da un giovane Glauco Mauri, appena diplomato. Lo convocò allora per passargli in dono la giacca che lui aveva indossato recitando l’Oswald de “Gli spettri” di Ibsen. E sulla cui spalla, la Duse era solita piangere. “Tienila da conto” – gli disse – “a me inizia ad andare stretta”. Così avvenne il passaggio: l’inizio della trasmissione di un’eredità immateriale.
Memo Benassi e Glauco Mauri
Arrivare a spiare Benassi in camerino, dopo averlo potuto veder recitare e provare sulla scena, significa qualcosa di speciale: che al giovane ed acuto Glauco Mauri non sfugge quel qualcosa “di immateriale” insito nella capacità attoriale di Benassi. Qualcosa che al giovane Mauri risulta ancora irresistibilmente irraggiungibile. E proprio per questo andava seguita, spiata. Per osservarla bene, entrarci in contatto, lasciarcisi attraversare e così in qualche modo gradualmente afferrarla, facendola propria. Come un amante farebbe con la sua amata.
D’altro canto, accorgersi di essere spiato da un allievo, per Benassi era la prova che proprio a quell’ allievo poteva essere consegnato il suo “patrimonio immateriale dell’attore”. In lui, in Mauri, la sua eredità sarebbe stata in buone mani e avrebbe prodotto molto frutto.
A sua volta Glauco Mauri, anni fa, ha donato proprio questa giacca al suo Roberto Sturno. Inseparabili, loro, anche ora che Sturno se ne è apparentemente andato. A lui Glauco Mauri dedica tutto lo splendore di questo progetto. E lo fa personalmente, salendo sul palco a fine spettacolo: commosso e felice. Forte di questo sodalizio immateriale ma trascendente.
Glauco Mauri e Roberto Sturno
E’ allora in omaggio a questa antica pratica pedagogica che il progetto che ieri sera è approdato alla sua conclusione prende il nome “Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore”. E rappresenta il tentativo di recuperare il sistema di trasmissione del mestiere immateriale dell’attore.
Attualmente, infatti, uno spettacolo si produce in una ventina di giorni e in questo breve tempo non c’è modo di “sperimentare”, cioè di accompagnare i processi creativi degli attori. Si può solo replicare ciò che già si sa. Inoltre, l’attuale sistema del teatro italiano impedisce la circuitazione degli spettacoli, che così si esauriscono in una manciata di rappresentazioni.
Serviva ed è stato trovato così un “luogo protetto”, com’è quello offerto da questo progetto ricco e ambizioso: carico di un patrimonio artistico ed emotivo da recuperare nell’antica cultura artigiana del teatro. Non un semplice progetto formativo quindi ma, come avveniva una volta, vitali esperienze del teatro di tradizione e del teatro di ricerca del Novecento.
Già Mejerchol’d sognava un luogo protetto, svincolato cioè dalle urgenze produttive, dove fosse possibile per gli attori creare forme sceniche e soluzioni interpretative. E l’Università può offrire questa opportunità.
Il Nuovo Teatro Ateneo
Il progetto curato infatti dalla Compagnia Mauri Sturno e finanziato dal MIC ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza, che fornisce oltre al supporto logistico anche una consulenza culturale sia attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo, che attraverso il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie – del Dipartimeto di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma. Dipartimento diretto dal Prof. Guido di Palma.
Il prof.Guido Di Palma
“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura né tantomeno solo ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni diverse”.
Lo stesso Eduardo De Filippo, assiduo frequentatore del Teatro Ateneo, sosteneva che la tradizione, se la si sa usare, è un trampolino per saltare più in alto.
Ieri, un’insolita – e ben augurale – apertura serale del Nuovo Teatro Ateneo ha atteso e accolto il ritorno, e quindi l’approdo, dei viaggiatori partiti alla ricerca, alla scoperta e quindi al raccordo con quel sapere immateriale dell’attore, che rende così prezioso il lavoro a teatro. E nella vita. Un lavoro non solo tecnico ma anche etico ed estetico.
Al fine di rendere più fulgidamente puro il lavoro di ricerca svolto, i promotori del viaggio hanno scelto uno spazio e un corpo “nudi”, cioè scevri da tutto ciò che avrebbe potuto falsare il nuovo “habitus” acquisito dai giovani attori. Quindi niente scenografie, niente musica, niente costumi (solo abiti normali) e niente trucco.
Marco Blanchi
E proprio come William Shakespeare fece in quel magnifico inno al potere dell’immaginazione che è il Prologo all’ “Enrico V“, così anche Marco Blanchi – curatore dell’atelier didattico assiema a Danilo Capezzani ma ieri sera anche nella veste di presentatore dei singoli lavori – ha invitato gli spettatori in sala a far ricorso ciascuno alla propria immaginazione, per visualizzare più adeguati scenari ai frammenti delle 12 opere, che questi “nuovi” interpreti portano in scena.
Non a caso, proprio il Prologo all’ “Enrico V” dà l’avvio alla restituzione. Viviana Feudale, l’interprete, ci restituisce tutta la meraviglia contenuta nell’ebbrezza del saper immaginare. Tutto in lei è meraviglia, tutti i suoi sensi ne sono predati. Ed è contagio.
Si passa all’ “Edipo re” di Sofocle dove di Pietro Bovi (Edipo) e di Luca Lombardi (Tiresia) ci arriva il particolare fascino delle loro vocalità. E di Tiresia l’eloquenza degli occhi bendati, unita alla vitalità del bastone al quale si sostiene.
Arrivano poi Kostja (Giuliano Bruzzese) e Nina (Marta Cirello) de “Il Gabbiano” di Anton Cechov. Lui sembra la diteggiatura nervosa e tormentata di un pianista, tanto si nutre di inquietudine. Lei fa della voce, e quindi del suo animo, quello che farebbe un’equilibrista sul filo: l’elogio del disequilibrio. Entrambi così spazzati dal vento e insieme così in sintonia.
E poi “I fratelli Karamazov”di Fëdor Dostoevskij: dell’Ivan di Antonio Greco e dello Smerdjakov di Francesco Leonardo Marchionne rifulge il tavolo dei silenzi, preludio alle loro diversamente mefistofeliche ed allucinate esplosioni disperate.
Si passa all’ “Antigone” di Jean Anouilh: luminosa la tensione tra la sensualità androgina di Francesca Trianni (Antigone) e la morbida persuasione di Sofia Guida (Ismaele). Resta il sapore appagante di quando un confine riesce a diventare un punto d’incontro.
Scintille tra La Caterina di Beatrice Lotti e il Petruccio di Davide Varone de “La Bisbetica domata” di William Shakespeare. La selvatichezza di lei si carica di un sentore profumato quando accolta dalla disponibilità di lui a interagire fertilmente con la follia del femminile. Seducentemente comici gli a parte di Petruccio.
E poi l’autenticità tipicamente britannica dell’apertura alcolica del Jamie di Roberto Castello così come della serrata chiusura del rigido e sobrio Edmund di Giuseppe Fedele, in “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill.
E ancora “Finale di partita” di Samuel Beckett. Due fenomenologie dell’aspettare: quella statica e da contatto di Hamm (Francesco Zaccaro), un’attesa cioè da immaginare, protetto dietro lenti colorate e a specchio e poi quella diversamente intrepida di Clov (Antonio Greco) . La sua è l’attesa che s’immagina dietro le lenti “altruistiche” di un piccolo cannocchiale e che tanto ricorda l’attesa della Compagnia della Contessa da parte di uno degli Scalognati de “I giganti della montagna” di Pirandello.
Arrivano invece “Gli innamorati” di Carlo Goldoni. Un Pietro Bovi (Fulgenzio) decisamente incline a seguire l’imprevedibilità tutta femminile dell’Eugenia (Virna Zorzan). Nonostante la tentazione maschile ad arroccarsi, Fulgenzio lascia anche libera uscita al suo proprio femminile. Ammiccanti gli a parte.
Seguono alcuni “Sonetti” di William Shakespeare resi prevalentemente a tinte calde dalla lettura interpretativa di Davide Varone, laddove Antonio Laurino sembra prediligerne le tinte più fredde. E a seguire le “Lettere a Pierre” (dal Paolo Pini di Affori) di Alda Merini rese dalle diverse note della struggente e folle sensibilità di Enrichetta Ranieri Martinotti e di Costanza Maestripieri.
A completamento il “Macbeth” di William Shakespeare: fertile la profonda sensualità vocale della Lady Macbeth di Sofia Boriosi, così come il fascino della decadenza posturale del Macbeth di Luca Lombardi.
In tutti i ragazzi evidenti “riflessi di perla” che, se ancora pazientemente levigata per anni, emanerà progressivamente una lucentezza prima segreta. “Perla” come concetto di “maestria”, che la metafora di Tanizaki Jun’ichirō così mirabilmente esprime.
IL RIFORMATORE DEL MONDO MINETTI Ritratto di un artista da vecchio Di Thomas Bernhard
Con GLAUCO MAURI, ROBERTO STURNO E con: FEDERICO BRUGNONE, STEFANIA MICHELI, ZOE ZOLFERINO, GIULIANO BRUZZESE
Regia Andrea Baracco Musiche Giacomo Vezzani , Vanja Sturno Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta Luci Umile Vainieri Foto di scena Manuela Giusto Produzione Compagnia Mauri-Sturno
Il poliedrico regista Andrea Baracco, sempre così interessato all’umanità che si nasconde dentro quei personaggi che sembrano meno predisposti ad accoglierla, è il curatore di questo interessantissimo progetto della Compagnia Mauri-Sturno “Interno Bernhard. Qui, lo spettatore, pur rischiando di essere fagocitato da insoliti esempi di umanità, coglie l’occasione di entrare a conoscere i loro “ambienti vitali”.
Andrea Baracco, il regista dello spettacolo “Interno Bernhard”
Nel primo dei due testi di Thomas Bernhard, immenso e irrinunciabile autore del Novecento non solo tedesco, ci troviamo al cospetto di un duplice paradosso umano: un intellettuale sceglie di ricevere in casa propria, rinunciando al plauso ufficiale, coloro che lo insigniranno della laurea honoris causa per aver scritto un Trattato su come poter salvare il mondo: eliminandone l’umanità.
Roberto Sturno e Stefania Micheli in una scena di “Interno Bernhard”
L’autore del Trattato (un efficacissimo Roberto Sturno), pur consapevole che l’insigne premio gli verrà conferito da chi in realtà non ha letto l’opera o non l’ha compresa (vista la paradossale soluzione proposta e teorizzata in essa) non rinuncia al piacere, e quindi a quella parvenza di calore, comunque insito nell’attesa di un’insolita cerimonia privata.
Per poi trasformarla in una pubblica denuncia della perdita di confidenza degli umani con gli elementi della natura. Nessuno “vive”: ci si limita a trovare bello “esistere”. Tirare avanti. Per questa tragicomica consapevolezza, “il riformatore” preferisce isolarsi nel suo microcosmo mentale, oltre che fisico: un asfittico e opprimente ambiente plumbeo, quasi una cappellina cimiteriale sul cui trono/sepolcro campeggia un uomo vivo e morto, profondamente sensibile e solitario. Dove non è più tollerata aria “nuova” ed è ritenuto avvilente dover sprecare di prima mattina la parola “fuori”.
Qui, anche il tempo sembra aver trovato una misurazione autonoma: sono scritte parietali dove lo spostarsi di un raggio di luce fa da lancetta digitale. “Il riformatore” del caos non vive-sepolto in solitaria: viene accudito da una donna, con la quale è in continua opposizione: quasi un’urgenza per poter accendere una qualche scintilla vitale. Per fare entrare calore: oltre che con i soliti pediluvi.
Perché tutto gli rovina lo stomaco: la cucina, la filosofia e la politica. È un’ossessione di assoluto quella che sovrasta l’ineluttabile imperfezione dell’esistenza, per Thomas Bernhard. E che tramuta la commedia in tragedia. E viceversa. Non resta, quindi, che concepire la vita come un acrobatico esercizio di resistenza artistica.
Roberto Sturno e Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
Suonando “all’interno Minetti””, lo spettatore viene apparentemente accolto nella apparentemente calda hall di un hotel. Dove, Minetti (un trascendentale Glauco Mauri), ormai attore vecchio e disincantato, arriva in un 31 dicembre. Da trent’anni viaggia per teatri con la sua inseparabile valigia, dove custodisce la maschera di Re Lear. Anche nella hall di questo hotel, Minetti si confronterà con due giovani donne che ricordano in qualche modo le due figlie di Re Lear.
Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
Ma in verità la hall è (anche) il foyer di un teatro dove Minetti attende di essere convocato, anche questa sera del 31, per andare in scena con il suo personaggio. Il direttore del teatro non arriverà ma l’occasione dell’attesa sarà colmata da un racconto ammaliato e ammaliante sull’arte dell’attore. Una sorta di insolita lectio magistralis, dove “l’interno” fisico lascia penetrare quello mentale in un gioco di scambi, dove i personaggi del teatro osmoticamente passano nel foyer/hall e gli ospiti dell’hotel penetrano sul palco. Perché questa è l’arte di vivere: un’arte mai disgiunta dalla paura. Dove si va sempre cauti nella direzione opposta alla meta.
“Siamo venuti per niente, perché per niente si va -direbbe De Gregori- e il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è, che ricorda il colore di certe lenzuola di certi hotel”. Lo spettatore pretende di essere divertito e l’attore è tentato di assecondarlo. E invece no: va turbato. L’attore è inquietudine. L’attore deve terrificare.
Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
E intanto il direttore del teatro non arriva. Ma “più aspetti, più diventi bello” – dice Minetti. Qualcosa accadrà. Qualcosa di terrificante ma indubbiamente necessario. Che collega spettacolarmente e narrativamente le due facce (“Il riformatore del mondo” e “Minetti”) dello stesso “interno”.
Andrea Baracco, Glauco Mauri e Roberto Sturno
“Il direttore del teatro” arriverà: agli applausi. Lunghissimi. E, così come gli attori, sembra dirci: “Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa. La mia faccia nei vostri occhi…”.