Recensione di SCOPATE SENTIMENTALI – Esercizi di sparizione

– uno spettacolo di e con Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo, Mario Conte –

TEATRO ARGENTINA

1 Dicembre 2025

PPP Visionario – 50° anniversario dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini


Nell’ambito dei festeggiamenti che la città di Roma propone alla comunità in occasione del 50° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini attraverso il grande progetto “PPP Visionario – la più grande rassegna multidisciplinare, come ama sottolineare con orgoglio il Sindaco Roberto Gualtieri, che da ottobre a dicembre attraversa la città con eventi dedicati alla figura e all’opera di uno dei massimi intellettuali del Novecento – il Teatro di Roma, nello specifico, sceglie di omaggiare Pasolini con un trittico di appuntamenti .

Dopo la selezione dei testi di Roberto Scarpetti da “Ragazzi di vita” e “Petrolio” al Teatro Elsa Morante e l’ “Oratorio per i 50 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini” ideato e diretto da Giacomo Bisordi al Teatro Argentina, ieri 1 Dicembre è andato in scena “Scopate Sentimentali. Esercizi di sparizione” uno spettacolo di e con Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo, Mario Conte, sempre al Teatro Argentina.

Ecco allora che Timi, onorando l’eredità ricevuta da Pier Paolo Pasolini, lascia soffiare tutto il suo folle amore in un’erotica composizione, dove fa sua quell’energia che riesce a tenere uniti elementi che la logica vorrebbe in opposizione.

L’urgenza di dare forma a questa composizione – come dichiara in un’intervista rilasciata a Rodolfo di Giammarco – scaturisce dal riuscire a tenere insieme due spinte emotive contrastanti: quella del sentirsi inseguito dal rancore per essere stato abbandonato dal suo padre artistico “per il semplice fatto che è morto” e insieme quella del sentirsi incalzato dal desiderio di riavvicinarsi a Pasolini, fino ad “accettare quello che il poeta chiamava scandalo, il Cristo sulla croce, il divino che finisce”.

Timi dà avvio così ad una sua personale e laica rievocazione della passione della croce di Pasolini – uomo che non poteva sfuggire al suo destino – secondo un ciclo si stazioni scandito da quattro stagioni, ognuna delle quali composta da tre movimenti, che rievocano i colori emozionali propri di ciascuna stagione. Tracce dell’imprinting di questa struttura si rintracciano in un altro uomo ricco in umanità: Antonio Vivaldi.

Mario Conte, Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo (ph. Simone Cecchetti)



Sulle orme di Vivaldi con il complice estro di due compagni di viaggio quali Rodrigo D’Erasmo (violinista, compositore, arrangiatore e polistrumentista) e Mario Conte (musicista/sperimentatore dentro e fuori la musica elettronica) – Timi fa sì che ogni concerto per violino sia accompagnato da una sorta di sonetto descrittivo, che illustri ciò che la musica e le immagini video andranno ad evocare.

La scrittura di Timi contatta tutte le vibrazioni cromatiche della poesia, sapientemente restituita in musica contaminando la matrice apollinea con echi dall’esplosività dilaniata. Che ricordano, ad esempio, quella tensione a dar voce “all’inascoltabile” della musicista, cantante e pianista Diamanda Galás

Ecco allora che le melodie al violino di Rodrigo D’Erasmo si aprono a sconfinamenti graffiati, abilmente distorti e amplificati dall’artigianalità acustica in avanscoperta di Mario Conte. Arriva così allo spettatore un’accattivante sinergia tra parola-suono-immagine che sa restituire le varie anime, anche fantasmatiche, di Pier Paolo Pasolini.

Il tutto è concepito dentro un ciclo vitale dove la vita s’incontra costantemente con la morte. Proprio lì, sulla soglia. Come testimoniano le poltrone riservate in prima fila: dove “con noi” assistono allo spettacolo le anime belle care a Timi. Da Ornella Vanoni a Adriana Asti, passando per la Callas e per Attilio e Bernardo Bertolucci, fino alla Vitti, a Laura Betti, alla Magnani, ad Aberto Moravia, a Guido Pasolini. E poi lei, la mamma: Susanna Colussi.

Uno spettacolo “generoso” – come lo ha definito il Presidente della Fondazione del Teatro di Roma Francesco Siciliano nella sua presentazione dell’evento di ieri 1 Dicembre – al quale la comunità di Roma ha risposto con una partecipazione d’assalto. Una scelta – ha sottolineato Siciliano – “fortemente voluta” dall’Assessore alla Cultura di Roma Capitale Massimiliano Smeriglio

(ph. Simone Cecchetti)

Perché è uno spettacolo che facendosi testimone dell’eredità pasoliniana attraverso “un poietico” modo di stare al mondo, si prende cura di preservare tale eredità dal rischio di essere inghiottita dall’ossessione capitalistica alla mercificazione della bellezza.

Rischio che Timi ci fa entrare negli occhi, già prima dell’inizio dello spettacolo, attraverso i due pannelli ai lati del palco che riproducono la Venere del Botticelli – allegoria dell’amore come forza motrice della natura e quindi  energia vivificatrice che spinge alla creazione – distorta e addomesticata in un’icona da franchising. 

Dello stesso rischio ci parla l’immagine a tutto schermo sul palco: quello di ridurre la sensuale e dilaniante fecondità della parola di Pasolini ad un esotico souvenir, poggiato su una soffice e spensierata sabbia, carezzata dal rassicurante mood di un ukulele.

Questo – ci ricorda Timi – è quello che potrebbe restare della poetica e dell’estetica pasoliniana all’indomani di un deformazione mercificata, che farebbe della diversità tragressiva una moda commerciale. Privandola così di tutta la sua carica dirompente: divenendo “alla moda” – spiega Massimo Recalcati nel suo “Pasolini – Il fantasma dell’origine”perde fatalmente ogni suo potenziale critico divenendo una manifestazione della pervasiva capacità del potere di addomesticare anche ciò che può sembrare inassimilabile.

Ma ad un diverso sguardo quell’immagine di apertura, nonostante il suo essere riplasmata attraverso connotati aurei, morbidi ed ingenui, ricorda nella sua essenza quella bocca della figura a destra dei “Tre Studi per figure alla base di una Crocifissione” di Francis Bacon. 

Una bocca dilatata in un urlo disumano, dall’anatomia disgustosamente ambigua, che ritorna come costante in vari momenti dello spettacolo. Resa assai efficacemente da efficaci distorsioni della voce, del suono e delle immagini video. 

Perché quello di cui Pasolini si faceva autore e interprete, al di là e grazie alle sue contraddizioni, è una riflessione più ampia sulla condizione dell’essere umano. Una riflessione che parla anche dello smarrimento e dell’orrore sub-umano in cui può darsi l’esistenza. Dove il cadere degradante si fa spazio sulla possibilità di salvezza.

Ecco allora che Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo e Mario Conte – insieme ad Amerigo Cornacchione – ci lasciano con un particolare messaggio: “ci vuole incoscienza per vivere e incoscienza per morire!”

Pasolini, non a caso, chiedeva e si chiedeva: “Qual è la vera vittoria quella che fa battere le mani o quella che fa battere i cuori”?

La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare” (Pier Paolo Pasolini)


SCOPATE SENTIMENTALI

Esercizi di sparizione


Recensione di Sonia Remoli

Recensione FILIPPO TIMI LIVE – Non sarò mai Elvis Presley – di e con Filippo Timi

TEATRO ARGOT STUDIO

dal 10 al 13 Aprile 2025

Il palco del Teatro Argot Studio di Trastevere – a coronamento dei festeggiamenti per i suoi primi 40 anni (1984-2024)  – ieri sera ha ospitato l’incandescente debutto della prima delle 4 serate live del  “Filippo Timi Live Non sarò mai Elvis Presley”, prodotto da Argot produzioni.

A concertarsi con la sinergica performance musical-canoro-teatrale di Timi, il produttore e compositore romano Lorenzo Minozzi.

Il giocoso exploit di Timi – ricco in improvvisazioni dal fascino esistenzialista – trova avvincenti sinapsi artistiche e filosofiche con la sperimentazione sonora di Minozzi, compositore che fa sua la manipolazione armonica e ritmica di campionamenti ambientali.

Quello di Timi è un canto – e quindi un racconto poetico – sulle origini e su quello che ognuno di noi può farne. Un tema che tutti ci riguarda questo sull’eredità familiare, che come un imprinting ci modella e ci guida, fino ad un certo punto del nostro stare al mondo. E che poi va fatta propria, manipolata criticamente e quindi anche fedelmente tradita. 

Il canto di Timi é meraviglia: viscerale e ludico; ironico e sensuale; provocatorio e tenerissimo. Ha qualcosa di indelebile, di sacro. I temi di cui canta – personalissimi – arrivano con tutta la potenza vibrante di modelli archetipali, dove la burla sa di tragedia e la tragedia dell’abbraccio accogliente di un sorriso.

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi

Nel live di ieri sera, come un aedo che ama accompagnarsi non con la cetra ma con l’handpan – uno strumento composto da due gusci in metallo che opportunamente sfiorati producono vibrazioni eteree ed ipnotiche – ha intessuto il canto delle gesta della sua vita, lasciandolo contrappuntare dalle creative sonorità, sapientemente artigianali, del compositore Minozzi. 

Il tutto sullo sfondo di “paesaggi”, che contribuiscono a rievocare l’immaginario del progetto. Ad echi distorti di paesaggi televisivi – parco giochi dell’infanzia – si susseguono così visioni di riscritture paradisiache dell’età adulta. 

In scena “il paesaggio dei paesaggi”, dove le coordinate spazio-temporali si fondono e si confondono: dove il sopra si mescola al sotto; il prima al poi; il pieno al vuoto; il sacro al profano. Dove la giocosità di un circense stare al mondo felliniano si sovrappone ad una francescana natività. Dove “a incarnarsi” è un live, sul quale fa eco la cometa di rituali proiezioni.

Timi ricorda “la sua natività” come un luogo dal buio opprimente e dagli echi disorientanti propri della putrefazione. “Cosce dell’assurdo” da cui scappare “fuori dall’incompiuto”. Un paesaggio chiuso e cupo, ritemprato dalla musicalità della sua lingua natia: il perugino di Ponte San Giovanni.

E poi arriva la magia delle vibrazioni dell’handpan per accompagnare la scoperta della sconsiderata generosità dell’amore: quel “per te”, capace di cambiare i connotati alla realtà. “Per te farò sanguinare i fiori del pregiudizio”: una dichiarazione, un racconto di lotta, di speranza, di resistenza. Veicolato dall’espressività dell’armonica a bocca di Lorenzo Minozzi.

E se poi arriva la scoperta che la felicità “dura il tempo di una bancarella a Santa Marinella”, la cenere può comunque diventare “cipria”. Perché il finale sta anche a noi modellarlo: sdrammatizzando il “cemento ruvido” familiare con il politicamente scorretto dei “Griffin”. Perché l’essere nati da “sassi” immobili, sempre fermi nella loro orizzontalità – così suggestivamente visualizzata anche dalla modalità di percussione della chitarra di Lorenzo Minozzi – non esclude la ricerca e il raggiungimento di quella fluidità espressiva libera dal “giudizio universale”, cancro di prevedibilità.

Un “live” questo di Filippo Timi che scuote e che piacevolmente sorprende, fino ad inebriare lo spettatore di possibilità vitali. 

Perché Timi canta dell’importanza di accorgersi del paradiso nascosto nell’imperfezione dell’imprevisto, così diverso dai nostri progetti.  E fiorire: spuntando comunque, nonostante tutto. Prendendoci “cura anche dei simboli che ognuno di noi è”.

E allora poco importa non essere come Elvis Presley. Anzi, è meglio così.

Un teatro, quello di Filippo Timi, che prende e regala attenzione, in un gioco scenico misterioso e complesso fra parola, suono, musica, teatro. 

Un teatro che è prima di tutto coinvolgimento e come tale “fa volare”: un sogno che se non si può realizzare con le ali, si può assaporare però a piccoli sorsi. Un pò come quel cocktail  che Timi “ci offre”, già entrando in sala. 

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AMLETO² di e con Filippo Timi –

TEATRO AMBRA JOVINELLI – da 7 al 12 Gennaio 2025

“Chi va là?” – sembrano voler continuare a dire quelle minuscole transenne in proscenio che dovrebbero difendere il Castello di  Elsinore: quello che entrando in sala immaginiamo dietro il sipario chiuso. Ma queste transenne bassissime, scopriremo non poter proteggere nulla.

Si limitano quindi solo a veicolare un avviso: “attenzione, pericolo !”. 

Ma si sa, dietro ad ogni pericolo si nasconde anche una luce.

“Il male è inattaccabile…e ci osserva come una spia…si può solo fingere”.

E’ la voce oracolare di Filippo Timi a tuonare questo proemio. E ci avverte di come contro il male inattaccabile si può solo opporre la forza creativa del plasmare, del dare forma, dell’ornare, dell’inventare, del contraffare. Del “fingere”, appunto.

L’assunto base da cui parte il regista Timi è quello per cui “nessuno è innocente”. 

Fare il male, infatti, è un istinto che riceviamo tutti, per natura, a corredo del nostro venire al mondo. L’amore no: l’amore lo si può solo imparare.

Fare il male si rivela anche piacevole e liberatorio: è l’espletamento di un istinto naturale. Come è riuscita a confessarci, in bilico tra incredulità consapevole e comicità tragica l’irresistibile Gertrude della Mascino. Che qui, nell’adattamento di Timi, ci si dà – naturalmente erotica e innocentemente  felice – nel rivelare come il giorno che “ha ucciso” sia stato il più felice della sua vita. Soddisfare un istinto è un automatismo che non implica un responsabile uso della libertà. E’ un semplice e feroce meccanismo naturale.

Marina Rocco , Elena Lietti, Filippo Timi , Lucia Mascino

Cifra dello spettacolo è infatti il far emergere in superficie, dal celebre testo shakesperiano, la tragica condizione ontologica con la quale veniamo gettati al mondo: corredati da un solido istinto alla sopraffazione. Ai protagonismi.

Una tragedia, questa, che Timi sceglie di versare nelle orecchie del pubblico attraverso la sua declinazione comica: perché ogni tragedia ha in sé anche qualcosa di terribilmente comico. Un funerale è anche una festa; una sarabanda può rivelarsi la possibile variazione di un valzer. 

Filippo Timi è Amleto – Elena Lietti è Ofelia

E nel farlo Timi denota carisma, dimostrando di saper “fingere”. Lo fa servendosi di allusioni esplicite, di metafore e ammiccamenti tratti dal mondo pop della pubblicità, dei cartoni animati, della musica leggera. Insomma dalla nostra “grande madre” televisiva. 

Noi del pubblico si gode: la tesi di Timi funziona. E’ scientificamente provata. 

Timi, oltre che istrionico attore e regista poeticamente gotico, si dà anche come profondo autore dell’adattamento del testo shakespeariano. Geniali i suoi monologhi: come quello in cui dà voce al racconto (“in diretta”) poeticamente “organico” della descrizione del metamorfico passaggio di Ofelia alla morte. Calibratissima la scelta del regista nell’individuare proprio nell’ingenua eleganza metafisica di Elena Lietti l’interprete della sua Ofelia.

Filippo Timi è AmletoElena Lietti è Ofelia

Arguti e commoventi i monologhi legati alla doppia partitura di un’incandescente Lucia Mascino. Nel ruolo di “un’attrice” ci regala un’acuta e brillante traduzione – in un triviale linguaggio dei segni – della tronfia e stantia declamazione attoriale del suo collega attore: un polimorfico Gabriele Brunelli, generosamente versatile nell’ardimentosa multipartitura affidatagli da Timi.

Lucia Mascino qui è l’Attrice – Gabriele Brunelli qui è l’ Attore

Nel ruolo di Gertrude invece, come segnalato sopra, la Mascino ci sorprende con l’accorato monologo-confessione sulla sua (e nostra)  perversa modalità acrobatica di umani “motociclisti senza casco”. Condizione esistenziale iconograficamente ben sintetizzata in quella postura impudentemente aperta di Gertrude inscritta nel trono, che allude con grottesca esasperazione anche al leonardiano “Uomo vitruviano”.

Lucia Mascino è Gertrude

E poi quella lunare partitura per l’estrosa Marina Rocco: lei, l’altro lato della luna dell’Amleto padre. Lei, il suo fantasma: Timi, meta-teatralmente la fa apparire a noi del pubblico prima ancora che alle guardie, teoricamente deputate a proteggere il castello. Perché lei è un fantasma che soffre del continuo vagare, senza trovare una meta (un parcheggio): rischiando di non essere visto e quindi creduto.

Marina Rocco è il fantasma del padre di Amleto

E’ un fantasma che sogna di vincere il riconoscimento come miglior attore protagonista, a ricompensa (e vendetta) di ciò che “pare” aver fatto e che gli sia stato fatto. E alla fine, in un parossistico spasmo di piacevole dolore, raggiungerà la sua meta (il suo parcheggio): sarà visto e creduto. E vincerà. Ma nella vita come nel teatro non esistono “parcheggi”: tutto è fluido. Anche ciò che “pare” così chiaramente stabile. Tanto che il fantasma ci confesserà, in chiusura, che ora che “ha vinto” ha smarrito la via verso casa.  

Marina Rocco è il fantasma del padre di Amleto

Timi è un sapiente creatore di atmosfere: ha fiuto nello scovarle tra i sottotesti della tradizione e sa restituirle allo spettatore, che vi si ritrova immediatamente immerso. Scegliendo a quale livello di profondità lasciarsi calare in quei suoi paesaggi subacquei, onirico-visionari. Dove tutto quello che non è, è. 

Filippo Timi Amleto, Gabriele Brunelli qui lo zio Claudio, Marina Rocco il fantasma del padre di Amleto

Sono regioni della nostra psiche, quelle che lui ha urgenza di condividere con il pubblico, dove il principio di causa-effetto e quello di identità e di non contraddizione non si dimostrano efficaci nel provare a descrivere ciò che lì accade. Funziona meglio invece quel “vedere aperto e in continuo movimento” dove tutto confluisce e si mescola: come in un quadro di Hieronymus Bosch.

Filippo Tipi è Amleto – Gabriele Brunelli qui è Francesco, la guardia

E’ l’epifania di quell’assaggio di dionisiaco che ci rivela a noi stessi e ci imbarazza; ci fa ridere perché ci provoca ancora una punta di pudore. Cadono le maschere che abbiamo scelto anche noi di indossare (e di far indossare) e ne vanno in scena di altre, di nuove. 

Sono realtà fantasmatiche e insieme carnalissime, sono simboli, metafore, allegorie, figure retoriche. Dove i voli valgono come le cadute; le acrobazie come le bassezze; i colpi di genio come le trivialità.

Filippo Timi è Amleto

Qui, in questi paesaggi inconsci, Timi va a cercare il suo Amleto: l’Amleto che non resta bloccato tra le regole della razionalità logica ma che si muove in una razionalità diversa, molteplice, tremendamente libera.  Dove a parlare è ciò che non può essere detto. 

Improprio è separare una realtà dall’altra: Timi infatti non alza barriere murate ma “a barre”, dove le due regioni della nostra psiche possono ancora comunicare. Una quarta parete osmotica, la sua, dove nessuno è davvero in gabbia. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello STUDIO PER UNA DANZA DEI SETTE VELI – Filippo Timi

SPAZIO DIAMANTE, dal 29 Aprile al 12 Maggio 2024

E’ un esotico eden crepuscolare, lussuriosamente informe, abitato da un firmamento di esuberanti sonorità.

E’ lo STUDIO PER UNA DANZA DEI SETTE VELI presentato ieri alla serata inaugurale del Festival inDivenire  allo Spazio Diamante dal collettivo artistico composto da Filippo Timi con Lorenzo Chiuchiù, Carlotta Gamba, Mattia Chiarelli, Vittorio Allegra, Alessandro Apostoli, Leonardo Carducci, Tiziana Di Tella, Andrea Memoli, Claudio Totino, Teresa Azzaro, Paola Balzarro, Stefania De Santis nel ruolo di Erodiade.

E’ un non-luogo che offre ospitalità a creature meravigliosamente ibride, che hanno mantenuto una forte aderenza al mondo ancestrale. Sa pulsare di sfinente carnalità e insieme di decadenti atmosfere metafisiche.

Gettato sotto un cielo di ombre, è “un illimitato” fuori dai principi della logica e oltre i principi della morale: ogni contrario scivola fluidamente nel suo opposto e viceversa. Si dà così come un paradiso perduto e di perdizione.

Qui il Tempo assume le sembianze di un clown dal lungo crine, che con familiarità epifanica si palesa muto. 

Demiurgo del libero arbitrio è la grande madre Erodiade (una dolce mefistofelica Stefania De Santis) dal gesto e dall’espressività così sonori, da andare ben oltre la capacità comunicativa della parola. 

Lo stesso Erode le riconosce il potere di donare moto alle acque. E’ lei il motore delle azioni e delle intenzioni: sua l’energia cinetica applicata agli elementi della natura, inclusa quella umana. 

La manipolazione sulla figlia è tale da non attribuirle un autentico nome proprio, quindi neppure un’autentica identità. Non a caso, con raffinata psicologia, l’Erode Timi gioca sulla plurisemanticità del suo presunto nome: Salomè – Solo me – Salume. 

Su Erode però la figlia di Erodiade ha un suo inscalfibile potere femminile, di natura ancestrale. E con indomita tenerezza sensuale rivendica solo e soltanto “la testa” del Battista. E alla fine la ottiene. Interessante qui come l’Erode di Timi si apra ad una sensibilità “ondivaga”,  propria della psiche femminile, provando a barattare la testa con altre parti del corpo del Battista. Ma il desiderio della ragazza è ossessivo: incanalabile.

Al personaggio di Erode Filippo Timi affida il tentativo e lo sforzo di tenere insieme ciò che tende a restare separato, potere insito in ogni “raccontare”. E laddove il potere della parola si rivela insufficiente e ambiguo, ricorre al sacro potere atavico della musica strumentale. Senza escludere quella melodica, attraversando trasversalmente le note di malinconica sensualità del fado fino all’esplorazione sensoriale dell’amore “…La parola non ha/Né sapore, né idea/Ma due occhi invadenti/Petali d’orchidea/Se non hai/Anima, ah/Ti sento/La musica si muove appena/Ma è un mondo che mi scoppia dentro/Ti sento/Un brivido lungo la schiena/Un colpo che fa pieno centro/Mi ami o no?…”.

E’ un’espressione di  mascolinità davvero molto interessante quella che ci propone Timi, che sa di narcisismo e di accoglienza. E poi ci sono i colori della sua voce: irresistibilmente contagiosi. Nonostante gli occhiali a specchio. Anzi tali proprio perché conservano quei sacri germi della vocalità di Carmelo Bene sommati a quelli di Demetrio Stratos. Un Erode, il suo, inquieto, istrionico, intrepido, straripante.

Delicate e maledettamente accattivanti le due figure femminili di Erodiade e di Salomè. Profili femminili “astrali”, nella loro carnalità. Stelle, che anche quando cadono continuano a produrre luce.

Intrigante e profondo questo studio su “La danza dei sette veli” incentrato attorno ad una trinità ancestrale (e contemporanea) che si avvale di un lavoro collettivo di promettente intensità.

Il direttore artistico Giampiero Cicciò e l’ideatore del Festival inDivenire Alessandro Longobardi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del docufilm SCARROZZANTI E SPIRITELLI – 50 anni di vita del Franco Parenti – regia di Michele Mally –

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023, Auditorium Parco della Musica – 23 Ottobre 2023 –

Poesia di luce e di speranza, 50 lunghe candele fanno ardere di fulgente intima magia le emozioni e i ricordi dei primi 50 anni di vita di quel “santuario della parola” che è stato, è, e sarà il Teatro Franco Parenti.

“Davar” in ebraico significa, infatti, “parola”. Ma anche “avvenimento”. Parlare quindi vuol dire anche far accadere le cose. Sacro è il fuoco della parola, che crea la vita umana. Divino è il legame che istituisce tra il visibile e l’invisibile. 

Andrée Ruth Shammah al Teatro Franco Parenti

Ecco allora che l’incandescente ed eclettica Andrée Ruth Shammah decide di riplasmare lo spazio teatrale, predisponendo una scenografia potentemente essenziale. Capace, cioè, di ospitare un grande fuoco attorno al quale invitare a riunirsi, in magico cerchio, tutti i più cari amici del Franco Parenti – i testoriani “scarrozzanti” – testimoni ed eredi della filosofia di questa “Casa del teatro”.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli” presso il Teatro Franco Parenti

Tanti gli amici registi e attori, con un ruolo-chiave per la storia di vita del Parenti, che hanno condiviso anche nel docufilm la loro testimonianza sul rapporto con questa realtà: Mario Martone ne sottolinea il legame imprescindibile con Milano; Marco Giorgetti il fatto di essere un teatro-mondo che soddisfa ogni esigenza culturale e di vita; Anna Galliena ne ricorda la genesi come “di una storia che non sembrava e che invece poi è stata”; Roberto Andò evidenzia che quello che si sente al Parenti è un’idea di teatro che è un autoritratto della Shammah. Solo per citare alcune delle testimonianze colme d’emozione che si sono susseguite. E poi la dichiarazione-incoronazione di Filippo Timi: “La vera fortuna, e non possiamo far finta che non lo sia, di questo teatro sei tu, che sei il presente. E’ fondamentale Andrée perchè “x” che tende all’infinito ha bisogno di un punto e Andrée sei tu. Chiamalo il cuore, chiamalo The Mother, chiamalo luce”.

In sala ieri sera, oltre a molti di loro, la prestigiosa presenza umana e professionale di Adriana Asti, testimone del profondo sentire che la lega al Parenti e alla Shammah.

Ma il docufilm – la cui regia è affidata alla densa sensibilità di Michele Mally – tiene memoria anche di coloro che solertemente lavorano e hanno lavorato dietro le quinte, ovvero gli artigiani del Teatro. Nominati uno ad uno: perché è dando un nome che si riconosce un’identità. Perché anche loro sono “il fuoco del teatro” – come ha ricordato con sincera commozione Raphael Tobia Vogel.

Scena di un contributo video di Adriana Asti ne “La Maria Brasca”

E per quelli che non ci sono più – in primis Franco Parenti, Giovanni Testori, Dante Isella ma anche e soprattutto Eduardo De Filippo, quelli che la Shammah chiama gli “spiritelli” e che sono stati “pericolosi perché hanno vissuto i loro sogni ad occhi aperti con il proposito di attuarli” – la loro assenza sarà presente attraverso il fulvido fuoco del ricordo di questa splendida comunità. Fuoco e quindi medium tra il nostro e il loro mondo. 

Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah

Come nel 1973, è stata la serata del 16 gennaio 2023 quella in cui si è rievocato l’inizio dell’attività dell’allora Salone Pier Lombardo. Quando cioè andò in scena la prima regia di Andrée Ruth Shammah: “L’ Ambleto” di Giovanni Testori, primo capitolo della “Trilogia degli Scarrozzanti”. E proprio nell’incontro del 16 gennaio scorso, intitolato “In compagnia della loro assenza”, si è consumato questo solenne e “primitivo” rito collettivo: per celebrare il Teatro. Prima ancora che il Franco Parenti. 

Andrée Ruth Shammah in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Da sempre l’uomo affida al rito i momenti di passaggio – così ricchi di pericolosa opportunità – della sua esistenza personale, nonché della collettività di cui fa parte. E cerca in esso la garanzia del mantenimento della propria identità e di quella della comunità di appartenenza.

Quello infatti che l’arguta direttrice artistica ha scelto di mandare in scena per il magico attraversamento del 50esimo anno di vita della sua realtà esistenziale, prima ancora che professionale, è un sacro “atto di scelta”, di ancora viva testimonianza e aderenza ad uno stile di vita e di lavoro.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Ad aprire la preghiera-rituale comune, la Shammah ha investito il caro amico Massimo Recalcati – rinomato psicoanalista e saggista ma anche appassionato amante del teatro – che ha gettato luce, con la solenne grazia della sua parola, sulla deriva dalla quale è bene liberare l’atteggiamento della “nostalgia”. Lei che ci avvolge così prepotentemente nel momento in cui avvengono degli eventi che segnano un forte cambiamento di rotta al nostro navigare nel mare della vita. Ma la sacra esigenza del ricordare, propria dei momenti di rievocazione di un ameno passato, lungi dal favorire atmosfere di mero rimpianto che portano ad una sterile stagnazione o ad una paralisi evolutiva, può e deve prendere la forma di una profondissima gratitudine. Perché chi non c’è più è presente proprio grazie alla sua assenza. Nostro compito è allora quello di “portarli con noi”, nel presente e nel futuro. Perché è questo ciò che davvero in maniera più autentica essi desiderano. E dei loro insistenti desideri sono ancora intrisi gli stessi muri del Teatro. Perché così fanno i desideri, quelli autentici.

Franco Parenti è “L’Ambleto” di Giovanni Testori

Ecco allora anche la scelta di continuare ad assegnare l’incipit del docufilm alla voce-presenza dell’ ambletico Franco Parenti. Così come la chiusura del docufilm: perché ogni fine contiene in sé un nuovo inizio, un nuovo incipit.

Perché l’importanza dei “maestri” – coloro cioè che “hanno portato con sé un po’ di mondo da difendere” – chiede di essere ricordata. Ma soprattutto “presa”: colta e fatta propria. Nel presente. In un ciclo vitale, capace di continuare a far emergere fresca linfa, all’interno di un naturale e prezioso passaggio di consegne.

Perché così “il teatro existerà contra de tutto e de tutti, enzino alla finis de la finis” .

Raphael Tobia Vogel in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”


Scarrozzanti e spiritelli

50 anni di vita del Teatro Franco Parenti

ideazione e direzione artistica Andrée Ruth Shammah

regia Michele Mally

sceneggiatura di Didi Gnocchi e Paola Jacobbi

con i contributi video di Raphael Tobia Vogel

una produzione 3D Produzioni

in collaborazione con Teatro Franco Parenti e Rai Cinema

con il sostegno di MIC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo



CALENDARIO DELLE PROIEZIONI

Lunedì 6 Novembre 2023 – ore 20:00 : Sala Excelsior – Anteo Palazzo del Cinema Milano

Lunedì 27 Novembre 2023 – ore 19:00: Cinema Modernissimo – Cineteca di Bologna


Recensione di Sonia Remoli