Recensione dello spettacolo L’ ALBERGO DEI POVERI di Maksim Gor’kij – regia di Massimo Popolizio –

TEATRO ARGENTINA, dal 9 Febbraio al 3 Marzo 2024 –

Trova accampamento, in un plumbeo alloggio di tavole e materassi, una comunità di esseri umani emarginati (la cura delle scene è di Marco Rossi e di Francesca Sgariboldi; i costumi di Gianluca Sbicca).

Qui (quasi) tutto racconta uno squallore affollato e miserevole, terra fertile per il crimine, la violenza e l’ignoranza. 

Miracolosamente però convivono in questo “organismo avvelenato” – nonostante la prassi di mettere a tacere la coscienza con la vodka – la passione per la lettura e l’urgenza di imparare parole nuove. Per tentare, quasi inconsapevolmente, di trovare i modi per dire l’assurdo dello stare al mondo.

Perché nuove parole danno vita a nuovi pensieri. E in effetti, l’attività che affascina di più questa disperata comunità, oltre al gusto atavico per la sopraffazione, è il produrre e l’ascoltare racconti. Quella modalità cioè di stare “insieme” al mondo che tenta di dare forme al caos esistenziale, tenendo in vita ciò che rischia di venir dimenticato, o cancellato. 

La regia esalta mirabilmente questa coralità – che si può dare solo attraverso “tutte” le singole individualità – fino a farne un autentico elogio. Ne scaturisce un ensemble di musicalità visiva ed uditiva di magnifica armonia. 

E forse è proprio questo il messaggio più prezioso che accompagna lo spettatore anche fuori dal teatro: stare insieme raccontandoci ed ascoltandoci ci salva. 

Ci salva un umanesimo che può farsi spazio in questa vita al di la’ della tentazione fortissima a sopraffarci. Perchè il male è più atavico del bene e ci costituisce come esseri umani. Ma l’amore, che non riceviamo per natura, s’impara. Si può imparare anche attraverso l’arte della parola. 

Al di là di un dio distratto o indifferente alle nostre sorti, in noi si può rintracciare una spiritualità che nasce dal mettere insieme tutte le nostre singolarità. Si può fare. E il teatro non smette di ricordarcelo.

Ce ne dona uno splendido esempio Massimo Popolizio con la sua scelta registica d’ensemble ma prima ancora Emanuele Trevi che nel curare la riduzione teatrale della drammaturgia originale dona accoglienza anche a delle inserzioni letterarie tratte dalla nostra contemporaneità.

Perchè questo rende preziosa la storia e quindi le opere del passato: tornare a rileggerle alla luce dei nuovi tempi, per riuscire ogni volta a tradurne qualcosa in più, qualcosa che prima risultava intraducibile. 

L’albergo dei poveri è un microcosmo di umanità dove ci si soccorre nei corpi e nelle anime, nonostante tutto. È un luogo plumbeo, sporco e violento eppure non privo di una speciale purezza d’animo: quella che si raggiunge conoscendo le tenebre ed emergendone, come dice Luka (personaggio di cui un radioso Massimo Popolizio ne veste la luce delle ombre).

L’albergo infatti accoglie anche lui, il più forestiero dei forestieri: si fermerà solo di passaggio, come un pellegrino. Ma come un pellegrino errante, in viaggio verso luoghi sacri, non a caso (forse) sceglierà di fermarsi a fare tappa proprio nella “sacralita” di questo dimenticato albergo, illuminando le ombre che lo costituiscono. E lasciando traccia di un nuovo possibile umanesimo al di là della disperazione.

La sua partenza, più che un facile abbandono può essere letta come un prezioso messaggio: che non salva affidarsi a singole individualità idealizzandole. Salva avere fiducia nella varietà preziosa e imperfetta del gruppo, della comunità. 

L’albergo è un luogo dove possono avvenire comunque ogni giorno piccoli miracoli d’amore, di riconoscimento, di attenzioni. La cura dei movimenti scenici (di Michele Abbondanzaza), la drammaturgia luminosa (di Luigi Biondi) e il particolare disegno alchemico del suono (di Alessandro Saviozzi) ci accompagnano nel riconoscerli: di potente bellezza estetica e spirituale alcuni momenti della narrazione che ricordano l’iconografia caravaggesca: da ‘I bari‘ a “La vocazione di San Matteo“. 

Unire le nostre fragilità non dimenticando la speciale unicità di ciascuno è la proposta estetica ed esistenziale di questo necessario lavoro.

Con piacere se ne trova traccia anche nel libretto di scena, dove in prima pagina trova accoglienza il nominare tutte la miriade di presenze artigianali che contribuiscono al risultato finale dello spettacolo.

A distanza dalla prima rappresentazione di questo testo del 1902 per la regia di Konstantin Sergeevič Stanislavskij e dalla successiva del 1947 con la quale si inaugurò l’elegia di questo nuovo titolo e la nascita del Piccolo Teatro di Milano ad opera  di Giorgio StrehlerPaolo Grassi e sua moglie Nina Vinchi Grassi, questa nuova edizione del 2024 curata drammaturgicamente da Emanuele Trevi e registicamente da Massimo Popolizio ha il potere di raccogliere – e insieme attualizzare – tutta la potenza dell’eredità del testo originale di Maksim Gor’kij .



Recensione di Sonia Remoli

Ferito a morte

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 15 Gennaio 2023 –

Pigramente guardare. Preferire sabotare i timpani e usare l’orecchio come fosse “il buco di un lavandino”, addomesticandolo solo all’ascolto di racconti. Non farsi tentare dal fascino conviviale dei cibi; non lasciarsi guidare dal fiuto; non abbandonarsi al tatto. Solo guardare. E poi: preferire rinunciare.

Andrea Renzi (Massimo adulto) in una scena dello spettacolo “Ferito a Morte” di R. Andò

Quasi creando un rapporto biologicamente chiasmico tra natura e vita umana: la natura è la nemesi della vita, perché nemesi è la grande occasione mancata. “Quanto siamo fatti di ciò che possiamo perdere?”. E allora perché non godere perversamente nel perdere occasioni. Soprattutto quando è proprio lì, facile, a portata di mano. Galleggiando.

Andrea Renzi e Paolo Mazzarelli (Sasà) in una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Per poi abbandonare ogni pigrizia nel costruire una propria narrrazione : attenti e accuratissimi nel creare la “suspense”. Obbedendo alle aspettative “degli altri” che pretendono, seppur impazienti di arrivare al punto, di venir eccitati dalla dovizia dei particolari. Inventati, spesso. Ma non importa: la vita si inventa, non si vive.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte ” di R. Andò

È colpa della città che “o ti ferisce a morte o ti addormenta”. Nella magnifica regia di Roberto Andò costruita sull’adattamento di Emanuele Trevi (celebre “coltivatore” di pure forme laterali di scrittura, dalla recensione alla prosa di viaggio, dalla saggistica alla narrativa pura, dalla memorialistica all’epistolario) quest’affermazione diviene un mantra. “Boccheggiato” da uomini che, in un seducente gioco di specchi e di proiezioni tridimensionali, si accontentano di vivere nel mare della vita, come in un rassicurante acquario.

Il rinomato regista Roberto Andò

Dove, grazie ad una sapiente costruzione scenografica continuamente in movimento, abilmente “velata” o “freezzata”, il passato si confonde con il presente. Un tempo scandito e numerabile solo attraverso il ricordo della donna che quell’estate “furoreggiò”. Si fa per dire: ogni donna si dà cura di informare “in anticipo” quali sono i suoi “gusti “, così da evitare insopportabili sorprese. Insomma, si vive con “un libretto delle istruzioni” per tutto.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

I dialoghi, com’è nella cifra stilistica di Andò, che qui si coniuga perfettamente con la qualità del testo di Raffaele La Capria, tendono ad essere sostituiti da lunghi monologhi-confessioni: dimensione dove poter rintracciare la misura, la chiave, per penetrare la città e i suoi misteri, aldilà di una misurazione del tempo cronologica. Concezione “iniziatica” della letteratura, declinata assieme a Emanuele Trevi, che ne ha curato l’adattamento con la sua caratteristica lucidità impeccabilmente intensa.

Emanuele Trevi

È un uomo dal thymos ancora intriso del trauma della guerra, quello raccontato in questo spettacolo, terrorizzato dall’ambiguità del reale, nonché dall’ambiguità del linguaggio. E che, per “reazione”, preferisce riporre la propria fiducia chiudendosi, nella presunta verità di un solo punto di vista. Perché come non si sa cosa nasconda l’acqua, così non si può sapere cosa ci nasconda la vita.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Si celebra così lo iato tra ciò che appare e ciò che è, tra la voce dei monologhi e la realtà dei fatti. Ma così gli “appetiti” finiscono per sopirsi, se si decide di rinunciare alla “caccia” (tranne Sasà, il Mandrake dell’improvvisazione). Paura e coraggio sono le due facce del desiderio ma qui si sceglie di “parlare” di fare l’amore, piuttosto che farlo davvero.

Sabatino Trobetta (Massimo giovane) e Laura Valentinelli (Carla) in una scena dello spettacolo

Tutta la narrazione è registicamente gestita da Massimo, narratore interno ed esterno, che anche scenograficamente abita prevalentemente una cameretta, di vanghoghiana memoria, costruita fuori dal palco ma ad esso contigua. Sospeso tra flusso di coscienza, sogno, ricordi e flashback. Sul palco si aprono e si chiudono fluidamente scene (curate da Gianni Carluccio, così come il disegno luci), a volte anche parallelamente, come fossero cassetti di un grande troumeau: la vita. Dove si vive come “monadi”, come “fotografato” con genio registico attraverso la scena esemplare dell’apparente “convivio”.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Non si ama entrare nella relazione con l’imprevisto che l’altro costituisce. Così ognuno si costruisce una propria weltanschauung, una propria visione della realtà, rendendola consona e accettabile a se stesso e agli altri. Quelli del Circolo: nuovo macrocosmo. È così confortevole! “Una vestaglia tiepida”, così come il sole. “Noi del Sud siamo predisposti al fascismo”. Ovvero ad abdicare al libero arbitrio, che implica quel gran fardello delle responsabilità. Meglio le catene, l’obbedienza: com’è nelle più intime corde della natura umana. Restare eternamente figli, incapaci di desiderare lo sviluppo della propria autonomia.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Ma è anche tutto così noioso! Inevitabilmente. E subdolamente feroce. Tanto che la solitudine prende il sopravvento, nonostante si stia prossemicamente vicini. E ci sono scene che sembrano uscite dal pennello di Edward Hopper.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

E si finisce per eccitarsi per l’ebrezza della morte. E per il dolore, che fa sentire vivi, in un mondo ovattato dalla menzogna, rivelata narrativamente in scena da superfici specchianti che non si limitano a “riflettere” ma anche a “proiettare”.

Complici di eleganti vizi e bizzarrie, un microcosmo di due camerieri: una donna e un uomo che nell’assecondare i loro “padroni” contribuiscono visivamente a creare scene alla Jack Vettriano. Meravigliosi i costumi di Daniela Cernigliaro.

Uno spettacolo fatto per gli occhi. Uno spettacolo che incanta. Che sceglie le immagini come veicolo privilegiato per arrivare a toccare il fondo. Delle nostre anime. Un inno alla risalita, all’ebrezza dell’aprirsi alla tridimensionalità della vita. Complice un cast impeccabile.