Recensione di SABATO, DOMENICA e LUNEDI – regia Luca De Fusco

– Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo –

TEATRO ARGENTINA

dal 25 Novembre 2025 al 4 Gennaio 2026

“Sì, ma ci vuole coraggio”.

Con queste parole Eduardo De Filippo decide di farci conoscere il titolo del romanzo che zia Memé sta scrivendo con l’aiuto del Dott. Cefercola.

Eduardo De Filippo

Memé – scissa tra una maternità iperprotettiva e una femminilità d’avanguardia – è donna che non si accontenta rassegnata e soddisfatta. Piuttosto è alla continua ricerca di conoscere se stessa, per un bisogno irrinunciabile di sentirsi viva, piena di entusiasmo. 

Il suo romanzo è infatti una sorta di autobiografia che si propone di trasformare il caos “dei ricordi, delle impressioni, delle delusioni, delle rinunzie” in una narrazione. Stimolando così in lei un processo interiore di autoconsapevolezza tale da permetterle di dare un senso alla propria esistenza, ridefinire la propria identità, elaborare il passato e connettersi più profondamente con sé stessa e con gli altri.

E’ lei, zia Memé (qui una sapientemente umana Anita Bartolucci) il punto di riferimento della famiglia, quando si tratta di capire come meglio relazionarsi l’uno all’altro.

La zia dichiara infatti che, sebbene nella sua vita inevitabilmente ci siano state delle rinunce, “la mia vita è stata una vita felice, o per lo meno ho fatto tutto il possibile per farla essere come volevo io”.

Quindi, a qualche livello, Eduardo De Filippo ci sta dicendo che si può essere felici, “sì, ma ci vuole coraggio”.

Teresa Saponangelo (Rosa Priore) – Claudio Di Palma (Peppino Priore)

Perché ci vuole coraggio per aprirsi fino a fare “esodo” dal nostro egoismo, per diventare “prossimo” dell’altro. Superando le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza.

Coraggio che sfugge, a volte, a Peppino (qui un luminosamente inquieto Claudio De Palma). Il quale nei momenti in cui tenta di entrare in relazione con qualcuno, soprattutto con sua moglie Rosa (qui una Teresa Saponangelo di vertiginosa bellezza), si sente “invaso” da immaginifiche presenze. Tanto da reagire sentendo l’urgenza ossessiva di “chiudere gli occhi” a tutte le finestre. Come a tenere fuori tutti gli sguardi su di lui.

Ci vuole coraggio allora anche a restare in ascolto dell’altro per la sua unicità, fatta di fragilità. Entrare in relazione significa infatti farsi luogo di creazione di significato. Luogo che trascende la semplice connessione, per trasformarsi in un percorso di cura reciproca, di scoperta di sé e quindi di superamento del proprio egoismo. 

Rossella De Martino(Virginia, cameriera), Paolo Serra (Luigi Ianniello), Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

E poi ci vuole coraggio anche a tirar fuori “le amarezze” o, ancor meglio, a discuterne con l’altro non appena si palesino. Al di là dell’angoscia di essere esclusi dal suo sguardo e dalle sue attenzioni. Senza reagire solo in difesa, ma anche in avanscoperta. Aprendosi all’intimità di un dialogo: “Noi – dirà Peppino sul finale a sua moglie Rosa – io e te, siamo stati tanti anni insieme, abbiamo fatto tre figli, e non siamo riusciti a raggiungere quell’intimità che ti fa dire pane al pane, vino al vino”. 

Il coraggio di cui ci parla Eduardo si relaziona con la paura, che può essere saggia, e diventa l’intervento umano che supera l’istinto. Perché qualcosa di luminoso lo chiede, da dentro di noi.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Profondamente acuta la scelta registica di Luca De Fusco di valorizzare questa tensione tra dentro e fuori, tra conosciuto e sconosciuto, tra sè e altro da sè, visualizzandola attraverso lo spazio scenico -fisico e metaforico- del balcone. 

Uno spazio che rappresenta il confine tra pubblico e privato: un elemento di transizione tra interno ed esterno, tra passato e futuro. Che funge da specchio per le emozioni e le aspirazioni umane: dalla celebrazione dell’amore romantico, alla rappresentazione della malinconia esistenziale. La cura delle scene e dei costumi è di Marta Crisolini Malatesta.

(ph. Tommaso Le Pera)

Icastica la scena di apertura dello spettacolo con i protagonisti – tranne Rosa e Virginia intente nel laboratorio alchemico della cucina – prossemicamente “in relazione” sulla soglia del balcone di casa Priore. Chi immergendosi, chi sfuggendo, la luce surreale del proprio sé più intimo e inconscio (la cura della drammaturgia delle luci è di Gigi Saccomandi). Tutti sotto un cielo azzurro, abitato da nuvole che parlano di impermanenza, di trasformazione, di mutevolezza. Ma anche di libertà.

Non a caso “Sabato, domenica e lunedì “ è una commedia che Eduardo inserisce nella “Cantata dei giorni dispari”: una raccolta di commedie – scritte dal 1945 al 1973 – dove i “giorni dispari” sono quelli negativi, quelli legati a ciò che resta della realtà sociale, dopo le distruzioni materiali e morali causate dalla guerra.  

E la prima forma di socialità ad essere analizzata è proprio quella della famiglia – specchio dei cambiamenti sociali – mostrando la frammentazione del nucleo patriarcale, i conflitti generazionali, il difficile rapporto tra padri e figli. Ed evidenziando come l’unità familiare possa sgretolarsi sotto il peso di tensioni individuali e sociali, riflesso anche del disagio di un’epoca. 

Qui in“Sabato, Domenica e Lunedì” Eduardo, con la sua sapiente cifra stilistica dolce-amara, lascia emergere dai toni della commedia temi di rilevanza sociale, come ad esempio il mito del lavoro e il suo efficientismo sterile, che finisce per svuotare e rendere gli uomini spaesati di fronte alla gestione del tempo libero. E ancora, la seduzione della pubblicità e la sua ipocrita fidelizzazione attraverso concorsi a premi. 

E poi la crisi dei padri, quasi infastiditi dalle scelte dei propri figli: dal farsi testimoni creativi – e quindi anche critici – dell’eredità paterna. Padri che fanno fatica “a saper tramontare , ovvero a lasciare spazio ai figli, ritirandosi dal centro della scena per permettere loro di crearsi una propria identità. Senza rimanere ingombranti.

(ph. Tommaso Le Pera)

Perché la famiglia è un pò come il ragù, sembra volerci dire Eduardo.

E’ una ritualità che si fonda sulla cura e sul saper attendere.

E’ un incontro sempre uguale e sempre nuovo da condividere. 

Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

La lunga e lenta cottura del ragù è infatti metafora della cura e del tempo da dedicare alla relazione con l’altro. Un atto d’amore che non si dà una volta per tutte, ma che chiede di rinnovarsi continuamente. Ogni volta. Lo stesso termine “ragù” – derivando dal francese “ragoût” e a sua volta dal verbo “ragoûter” – significa “risvegliare l’appetito” o “ravvivare il gusto”. 

Non a caso Rosa sottolinea l’importanza di un ingrediente “scomodo” come la cipolla. Una pungente amarezza il cui segreto è  –  quando soffriggendo lentamente si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera – versarvi sopra il quantitativo necessario di vino bianco, cosicché la crosta si sciolga fino ad ottenere “quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro. E si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro, quando il vero ragù è riuscito alla perfezione”. 

Claudio Di Palma (Peppino Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

Quell’amarezza inevitabile anche in una relazione di coppia, o familiare, che richiede di essere annaffiata da un generoso versare di parole a chiarimento. Per tirar fuori da questa amarezza quel caramello che poi si sposa magnificamente con la passionalità creativa.

E invece Rosa e Peppino è almeno da quattro mesi che si soffriggono nell’amarezza, senza versare neanche un filo di parole sull’accaduto. Ne risulta che Peppino ha perso il suo appetito, facendosi possedere dal “quel mostro dagli occhi verdi” della gelosia e lasciandosi “fare dalla Luna”, che “quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire gli uomini”. E Rosa si sta caricando di rabbia, come una molla pronta a saltare fuori dalla scatola, che ancora la contiene, fino a spegnersi dolorosamente.

Al malcelato rancore che fatica a liquefarsi tra Rosa e Peppino e che finirà per far “attaccare” la loro relazione alle pareti del contenitore familiare, si somma una lunga “pippiatura”.

Mersilia Sokoli (Giulianella)

Una fase cioè di lentissima cottura delle “varie specie di carni”, rappresentata dall’esuberante vitalità inquieta dei figli e di un nonno tutti in bilico tra la tentazione a replicare l’imprinting familiare e la voglia di inserirsi nel futuro; la zia Memé che sublima la sua iper protezione verso il figlio con la passione per i libri e per l’emancipazione femminile;  la generosa espansività dei vicini di casa Ianniello; una cameriera con la croce di un fratello traumatizzato dagli orrori della guerra e uno zio che alla fragranza del ragù preferisce le tavole del teatro.

Teresa Saponangelo ((Rosa Priore) – Claudio Di Palma ( Peppino Priore)

Il regista De Fusco sa lasciar parlare il testo di Eduardo De Filippo in tutta la sua valenza carica di sfumature, restituendo ed interpretando quel “fermento contestatario, quell’anticipazione dell’avvento del divorzio in Italia, quell’apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia, in cui convivono i rappresentanti di tre generazioni” ( Eduardo De Filippo sul «Roma» del 7 maggio 1969).

Ma soprattutto la regia di De Fusco veicola efficacemente quella calda e pungente sensazione che, solo entrando in una “relazione” amorosa, due persone possono restare unite: non per il matrimonio e nemmeno per i figli.

Piuttosto per quel desiderare ancora una volta un nuovo inizio, che si genera quando l’esuberante amarezza trova un varco nell’intimità del dialogo: in “un affacciarsi”, che tiene l’altro negli occhi. Anche dopo che scompare alla vista.

Maria Cristina Gionta (Elena)

Lo spettacolo di De Fusco si avvale della complicità di un folto cast attoriale accordatissimo,

Teresa Saponangelo, Claudio Di Palma, Pasquale Aprile, Alessandro Balletta, Anita Bartolucci, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Rossella De Martino, Renato De Simone, Antonio Elia, Maria Cristina Gionta, Gianluca Merolli, Domenico Moccia, Alessandra Pacifico Griffini, Paolo Serra, Mersilia Sokoli

che brilla e commuove nel restituire la sensazione di come noi umani – al di là delle più disparate differenze sociali e culturali – si vive tutti di attenzioni e di sguardi.

Altrimenti è come non esistere, è come essere invisibili.

“Ma mannaggia la morte fetente: ma perché la gente non capisce mai per conto suo quello che può essere il desiderio di una persona e l’accontenta subito, senza costringere questo disgraziato ad usare la forza per ottenere quello che gli spetterebbe di diritto?”.

Francesco Biscione (Antonio Piscopo, padre di Rosa)



Recensione di Sonia Remoli

Incontro con TONI SERVILLO e FERRUCCIO MAROTTI su Eduardo: ultima lezione, ultimo spettacolo. Il punto di arrivo il punto di partenza

TEATRO ATENEO, 12 Dicembre 2023 –

Ieri, in un tiepido pomeriggio del dicembre romano, il Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma si è animato di uno speciale fervore per l’attesa della testimonianza di Toni Servillo sull’ultima lezione e l’ultimo spettacolo di Eduardo De Filippo: Il punto d’arrivo, il punto di partenza. Momenti indimenticabili della storia e della pedagogia del teatro, conservati con sacro rispetto grazie a un docufilm di Ferruccio Marotti.

Il Teatro Ateneo


Considerato l’erede spirituale di Eduardo, Servillo proprio qui al Teatro Ateneo portò in scena “Sabato, Domenica e Lunedì” e “Le voci di dentro”. E il suo lavoro convinse così  profondamente la vedova di Eduardo – invitata dall’acuto Ferruccio Mariotti che aveva avuto sentore di qualcosa di prodigioso – da concedere eccezionalmente i diritti dello spettacolo. 

Toni Servillo e Anna Bonaiuto in “Sabato, domenica e lunedì” di Toni Servillo


È ancora la cura appassionata di Ferruccio Marotti a fornire una contestualizzazione-rievocazione del docufilm rivelandoci l’occasione che ospitò l’ultima lezione e l’ultima esibizione di Eduardo: una residenza estiva del 1983 a Castel del Bosco, nei pressi di Montopoli in Val d’Arno, aperta agli studenti di tutte le università italiane.

Ferruccio Marotti

In quell’evento fu proprio Marotti a chiedere ad Eduardo De Filippo una sua illustrazione del legame tra tradizione e innovazione. Eduardo, così lieto della richiesta, vi aggiunse anche una dimostrazione pratica. E quindi oltre ad esporre e a commentare con raffinato carisma la sua “poetica del punto di arrivo e del punto di partenza”, ne diede anche un saggio: regalando una versione specialissima della celeberrima “scena del caffè”  contenuta in “Questi fantasmi” (1946).

Eduardo nella scena del caffè in “Questi fantasmi !” (1946)

Scena che solitamente si realizza nell’arco di  4 minuti ma che in questa occasione raggiunge un livello di “lievitazione” tale  da raggiungere il compimento nell’arco di ben 11 minuti. La sua partecipazione fu talmente coinvolta e coinvolgente che per la prima volta Eduardo perse il controllo. E si emozionò. A tal punto che il pace-maker che portava, mandò in tilt per un momento il radio-microfono.

Toni Servillo


Da qui, il racconto della tradizione viene portato avanti attraverso la travolgente narrazione del suo devoto interprete Toni Servillo. Per lui il Maestro è un modello non solo di professionalità ma soprattutto di un particolar modo di stare al mondo. Un maestro pedagogo. Un’epifania che Servillo visse fin da piccolissimo quando s’incantava davanti al televisore guardando le opere di Eduardo: quell’universo umano che vedeva in scena era lo stesso che aveva in casa.

Una tensione pedagogica densamente riscontrabile anche nel docufilm “messo in salvo” dalla pregevole attenzione di Ferruccio  Marotti e molto vicina a quella da cui era abitato anche Louis Jouvet che gravitava, soprattutto dal 1934 al 1951, su un teatro omonimo: il Teatro Athénée di Parigi.

Entrambi nelle loro “poetiche” sono avvicinati da un certo sentire pedagogico fondato sul fare teatro rapiti dal “sentimento”:  una capacità di saper guardare “con l’anima nell’ora” . Spendendosi.  E poi, sedotti dalla “complessità”, abili a trovare “le parole” e il “modo” per dirla.  Per “trascriverla”.

In un avanzare tormentato, guidato da una continuità che non esclude la discontinuità. Dove ci può  essere un “tac, tic” perché proviene da una conoscenza profonda del “tic, tac”. E chi non lo fa “è un ladro”.

Ferruccio Marotti e Toni Servillo

Perché per Eduardo la morte (di un maestro) costituisce un punto di partenza (per gli allievi). È questa l’immortalità che ci è concessa. Unitamente alla capacità di “sognare”.

Perché “la vita che continua è la tradizione”.

Eduardo De Filippo

Un’eredità raccolta e portata avanti anche dallo stesso Teatro Ateneo: un prezioso avamposto sulla realtà e sulla tradizione. Perché questo è il Teatro: “uno sguardo prismatico sulla vita”.

Con grande successo giunge al termine così al Nuovo Teatro Ateneo la seconda edizione della rassegna – “L’attore e il performer: tradizione e ricerca. Memorie teatrali di fine millennio dall’Archivio Storico Audiovisivo del Centro Teatro Ateneo – Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo – Sapienza Università di Roma. 

Una serie di eventi per recuperare, valorizzare e far conoscere il patrimonio dell’Archivio, guidato dalla direzione artistica di Ferruccio Marotti e dal coordinamento di Stefano Locatelli 


Recensione di Sonia Remoli

Incontro con LINO MUSELLA – ciclo di incontri “Artigiani di una tradizione vivente” –

EX VETRERIE SCIARRA, 4 Dicembre 2023 –

A testimonianza di come i fili della tradizione s’intessano preziosamente all’interno della trama dell’ habitus attoriale, ieri nell’Aula Levi delle ExVetrerie Sciarra si è avuta l’opportunità di ascoltare – grazie al ciclo di incontri “Artigiani di una tradizione vivente” organizzati da Sapienza Università di Roma – l’affascinante racconto che Lino Musella ha fatto della sua personale esperienza.

Attraverso un appassionante dialogo con Guido Di Palma e con il pubblico presente in sala, Musella ha rievocato i suoi inizi da 15enne affamato di qualcosa di ancora ignoto.

Iniziato il suo apprendistato da tecnico, macchinista e servo di scena presso il Teatro Politeama di Napoli, qualcosa arriva a nutrire quel vuoto. Sono questi gli anni in cui lavorando ma soprattutto guardando gli attori sul palco – di sera in sera, di stagione in stagione, anche durante i festival estivi – ha l’opportunità impagabile di lasciare che la sua fame misteriosa prenda tutte le possibili forme prima di individuarne una in particolare, più invitante delle altre.

Lino Musella

Quando rivela al Direttore di scena al quale era stato affidato che lui ora sa di voler fare teatro, si sente rispondere che il teatro “ora è tutto finito. Non restano che macerie”. Ma i morsi della fame sono autentici e queste parole non riescono a fargli perdere l’appetito: inizia così il suo recuperare “i mattoni buoni” dalle macerie, per avviare una costruzione.

Si guarda tutto di Eduardo De Filippo: ossessivamente. E fa suo l’imperativo categorico di Eduardo: “La vita che continua è la tradizione”.

Per diverse estati riesce a frequentare una settimana di residenza all’Odin Teatret: un’esigenza la sua più di rapportarsi con il “luogo” che con “la modalità attoriale”.

Lino Musella

Successivamente, dopo tre anni da “ragazzo di bottega” al Politeama, a 18 anni si sposta a Roma per frequentare quei fascinosi luoghi “off” che erano le “cantine” .

Va a Milano per frequentare il corso di regia alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi.

Diplomatosi, rientra a Napoli e qui frequenta le avanguardie, tra cui Leo De Berardinis, Guido Di Palma, Annibale Ruccello.

Prende forma allora uno stile che si fonda su uno sguardo totalmente affidato all’istinto, alla sensazione senza rielaborazione.

Ne nasce uno stile che si nutre di “dissociazione”, di pericolo, di rischio, di voglia di cadere: un’esigenza interiore, oltre che professionale di nuovi equilibri sempre da cercare e quindi continuamente da perdere. Per poterne ricercare ancora. E ancora.

Una vocazione attoriale che ha trovato ospitalità e nutrimento in un vuoto, che urla senza tregua l’esigenza vitale di essere alimentato con una continua tensione.


Con Lino Musella termina il ciclo di incontri Artigiani di una tradizione vivente nell’ambito del progetto Le lacrime della Duse – Il patrimonio immateriale dell’attore.

Il progetto – di grande valore artistico – nato per recuperare l’antica cultura artigiana del teatro che punta a preservare e valorizzare il patrimonio immateriale dei saperi teatrali, dopo il primo ciclo di formazione teatrale e drammaturgica per giovani attori under 35 curata da Glauco Mauri, ha inaugurato il secondo step dedicato agli “Artigiani della tradizione vivente”, un ciclo di incontri con grandi attori e attrici della tradizione teatrale condotti da Guido Di Palma. Gli appuntamenti hanno ospitato Umberto Orsini, Isa Danieli. Gabriele Lavia, Alessandro Serra, Mimmo Cuticchio e Lino Musella.

Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore, curato dalla Compagnia Mauri Sturno, è un progetto finanziato dal MIC ed ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza che fornisce il supporto logistico e una consulenza culturale attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo e il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie” della Sapienza Università di Roma, diretto dal Prof. Guido di Palma.

Recensione della restituzione-spettacolo LE LACRIME DELLA DUSE – Il patrimonio immateriale dell’attore

NUOVO TEATRO ATENEO, 27 Ottobre 2023

Nietzsche la chiamava l’arte del “saper tramontare al momento giusto”.

E di questa arte seppe ben disporre Memo Benassi: colse infatti che quel “momento giusto” per lui arrivò quando a 63 anni si sentì spiato in camerino da un giovane Glauco Mauri, appena diplomato. Lo convocò allora per passargli in dono la giacca che lui aveva indossato recitando l’Oswald de “Gli spettri” di Ibsen. E sulla cui spalla, la Duse era solita piangere. “Tienila da conto” – gli disse – “a me inizia ad andare stretta”. Così avvenne il passaggio: l’inizio della trasmissione di un’eredità immateriale. 

Memo Benassi e Glauco Mauri

Arrivare a spiare Benassi in camerino, dopo averlo potuto veder recitare e provare sulla scena, significa qualcosa di speciale: che al giovane ed acuto Glauco Mauri non sfugge quel qualcosa “di immateriale” insito nella capacità attoriale di Benassi. Qualcosa che al giovane Mauri risulta ancora irresistibilmente irraggiungibile. E proprio per questo andava seguita, spiata. Per osservarla bene, entrarci in contatto, lasciarcisi attraversare e così in qualche modo gradualmente afferrarla, facendola propria. Come un amante farebbe con la sua amata. 

D’altro canto, accorgersi di essere spiato da un allievo, per Benassi era la prova che proprio a quell’ allievo poteva essere consegnato il suo “patrimonio immateriale dell’attore”. In lui, in Mauri, la sua eredità sarebbe stata in buone mani e avrebbe prodotto molto frutto.

A sua volta Glauco Mauri, anni fa, ha donato proprio questa giacca al suo Roberto Sturno. Inseparabili, loro, anche ora che Sturno se ne è apparentemente andato. A lui Glauco Mauri dedica tutto lo splendore di questo progetto. E lo fa personalmente, salendo sul palco a fine spettacolo: commosso e felice. Forte di questo sodalizio immateriale ma trascendente.

Glauco Mauri e Roberto Sturno

E’ allora in omaggio a questa antica pratica pedagogica che il progetto che ieri sera è approdato alla sua conclusione prende il nome “Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore”. E rappresenta il tentativo di recuperare il sistema di trasmissione del mestiere immateriale dell’attore.

Attualmente, infatti, uno spettacolo si produce in una ventina di giorni e in questo breve tempo non c’è modo di “sperimentare”, cioè di accompagnare i processi creativi degli attori. Si può solo replicare ciò che già si sa. Inoltre, l’attuale sistema del teatro italiano impedisce la circuitazione degli spettacoli, che così si esauriscono in una manciata di rappresentazioni.

Serviva ed è stato trovato così un “luogo protetto”, com’è quello offerto da questo progetto ricco e ambizioso: carico di un patrimonio artistico ed emotivo da recuperare nell’antica cultura artigiana del teatro. Non un semplice progetto formativo quindi ma, come avveniva una volta, vitali esperienze del teatro di tradizione e del teatro di ricerca del Novecento.

Già Mejerchol’d sognava un luogo protetto, svincolato cioè dalle urgenze produttive, dove fosse possibile per gli attori creare forme sceniche e soluzioni interpretative. E l’Università può offrire questa opportunità.

Il Nuovo Teatro Ateneo

Il progetto curato infatti dalla Compagnia Mauri Sturno e finanziato dal MIC ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza, che fornisce oltre al supporto logistico anche una consulenza culturale sia attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo, che attraverso il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie – del Dipartimeto di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma. Dipartimento diretto dal Prof. Guido di Palma.

Il prof. Guido Di Palma

“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura né tantomeno solo ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni diverse”.

Lo stesso Eduardo De Filippo, assiduo frequentatore del Teatro Ateneo, sosteneva che la tradizione, se la si sa usare, è un trampolino per saltare più in alto.

Ieri, un’insolita – e ben augurale – apertura serale del Nuovo Teatro Ateneo ha atteso e accolto il ritorno, e quindi l’approdo, dei viaggiatori partiti alla ricerca, alla scoperta e quindi al raccordo con quel sapere immateriale dell’attore, che rende così prezioso il lavoro a teatro. E nella vita. Un lavoro non solo tecnico ma anche etico ed estetico.

Al fine di rendere più fulgidamente puro il lavoro di ricerca svolto, i promotori del viaggio hanno scelto uno spazio e un corpo “nudi”, cioè scevri da tutto ciò che avrebbe potuto falsare il nuovo “habitus” acquisito dai giovani attori. Quindi niente scenografie, niente musica, niente costumi (solo abiti normali) e niente trucco.

Marco Blanchi

E proprio come William Shakespeare fece in quel magnifico inno al potere dell’immaginazione che è il Prologo all’ “Enrico V“, così anche Marco Blanchi – curatore dell’atelier didattico assiema a Danilo Capezzani ma ieri sera anche nella veste di presentatore dei singoli lavori – ha invitato gli spettatori in sala a far ricorso ciascuno alla propria immaginazione, per visualizzare più adeguati scenari ai frammenti delle 12 opere, che questi “nuovi” interpreti portano in scena.

Non a caso, proprio il Prologo all’ “Enrico V” dà l’avvio alla restituzione. Viviana Feudale, l’interprete, ci restituisce tutta la meraviglia contenuta nell’ebbrezza del saper immaginare. Tutto in lei è meraviglia, tutti i suoi sensi ne sono predati. Ed è contagio.

Si passa all’ “Edipo re” di Sofocle dove di Pietro Bovi (Edipo) e di Luca Lombardi (Tiresia) ci arriva il particolare fascino delle loro vocalità. E di Tiresia l’eloquenza degli occhi bendati, unita alla vitalità del bastone al quale si sostiene.

Arrivano poi Kostja (Giuliano Bruzzese) e Nina (Marta Cirello) de “Il Gabbiano” di Anton Cechov. Lui sembra la diteggiatura nervosa e tormentata di un pianista, tanto si nutre di inquietudine. Lei fa della voce, e quindi del suo animo, quello che farebbe un’equilibrista sul filo: l’elogio del disequilibrio. Entrambi così spazzati dal vento e insieme così in sintonia.

E poi “I fratelli Karamazov”di Fëdor Dostoevskij: dell’Ivan di Antonio Greco e dello Smerdjakov di Francesco Leonardo Marchionne rifulge il tavolo dei silenzi, preludio alle loro diversamente mefistofeliche ed allucinate esplosioni disperate.

Si passa all’ “Antigone” di Jean Anouilh: luminosa la tensione tra la sensualità androgina di Francesca Trianni (Antigone) e la morbida persuasione di Sofia Guida (Ismaele). Resta il sapore appagante di quando un confine riesce a diventare un punto d’incontro.

Scintille tra La Caterina di Beatrice Lotti e il Petruccio di Davide Varone de “La Bisbetica domata” di William Shakespeare. La selvatichezza di lei si carica di un sentore profumato quando accolta dalla disponibilità di lui a interagire fertilmente con la follia del femminile. Seducentemente comici gli a parte di Petruccio.

E poi l’autenticità tipicamente britannica dell’apertura alcolica del Jamie di Roberto Castello così come della serrata chiusura del rigido e sobrio Edmund di Giuseppe Fedele, in “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill.

E ancora “Finale di partita” di Samuel Beckett. Due fenomenologie dell’aspettare: quella statica e da contatto di Hamm (Francesco Zaccaro), un’attesa cioè da immaginare, protetto dietro lenti colorate e a specchio e poi quella diversamente intrepida di Clov (Antonio Greco) . La sua è l’attesa che s’immagina dietro le lenti “altruistiche” di un piccolo cannocchiale e che tanto ricorda l’attesa della Compagnia della Contessa da parte di uno degli Scalognati de “I giganti della montagna” di Pirandello.

Arrivano invece “Gli innamorati” di Carlo Goldoni. Un Pietro Bovi (Fulgenzio) decisamente incline a seguire l’imprevedibilità tutta femminile dell’Eugenia (Virna Zorzan). Nonostante la tentazione maschile ad arroccarsi, Fulgenzio lascia anche libera uscita al suo proprio femminile. Ammiccanti gli a parte.

Seguono alcuni “Sonetti” di William Shakespeare resi prevalentemente a tinte calde dalla lettura interpretativa di Davide Varone, laddove Antonio Laurino sembra prediligerne le tinte più fredde. E a seguire le “Lettere a Pierre” (dal Paolo Pini di Affori) di Alda Merini rese dalle diverse note della struggente e folle sensibilità di Enrichetta Ranieri Martinotti e di Costanza Maestripieri.

A completamento il “Macbeth” di William Shakespeare: fertile la profonda sensualità vocale della Lady Macbeth di Sofia Boriosi, così come il fascino della decadenza posturale del Macbeth di Luca Lombardi.

In tutti i ragazzi evidenti “riflessi di perla” che, se ancora pazientemente levigata per anni, emanerà progressivamente una lucentezza prima segreta. “Perla” come concetto di “maestria”, che la metafora di Tanizaki Jun’ichirō così mirabilmente esprime.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del docufilm SCARROZZANTI E SPIRITELLI – 50 anni di vita del Franco Parenti – regia di Michele Mally –

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023, Auditorium Parco della Musica – 23 Ottobre 2023 –

Poesia di luce e di speranza, 50 lunghe candele fanno ardere di fulgente intima magia le emozioni e i ricordi dei primi 50 anni di vita di quel “santuario della parola” che è stato, è, e sarà il Teatro Franco Parenti.

“Davar” in ebraico significa, infatti, “parola”. Ma anche “avvenimento”. Parlare quindi vuol dire anche far accadere le cose. Sacro è il fuoco della parola, che crea la vita umana. Divino è il legame che istituisce tra il visibile e l’invisibile. 

Andrée Ruth Shammah al Teatro Franco Parenti

Ecco allora che l’incandescente ed eclettica Andrée Ruth Shammah decide di riplasmare lo spazio teatrale, predisponendo una scenografia potentemente essenziale. Capace, cioè, di ospitare un grande fuoco attorno al quale invitare a riunirsi, in magico cerchio, tutti i più cari amici del Franco Parenti – i testoriani “scarrozzanti” – testimoni ed eredi della filosofia di questa “Casa del teatro”.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli” presso il Teatro Franco Parenti

Tanti gli amici registi e attori, con un ruolo-chiave per la storia di vita del Parenti, che hanno condiviso anche nel docufilm la loro testimonianza sul rapporto con questa realtà: Mario Martone ne sottolinea il legame imprescindibile con Milano; Marco Giorgetti il fatto di essere un teatro-mondo che soddisfa ogni esigenza culturale e di vita; Anna Galliena ne ricorda la genesi come “di una storia che non sembrava e che invece poi è stata”; Roberto Andò evidenzia che quello che si sente al Parenti è un’idea di teatro che è un autoritratto della Shammah. Solo per citare alcune delle testimonianze colme d’emozione che si sono susseguite. E poi la dichiarazione-incoronazione di Filippo Timi: “La vera fortuna, e non possiamo far finta che non lo sia, di questo teatro sei tu, che sei il presente. E’ fondamentale Andrée perchè “x” che tende all’infinito ha bisogno di un punto e Andrée sei tu. Chiamalo il cuore, chiamalo The Mother, chiamalo luce”.

In sala ieri sera, oltre a molti di loro, la prestigiosa presenza umana e professionale di Adriana Asti, testimone del profondo sentire che la lega al Parenti e alla Shammah.

Ma il docufilm – la cui regia è affidata alla densa sensibilità di Michele Mally – tiene memoria anche di coloro che solertemente lavorano e hanno lavorato dietro le quinte, ovvero gli artigiani del Teatro. Nominati uno ad uno: perché è dando un nome che si riconosce un’identità. Perché anche loro sono “il fuoco del teatro” – come ha ricordato con sincera commozione Raphael Tobia Vogel.

Scena di un contributo video di Adriana Asti ne “La Maria Brasca”

E per quelli che non ci sono più – in primis Franco Parenti, Giovanni Testori, Dante Isella ma anche e soprattutto Eduardo De Filippo, quelli che la Shammah chiama gli “spiritelli” e che sono stati “pericolosi perché hanno vissuto i loro sogni ad occhi aperti con il proposito di attuarli” – la loro assenza sarà presente attraverso il fulvido fuoco del ricordo di questa splendida comunità. Fuoco e quindi medium tra il nostro e il loro mondo. 

Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah

Come nel 1973, è stata la serata del 16 gennaio 2023 quella in cui si è rievocato l’inizio dell’attività dell’allora Salone Pier Lombardo. Quando cioè andò in scena la prima regia di Andrée Ruth Shammah: “L’ Ambleto” di Giovanni Testori, primo capitolo della “Trilogia degli Scarrozzanti”. E proprio nell’incontro del 16 gennaio scorso, intitolato “In compagnia della loro assenza”, si è consumato questo solenne e “primitivo” rito collettivo: per celebrare il Teatro. Prima ancora che il Franco Parenti. 

Andrée Ruth Shammah in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Da sempre l’uomo affida al rito i momenti di passaggio – così ricchi di pericolosa opportunità – della sua esistenza personale, nonché della collettività di cui fa parte. E cerca in esso la garanzia del mantenimento della propria identità e di quella della comunità di appartenenza.

Quello infatti che l’arguta direttrice artistica ha scelto di mandare in scena per il magico attraversamento del 50esimo anno di vita della sua realtà esistenziale, prima ancora che professionale, è un sacro “atto di scelta”, di ancora viva testimonianza e aderenza ad uno stile di vita e di lavoro.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Ad aprire la preghiera-rituale comune, la Shammah ha investito il caro amico Massimo Recalcati – rinomato psicoanalista e saggista ma anche appassionato amante del teatro – che ha gettato luce, con la solenne grazia della sua parola, sulla deriva dalla quale è bene liberare l’atteggiamento della “nostalgia”. Lei che ci avvolge così prepotentemente nel momento in cui avvengono degli eventi che segnano un forte cambiamento di rotta al nostro navigare nel mare della vita. Ma la sacra esigenza del ricordare, propria dei momenti di rievocazione di un ameno passato, lungi dal favorire atmosfere di mero rimpianto che portano ad una sterile stagnazione o ad una paralisi evolutiva, può e deve prendere la forma di una profondissima gratitudine. Perché chi non c’è più è presente proprio grazie alla sua assenza. Nostro compito è allora quello di “portarli con noi”, nel presente e nel futuro. Perché è questo ciò che davvero in maniera più autentica essi desiderano. E dei loro insistenti desideri sono ancora intrisi gli stessi muri del Teatro. Perché così fanno i desideri, quelli autentici.

Franco Parenti è “L’Ambleto” di Giovanni Testori

Ecco allora anche la scelta di continuare ad assegnare l’incipit del docufilm alla voce-presenza dell’ ambletico Franco Parenti. Così come la chiusura del docufilm: perché ogni fine contiene in sé un nuovo inizio, un nuovo incipit.

Perché l’importanza dei “maestri” – coloro cioè che “hanno portato con sé un po’ di mondo da difendere” – chiede di essere ricordata. Ma soprattutto “presa”: colta e fatta propria. Nel presente. In un ciclo vitale, capace di continuare a far emergere fresca linfa, all’interno di un naturale e prezioso passaggio di consegne.

Perché così “il teatro existerà contra de tutto e de tutti, enzino alla finis de la finis” .

Raphael Tobia Vogel in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”


Scarrozzanti e spiritelli

50 anni di vita del Teatro Franco Parenti

ideazione e direzione artistica Andrée Ruth Shammah

regia Michele Mally

sceneggiatura di Didi Gnocchi e Paola Jacobbi

con i contributi video di Raphael Tobia Vogel

una produzione 3D Produzioni

in collaborazione con Teatro Franco Parenti e Rai Cinema

con il sostegno di MIC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo



CALENDARIO DELLE PROIEZIONI

Lunedì 6 Novembre 2023 – ore 20:00 : Sala Excelsior – Anteo Palazzo del Cinema Milano

Lunedì 27 Novembre 2023 – ore 19:00: Cinema Modernissimo – Cineteca di Bologna


Recensione di Sonia Remoli