EDIPO RE – adattamento e regia Luca De Fusco

TEATRO ROMANO DI OSTIA

dal 2 al 6 Luglio 2025

Travolgente successo al Teatro romano di Ostia per la prima dell’ Edipo re di Sofocle nell’adattamento e regia di Luca De Fusco, traduzione Gianni Garrera.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo con Luca Lazzareschi, Manuela Mandracchia, Paolo Serra, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta – in prima nazionale dal 2 al 6 Luglio – che inaugura la prima edizione del Teatro Ostia Antica Festival- Il senso del passato.

Lo sguardo dello spettatore – incastonato nell’area Archeologica degli scavi e insieme solleticato dall’invitante brezza salata del ponentino romano- inizia a fare esperienza di quella ritualità propria del rapporto tra libertà e necessità, di cui il testo di Sofocle – qui tradotto dal filologo Gianni Garrera – ha cura di descriverci.

Emerge così, dal crepuscolo estivo, una scena sempre più ammiccante e notturna. Modulata in diversi livelli di scale, che ospitano presenze simboliche. Alludenti a identità segretamente celate sotto la formalità borghese di tre cappelli magrittiani e in una testa in gesso velata, sempre di magrittiana memoria, splendida allusione al rapporto dell’uomo con la conoscenza. 

Una scena essenziale e simbolica – curata dall’elegante estro scenografico di Marta Crisolini Malatesta, qui artefice anche dei costumi – che richiamandosi alle potenzialità dinamiche insite in una concezione scenica visionaria come quella di Adolphe Appia, va al di là della mera messa in scena di un testo letterario. E si apre al potere della luce come elemento visivo, capace di creare un’atmosfera: mutando assieme alle azioni e alle emozioni dell’attore. 

Concezione scenica efficacemente in sinergia con l’estetica surrealista magrittiana, in grado di insinuare dubbi su oggetti, paesaggi ed esperienze della più concreta e banale vita reale, proprio attraverso un maniacale realismo espressivo. Ne scaturisce così un paradosso dall’illusionismo onirico, perfetto per dare ospitalità alla tragedia dell’Edipo re, così come immaginata dallo sguardo registico di Luca De Fusco. 

Ecco allora che, furtivamente, lo spettatore si trova calamitato in un misterioso avvio, che coincide con l’introduzione a una dimensione altra. Attraverso un disegno luci atmosferico e narrativo – la cui cura è affidata a Gigi Saccomandi – entra in scena il linguaggio onirico/inconscio della luce insinuante delle ombre, accompagnato dalla misteriosa cromaticità di una tessitura drammaturgica al violino – le musiche sono di Ran Bagno – il cui virtuosismo, incarna quel quid di trascendentale, fascinoso e conturbante.

Complice una creazione video-scenografica che, come uno specchio, rimanda e visualizza surrealisticamente l’habitat inconscio della psiche dei personaggi  – le splendide creazioni video sono opera di Alessandro Papa – anche lo spettatore viene gettato nella situazione traumatica della carestia e della successiva peste, in cui è immersa Tebe. Edipo è il re, e a lui le varie aree della sua psiche, nonché la popolazione di Tebe, chiedono salvezza, liberazione.

L’adattamento e la regia di Luca De Fusco partono da qui, per  concentrarsi sulla fragilità delle dinamiche conoscitive di Edipo, così simili alle nostre. Non a caso Freud fece della storia di Edipo il fulcro dell’esplorazione delle modalità psichiche umane. 

Luca Lazzareschi

L’Edipo di Luca Lazzareschi è magnifico nel suo darsi in una sventurata ostinazione, che però non smette mai di commuoverci. Perché ci appartiene intimamente. Ce ne parla la sua postura così solenne eppure così tormentata: tutta incentrata nella tensione tra il suo ergersi da sapiente, la sua falcata sicura e il suo modo poi di abbassare il capo, proprio di chi viene colto e avvolto dalla confusione e dal dubbio. E lui, anziché restare in questo tunnel di fertili incertezze tutte da esplorare, le scaccia per poi inevitabilmente imbattervisi inconsapevolmente. E poi c’è la sua vocalità: così chiara e piena di ritmo, sicura fino all’impertinenza. E poi arrendevole, mortifera e mortificante.

E ancora, atterrisce e affascina il relazionarsi chiuso di Edipo verso Creonte (qui un efficace Paolo Serra), con il quale non riesce ad allacciare un equilibrio di posizioni divergenti. Edipo è il primo detective nella storia del romanzo giallo – come la lettura registica di De Fusco sa sottolineare – ma la sua capacità di indagine è efficace solo formalmente: Edipo sa chiedere attraverso un editto, sa da chi può farsi aiutare per ricavare indizi dalle tracce, ma poi non ce la fa a scendere ad analizzare le loro profondità.  

Paolo Cresta (secondo Nunzio, secondo Corifeo) – Luca Lazzareschi (Edipo) – Alessandro Balletta (terzo Corifeo) – Francesco Biscione (primo Corifeo)

Incantevolmente struggente è la visualizzazione che di questo concetto ci offre la regia di De Fusco, quando sceglie di far prendere in mano ai tre Corifei (Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta) la testa di gesso velata. Per poi svelarla.

E’ una tendenza tutta umana, infatti, quella per cui ci si affanna nella curiosità insaziabile di sapere, per poi rimanere sorpresi nello scoprire che siamo capaci di sopportare solo piccole dosi della verità che ci si mostra.

Manuela Mandracchia (Giocasta) – Luca Lazzareschi (Edipo)

E’ l’effetto che ogni volta l’oracolo ha su coloro che a lui si rivolgono, come ad una sorta di arcaico psicoanalista, quando sono in una crisi tale che non sanno da dove cominciare a dipanare la nebbia dei dubbi. Ad esempio quando Edipo scopre di essere stato adottato: l’oracolo non risponde alla sua domanda su chi sono i suoi genitori biologici ma gli dice che è importante che lui consideri – e quindi metta in relazione con le sue aree psichiche migliori – anche la realtà che dentro di sé esiste una tendenza che lo spinge ad uccidere suo padre, per poi sostituirlo nel ruolo di marito con la madre. 

Ma Edipo è così turbato da non riflettere bene sul significato metaforico del consiglio. Lo prende invece alla lettera e crede che la cosa migliore sia sfuggire dai genitori adottivi. Così qui: quando Edipo manda Creonte a chiedere all’oracolo come fare per liberarsi dalla peste e poi ascolta il responso, inizia a fare fatica a rimanere concentrato sulle prime testimonianze. Perché sente che si sta avvicinando ad una verità grande, difficile da accogliere e da mettere in relazione con la propria autostima. Sente, che proprio nell’indagare, è se stesso che sta cercando. Ed è di straordinaria bellezza tragica. 

Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio, Nunzio)

L’acme del disagio si raggiunge con Tiresia – qui reso attraverso una seducente ed efficace proiezione video, che ne fa una creatura volatile che dondola imprigionata in una gabbia. Lui che era un esperto dell’ arte divinatoria analizzando il comportamento, il canto e la direzione del volo degli uccelli . Assai avvincente la sua vocalità: dalla musicalità cantilenante distorta, vagamente gracchiante eppure così divina. 

Nella profonda lettura di De Fusco anche Tiresia  – così come il Servo di Laio e il Nunzio, essendo coloro che a qualche livello conoscono la verità – divengono aree diverse della psiche di Edipo, le quali entrano in tensione con la prepotenza del suo ”io”. Che – come sosteneva Freud – “non è padrone in casa propria”. Infatti la tensione con l’area psichica rappresentata da Tiresia diviene così ingombrante, da far arrivare Edipo a sospettare un complotto contro di lui da parte dello stesso Tiresia e di Creonte.

Luca Lazzareschi (Edipo) – Manuela Madracchia (Giocasta)

Non lo convince a desistere dall’andare ciecamente avanti nella sua ricerca, neanche l’approccio di Giocasta (qui una suadente Manuela Mandracchia, meravigliosa nube cumuliforme), che versa nell’orecchio di Edipo il dubbio che in fondo gli oracoli non sono poi così puntuali. E che preferibile per lui sarebbe, scegliere “il meglio” piuttosto che “la verità”.

E così Edipo impara, e noi con lui, che nessuno in quanto “figlio” può essere padrone delle proprie origini. Tutti noi, sosteneva Jacques Lacan, veniamo al mondo “a mollo nel linguaggio dell’altro”. E il nostro primo “altro” sono i nostri genitori, dai quali Edipo non eredita altro se non un abbandono e un (mancato) infanticidio. Eredità che ripeterà, non accettando di “conoscere se stesso” nel bene e nel male, così come di non poter conoscere tutto. Tra l’altro, sostenere massicce dosi di verità non è affatto semplice: Jung diceva ai suoi pazienti psicotici che “è bene non aprire tutte le porte: quello che può uscire, rischia di catturare la mente senza restituirla”. 

Ma se è vero che per Edipo, e per noi umani, fare esperienza di “libertà” significa conoscere se stessi nel bene e nel male ed accettarsi, dietro ad Edipo c’è anche “il destino” che parte dalla violenza subita da suo padre da parte dei Dioscuri di Tebe e poi a sua volta ripetuta da Laio su Crisippo. 

E’ per questo che l’oracolo dice a Laio che, se avrà un figlio, ne verrà ucciso e diverrà lui marito a sua madre. E Laio anziché decifrare questo messaggio metaforico, pensa di evitarne gli effetti dapprima proteggendo i suoi rapporti e poi consegnando il neonato affinché venga ucciso. Edipo sopravviverà e quando, scoprendo di essere un figlio adottato ne andrà a chiedere informazioni all’oracolo, lui stesso cadrà nello stesso errore di non decifrare l’oracolo ma di sfuggirne gli effetti interpretandolo letteralmente. E così, sconvolgendo i rapporti “sociali” di parentela, Edipo – che aveva risolto l’enigma della Sfinge – finirà per darà origine lui ad altri enigmi, del tipo: “chi è colui che ha un padre che è anche un suocero? Chi è colui che ha una madre che è anche una moglie? Chi è colui che ha fratelli anche come figli? Tanto che, nelle “Fenicie”, Seneca mette in scena un Edipo vecchio e disperato a cui fa dire: “Se io da qui raccontassi ciò che ho fatto della mia famiglia, proporrei enigmi più inestricabili di quelli della sfinge”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Accattivante lo sguardo registico di Luca De Fusco nel suo scegliere di indagare, fino a visualizzare negli occhi dello spettatore ciò che Edipo tende ad allontanare da sè.  

Lui stesso, il regista, un detective nel consultare e interrogare il passato.

Scoprendo di essere capace di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro, così da tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e fino a dove abbiamo la possibilità di spingerci.

Per non perdere niente di ciò di cui è fatta la nostra vita. Niente e nessuno. 

Da questo sguardo di cura sul passato che si riflette sul presente, prende forma anche il desiderio della realizzazione del Teatro Ostia Antica Festival-Il senso del passato: il Festival che a Roma ancora non c’era e che è stato fortemente immaginato da Luca De Fusco – ci confida Il Presidente della Fondazione Teatro di Roma Francesco Siciliano nel suo discorso di apertura, alla prima di “Edipo re”. Un nuovo inizio a cui la comunità romana ha risposto con grande entusiasmo.


Dopo i grandi successi dei primi due appuntamenti

“’Antigone di Mendelssohn” direttore Francesco Lanzillotta 

e

“Edipo re” per l’adattamento e la regia di Luca De Fusco

il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato

prosegue con

“Antigone” di Jean Anouilh per l’adattamento e la regia di Roberto Latini. 

il 18 e il 19 Luglio 2025


Recensione di Sonia Remoli

Recensione EDIPO RE di Sofocle – adattamento e regia Andrea De Rosa

TEATRO VASCELLO

dal 4 al 9 Marzo 2025

Non è la città nella sua individualità quella che Andrea De Rosa manda in scena: non allude solo a Tebe o al tempio di Apollo. Ma ad un certo modo di abitare il mondo. Perché, in questo, siamo tutti Edipo.

Andrea De Rosa

Ciascuno di noi viene gettato nella vita in qualità di  “figlio”.

Nessuno di noi può autogenerarsi, né scegliere da chi essere generato. Quindi nessuno di noi è padrone della “propria” origine. 

Nostro destino è non sapere tutto di noi. E quindi dell’altro. 

Nostro destino è essere l’oggetto del desiderio di qualcun altro, che immagina e dà forma alle sue aspirazioni su di noi.

Nostra possibilità è fare sartraniamente qualcosa di proprio, di ciò che prima gli altri hanno fatto di noi. Perché ogni figlio si dà anche come vita distinta, separata, rispetto a chi lo ha generato.

Frédérique Loliée è Giocasta

(ph. Andrea Macchia)

Edipo viene generato per una dimenticanza e, una volta accortisi dell’errore, i genitori l’hanno atteso desiderando la sua morte. In verità Giocasta, qui una fascinosamente materna e conturbante Frédérique Loliée, immagina per lui di affidarlo al sonno e non alla morte, sperando così di consegnarlo nelle braccia di Morfeo da piccolo e di riaverlo da adulto. E così, a qualche livello, avverrà.

Una volta venuto alla luce, Laio lo abbandona per sfuggire al responso dell’oracolo, che gli raccomandò di non avere figli da sua moglie, o il figlio avrebbe ucciso lui possedendo Giocasta.  

Laio si era infatti macchiato in precedenza di una grave colpa: si innamorò di Crisippo e lo rapì durante i giochi di Nemea, portandolo con sé a Tebe.  E mentre gli insegnava a portare il carro, abusò di lui che, per la vergogna, successivamente si uccise. 

Ma una notte, mentre Laio era in preda all’ebbrezza, concepì con Giocasta Edipo che, appena nato, dopo avergli legato le caviglie con una cinghia, espose e abbandonò sul Monte Citerone. Qui fu trovato da un pastore che gli diede il nome di Edipo (che etimologicamente significa “piede gonfio”) e che lo consegnò a Polibo e Peribea, sovrani di Corinto, non potendo avere figli propri.

Marco Foschi è Edipo

Edipo cresce. E arriva il giorno in cui qualcuno lo appella come “bastardo”. Inizia così ad avere dei dubbi sulla propria origine, arrivando a desiderare conoscerla fino in fondo. 

Ma ci sono circostanze, a volte, in cui è preferibile non ostinarsi ad andare a fondo: meglio accettare di “vedere sporco”, in maniera incompleta. Come suggestivamente viene visualizzato dalla scenografia (le scene sono a cura di Daniele Spanò)  dove dei pannelli in plexiglass, riproducenti la retina dell’occhio, vengono lordati e posti davanti al volto degli interpreti, per rendere appunto la vista di certe verità incompleta. Una banda orizzontale poi, cadendo precisamente all’altezza dei loro occhi, li protegge totalmente. 

L’unico a non accettare questo tipo di visibilità è Edipo. Questa è la sua colpa, essendosi spinto troppo oltre le sue capacità di tolleranza. Turbando inoltre quel “bene comune”, di cui avrebbe potuto aver cura.

Marco Foschi è Edipo

Come nel precedente “Baccanti”, anche qui in “Edipo re” Andrea De Rosa é mosso dall’urgenza di far “sentire“ allo spettatore tutto lo straripamento che provoca nell’umano l’incontro con il sacro. 

Ecco allora che convoca una sapiente sinergia di sguardi sensoriali, per dirigere una concertazione drammaturgica nel cui ensemble confluiscano le diverse trame della parola di Fabrizio Sinisi, delle sonorità di G.U.P. Alcaro, delle luci di Pasquale Mari, dei costumi di Graziella Pepe (realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa). 

Il linguaggio divino è così enigmatico, così indifferenziato e quindi diverso dalla nostra “parola”, che per provare a tradurlo occorre far sentire allo spettatore la sua più tempestosa indeterminazione. Contando sulla complicità della luce delle ombre, dell’ossessività straziante ed eccitante delle sonorità acustiche e dell’ambiguità degli “habiti”, che non sono solo costumi di una scena. Ma di uno stare al mondo.

Roberto Latini è Tiresia e i messaggeri di Apollo

La regia di De Rosa manda in scena così le epifanie di Apollo. Lo fa con cura: attraverso i suoi tramiti, ovvero i messaggeri e l’indovino Tiresia (un tenebrosamente incandescente Roberto Latini, speciale nel rendere la suggestione di un’epifania). Nell’orecchio dello spettatore vengono versate sonorità dal sapore oscuramente seducente. Negli occhi viene colata una luminosità che turba fino a ferire. E’ il manifestarsi del “sacro”.

Lo spettacolo assume i connotati di un grande rito, qual è la vita, che circolarmente si apre e si chiude con alterazioni del respiro, che assumono il suono di grida dalla musicalità straziante e dall’acutezza perforante. Si direbbero inumane. Stupefacentemente rese dalla vocalità di Francesca Cutolo e di  Francesca Della Monica, interpreti del Coro.

Francesca Della Monica (Coro)

Francesca Cutolo (Coro)

“Che cosa volete che io faccia ?” – dice Edipo agli abitanti di Tebe – in bilico tra una tensione di onnipotenza e insieme di de-responsabilizzazione alla Ponzio Pilato. Marco Foschi, che ne interpreta il destino, ne sa restituire le paradossali contraddizioni, provocando nello spettatore una tenerezza dal sapore di compassionevole indignazione.

“Dobbiamo interrogare il dio” – decide Edipo. 

Invocano ed evocano così Apollo: il dio massimamente ambiguo perché il più luminoso degli dei. L’eccessivo, perché tra tutti il più simile alla morte. E lo squartatore con il coltello in mano, arriva. E invade i nostri sensi.

Eraclito diceva che il dio si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma. “L’uomo invece ritiene giusta una cosa e ingiusta un’altra e non si confonde con tutte le cose”. L’indifferenziato è il tratto del divino da cui l’umano ha bisogno di separarsi, instaurando le differenze che consentono un ordinato vivere sociale. Perché quando un Dio arriva nella città – ci racconta Euripide nelle “Baccanti” – tutto l’ordine viene sconvolto e ogni misura oltrepassata.

Roberto Latini

(ph. Andrea Macchia)

Per tramite di un suo messaggero, Apollo comunica ai tebani che la peste terminerà solo quando verrà punito l’uccisore del precedente re Laio, rimasto invendicato. “L’uccisore è a Tebe” – prosegue il messaggero. Ma Edipo è troppo sicuro di potersi incoronare inquisitore, per riuscire a prestare ascolto al dio che continua a ripetergli: “Sei tu”.

Non è un caso che Freud abbia scelto la tragedia dell’ “Edipo re” come descrizione esemplare dell’esistenza umana, mostrandone i desideri più profondi e i relativi tentativi di realizzazione. 

Edipo, infatti, cade nella presunzione di innalzarsi al di sopra di ogni sospetto, laddove il primo insegnamento dell’oracolo è: “Conosci te stesso e agisci con misura”. 

Fabio Pasquini è Creonte – Francesca della Monica (Coro)

Edipo si sopravvaluta, sottovalutando la potenza del mistero che avvolge la nostra identità. E che necessariamente, in parte, rimarrà tale. Accusa Creonte di macchinare per invidia contro di lui – e poeticamente in bocca ad un appassionato Fabio Pasquini (interprete di Creonte) prendono forma struggenti parole che richiamano quelle scritte da Pasolini e cantate da Modugno in “Cosa sono le nuvole” . E si dimostra insensibile al dolore, Edipo: quello di Giocasta, che lo supplica confidandogli “io ti voglio bene, ma il tuo bene mi fa male”. 

Oscuri sono poi, per loro natura, anche i responsi dell’oracolo, per gli uomini. E tali, in parte, rimarranno. Perché la nostra umanità non può tradurre perfettamente l’indeterminatezza del linguaggio divino. Pena la follia: dono degli dei, sia pure a prezzo di terribile dolore. 

Un concetto magnificamente visualizzato dalla scelta di Pasquale Mari di utilizzare riflettori parabolici Par Can che, senza lente, producono un fascio parallelo e ravvicinato, più intenso, quasi violento. Efficacissimo per veicolare quel senso di inadeguatezza nel quale Edipo si trova alla fine intrappolato.

In realtà l’oracolo pronunciato da Apollo a Laio parla anche del naturale avvicendamento generazionale tra padri e figli: la giovinezza del figlio sopravviverà alla vecchiaia del padre. Ed è per questo che il figlio resterà solo con un genitore, la madre, per gli anni che le saranno ancora concessi dal suo destino. Ma la difficoltà di Laio ci è vicina: ricorda un po’ quella di certi padri contemporanei, che faticano a “saper tramontare” perché vedono nella luce dei figli l’ombra del loro tramonto. Quel senso di tramonto così ben reso dall’utilizzo dei proiettori PAR, che danno corpo a quel minimo indispensabile di luminosità per illuminare il palco.

Una regia, questa di Andrea De Rosa, che sa restare fedele al testo sofocleo ma ancor di più sa tradire la sua eredità. Restituendo al pubblico una sinergia di suggestioni, che fanno di De Rosa un originale “testimone”. In perfetta sintonia con il messaggio che il testo di Sofocle veicola: siamo tutti Edipo (cioè “scritti” da qualcun altro) ma possiamo anche dare vita a qualcosa di nostro e quindi di originale, del destino e della tradizione che necessariamente ognuno di noi eredita.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della restituzione-spettacolo LE LACRIME DELLA DUSE – Il patrimonio immateriale dell’attore

NUOVO TEATRO ATENEO, 27 Ottobre 2023

Nietzsche la chiamava l’arte del “saper tramontare al momento giusto”.

E di questa arte seppe ben disporre Memo Benassi: colse infatti che quel “momento giusto” per lui arrivò quando a 63 anni si sentì spiato in camerino da un giovane Glauco Mauri, appena diplomato. Lo convocò allora per passargli in dono la giacca che lui aveva indossato recitando l’Oswald de “Gli spettri” di Ibsen. E sulla cui spalla, la Duse era solita piangere. “Tienila da conto” – gli disse – “a me inizia ad andare stretta”. Così avvenne il passaggio: l’inizio della trasmissione di un’eredità immateriale. 

Memo Benassi e Glauco Mauri

Arrivare a spiare Benassi in camerino, dopo averlo potuto veder recitare e provare sulla scena, significa qualcosa di speciale: che al giovane ed acuto Glauco Mauri non sfugge quel qualcosa “di immateriale” insito nella capacità attoriale di Benassi. Qualcosa che al giovane Mauri risulta ancora irresistibilmente irraggiungibile. E proprio per questo andava seguita, spiata. Per osservarla bene, entrarci in contatto, lasciarcisi attraversare e così in qualche modo gradualmente afferrarla, facendola propria. Come un amante farebbe con la sua amata. 

D’altro canto, accorgersi di essere spiato da un allievo, per Benassi era la prova che proprio a quell’ allievo poteva essere consegnato il suo “patrimonio immateriale dell’attore”. In lui, in Mauri, la sua eredità sarebbe stata in buone mani e avrebbe prodotto molto frutto.

A sua volta Glauco Mauri, anni fa, ha donato proprio questa giacca al suo Roberto Sturno. Inseparabili, loro, anche ora che Sturno se ne è apparentemente andato. A lui Glauco Mauri dedica tutto lo splendore di questo progetto. E lo fa personalmente, salendo sul palco a fine spettacolo: commosso e felice. Forte di questo sodalizio immateriale ma trascendente.

Glauco Mauri e Roberto Sturno

E’ allora in omaggio a questa antica pratica pedagogica che il progetto che ieri sera è approdato alla sua conclusione prende il nome “Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore”. E rappresenta il tentativo di recuperare il sistema di trasmissione del mestiere immateriale dell’attore.

Attualmente, infatti, uno spettacolo si produce in una ventina di giorni e in questo breve tempo non c’è modo di “sperimentare”, cioè di accompagnare i processi creativi degli attori. Si può solo replicare ciò che già si sa. Inoltre, l’attuale sistema del teatro italiano impedisce la circuitazione degli spettacoli, che così si esauriscono in una manciata di rappresentazioni.

Serviva ed è stato trovato così un “luogo protetto”, com’è quello offerto da questo progetto ricco e ambizioso: carico di un patrimonio artistico ed emotivo da recuperare nell’antica cultura artigiana del teatro. Non un semplice progetto formativo quindi ma, come avveniva una volta, vitali esperienze del teatro di tradizione e del teatro di ricerca del Novecento.

Già Mejerchol’d sognava un luogo protetto, svincolato cioè dalle urgenze produttive, dove fosse possibile per gli attori creare forme sceniche e soluzioni interpretative. E l’Università può offrire questa opportunità.

Il Nuovo Teatro Ateneo

Il progetto curato infatti dalla Compagnia Mauri Sturno e finanziato dal MIC ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza, che fornisce oltre al supporto logistico anche una consulenza culturale sia attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo, che attraverso il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie – del Dipartimeto di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma. Dipartimento diretto dal Prof. Guido di Palma.

Il prof. Guido Di Palma

“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura né tantomeno solo ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni diverse”.

Lo stesso Eduardo De Filippo, assiduo frequentatore del Teatro Ateneo, sosteneva che la tradizione, se la si sa usare, è un trampolino per saltare più in alto.

Ieri, un’insolita – e ben augurale – apertura serale del Nuovo Teatro Ateneo ha atteso e accolto il ritorno, e quindi l’approdo, dei viaggiatori partiti alla ricerca, alla scoperta e quindi al raccordo con quel sapere immateriale dell’attore, che rende così prezioso il lavoro a teatro. E nella vita. Un lavoro non solo tecnico ma anche etico ed estetico.

Al fine di rendere più fulgidamente puro il lavoro di ricerca svolto, i promotori del viaggio hanno scelto uno spazio e un corpo “nudi”, cioè scevri da tutto ciò che avrebbe potuto falsare il nuovo “habitus” acquisito dai giovani attori. Quindi niente scenografie, niente musica, niente costumi (solo abiti normali) e niente trucco.

Marco Blanchi

E proprio come William Shakespeare fece in quel magnifico inno al potere dell’immaginazione che è il Prologo all’ “Enrico V“, così anche Marco Blanchi – curatore dell’atelier didattico assiema a Danilo Capezzani ma ieri sera anche nella veste di presentatore dei singoli lavori – ha invitato gli spettatori in sala a far ricorso ciascuno alla propria immaginazione, per visualizzare più adeguati scenari ai frammenti delle 12 opere, che questi “nuovi” interpreti portano in scena.

Non a caso, proprio il Prologo all’ “Enrico V” dà l’avvio alla restituzione. Viviana Feudale, l’interprete, ci restituisce tutta la meraviglia contenuta nell’ebbrezza del saper immaginare. Tutto in lei è meraviglia, tutti i suoi sensi ne sono predati. Ed è contagio.

Si passa all’ “Edipo re” di Sofocle dove di Pietro Bovi (Edipo) e di Luca Lombardi (Tiresia) ci arriva il particolare fascino delle loro vocalità. E di Tiresia l’eloquenza degli occhi bendati, unita alla vitalità del bastone al quale si sostiene.

Arrivano poi Kostja (Giuliano Bruzzese) e Nina (Marta Cirello) de “Il Gabbiano” di Anton Cechov. Lui sembra la diteggiatura nervosa e tormentata di un pianista, tanto si nutre di inquietudine. Lei fa della voce, e quindi del suo animo, quello che farebbe un’equilibrista sul filo: l’elogio del disequilibrio. Entrambi così spazzati dal vento e insieme così in sintonia.

E poi “I fratelli Karamazov”di Fëdor Dostoevskij: dell’Ivan di Antonio Greco e dello Smerdjakov di Francesco Leonardo Marchionne rifulge il tavolo dei silenzi, preludio alle loro diversamente mefistofeliche ed allucinate esplosioni disperate.

Si passa all’ “Antigone” di Jean Anouilh: luminosa la tensione tra la sensualità androgina di Francesca Trianni (Antigone) e la morbida persuasione di Sofia Guida (Ismaele). Resta il sapore appagante di quando un confine riesce a diventare un punto d’incontro.

Scintille tra La Caterina di Beatrice Lotti e il Petruccio di Davide Varone de “La Bisbetica domata” di William Shakespeare. La selvatichezza di lei si carica di un sentore profumato quando accolta dalla disponibilità di lui a interagire fertilmente con la follia del femminile. Seducentemente comici gli a parte di Petruccio.

E poi l’autenticità tipicamente britannica dell’apertura alcolica del Jamie di Roberto Castello così come della serrata chiusura del rigido e sobrio Edmund di Giuseppe Fedele, in “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill.

E ancora “Finale di partita” di Samuel Beckett. Due fenomenologie dell’aspettare: quella statica e da contatto di Hamm (Francesco Zaccaro), un’attesa cioè da immaginare, protetto dietro lenti colorate e a specchio e poi quella diversamente intrepida di Clov (Antonio Greco) . La sua è l’attesa che s’immagina dietro le lenti “altruistiche” di un piccolo cannocchiale e che tanto ricorda l’attesa della Compagnia della Contessa da parte di uno degli Scalognati de “I giganti della montagna” di Pirandello.

Arrivano invece “Gli innamorati” di Carlo Goldoni. Un Pietro Bovi (Fulgenzio) decisamente incline a seguire l’imprevedibilità tutta femminile dell’Eugenia (Virna Zorzan). Nonostante la tentazione maschile ad arroccarsi, Fulgenzio lascia anche libera uscita al suo proprio femminile. Ammiccanti gli a parte.

Seguono alcuni “Sonetti” di William Shakespeare resi prevalentemente a tinte calde dalla lettura interpretativa di Davide Varone, laddove Antonio Laurino sembra prediligerne le tinte più fredde. E a seguire le “Lettere a Pierre” (dal Paolo Pini di Affori) di Alda Merini rese dalle diverse note della struggente e folle sensibilità di Enrichetta Ranieri Martinotti e di Costanza Maestripieri.

A completamento il “Macbeth” di William Shakespeare: fertile la profonda sensualità vocale della Lady Macbeth di Sofia Boriosi, così come il fascino della decadenza posturale del Macbeth di Luca Lombardi.

In tutti i ragazzi evidenti “riflessi di perla” che, se ancora pazientemente levigata per anni, emanerà progressivamente una lucentezza prima segreta. “Perla” come concetto di “maestria”, che la metafora di Tanizaki Jun’ichirō così mirabilmente esprime.


Recensione di Sonia Remoli