Recensione LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE di Joseph Roth – con Carlo Cecchi – adattamento e regia Andrée Ruth Shammah –

TEATRO INDIA

dal 25 Febbraio al 2 Marzo 2025

Piovono lacrime sul viso di Parigi. 

Sono raccolte da un fazzoletto, che una giovane donna in proscenio ripiega come aprendo un sipario, che svela l’interno di un café parigino.

Lei, la donna (interpretata da Claudia Grassi), ha appena “incontrato” un piccolo libro, che rapisce immediatamente la sua attenzione. E, al suo voltar pagina, l’elegante estro registico della Shammah fa corrispondere la seduzione di un sipario che si apre sul vissuto di quel libro. 

Al bancone del bar dal sapore hopperiano (lo spazio scenico è disegnato da Gianmaurizio Fercioni con le suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin), un avventore infatti sta ultimando di scrivere proprio quel piccolo libro che la donna sta iniziando a leggere: “La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth.

C’è un filo di stupefacente bellezza con il quale Andrée Ruth Shammah imbastisce l’impalcatura di questo spettacolo. Consegnando allo spettatore un manufatto dalle rare finiture simboliche.

La Shammah individua diversi tessuti drammaturgici, con affini trame esistenziali, sui quali passa, con questo filo di stupefacente bellezza, punti che – come ponti – avvicinano i lembi dei differenti tessuti scelti.  

Nello specifico, la Shammah confeziona un adattamento incentrato su un’originale struttura a chiasmo: laddove il tessuto autobiografico dell’autore Joseph Roth confluisce nel vissuto del personaggio letterario di Andreas Kartak; qui, nel (suo) Andreas Kartak confluiscono sia il personaggio che lo stesso autore Roth. 

Andrée Ruth Shammah

L’operazione di alta sartoria registica è resa possibile grazie alla stoffa, dallo stile ricco in contraddizioni, del grande maestro Carlo Cecchi. Attore di giocosa e inquieta sperimentazione che parla di sé in prima persona (in quanto personaggio) e in terza persona (in quanto Roth, l’autore). “Non siamo il poeta, ma il poema” – direbbe Jacques Lacan -perché, più che autori, risultiamo essere attori di un copione. E voltare pagina è l’esercizio più complesso da portare a termine”. Straordinaria risulta la restituzione di Cecchi nel dare corpo ad “un personaggio” dal temperamento “sbriciolato” e ad un autore “poeta moderno del vuoto” dalla straordinaria musicalità ironica .

Giovanni Lucini – Carlo Cecchi

Sostenuto dal complice ascolto del barista (interpretato da Giovanni Lucini), “l’autore” confluito nell’Andreas di Cecchi gli racconta e ci racconta – aprendosi in una postura dalla torsione sempre più accogliente – la leggenda che ha appena finito di scrivere. La sua narrazione trova un incantevole contrappunto nella sottolineatura di quelle frasi, dalle quali il barista e la giovane donna, ora seduta ad un tavolo, si sentono letti. Questo “miracolo” accade quando l’incontro con un libro ci seduce come il corpo dell’amato. E ci trasforma. Perché si rivela “un incontro fortunato, in cui il lettore trova nelle pagine anche pezzi di se stesso”, scoprendo qualcosa di più di sè. “Perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto” (da “A libro aperto, una vita è i suoi libri” di Massimo Recalcati).

Giovanni Lucini – Carlo Cecchi

La Shammah sceglie di ospitare questo particolare modo di stare al mondo, in uno spazio scenico con il vissuto del Teatro India di Roma: una ex fabbrica di saponi e solventi Mira Lanza, che è riuscita a resistere alle tempeste della vita, riconoscendo incontri fortunati dai quali si è lasciata leggere, trasformandosi in “fabbrica del teatro di domani”. 

Teatro India

Ora, questa varietà di tessuti drammaturgici, come si anticipava all’inizio, sono imbastiti dalla regista Shammah attraverso quel filo di stupefacente bellezza rappresentato dalla spiritualità estetica della Santa Teresa di Lisieux, co-protagonista de “La leggenda del santo bevitore”. 

Fu lei, in vita, ad inaugurare con una fertile intuizione teologica “il teatro” esistenziale e religioso “della piccola via”: il teatro della bellezza – e non solo della sventura – di essere piccoli e imperfetti. Perché è con la consapevolezza e la fiducia in questa condizione esistenziale – con la quale non ci si ostina a cogliere tracotantemente “il tutto” ma ad accogliere con vibrante gratitudine “particolari” del tutto – che la misericordia di Dio può manifestarsi. 

Teresa di Lisieux

Una spiritualità estetica che si specchia nell’estetica artistica “dell’impossibilità a recitare”, secondo la quale un artista può solo dar forma al divenire dell’arte, per sua natura “incerta fin nella più intima fibra”.

Perché il Teatro, come la Vita, è “ripetizione” e l’attore non sfugge al ripetere per provare continuamente a comunicare, mosso dalla tensione a stabilire un rapporto conoscitivo. Un rapporto non fissato una volta per tutte, ma che si sviluppa nel corso delle rappresentazioni.

Perché il Teatro, come la Vita, è un organismo vivo e quindi labile, mutevole, provvisorio.

Perché il Teatro, come la Vita, “è un insieme di rapporti”, che si concatenano fra di loro in un unico punto presente. 

E così, in ultima analisi, il filo che la Shammah individua e usa sapientemente per imbastire la costruzione dei vari tessuti drammaturgici di questo spettacolo è il filo della “drammaturgia della prova”. 

Quel filo così caro alla sua sensibilità di regista, nonché a quella di del Carlo Cecchi attore, maestro di coscienza e guida d’attori. Perché siamo tutti “in prova” qui sulla Terra: in cammino dentro e fuori noi stessi. 

Andrée Ruth Shammah – Carlo Cecchi

“La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth parla e ci parla della vita di un uomo, Andreas Kartak, perseguitato e esiliato dalla Slesia e dalla vita civile, in quanto detenuto in carcere per aver salvato la vita della sua amante, picchiando suo marito fino ad ammazzarlo. Dopo due anni torna ad una vita libera e piena di miseria, mandandola giù a sorsi di Pernod.

E’ un uomo infatti che continua a rimanere sordo ai miracoli degli incontri quotidiani di cui la sua vita è punteggiata, in quanto attratto irresistibilmente a ripetere gli atteggiamenti distruttivi legati ai suoi traumi. Come accade a tutti noi.  

E l’interesse dello sguardo registico della Shammah non cade sul suo continuo procastinare la missione a rendere fertilmente creativa l’elargizione di denaro ricevuta, un po’ come nella parabola cristiana dei talenti. Il suo interesse non è sul risultato ma sul processo: sul percorso accidentato attraversato da Andreas.  

La drammaturgia del disegno luci (la cui cura è affidata a Marcello Jazzetti), in sinergia alla drammaturgia musicale, riesce efficacemente a sottolineare la tragica coercizione dell’Andreas personaggio a ritornare sempre sulla stessa riva, sospinto dall’onda della ripetizione del suo trauma. Una vita la sua, ma non solo, che tende a rimanere schiacciata dal passato e dalle tracce traumatiche che si sono impresse su di essa. 

Perché la condizione esistenziale di Andreas è propria di tutti noi esseri umani: non a caso il racconto assume la forma di una “leggenda”, che per sua natura si rivolge alla collettività, per rinsaldarne i legami di appartenenza. 

Vivo è infatti in Andreas quel senso interiore della dignità, che riesce ad andare al di là della crisi esistenziale che tende continuamente a metterlo “all’angolo” – condizione di cui così efficacemente la scena ci parla. Un senso dell’onore, il suo, che continua a guidarlo e a sostenerlo. Fino alla fine. Seppur senza riuscire a concretizzarlo stabilmente. Ma questa sua tensione, questo suo restar fedele a un ideale di dignità in una vita “senza indirizzo”, lo rende degno di essere un “santo bevitore”.

Claudia Grassi – Carlo Cecchi – Giovanni Lucini

La condizione esistenziale di Andreas è propria anche dell’attore, che nella sua arte procede nel tentativo di rappresentazione della realtà per ripetizioni, pur sapendo che sempre resiste qualcosa che sfugge all’elaborazione, alla rappresentazione. Ma dalla ripetizione può nascere anche qualcosa di creativo, di fertile, di generoso. Come accade ad Andreas: che sbaglia e continua a sbagliare, ma – direbbe Beckett – “sempre meglio”.

“Occorre avere fiducia” – dice e testimonia la piccola Santa Teresa di Lisieux, che attendendo Andreas e non vedendolo arrivare va lei stessa a visitarlo in sogno – perché “ é la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore”.

Una fiducia che non significa lamentarsi del nostro essere imperfetti, desiderando risolvere la nostra condizione nella sua interezza. Né significa accontentarsi di poco. Significa piuttosto non mancare all’incontro con l’altro: non mancare al miracolo a cui l’altro ci apre. E “ci legge”. Come un libro.

Claudia Grassi – Carlo Cecchi – Andrée Ruth Shammah – Giovanni Lucini


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AMEN di Massimo Recalcati – regia di Valter Malosti

FESTIVAL NARNI CITTA’ TEATROChiostro di Sant’Agostino – 14 Giugno 2024 –

In una notte racchiusa dalle pareti affrescate di un chiostro del XVIII secolo ma libera di brillare sotto un cielo tempestato di stelle, i rintocchi dell’orologio della Torre dei Priori hanno segnato l’amen: il tempo della fine dell’attesa e quindi l’ora dell’inizio dello spettacolo. 

Un raggio di luce accompagna allora l’entrata in scena degli artisti del suono: co-protagonisti insieme agli interpreti dello spettacolo immaginato dallo slancio creativo di Valter Malosti, regista del testo teatrale scritto da Massimo Recalcati.

Valter Malosti

Malosti sceglie, in fertile accordo con l’essenza del testo, di “concertare” le voci di Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli – alle quali affida l’interpretazione di una selezione di brani della drammaturgia – ai suoni dello sperimentalismo in continua evoluzione del sound designer e musicista Gup Alcaro e alla chitarra laconica e brumosa, gravida di suggestioni, di Paolo Spaccamonti.

“Concertare” significa preparare per un’azione comune ed è qualcosa di diverso da una fusione; è piuttosto una cooperazione che riconosce le diverse peculiarità messe in campo. E quella del “concertare” è la cifra stilistica scelta da Valter Malosti per restituire registicamente il fecondo contrasto che agita il testo di Recalcati.

Massimo Recalcati

Le parole scelte dal celebre psicoanalista e saggista sono parole che sanno di esprimere il loro potere creativo: prendono vita da un eccesso di dolore che, lungi dalla tentazione alla rassegnazione, si trasforma in un desiderio disperato di lotta e di resistenza.

Sono parole che sanno di essere anche suoni dal potere fonosimbolico. E quello che prorompe dalla drammaturgia come un grido è un eccesso anche acustico, che ci viene restituito attraverso la sapienza di chi conosce intimamente quell’asprezza del suono vibrantemente acuto e quel carattere di esplosione polmonare, proprio dell’atto di alzare la voce in un grido.

Un grido che, al di là di una singolare esperienza personale, desidera richiamare l’attenzione della comunità, anch’essa coinvolta in questa disperata ed eccitante esperienza dello stare al mondo. 

Ecco allora che all’ “uomo” Massimo Recalcati si affianca lo “psicoanalista-antropologo” per restituire il valore di quella che è la radice etimologica di ogni nostro “gridare”: quel chiamare aiuto inteso dai nostri progenitori come l’atto di chiamare a condivisione  tutti i concittadini. Quel “quiritare”, da cui deriva il nostro “gridare”, significava infatti chiamare a raccolta i concittadini di allora: i Quiriti, appunto. Una parola dall’impatto unico: quello del suo originarsi dalla consapevolezza che avevano gli abitanti di una piccola cittadina dell’Italia centrale – nata su una sponda del Tevere ventotto secoli fa – che quando si gridava aiuto, si stringeva come cittadinanza.

Un grido che qui si origina dal ricordo di un’incubatrice: Recalcati, infatti, nato prematuro in tempi in cui non esisteva ancora la neonatologia, racconta di aver ricevuto insieme battesimo ed estrema unzione. Lui stesso, incarnazione del possibile coabitare di vita e morte. Un ricordo che si fa materia emozionale attraverso la sublime messa in scena acustica del regista-artista Valter Malosti. 

Un’incubatrice che ci parla di quel mortificante isolamento protettivo, durante il quale si è privati del contatto uterino con la propria mamma. Ma a qualche livello “l’imprinting” del suo battito cardiaco continua a insistere nel battito di suo figlio. Di concerto alla sua voce che, anche in quest’utero di vetro, riesce ad insinuarsi e a nutrirlo. 

Paolo Spaccamonti, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli, Gup Alcaro

Torbida  e pulsante come linfa vitale ci scorre dentro la voce di Federica Fracassi, scelta per interpretare la Madre, primo esempio della relazione e quindi della “concertazione” tra vita e morte. E nonostante il lutto che già veste, ma che non la abita e da cui eccedono guizzi di vibrante rosso sangue, “nuda” e distante ci si dà iconograficamente come una Venere botticelliana pervasa da “furor maliconicus”: quello de “La nascita di Venere”, allegoria neoplatonica incentrata sul concetto di amore come energia vivificatrice.


Una relazione, quella della vita “con” (e non “contro”) la morte, indispensabile ma che rischiamo continuamente di smarrire. Lo abbiamo sperimentato macroscopicamente durante i lunghi mesi di pandemia, dove a salvarci era il momentaneo allontanamento dalle relazioni. Anche noi, in qualche modo, chiusi terapeuticamente in un’incubatrice di vetro: quella delle pareti della nostra casa, che si estendevano attraverso i vetri dell’incubatrice-computer.

Marco Foschi, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli

Ed è intorno al fertile “concertare” di vita e di morte, reso acusticamente dall’elettricità melmosa e metallica dei suoni e delle voci, che Valter Malosti costruisce l’epifania della vita. Che ritorna: ancora e ancora. Anche nei momenti più mortiferi: basta non smettere di accordare il nostro orecchio ai richiami acustici del nostro essere battuti dal battito cardiaco “concertato” al ritmo del nostro passo, espressione invece della nostra volontà disperata, a insistere a continuare a vivere. 

Perché sebbene ci sia sempre qualcosa di irrisolto che resta e che tende a riproporsi, noi abbiamo facoltà di accordare la nostra luce al buio di questa irresolutezza. Attraverso un nostro “come”, simboleggiato dalla parola “Amen”: un suggello d’apertura alla vita, che si fonda sulla chiusura della morte. Come avviene nell’atto della nascita, nell’atto dell’amore, nell’atto della morte: “concerti” di vita e di morte. 

Ecco allora che questo testo teatrale, che nasce come un “grido”, si apre in un meraviglioso elogio del potere della “relazione”: il solo davvero efficace nel rievocare la vita anche nei momenti di morte. 

Federica Fracassi, Paolo Spaccamonti, Danilo Nigrelli, Marco Foschi

Della madre è l’insegnamento a desiderare la vita nonostante tutto, a cantarne un inno attraverso la trasmissione di quel battito del cuore che non smette di insistere. E che, quasi come un ancestrale imprinting, il figlio Recalcati ritroverà nel ritmo del passo del padre-soldato : qui un solennemente sfibrato Danilo Nigrelli, che sa rendere con efficacia l’eroe dal fascino rigorosamente decadente, incontrato dall’adolescente Recalcati tra le righe de “Il sorgente nella neve” di Mario Rigoni Stern . Ma quel battito del cuore è rintracciabile anche nell’imprinting di cui si nutriranno i battiti-carne con la sua amata donna.

Paolo Spaccamonti e Gup Alcaro

Quei battiti resi succulenti dalla voce e dalla rievocazione del sopravvissuto e ancora affamato di vita Marco Foschi, interprete di Enne 2, il partigiano di “Uomini e no” di Elio Vittorini, altro eroe incontrato nelle prime letture del giovane Recalcati. Il suo impaziente desiderio di vita trova massima espressione nella relazione palpitante con la sua donna, di cui Marco Foschi rende tutta la gustosa e drammaticamente impetuosa forza vitale, che lubrifica i sensi.

Uno spettacolo esperienziale – questo di Valter Malosti ispirato al testo di Massimo Recalcati – denso di quella sacralità che invita lo spettatore a parteciparne, aprendosi in un ascolto libero dai rigidi principi della logica. Un ascolto indifeso che, solo, riesce a rendere onore al potere della parola, che qui si fa carne. E di cui riusciamo a sentirne la lacerazione innamorata. Fino a toccarla. Contagiandoci di vita pulsante.

Andrée Ruth Shammah

Fertilmente visionaria, com’è nella sua cifra artistica, Andrèe Ruth Shammah: la direttrice artistica del Teatro Franco Parenti che ha scelto di produrre questo spettacolo, la quale non appena ricevuto in lettura il testo di Recalcati ne ha colto le potenti vibrazioni dionisiache, confluenti in un punto di fuga che ha dell’apollineo. Le vibrazioni necessarie per riaprirsi alla vita, e quindi al teatro, dopo l’oscurità dei mesi vissuti durante la pandemia. E non solo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA MARIA BRASCA – di Giovanni Testori – regia Andrée Ruth Shammah –

TEATRO VASCELLO, dal 21 al 26 Maggio 2024 –

Non si resiste a non amare tutto di lei, finanche il suo pallore, solare prima che lunare: é la Maria Brasca di Marina Rocco, diretta dalla Shammah. Un pallore, il suo, risultante dalla prorompente fusione di tutti i colori di cui riesce a tingersi il suo desiderio: quello potente e prepotente, che prima di pretendere di essere ricambiato esige poter dare, poter offrirsi, potersi battere. 

Marina Rocco è Maria Brasca

Un’esigenza irrefrenabile e scandalosa – questa di testimoniare il sublime entusiasmo del suo desiderare – in una Milano degli Anni ’60, che il desiderio lo vorrebbe sordo, muto, celato. E che la Maria invece fa risuonare in tutto il suo fragore. Senza vergogna. Perché quel modo lì di “amare insieme” è la più grande espressione della dignità umana. 

Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo Camisasca)

Qual è, infatti, la cifra della nostra “umanità” se non la capacità di amare al di là dell’ostinato pretendere di essere ricambiati?

La Brasca resta preda per la prima volta di questa insolita capacità di amare con il suo Romeo Camisasca. E la nuova forza erotica è così invadente che lei vede vacillare un’attitudine che finora l’ha sempre guidata: la limpidezza concreta di “dire le cose come sono”. Unita a quella di “saper giudicare gli uomini”. 

Ma l’amore, questo amore, che la trova disponibile a lasciarsi infatuare, le insegna che non serve a nulla “giudicare”. Serve, piuttosto, far sì che l’errore ci renda migliori di prima. Tanto da poter arrivare a progettare un avvenire, lei che “io per l’avvenire non fisso niente. Per adesso è così, poi vedremo”

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un talento fertilmente contagioso, questo a godere apertamente di tutta la succulenza della vita incluse le eventuali conseguenze: lei, la Brasca, è un fiume in piena, che tracima depositando limo esistenziale. “Un giorno o l’altro devi trovarlo anche tu chi ti farà perder la testa. È talmente bello! E se tu proprio non lo trovi, te lo tiro fuori io, vedrai… Ma cosa fai, adesso? Sei contenta o non sei contenta che la tua Mariassa è innamorata? E allora ridi, su, andiamo, ridi! Tanto, finché c’è vita, c’è speranza!… Giuseppa, ascolta: la bellezza avrà il suo valore, non dico di no, ma quello che conta è poi un’altra cosa. Come lo chiamano i signori? Lo sbrinz, ecco; lo sbrinz”.

La Maria Brasca ha il dono di una sapienza spiccia: svelta e risoluta; fresca e scintillante. Ha un modo tutto suo di entrare in relazione con gli altri. Li capisce al volo, istintivamente, grazie a quella sua disperata gioia erotica – così naturalmente resa da Marina Rocco – esclusiva di chi è fedele al proprio desiderare. E sa lasciarsene guidare. 

E’ una donna affamata di vita, la Brasca: morde il presente ma, insieme, sa perdersi nello stupore proprio “di una verginella al primo amore”. E sa anche aspettare, come chi ama davvero, “per dei giorni e delle notti di fila”.  E se poi c’è da difendersi, da lottare, sceglie di farsi vedere “nuda e cruda”: in tutta la sua controversa purezza. Scoprendosi ad amare non solo ciò che luccica, come la bellezza indiscussa del suo Romeo, ma anche quel “suo fare da remollo”: perché amare davvero significa amare tutto dell’altro. 

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un respiro vitale che lei generosamente condivide, perché questo significa “stare insieme”. Amare la vita. Perché questo significa avere una dignità.

Significa che essere una donna non equivale solo “ad avere le paturnie” ma ad avere anche le ovaie. E perché “libera non significa puttana”.

“Libera” significa amare e sperimentare la vita in tutto il suo spettro cromatico. Proprio come amava dire Giovanni Testori«Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi, anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti».

Una vita che è partecipazione, in quanto “cosciente emozione del reale, divenuta organismo” e che come tale Testori riflette sul corpo della sua lingua, qui – nel suo primo testo d’esordio drammaturgico – già irresistibile.

Giovanni Testori

Così come uno spettacolo – dirà André Ruth Shammah introducendo il debutto della prima romana – “è una storia di partecipazione che si desidera condividere. Non un prodotto commerciale”.

E commuove la grazia che si sprigiona dall’appassionata cura umana – prima ancora che registica -nell’onorare il passaggio di testimone da un’attrice all’altra, nel corso degli anni, per continuare ancora a far vivere la Maria Brasca: nel 1992 era stata la cura di far sì che Adriana Asti continuasse a far partecipare Franca Valeri coinvolgendola nello spettacolo, anche dalla prima fila della platea

Franca Valeri è Maria Brasca (1960)

e ora, dal 2023, è Marina Rocco che prima di pronunciare la sua battuta d’apertura pare desiderare raccordare la sua voce a quella di Adriana Asti, che si libra nell’aria sulle note di una canzone. E nell’ascoltarla la Rocco si toglie il basco. E poi le manda un bacio. Ora si può. Ora tocca a lei portare avanti il testimone.

Adriana Asti è Maria Brasca (1992)

Un’eredità di sacra riconoscenza che si tramanda nella Casa del Teatro del Franco Parenti anche attraverso il recupero di fonti storiche, amorevolmente conservate: ad es. gli appunti accuratissimi della sarta della Asti, la Sig.ra Carlotta nonna dell’attuale sarta di Marina Rocco Simona Dondoni, che proprio grazie a questa eredità di cura può permettersi di vestire la Rocco con gli stessi costumi indossati dalla Asti. 

Ma eredità significa anche profonda fedeltà nei necessari tradimenti che lo scorrere del tempo impone: ecco allora la naturale esigenza di un opportuno ricambio generazionale, compimento di un ciclo di vita, a cui anche le foglie che abitano la scena alludono. E che non vengono mai eliminate. 

Andrée Ruth Shammah e Giovanni Testori

Eredità è il ricordo di Giovanni Testori, immenso maestro della Shammah, che non ha nulla del rimpianto, quanto piuttosto la gratitudine per esserci stato e per esserci ancora, attraverso una presenza metafisica e insieme palpabile. Lo si percepisce nitidamente già nella modalità profondamente giocosa attraverso la quale la Shammah e Giuseppe Frangi (Presidente dell’Associazione Casa Testori) amano ricordarlo durante l’incontro con il pubblico, appena precedente la prima romana al Teatro Vascello. 

Marina Rocco (Maria Brasca), Mariella Valentini (Enrica) e Luca Sandri (Angelo)

E poi “quel” insinuarsi della voce di Testori dai muri dello spettacolo. E poi la costruzione di tutti “quei” dettagli che la Shammah ha sapientemente inserito, quale mirabile contrappunto al suo sguardo registico. Uno su tutti, la casa riprodotta in scena che trema al passare del treno: così allusiva dell’abitazione dove Testori era cresciuto e dove ha trascorso gran parte della sua esistenza – oggi sede dell’Associazione Giovanni Testori – costruita lungo i binari delle Ferrovie Nord e affiancata dalla fabbrica tessile avviata da suo padre. 

Apre la scena metateatrale (curata da Gianmaurizio Fercioni) – dalle plumbee tinte della prudente ipocrisia del compromesso – la meravigliosa voce di Adriana Asti che canta ‘Quella cosa in Lombardia‘, con le musiche di Fiorenzo Carpi e il testo del poeta-cantacronache Franco Fortini

Uno spaccato di “famiglie cadenti come foglie, di figlie senza voglie, di voglie senza sbagli” sul quale la Shammah fa cadere la quarta parete. E quello che ora si lascia vedere, immagina come di proiettarlo-rivelarlo su un maxi schermo di una sala cinematografica.

Ma la vita, quella scandalosamente vera e vibrante, è quella che si svolge fuori dallo “schermo”. Con un‘interessante allusione anche all’intendere la vita nella nostra attuale modalità “social”.

Lo spettacolo è la storia di una famiglia che cerca di contenere ed arginare perbenisticamente l’inarrestabile esuberanza di una giovane donna, la Maria Brasca appunto, che non teme il coro dei “dicono che…, si dice che…”: non ha timore di quello che può uscire dalle bocche della gente, atrofizzate dal continuo spifferare pregiudizi e maldicenze.

Lei, la Brasca, la sua bocca la tiene ben aperta, anzi la spalanca in seducenti risate di piacere, scandalosamente generose a donare e a ricevere baci. Sua sorella Enrica (un’efficacissima Mariella Valentini) invece è sovrastata dall’affettuosa premura a mantenere un’apparenza di decoro nella sua famiglia. Nonostante correnti telluriche scuotano il sottosuolo della sua esistenza e quella dei suoi familiari: quella di suo marito Angelo (un delizioso Luca Sandri, così placido proprio perché così inquieto) e quello di sua sorella Maria, che ha perso la testa per quel fannullone del Camisasca (un Filippo Lai che splende di quel groviglio di prorompente impulsiva immaturità, proprio del suo personaggio). Atteggiamento che, per l’ottimismo della Brasca, proprio perché così vago nel decidersi a trovare focalizzazione su un lavoro, é espressione del fatto che può farli tutti. Mica come suo cognato, l’ Angelo,  che “non era difficile capire che più che meccanico non sarebbe mai diventato!“.

Luca Sandri (Angelo), Marina Rocco (Maria Brasca) e Mariella Valentini (Enrica)

Dopo la proiezione del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli – 50anni di vita del Teatro Franco Parenti” alla Festa del Cinema di Roma 2023 e la messa in scena qui a Roma di una selezione di spettacoli prodotti dal Teatro Franco Parenti per condividere con la Capitale i festeggiamenti dell’evento (“Il delitto di via dell’Orsina” di Eugène Labiche per la regia di Andrée Ruth Shammah; “Farà giorno” di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi per la regia di Piero Maccarinelli e “Sulla morte senza esagerare” per la regia di Riccardo Pippa) con “La Maria Brasca” di Giovanni Testori – regia di Andrée Ruth Shammah – si chiude il ciclo di spettacoli selezionati dalla Shammah per onorare i festeggiamenti, qui a Roma, dei 50anni di vita del Teatro Franco Parenti, nonché del centenario di Giovanni Testori.

Spettacoli – anzi “storie da condividere”, come ama definirli la Shammah – che sanno parlare ancora al pubblico di oggi, anche perché storie legate tra loro dall’indagine di quei passaggi di testimone, che la vita ci invita ad attraversare e che spesso sono zone di confine che si possono vivere quali fertili occasioni d’incontro, piuttosto che di separazione.

Luca Sandri (Angelo), Mariella Valentini (Enrica), Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo)

Un’esperienza di feconda condivisione, questa con la Capitale, voluta fortemente dal generoso umanesimo di cui Andrée Ruth Shammah sa farsi autrice e ambasciatrice. Un inno alla Vita, il suo, e quindi un inno al Teatro, che ha commosso, divertito ed entusiasmato il pubblico romano.

Non c’è niente da fare: nella Casa del Teatro del Franco Parenti si respira davvero la Vita.

Andrée Ruth Shammah, suo figlio Raphael Tobia Vogel e Franco Parenti


Recensione di Sonia Remoli



Recensione dello spettacolo CHI COME ME di Roy Chen – regia di Andrée Ruth Shammah

TEATRO FRANCO PARENTI, dal 5 Aprile al 5 Maggio 2024

Andrée Ruth Shammah ci invita a salire a bordo della sua nave – la nuova sala A2A – e un po’ come il Prospero shakespeariano fa scoppiare una tempesta. 

Che non colpisce solo gli interpreti in scena. No, coinvolge anche noi del pubblico. Perché siamo tutti nella stessa barca: qui si parla della vita e di come possa essere desiderabile anche la morte.

E’ naturale – come ama ricordare Roy  Chen autore di questo appassionante e commovente testo – che la vita sia abitata da conflitti, da tempeste. Ma tutti noi sappiamo che possiamo contare sul “dialogo”: quel movimento che fa sì che due (o più) persone si lascino attraversare dal potere della parola. 

Roy Chen

Quel movimento che fa “incontrare” due (o più) singolarità che scoprono di preferire alle proprie ragioni rigidamente individuali quelle che nascono dall’incontro con le ragioni dell’altro. Perché il dialogo è il linguaggio della “relazione” e renderla possibile è lo scopo della nostra esistenza, qui in questo mondo. Perché solo attraverso la relazione ci riveliamo “creatori” e quindi artisti del vivere quotidiano. 

Misurare il nostro spazio vitale, definirlo rigidamente, ci regala l’illusione di sentirci sicuri e quindi forti. Ma in realtà ci rende “poveri”, sterili, proprio perché “separare” non genera vita, non fa nascere alla realtà cose nuove. 

Sala A2A

Di questo ci parla la postura con la quale ci accoglie questa sala: la A2A il cui nome è un omaggio allo sponsor che ha permesso l’ultima trance dei lavori.

Una postura che ci commuove: regala una scossa ai nostri individualismi e li fa crollare. Questa sala è così bella – una vera “figata” – perché così può essere la vita, se ci ricordiamo che siamo tutti sulla stessa barca e che “insieme” si ottiene molto di più che custodendo “da soli”, sterilmente, i nostri confini esistenziali. 

Non si poteva trovare modalità migliore, forse, per ricordarci “chi siamo”. E che per scoprirlo abbiamo bisogno di stare “insieme” agli altri, così diversi da noi e proprio per questo così preziosi per noi. 

Perché “la libertà non si definisce, si testimonia”, sosteneva Vitaliano Trevisan

Vitaliano Trevisan

Qui siamo nel libro di Roy Chen. 

Qui siamo nel libro della vita. 

Questa è la prossemica che possiamo tenere per essere “ricchi”, per essere “forti”: la prossemica del mescolarci, dell’incuriosirci compassionevolmente dell’altro. La cui diversità ci parla anche di noi e ci permette di amarci. E di avvicinarci al miracolo del “perdono”: ciò che resta di una “tempesta”, non solo shakespeariana.  Ciò che resta di un conflitto. 

La diversità è tra noi: non a caso il reparto di igiene mentale nello sguardo registico ed esistenziale della Shammah non resta confinato sul palco ma ci raggiunge in platea. E ci contamina fertilmente. L’allestimento scenico é curato da Polina Adamov.

La sala A2A

La diversità è in noi: ciò che notiamo nell’altro, in qualche forma, è anche in noi. E’ quello che consideriamo il nostro peggio e con il quale ci guardiamo bene di venire in contatto, mantenendo accuratamente le distanze, rinforzando i confini. Indossando maschere.

Invece è lì, in quella stranezza, in quel “difetto” provocato in noi da “una ferita” che ci ha segnati, che si nasconde qualcosa capace di generare cose meravigliose di noi. 

Sa parlarne con sapiente fascino la nuova edizione di “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” di Massimo Recalcati (Castelvecchi). 

Più forte però è la tentazione a vergognarci dei nostri “difetti”: allora rinforziamo i nostri confini per delimitare la stranezza, per non farla uscire da lì. Addirittura riusciamo a dimenticarla. Convincendoci – e impegnando tutte le nostre energie a convincere anche gli altri – del contrario. 

Ecco allora l’importanza di allenare invece quell’ abilità – che tutti noi possediamo – del chiederci e del chiedere “Chi come me”.

Abilità al cui “sboccio” partecipiamo attraverso questa stupefacente rappresentazione teatrale. Che in verità è la semplice ed autentica riproposizione di qualcosa che è realmente accaduto all’autore del testo Roy Chen nel 2019: quando fu invitato a partecipare ad una lezione di teatro nel reparto giovanile di un centro di salute mentale di Tel Aviv. 


In scena – anzi tra noi – 5 splendidi adolescenti “diversi” con la freschezza e la grazia del loro essere ragazzi e con la pesantezza di essere diventati precocemente adulti. Sono interpretati da intensissimi attori esordienti (dai 14 ai 21 anni): Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani.

Sono ragazzi che hanno la fortuna di essere guardati con meravigliosa attenzione dallo psichiatra direttore del reparto ( un appassionato Paolo Briguglia) che ogni mattina prima di svegliarli si prende un attimo: “ode” i loro respiri quando dormono e li trova la più ammaliante delle sinfonie. 

Paolo Briguglia e Federico De Giacomo

Desidera essere inserito – e quindi incluso, accettato – nei loro respiri: non tanto nelle loro menti. Perché il respiro è qualcosa di più profondo: regge la vita alla base. E più in alto, regge anche architetture senza le quali stenteremmo a pensare.

E parla di loro all’insegnante di teatro, la signorina Dorit (una commovente Elena Lietti), con l’incanto di “chi sa che sono come noi”. Ma con un contrappunto di Seriquel, Helydol, Prisma e Ritalin.

Sarà l’azione sinergica della cura dello sguardo e dell’ascolto poetico dello psichiatra mescolati all’erotica della didattica teatrale della signorina Dorit a produrre rigogliosi frutti nei 5 ragazzi, nonostante le non sempre favorevoli “condizioni atmosferiche”.

Elena Lietti

Perché efficaci nel lasciare il proprio segno sono quegli insegnanti che con il loro stile hanno la “capacità di immedesimarsi” rendendo possibile l’esistenza immaginifica di nuovi mondi. Riattivando così quel desiderio capace di accendere la vita e di allargarne l’orizzonte. Solo in questo modo ad ogni diversità sarà restituita la propria singolare bellezza.

Perché se è vero, come è vero, che l’empatia è importante, lo è ancor di più che non diventi un pretesto per imporre il proprio sguardo. Errore nel quale possiamo avere la tentazione di cadere noi genitori. Che infatti non possiamo non trovare qualcosa di nostro nella varietà degli atteggiamenti dei genitori di questi ragazzi, tutti interpretati con viva maestria da Sara Bertelà e Pietro Micci.  Perché i legami che durano nel tempo sono quelli che si fondano sul riuscire ad amare l’altro proprio in quanto diverso da noi.

Pietro Micci e Sara Bertelá

E intanto, superata la tempesta, qualcosa è successo.

Perché scendendo dalla nave (la nuova sala A2A) si ha una strana voglia: quella di non voler essere poi così normali. 

Il teatro contagia, per fortuna. E cura le nostre preziose fragilità.

E finché ci saranno urgenze che prenderanno forma attraverso regie di così profonda testimonianza, avrà ancora “sapore” il nostro stare al mondo.

Grazie Andrée Ruth Shammah: “randagia dello spirito”.

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CHI COME ME

di Roy Chen

adattamento, regia e costumi di Andrée Ruth Shammah
traduzione dall’ebraico Shulim Vogelmann

con in o.a. Sara BertelàPaolo BrigugliaElena LiettiPietro Micci
e con Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani

allestimento scenico Polina Adamov
luci Oscar Frosio
musiche di Brahms, Debussy, Vivaldi, Saint-Saëns, Schubert … e Michele Tadini

assistente alla regia Diletta Ferruzzi
assistente allo spettacolo Beatrice Cazzaro
consulenza vocale Francesca Della Monica
direttore dell’allestimento Alberto Accalai
direttore di scena Paolo Roda
elettricista Domenico Ferrari
fonico Marco Introini
sarta Marta Merico
scene costruite da Riccardo Scanarotti – laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati da Simona Dondoni – sartoria del Teatro Franco Parenti
gradinate costruite da Pietro Molinaro – Scena4
Si ringrazia Bianca Ambrosio per averci fatto conoscere Roy Chen

produzione Teatro Franco Parenti

rassegna La Grande Età, insieme

Partner culturale

Fondazione Ravasi Garzanti

In collaborazione con

RINASCENTE

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione del testo teatrale AMEN di Massimo Recalcati –

EINAUDI, Collezione di teatro 456


Da questo testo il Teatro Franco Parenti ha prodotto l’omonimo spettacolo che l’8 Luglio 2021 ha debuttato al Festival di Spoleto, con Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli e con la regia di Valter Malosti.


La bellezza di certe verità è inafferrabile. Ma ci ospita. Possiamo lasciarci le nostre tracce. È così. 

Come accade con la neve: quella, ad esempio, sul fondo della scena qui descritta. 

Una neve che abita un confine.

In quanto tale, un confine si dà come inizio e come fine di qualcosa.

Ma può darsi anche come coesistenza di un inizio e di una fine di qualcosa: come soglia di un incontro, di una comunione.

Come i protagonisti di questa narrazione: sono 3 ma anche 1.

E’ la bellezza di certe verità, come quella della religione cristiana e dell’inconscio psicoanalitico.

I tre – un figlio, una madre e un soldato/padre spirituale – non si rassegnano a concepire il confine tra la vita e la morte come una “separazione” tra un prima e un dopo.

La narrazione dei loro vissuti ci parla di un desiderio di vita che non esclude la morte ed è così consapevole da fare di questo presunto confine – sperimentato in molte occasioni della loro vita – un luogo d’incontro e quindi di coesistenza:

Tra un passo e l’altro

Tra un battito e l’altro

Tra un sentire e un mancare 

Tra il totale altruismo di madre e l’insostenibile leggerezza dell’essere dei padri 

Tra battesimo ed estrema unzione

Tra l’amore diverso di ciascuno dei due amanti

Tra il restare di un nome e il corpo che muore

Tra il durare e il resistere

Massimo Recalcati

E’ così che la scrittura di Massimo Recalcati, noto psicoanalista e saggista, ci porta a fare esperienza dell’ eternità del caduco: dell’irresistibile trascendenza legata al piacere dei sensi. 

In primis, il vedere: quello che riceviamo in dono dai nostri “piccoli occhi mortali” accesi dalla luce, partorita dal buio.

Luce che a sua volta partorisce la vita e insieme la morte. E rende possibile l’entrata in scena di un altro meraviglioso senso: il tatto. È la bellezza dell’aderire. Che non significa afferrare. Ma contagiarsi nell’abbracciare un’attesa. 

Recalcati canta la continua meraviglia di un giorno qualsiasi, quella trascendenza che scende sulla quotidianità, come la polvere sulla consuetudine immortalata nelle opere di Giorgio Morandi.

Recalcati canta la bellezza irripetibile dei nostri corpi, così come sono: lungi da un desiderio di perfezionamento. 

Recalcati fa venire alla luce un testo dalla viscerale e lisergica potenza sinestetica: che riusciamo a “sentire” anche acusticamente, olfattivamente, tattilmente e in bocca. Al di là dei principi della logica.

È il racconto della rievocazione della “passione del vivere”: la preghiera delle preghiere.

Un testo sull’urgenza di nascere, non solo una volta ma ancora e ancora: tutte le volte che la vita si scontra fertilmente con la morte. 

Tre personaggi, tre diversi modi di essere ebbri di vita. Per se stessi e per gli altri.

Tre declinazioni di ostinato insistere a voler vivere: anche quando l’ impossibilità a proseguire diventa direttamente proporzionale all’impossibilità a non proseguire. Uno strazio e un’eccitazione che non escludono la tentazione a lasciarsi andare e a gridare contro Dio, come Giobbe.

Ma su tutto vince l’urgenza dell’inafferrabile bellezza di vivere, ancora, ancora, ancora: battito dopo battito, passo dopo passo.

Sì, così: “…adesso e nell’ora della nostra morte”. 

“Amen”: così sia, così voglio.

Massimo Recalcati


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL DELITTO DI VIA DELL’ORSINA di Eugène Labiche – regia di Andrée Ruth Shammah –

TEATRO AMBRA JOVINELLI, dal 6 al 17 Dicembre 2023 –

Dopo la luminosa accoglienza ricevuta alla Festa del Cinema di Roma 2023 con il docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”, è approdato ieri a Roma il primo dei quattro spettacoli che la produzione del Teatro Franco Parenti di Milano ha portato in scena dal palco dell’Ambra Jovinelli: “Il delitto di via dell’ Orsina”.

La splendida occasione offerta al pubblico romano nasce dal desiderio della Direttrice artistica e Regista Andrée Ruth Shammah di condividere anche con la Capitale i “50 anni di vita” dell’eclettico Teatro di via Pier Lombardo 14. 

Andrée Routh Shammah

Da una fusione creativa tra la briosa vaporosità di un vaudeville e il cupo magnetismo di un noir, prende forma “Il delitto di via dell’Orsina”: la riscrittura drammaturgica – dal fascino alchemico – de “L’affaire de la rue de Lourcine” (1857) di Eugène Marin Labiche

Eugène Marin Labiche

Uno spettacolo che è in tournée da tre anni e che quindi è stato attraversato dal trauma del Covid 19. Ma che deve la sua geniale singolarità proprio all’oscurità emotiva che ha caratterizzato quell’indimenticabile periodo. E la sagoma in proscenio, raffigurante un attore che è restato chiuso per lungo tempo dentro la sua stessa valigia, sembra parlarcene.

Un evento, il trauma del Covid, che ci ha colti al buio, inermi – nel sonno, come avviene ai due protagonisti principali in scena – senza le risorse necessarie per affrontarlo. Una “poca luce” rivelatasi invece necessaria alla Shammah per valutare “i colori” che si sarebbero mostrati nel corso della lavorazione drammaturgica fino alla “tempera”, con la quale decidere la giusta flessibilità della materia.

Antonello Fassari e Massimo Dapporto

Perché quello della pandemia è stato un trauma che ci ha fatto sperimentare sulla nostra pelle come nessuno si può salvare da solo: che non siamo fatti per vivere isolati. Ma contemporaneamente, e paradossalmente, abbiamo vissuto anche la drammatica consapevolezza che l’Altro, oltre ad essere imprescindibile per il nostro stare al mondo, può essere un nemico, uno straniero.

Riflessioni, queste, che con dosata leggerezza s’intrecciano come ulteriori fili nella trama del tessuto dell’opera della Shammah, contribuendo al confezionamento dell’ “habitus” di questo speciale adattamento.

Ne avvertiamo l’eco nella nuova ambientazione storica della vicenda: i primi anni del Novecento, quelli che precedono il futuro “virus” del fascismo. Ma altri echi arrivano anche dentro la dimensione microcosmica legata al ciclico passaggio – ma non per questo meno traumatico – di consegne generazionali.

L’avvicendarsi dei due servi, il giovane (Christian Pradella) e il vecchio (un sempre poetico Andrea Soffiantini) che sta ultimando i suoi quarant’ anni di onorato servizio, sembra fondarsi soprattutto sulla capacità a saper “strofinare via” questo trauma: “A monsieur piace star bene, è il suo senso della vita”.

Ma in testa, nella memoria, resta comunque “un buco nero”, uno strappo : come quello reso attraverso la carta da parati di un fondale (la cui cura è affidata a Rinaldo Rinaldi), parte di una scena che riproduce metaforicamente non solo un interno borghese ma anche la condizione emotiva dei protagonisti (le scene, costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e FM Scenografia, sono curate da Margherita Palli). Una “copertura”, quella della carta da parati, che viene meno parlandoci di un’autentica vulnerabilità.

Interventi drammaturgici decisamente efficaci, guidati da un giusto equilibrio tra tradizione e tradimento e inseriti all’interno di un’operazione culturale nata dalla consapevolezza di essere stati anche noi traghettati in un passaggio storico epocale ancora da metabolizzare. 

Il prodotto della lavorazione in cui si è calata la Shammah ci arriva allora con la grazia tempestosa di un dono: una narrazione compassatamente gioiosa ma seducentemente noir, attraverso la quale avvertiamo la coscienza di essere protagonisti di una di quelle fasi di transizione che fanno della vita, la vita. Ma che il Teatro sa aiutarci ad affrontare con coraggio: senza farci sopraffare dallo spettro del fallimento, né da quello del giudizio altrui.

Perché ciò che ci accomuna tutti è proprio la predisposizione a fallire.

A fare la differenza, invece, è ciò che riusciamo a fare dell’errore. Quanto riusciamo a renderlo fertile. 

In scena i due ex compagni del collegio Labadoni, oltre a condividere una complicità goliardica, si ritrovano ad essere sodali anche nell’architettare soprusi. Pur di non sostenere il buio del dubbio (che li avrebbe resi più attenti a valutare tutti gli elementi della situazione) e pur di non assumersi la responsabilità dell’accaduto e il conseguente fallimento momentaneo del loro status sociale (qualora fossero state confermate tutte le prove della loro responsabilità nel delitto di via dell’Orsina).

Un autentico perdere i punti di riferimento esteriori ed interiori, il loro. Un tono che, goliardicamente, forse si può recuperare con qualche sorso di curaçao.

Ma ecco che ombre interiori iniziano a palesarsi: sono ombre/sagome di un nuovo sapore magrittiano (tratte dalle opere di Paolo Ventura) che s’insinuano anche sulla scena. E che possono prendere la forma di un’inconscia confessione ad alta voce nel sonno, come capita al cugino Potardo (un efficace Marco Balbi).

Perché così è la natura umana: l’istinto alla sopraffazione è in noi il più arcaico e quindi il più potente. Lo ereditiamo tutti per natura. A differenza dell’amore (e quindi della compassione e del rispetto) che invece è tutto da imparare nel corso della nostra esistenza. 

La declinazione di questi contenuti nel brio, opportunamente non esasperato, e nella gioia del vadeville è anche un modo per onorare “lo spirito”, oltre che “i meccanismi”, delle opere di Labiche del secondo periodo.

In esse è racchiuso uno sguardo diverso, più profondo – ma mai giudicante – sul modo di vivere della borghesia, a cui lo stesso Labiche apparteneva e al cui nuovo orizzonte era stato formato già ai tempi del Liceo Condorcet.

Uno spirito d’osservazione capace di leggere penetrantemente nell’animo umano e attraverso il quale l’autore esprime delle idee molto sottili.

È ricco questo borghese, o quantomeno benestante: una ricchezza che spesso però diviene terreno fertile per coltivare il fiore della stupidità. Infatti pur avendo vissuto molto, sembra non aver imparato nulla dalla vita: le sue poche esperienze si convertono inevitabilmente in aforismi o formule prive di un autentico significato: ” l’appetito vien mangiando, l’oblio non pensando”.

Un uomo che si presta a cadere negli “equivoci” anche perché lui stesso, in qualche modo, “equivoco”: uno che si impegna ad essere “scambiato” per essere altro da sé. 

Massimo Dapporto e Antonello Fassari

Massimo Dapporto (Zancopè) e Antonello Fassari (Mistenghi) sono due “simpatiche canaglie” alle quali, come nell’intento di Labiche, si tende a perdonare tutto. O quasi.

Portano perfettamente a compimento quel brio di soluzioni sceniche, che tien luogo a delle soluzioni interiori: non le sostituisce, ma ce le fa volentieri dimenticare.

Complice il sublimare i momenti d’empasse nel canto e nel ballo (nei quali, con un loro stile, sanno davvero brillare). Le musiche originali, eseguite da una piccola orchestra – pianoforte, clarinetto e flauto – sono di Alessandro Nidi.

Dapporto è di un’eleganza irresistibile, almeno quanto la mirabile capacità a tradurre i suoi pensieri attraverso il gesto e la voce. Pensieri che scorrono nella mente parallelamente alla loro visualizzazione attraverso l’espediente di un piccolo sipario mobile.

Fassari è straordinariamente morbido e insieme grossolano. La Shammah lo fa brillare, proprio come amava fare Labiche, con un accessorio stravagante che ne accentua la sua goffaggine.

Susanna Marcomeni (Norina, la moglie di Zancopè) è inappuntabile: precisa ed efficace. Lieve e piena di grazia. Una “passerottina” – come ama vezzeggiarla suo marito – che indossa abitini “dal piumaggio” aranciato che mutano tonalità parallelamente alle sue emozioni, ai suoi dubbi. Fino a raggiungere i toni dell’entusiasmo del rosso ( i costumi sono curati da Nicoletta Ceccolini e realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dandoni).

La cura della drammaturgia delle luci è affidata a Camilla Piccioni

Con questo spettacolo Andrée Ruth Shammah dimostra di conoscere l’arte alchemica di sottrarre parti del mondo materiale alla tirannia del tempo, restituendoci appieno la descrizione di quale libertà è concessa alla natura umana, qui sulla Terra. 

Una libertà racchiusa nella frase di commiato che mette in bocca al vecchio servo: “Ruba ogni giorno un po’. Io l’ho sempre fatto. Con eleganza”.

Un rubare che al di là del significato letterale vuol essere un invito, che è poi l’ontologia del Teatro, a saper entrare in relazione con l’Altro. Riconoscendogli ciò che noi (ancora) non abbiamo e divenendo così eredi di un’umanità condivisa, che ci rende “liberi”. Davvero.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL MISANTROPO di Molière – regia di Andrée Ruth Shammah –

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Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2024per un Teatro, un’ Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior attore protagonista).

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TEATRO FRANCO PARENTI, dall’8 Novembre al 3 Dicembre 2023 – Milano –

Cosa ci rende uomini?

Il rigore, che ci assicura “specchiata lealtà”

o il perdono, che nel “mutuo rispetto” tutela la nostra unicità ?

Il progetto di traduzione registica e filologica che ha portato a questa messa in scena è di portentosa bellezza. Tanta meraviglia nasce da un lavoro a sei mani tra Andrée Ruth Shammah, Luca Micheletti e Valerio Magrelli: un lavoro incentrato sull’elogio semantico della parola e della sua musicalità. 

Andrée Ruth Shammah

Dal desiderio della Shammah – che da decenni si nutre della passione per Molière – di rendere ancor più consapevole lo spettatore della travolgente modernità di questo testo, nasce l’idea di alleggerirlo puntando dritto alla resa della sua essenza. Ecco allora che con accorta intelligenza la Shammah affida la traduzione de “Il misantropo” allo sguardo poetico del fine francesista Valerio Magrelli che – centrando l’obiettivo – ritraduce il testo portandolo in settenari incrociati. 

Valerio Magrelli

Allo spettatore che si siede in sala, seppur ignaro di questo complesso progetto, arriva immediatamente la seducente delicata freschezza dell’ascolto. Ed è un incanto di spontaneità. 

Spontaneità che è la cifra del Teatro che tanto ama la Shammah: quello del rituale delle prove. Del qui ed ora si sta svolgendo una prova: qui si sta mettendo in scena il teatro stesso. Quella magica e sacra tensione di ricerca propria del continuo sperimentare, del continuo mettere “alla prova”. 

Ed è con questa tensione che si apre lo spettacolo: con i rituali di controllo che sia tutto in ordine sulla scena e con gli attori che entrano e stanno sul palco con quella tensione di fertile attesa di quando sono dietro le quinte. Un’atmosfera magica: pura e insieme disponibile a contaminarsi di tutto, che ricorda tanto quella che abita la nostra psiche, il nostro inconscio.

Lo stesso spazio scenico – le cui scene sono state costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e curate da Margherita Palli – rimanda a un condominio psichico dove interessi e scopi differenti cercano di accordarsi, sovente scontrandosi, per coabitare.

Tra gli inquilini del mondo interiore vi è anche una spinta ideale, una tensione ad essere secondo un modello virtuoso, positivo, realizzato (che Freud ha chiamato Super-io) nella quale si è depositata una grammatica delle nostre aspirazioni: ciò che abbiamo imparato a considerare etico, migliore, auspicabile. Un imperativo che ci indirizza ad essere leali, generosi, affermati, competenti, perfetti, coerenti. 

Tensione che è un po’ la spinta iper protettiva che domina Alceste e che lo porta a non riuscire ad entrare in una vera relazione di reciproco scambio con gli altri, con la società nella quale è immerso.

Luca Micheletti è Alceste il misantropo

Riflesso di questo macrocosmo sociale, il microcosmo dei personaggi in scena. La specificità che contraddistingue ciascuno di loro allude alle varie spinte della psiche di Alceste, con le quali lui non riesce ad entrare in relazione. La sua ferrea integrità ha il sapore di un’epurazione: un’ossessione a separare, a purificare, a lavare ogni macchia, ogni colore che può sporcare la sua visione utopisticamente pura dell’essere umano. 

L’estro della regista riesce a veicolare questo messaggio nell’orecchio e nell’occhio dello spettatore: ciascun personaggio ha infatti una sua cromaticità vocale ben riconoscibile. Anche rinunciando al conforto dell’immagine. La sublime succulenza dei colori degli abiti (seconda pelle) degli altri personaggi, non c’è in lui, che veste in nero. E dall’umor nero è pervaso. Un colore (e un habitus) ‘introverso’, che non riesce a riflettere luce: quella che sgorga dalle nostre ombre interiori. Tutti i magnifici costumi sono curati da Giovanna Buzzi e realizzati da LowCostume in collaborazione con la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dondoni.

Luca Micheletti (Alceste) e Marina Occhionero (Célimène)

Il microcosmo di Alceste – come un urlo muto – parla del suo immenso e irrinunciabile bisogno ad essere riconosciuto nell’unicità della propria identità. Bisogno non lontano dal vissuto personale in cui si trova a scrivere l’autore, del quale la regista – con delicata sensibilità – tiene attenta considerazione. E che si può rinvenire, ad esempio, in certe reazioni di tenera e disperata collera dal sapore infantile, che Alceste rivela in alcune occasioni.

E che forse possono leggersi anche nel suo ritrovarsi, alla nascita del fratello minore, privato del nome proprio. Tanto che a 22 anni rinuncia al nome di Jean, al quale solo successivamente i suoi aggiunsero quello di Baptiste per differenziarlo dal secondogenito Jean. Sceglie allora Molière, in omaggio ad un suo amato scrittore.

Ma nessuno di noi, come ci ricorda il noto psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, può darsi un nome da sé. Non funziona. Il nostro essere al mondo è inscindibilmente legato agli altri: sono gli altri a sceglierlo per noi. Noi però possiamo fare qualcosa di autenticamente nostro di quello che ci hanno dato gli altri. Questo è lo spazio in cui può muoversi la nostra libertà. E questo è il dissidio dell’autore che trova riflessi nel microcosmo di Alceste, che sua volta traspone nel macrocosmo sociale in cui è immerso ma dal quale prende risolutamente le distanze. La sua prossemica è eloquentissima. E tremenda.

Ma come è irresistibile, invece, la vicinanza che comanda il sentimento amoroso ! Soprattutto se ci si innamora della donna più irresistibilmente ribelle alle manipolazioni. Che ha un modo tutto “suo” di riconoscergli quell’unicità che lui tanto reclama. Un’unicità che non esclude la relazione vitalizzante con il tutto. Una corte (quella per lui) che non esclude l’appartenenza ad una corte sociale. Un’innocenza, che non esclude l’indecenza.

Mentre lui per la sua bella non si farebbe tentare nemmeno dall’avere in cambio Parigi. Ma quanti sottotesti si celano dentro dentro “la speranza” ! E quanto queste contraddizioni ci sono vicine anche oggi ! Quanto ci fa bene riportarle in scena, assecondate e contrastate dalla sinergia del contrappunto della drammaturgia musicale ( di Michele Tadini) e della drammaturgia delle luci ( di Fabrizio Ballini) ! 

Di grande bellezza l’uso delle tende che, come disponibili quinte – anche della nostra interiorità – creano magnifici primi piani o suggestivi campi lunghi. 

Andrea Soffiantini (Basco), Marina Occhionero, Luca Micheletti, Matteo Delespaul (Secondo servitore)

Ma di sublime poesia è l’attenzione alle aree più misteriose: quelle dove si muovono soprattutto i due servitori (Andrea Soffiantini e Matteo Delespaul) . Lì la luce delle ombre, regalata dai candelieri, disegna interni dalla raffinata malinconia, propria dei pittori della scuola danese. Rapisce la naturalezza dell’eleganza coreografica dei due servitori (la cura del movimento è di Isa Traversi), dove nel più anziano (il Basco di Andrea Soffiantini) viene spontaneo ritrovare echi del First cechoviano .

Di lacerante intensità la prova attoriale dell’Alceste di Luca Micheletti. Il nero di cui si ammanta sa raggiungere le tonalità più assolute del vantablack, lasciando trapelare la tenerezza trasparente dell’ossidiana.

Angelo di Genio (Philinte), Luca Micheletti (Alceste) e Corrado D’Elia (Oronte)

Persuasivo il Philinte di Angelo Di Genio sulle dinamiche che possono generarsi all’interno di un rapporto di amicizia che, seppur fondato sulla fiducia e sulla nitidezza intellettiva – cromaticamente espressa e riflessa dal colore grigio – sa accogliere l’opportunità di un sano tradimento. 

Interessanti i contrasti – che non escludono consonanze – sviluppati tra i rivali in amore. In primis, il carismatico Oronte di Corrado D’Elia, colmo dell’intensa energia del viola melanzana. Ma anche lo styloso Clitandro di Filippo Lai, dal crine platinato e dallo charme che si sprigiona proprio da quell’esotico “punto di rosa”. Senza dimenticare il sofisticato Lacasta di Vito Vicino : fasciato dall’eleganza dell’ambiguo ottanio.

Luca Micheletti, Filippo Lai (Clitandro) Matteo Delespaul, Vito Vicino (Lacasta), Angelo Di Genio

Illuminanti i contrasti e i cedimenti amorosi propagati dall’universo femminile, declinato nelle sue innumerevoli sfumature. La Célimène di Marina Occhionero è resa tutta nella sua miscela di volubilità e di pragmatismo. Splendidamente quindi si bea del mix esplosivo racchiuso nel verde di Scheele, che così bene la rappresenta.

Emilia Scarpati Fanetti (Orsina), Vito Vicino, Marina Occhionero (Célimène), Filippo Lai, Maria Luisa Zaltron (Eliana)

Un’avvolgente connubio di saggia pacatezza con note di euforia connota l’ Eliana di Maria Luisa Zaltron. Una lucente acquamarina che sa che amare qualcuno significa accogliere anche i suoi difetti e quindi saper perdonare.

S’ammanta di giallo orpimento l’Orsina di Emilia Scarpati Fanetti che come il colore che la rappresenta sa rendere la luce affidabile dell’oro, scevra dalla sua nobiltà.

Completano l’efficacia del cast, il Du Bois di Pietro De Pascalis: una presenza enigmatica che fin dall’inizio teniamo a mente per il suo ambiguo far capolino dalla porta finestra di scena, unica apertura verso l’esterno del condominio psichico di Alceste. E un accurato Francesco Maisetti nel ruolo della Guardia.

Una traduzione registica – quella di Andrée Ruth Shammah – appassionatamente incuriosita da tutte le manifestazioni dell’animo umano e quindi scevra da giudizi.

Perché questo è il Teatro.


Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti il 30 Agosto ha ricevuto a Sirolo il Premio Franco Enriquez 2024per un Teatro, un’Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – come Migliore Attore protagonista de “Il misantropo” di Molière per la regia di Andrée Ruth Shammah, con la seguente menzione di merito:

Rompere con il mondo è il desiderio di Alceste, protagonista di questo “Misantropo” di Molière che rivendica un ideale d’onestà e purezza di cuore; interpretato in modo magnifico e convincente da Luca Micheletti, che duetta con gli altri personaggi della commedia in una specie di partitura polifonica dalla quale emerge e giganteggia la sua granitica padronanza del mezzo espressivo e la sua capacità di danzare dentro il verso. Diretto magistralmente da Andrée Ruth Shammah, che ne firma una regia moderna e attuale, riconsegnandoci la modernità di questo grande classico che rispecchia il mondo di oggi, con i suoi compromessi e le sue contraddizioni“.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del docufilm SCARROZZANTI E SPIRITELLI – 50 anni di vita del Franco Parenti – regia di Michele Mally –

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023, Auditorium Parco della Musica – 23 Ottobre 2023 –

Poesia di luce e di speranza, 50 lunghe candele fanno ardere di fulgente intima magia le emozioni e i ricordi dei primi 50 anni di vita di quel “santuario della parola” che è stato, è, e sarà il Teatro Franco Parenti.

“Davar” in ebraico significa, infatti, “parola”. Ma anche “avvenimento”. Parlare quindi vuol dire anche far accadere le cose. Sacro è il fuoco della parola, che crea la vita umana. Divino è il legame che istituisce tra il visibile e l’invisibile. 

Andrée Ruth Shammah al Teatro Franco Parenti

Ecco allora che l’incandescente ed eclettica Andrée Ruth Shammah decide di riplasmare lo spazio teatrale, predisponendo una scenografia potentemente essenziale. Capace, cioè, di ospitare un grande fuoco attorno al quale invitare a riunirsi, in magico cerchio, tutti i più cari amici del Franco Parenti – i testoriani “scarrozzanti” – testimoni ed eredi della filosofia di questa “Casa del teatro”.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli” presso il Teatro Franco Parenti

Tanti gli amici registi e attori, con un ruolo-chiave per la storia di vita del Parenti, che hanno condiviso anche nel docufilm la loro testimonianza sul rapporto con questa realtà: Mario Martone ne sottolinea il legame imprescindibile con Milano; Marco Giorgetti il fatto di essere un teatro-mondo che soddisfa ogni esigenza culturale e di vita; Anna Galliena ne ricorda la genesi come “di una storia che non sembrava e che invece poi è stata”; Roberto Andò evidenzia che quello che si sente al Parenti è un’idea di teatro che è un autoritratto della Shammah. Solo per citare alcune delle testimonianze colme d’emozione che si sono susseguite. E poi la dichiarazione-incoronazione di Filippo Timi: “La vera fortuna, e non possiamo far finta che non lo sia, di questo teatro sei tu, che sei il presente. E’ fondamentale Andrée perchè “x” che tende all’infinito ha bisogno di un punto e Andrée sei tu. Chiamalo il cuore, chiamalo The Mother, chiamalo luce”.

In sala ieri sera, oltre a molti di loro, la prestigiosa presenza umana e professionale di Adriana Asti, testimone del profondo sentire che la lega al Parenti e alla Shammah.

Ma il docufilm – la cui regia è affidata alla densa sensibilità di Michele Mally – tiene memoria anche di coloro che solertemente lavorano e hanno lavorato dietro le quinte, ovvero gli artigiani del Teatro. Nominati uno ad uno: perché è dando un nome che si riconosce un’identità. Perché anche loro sono “il fuoco del teatro” – come ha ricordato con sincera commozione Raphael Tobia Vogel.

Scena di un contributo video di Adriana Asti ne “La Maria Brasca”

E per quelli che non ci sono più – in primis Franco Parenti, Giovanni Testori, Dante Isella ma anche e soprattutto Eduardo De Filippo, quelli che la Shammah chiama gli “spiritelli” e che sono stati “pericolosi perché hanno vissuto i loro sogni ad occhi aperti con il proposito di attuarli” – la loro assenza sarà presente attraverso il fulvido fuoco del ricordo di questa splendida comunità. Fuoco e quindi medium tra il nostro e il loro mondo. 

Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah

Come nel 1973, è stata la serata del 16 gennaio 2023 quella in cui si è rievocato l’inizio dell’attività dell’allora Salone Pier Lombardo. Quando cioè andò in scena la prima regia di Andrée Ruth Shammah: “L’ Ambleto” di Giovanni Testori, primo capitolo della “Trilogia degli Scarrozzanti”. E proprio nell’incontro del 16 gennaio scorso, intitolato “In compagnia della loro assenza”, si è consumato questo solenne e “primitivo” rito collettivo: per celebrare il Teatro. Prima ancora che il Franco Parenti. 

Andrée Ruth Shammah in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Da sempre l’uomo affida al rito i momenti di passaggio – così ricchi di pericolosa opportunità – della sua esistenza personale, nonché della collettività di cui fa parte. E cerca in esso la garanzia del mantenimento della propria identità e di quella della comunità di appartenenza.

Quello infatti che l’arguta direttrice artistica ha scelto di mandare in scena per il magico attraversamento del 50esimo anno di vita della sua realtà esistenziale, prima ancora che professionale, è un sacro “atto di scelta”, di ancora viva testimonianza e aderenza ad uno stile di vita e di lavoro.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Ad aprire la preghiera-rituale comune, la Shammah ha investito il caro amico Massimo Recalcati – rinomato psicoanalista e saggista ma anche appassionato amante del teatro – che ha gettato luce, con la solenne grazia della sua parola, sulla deriva dalla quale è bene liberare l’atteggiamento della “nostalgia”. Lei che ci avvolge così prepotentemente nel momento in cui avvengono degli eventi che segnano un forte cambiamento di rotta al nostro navigare nel mare della vita. Ma la sacra esigenza del ricordare, propria dei momenti di rievocazione di un ameno passato, lungi dal favorire atmosfere di mero rimpianto che portano ad una sterile stagnazione o ad una paralisi evolutiva, può e deve prendere la forma di una profondissima gratitudine. Perché chi non c’è più è presente proprio grazie alla sua assenza. Nostro compito è allora quello di “portarli con noi”, nel presente e nel futuro. Perché è questo ciò che davvero in maniera più autentica essi desiderano. E dei loro insistenti desideri sono ancora intrisi gli stessi muri del Teatro. Perché così fanno i desideri, quelli autentici.

Franco Parenti è “L’Ambleto” di Giovanni Testori

Ecco allora anche la scelta di continuare ad assegnare l’incipit del docufilm alla voce-presenza dell’ ambletico Franco Parenti. Così come la chiusura del docufilm: perché ogni fine contiene in sé un nuovo inizio, un nuovo incipit.

Perché l’importanza dei “maestri” – coloro cioè che “hanno portato con sé un po’ di mondo da difendere” – chiede di essere ricordata. Ma soprattutto “presa”: colta e fatta propria. Nel presente. In un ciclo vitale, capace di continuare a far emergere fresca linfa, all’interno di un naturale e prezioso passaggio di consegne.

Perché così “il teatro existerà contra de tutto e de tutti, enzino alla finis de la finis” .

Raphael Tobia Vogel in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”


Scarrozzanti e spiritelli

50 anni di vita del Teatro Franco Parenti

ideazione e direzione artistica Andrée Ruth Shammah

regia Michele Mally

sceneggiatura di Didi Gnocchi e Paola Jacobbi

con i contributi video di Raphael Tobia Vogel

una produzione 3D Produzioni

in collaborazione con Teatro Franco Parenti e Rai Cinema

con il sostegno di MIC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo



CALENDARIO DELLE PROIEZIONI

Lunedì 6 Novembre 2023 – ore 20:00 : Sala Excelsior – Anteo Palazzo del Cinema Milano

Lunedì 27 Novembre 2023 – ore 19:00: Cinema Modernissimo – Cineteca di Bologna


Recensione di Sonia Remoli