Recensione dello spettacolo INTERNO ABBADO – scritto e diretto da Andrea Baracco –

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 5 all’ 8 Dicembre 2024

Desiderare epidermicamente aderire. 

Fino a fondersi.

Un desiderio erotico? 

Una possibile definizione di amore?

Un peccare nel desiderare tanto l’altro?

Sicuramente qualcosa che ci racconta visceralmente del nostro essere misteriosamente umani. Qualcosa che ha l’irresistibile afrore dell’arcaico sopraffare. Ma anche qualcosa della simbiotica tensione alla completezza, propria di una dimensione mitica. Quell’unità platonica che rendeva gli uomini simili a dei. 

Ma quanto, di divino, noi umani siamo capaci a esprimere, a godere, a tollerare?

Quanto il nostro corpo finito riesce ad arginare quella scintilla divina, che tutti ci abita?

Qual è il nostro desiderio più profondo, più viscerale, più erotico ?

Quello di essere guardati, forse.

Perché essere guardati, con continua curiosità, ci fa esistere.

Perché guardare è intrigante non meno dell’essere guardati.

Perché ciò che davvero appaga costantemente la nostra folle scintilla divina, costretta a bruciare dentro i confini di un corpo, è il cimentarsi nell’apprendere l’arte di intessere una partitura di vuoti e di pieni epidermici. E’ l’arte di entrare in relazione con l’altro.

Andrea Baracco

Anche di questo ci parla la bellezza spietata di “Interno Abbado”, un testo di Andrea Baracco sul mistero di essere umani.  Un testo che, oltre ad essere cucito sartorialmente come un noir, ci parla hegelianamente di come non ci sia niente di più profondo di quello che appare in superficie.

La cute in superficie e l’Io in profondità raccontano la stessa storia di assorbimento e di termoregolazione.  

La cute in superficie e l’Io in profondità rappresentano un complesso àmbito di separazione-unione-comunicazione: con se stessi e con il resto del mondo.

La cute in superficie e l’Io in profondità rivelano i segreti l’una dell’altro: quei segreti sprofondati nel nostro inconscio, spesso propri del vissuto di un organismo, che soffre da così tanto tempo da non poterlo più nascondere. 

Baracco cura callidamente anche la regia dello spettacolo e individua in Giandomenico Cupaiuolo l’interprete capace di incarnare e, a qualche livello, sublimare “la summa” delle esistenze interne ed esterne, che abitano questo racconto. Così come il nostro essere gettati al mondo.

Giandomenico Cupaiuolo

Il regista con elegante e tagliente acutezza si avvale poi di un’estensione fisica e metafisica alla “summa” delle esistenze del racconto: il suono di un particolare strumento musicale e la presenza scenica del suo interprete Edoardo Petretti.

Edoardo Petretti

Uno strumento musicale, la fisarmonica, che accende e infiamma l’anima. Ma che da sempre è considerato un pò troppo “pop” e quindi scarsamente preso in considerazione dai compositori classici (fatta eccezione per Čajkovskij , Verdi e pochi altri). 

 In verità, la fisarmonica è “uno strumento-orchestra” pieno di imprevedibili possibilità. Perfetto, anzi speciale, per questo testo di Baracco che è, tra le altre mille cose, anche un racconto sull’imprevedibilità umana. 

Imprevedibilità resa con sapiente follia da un Giandomenico Cupaiuolo che si fa lui stesso “strumento musicale”. Il suo apparato respiratorio, quasi come un mantice, cerca e trova un respiro che riesce a far vibrare la scala delle “voci” delle sue esistenze. 

Un respiro che si origina da una sorta di gocciolio: un suono indecifrabile, arcaico, magicamente animalesco ma non lontano da uno schioccare di lingua umano. E che poi si sviluppa attraverso la ricerca di una contrazione e di una apertura estensiva, necessari ad estrarre il potenziale sonoro dalle voci esistenziali che abitano “la summa” dei suoi personaggi.  Ne parlano visivamente le sue spalle: “mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste…” per dirlo alla G. G.Marquez.

L’ampiezza di registro e di voci utilizzabili, unita ad una grande duttilità nelle dinamiche, nei modi di attacco e di articolazione del suono, fanno delle sue spalle un fulcro di sublime espressività timbrica e ritmica.

L’estro registico di Andrea Baracco è tale da rendere “strumento musicale” un corpo umano e “corpo umano” uno strumento musicale. Lo spettatore ne riceve in dono un incredibile senso di avventura, riccamente denso del brivido della scoperta.

Che cosa sappiamo in fondo di noi?

Siamo più o meno consapevoli di impiegare spesso tutta una vita a tenere a bada certi nostri inquieti slanci “interni”, attraverso “rassicuranti” rituali tra il sacro e il profano (come argutamente suggerisce la messa in scena del regista Baracco). Ma il lavoro di contenimento di una vita può rompere gli argini senza preavviso. E rivelare racconti stupefacenti di noi stessi. 

Quel “the dark side of the moon” che può manifestarsi epifanicamente, ad esempio, quando quel certo nostro amore scompare come spuma tra le onde. E, di quello che è stato, non resta nulla nell’aria a ricordarci che siamo amabili perché siamo stati amati.

Quel “the dark side of the moon” che denuda un “interno”, fisico e psichico, imprevedibile. Sguardi e attenzioni, mancati o subiti, che qui ci si illude follemente di recuperare attraverso i mille occhi della pelle dell’altro.

“Mentre la luna di lassù sta a guardare”.



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Dopo essere stata il 31 ottobre u.s. alla seconda delle 10 serate “Omaggio a Glauco Mauri”, nate dal desiderio di Andrea Baracco – direttore della Compagnia Mauri Sturno – di celebrare il ricordo del caro Maestro a un mese dalla sua morte, ho sentito l’esigenza di tornare ieri sera, alla settima serata. 

L’interprete del “De Profundis” di Oscar Wilde – ultimo lavoro a cui si appassionò il Maestro Mauri – ieri sera era lei: Federica Fracassi, un’attrice che non si dimentica, una donna dalla bellezza botticelliana. 

Federica Fracassi

Ma lei, come per incanto, per riuscire a farsi vivere da questa occasione, oscura ogni femminile seduzione, dandosi nel suo più fulgente maschile. Trattiene il suo corpo, incluse le mani. E se qualche ciocca si ribella uscendo sul viso, la riordina senza alcuna malizia femminile.

Si concede una densa dolcezza fatta di pause e di sguardi ricchi in compassione. Quasi sorpresi. La voce è bella: senza essere femmina, senza essere virile. E’ pulita, depurata. Buca l’attenzione. 

Di femminile resta in lei quell’innata inclinazione all’entrare in relazione con l’altro.Ed è proprio questa predisposizione alla relazione a caratterizzare la sua traduzione interpretativa dello Wilde del “De Profundis”. 

Oscar Wilde

In questo senso va letta la dolcezza con la quale si rapporta alla metabolizzazione degli errori del suo Bosie – passati in rassegna anche qui, nella lettera a lui indirizzata, oltre che nella sua mente. Un dolore nel ricordarli che può tradursi in compassione, solo dopo aver capito e sentito che negli errori di Bosie si specchia anche una parte di se stesso, a lui prima ignota. 

E se la sua autorealizzazione – che Wilde raggiunge grazie ad un’elaborazione introspettiva fornita proprio dall’occasione del carcere – si dà ora in quella compassionevole gratitudine che gli permette di dire – con la straziante, complice dolcezza della Fracassi: “Stavo bene quando eri via”; nella rievocazione della cronaca dei fatti fin nelle minuzie, invece, la Fracassi rintraccia e restituisce una particolare volontà a rifuggire la tentazione all’indugio. Un affascinante contrasto del ritmo del sentire, davvero umanissimo. 

Così come, a volte, l’espressività della Fracassi sembra  farsi “coltello”, per continuare – ancora nel racconto – a disegnare più precisamente alcuni suoi errori. Fino quasi a tatuarne un segno, una traccia indelebile.

Si fanno, invece, sussuro d’indulgente vergogna i momenti di confessione per aver trascurato l’inclinazione artistica a favore del rapimento amoroso. Ma sbagliando – o facendo solo il bene dell’altro – e quindi provando ed elaborando la sofferenza che ne deriva, si diventa coscienti di se stessi. Una sorta di cogito, questo di Wilde: “soffro dunque sono”.

E forse è così. C’è qualcosa di speciale che si attiva anche nello spettatore, nel partecipare alla rievocazione dell’esperienza esistenziale dell’ultimo Wilde. 

Andrea Baracco

Complice la progettualità di Andrea Baracco, che ha individuato questa modalità di rituale che di sera in sera, d’interprete in interprete, riesce a restituire quella “sinfonia del dolore” che Wilde mirabilmente compone, anche tra le lacrime. 

Quelle che continuano a farci commuovere – trattenute in un tremore all’apertura della lettera e poi sciolte per un attimo nel congedo – nell’indimenticabile interpretazione di Glauco Mauri.

Avvenuta  epifanicamente per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e rievocata ogni sera in questo straordinario rituale.

Mimmo Benassi e Glauco Mauri

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Giovedì 31 Ottobre 2024: GABRIELE GASCO

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Lì dove dal XV secolo avevano sede le principali prigioni di Roma (e dove vennero reclusi – tra gli altri – Benvenuto Cellini, Giordano Bruno e lo stesso Caravaggio); lì dove nel 1670 le carceri lasciarono il posto al Teatro Tordinona; ebbene proprio questo luogo così potentemente simbolico Andrea Baracco, direttore della Compagnia Mauri Sturno, ha scelto per accogliere l’essenza del testo del “De Profundis”: la lettera che Oscar Wilde scrisse in tre mesi – nel secondo anno di prigionia – non appena gli diedero la possibilità di avere in cella carta e inchiostro.

Una lettera che custodisce la testimonianza di una straordinaria evoluzione esistenziale: quella che Oscar Wilde realizzò grazie alla sua capacità di accogliere il dolore, quale preziosa opportunità per una fertile trasformazione vitale. Quel dolore che lo pervase all’indomani della condanna a due anni di lavori forzati e dal quale sarebbe stato annientato se non fosse scattata – proprio nel momento di massima umiliazione – la consapevolezza del potere insito nel nostro essere gettati al mondo nella sofferenza. 

Glauco Mauri al Teatro Rossini di Pesaro

Un passaggio esistenziale di cui si è reso interprete il caro Maestro Glauco Mauri: per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e – per almeno altre 10 sere qui – ancora con noi – al Teatro Tordinona. Luogo eletto da Andrea Baracco per celebrare il rito del ricordo del Maestro, a un mese dalla sua morte. 

Un omaggio all’indimenticabile attore e al meraviglioso uomo di teatro che fece della sua arte la sua vita e della sua vita la sua arte. Una profonda riconoscenza che qui assume la forma di una rievocazione, proprio di quelle che sono state le sue ultime parole pronunciate in teatro. 

Una rievocazione che si ripete per 10 sere ma con sempre nuove “variazioni interpretative” (quelle di attori diversi ogni sera) del testo del “De Profundis”. Testo del quale Glauco Mauri suggella qui – in una perfetta e quindi infinità circolarità – l’alpha e l’omega. Un Mauri profondamente commosso e di una fulgente dignità tale da far vibrare le corde più intime dello spettatore. 

Gabriele Gasco

Una dignità di cui l’interprete ieri sera in scena si è fatto splendido erede. Gabriele Gasco ha 27 anni e quando varca la scena buia lo fa con quella capacità speciale del mantenersi sul confine tra il mondo della fisica e quello della metafisica.

Indossa qualcosa di simile a una divisa da carcere ma non appena alza lo sguardo capisci che in verità è profondamente libero. Di quella libertà di cui si possono fregiare solo coloro, che come Oscar Wilde, hanno saputo usare il buio per fare luce dentro se stessi. Fino a riuscire a trasformare il veleno della vendetta e del rancore nell’elisir della gratitudine.

Il Wilde di Gasco conserva tracce della postura da dandy. Ma il corpo – abito della sua rinnovata anima – non “posa”: “è”. L’indiscutibile stile che modella i suoi gesti è il risultato dell’autentica consapevolezza di cui si dispone dopo essere stato costretto a una “remise en forme” esistenziale.

Oscar Wilde

Ora sa dove e perché ha sbagliato e come mai si è ritrovato a scontare questo tipo di sofferenza. Toccato il fondo più abissale dell’umiliazione, ha scoperto che proprio da lì può sprigionarsi un’energia che dà un senso alla sofferenza per cui siamo stati creati. E’ un ‘energia che per alcuni istanti la regia di Baracco materializza in un abbraccio musicale al suo Wilde più in difficoltà: un abbraccio intimo, lieve, magico.

Un Wilde il suo che, con quel suo stare che rompe il piano della frontalità e con quel suo protendersi costante e lieve indietro per poi slanciarsi pungente in avanti, rende il proprio corpo disponibile come un arco, dal quale vengono scagliate frecce di audace saggezza. Verso il suo amore: sì, nonostante tutto – nonostante i tradimenti, gli atteggiamenti da subdolo narcisista manipolatore e l’indifferente silenzio durante questi due anni di carcere – lui resta il suo amato Bosie. 

Andrea Baracco

Amato ora in maniera differente – dopo aver passato in rassegna tutta la tossicità dei suoi atteggiamenti – ma comunque amato. Perché l’amore può essere più forte dell’odio ma soprattutto perché l’amore è infinitamente generativo. Siamo fatti per soffrire – ci confida Wilde – e per amare. Poco importa l’essere ricambiati: “amare ci permette di rimanere fedeli al nostro desiderio” direbbe Massimo Recalcati. Questa è la potente forza vitale di cui siamo dotati, noi nati per soffrire. 

Il suo raccontare è fascinosamente irregolare. Ma costante. Uno stile sul confine tra disponibilità e seduzione; tra musicalità e assedio. Un ritmo che apre e chiude, continuamente, i confini del racconto. Un Wilde, quello di Gasco, fiero di tutto quello che gli è accaduto, perché tutto quello che gli è accaduto è servito a condurlo a questo tipo di consapevole libertà.

Gabriele Gasco

Una fierezza che si coniuga con la disponibilità all’ascolto e alla tolleranza, propria di quel suo inclinare il capo. Come Cristo sulla croce: perché “Cristo è il precursore romantico dell’artista”: “un contadino di Galilea che tiene sulle sue spalle il male di tutti” per trasformarlo, grazie alla bellezza del proprio dolore. 

Un dolore che non chiude, ma che anzi può aprire a nuovi inizi. “Un giorno dovrai vergognarti di te stesso … – dice Wilde al suo amato – per questo ti ho scritto così a lungo: per farti capire cosa sei stato tu per me”. Prima e durante questa occasione di sofferenza “terapeutica” in carcere.

Ora – prosegue Wilde – “vengo ad insegnarti il significato e la bellezza del dolore”.

Non è facile da spiegare. Ma qualcosa di “sacro” avviene durante la conclusione di questo intimo rituale.

Glauco Mauri


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INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA NOTTE DI VITALIANO TREVISAN – mise en éspace di Andrea Baracco – drammaturgia a cura di Jacopo Squizzato –

TEATRO BASILICA, 27 Maggio 2024

E’ la sua voce ad aprire la mise en éspace curata da Andrea Baracco: una voce così materica eppure così in disequilibrio. Oscura, dolente, contorta. Tenera, a suo modo dolce, musicale.

Una voce necessariamente “incompiuta” per potersi rendere disponibile a generare continuamente nuove aderenze linguistico-morfologiche aspre e ruvide. Come quelle che agitano la vita. 

Una voce necessariamente “incompiuta” com’è la natura della conoscenza per noi umani: “sempre da dilettanti, altrimenti non ci sarebbe letteratura”.  

Una voce necessariamente “incompiuta” perché, come la sua scrittura, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere “vera”. E quindi costantemente sul ciglio del precipizio, prossima al crollo.  

Vitaliano Trevisan

Ora, soffiando in scena la sua aura, può prendere avvio la rievocazione del suo stare al mondo, che coincide con la particolare postura della sua scrittura.

Ecco allora entrare in scena coloro che fortemente hanno sentito il desiderio di ricordare l’unicità della vita di Vitaliano Trevisan, ritessendola in un arazzo di cui le loro voci si fanno fili.

E’ così che Jacopo Squillazzo – che ne cura l’intreccio drammaturgico – ci propone di partecipare ad una lettura a ritroso della vita di Trevisan, partendo appunto dall’ultimo libro “Black Tulips” e dalle esperienze legate alla fuga in Nigeria, suo paradiso di autenticità esistenziale. 

E’ Valerio Binasco ad incarnare le parole di questo testo e a rendere la morfologia di un Trevisan appesantito dal continuo essere attraversato dalla vita così come dalla morte. Ce ne parla l’efficace postura di Binasco: una postura rigida, gravata dal carico che sembra materializzarsi sulle sue spalle, che ne restano schiacciate. Ma reggono ancora queste spalle – facendosi “trasparenti” – il peso dei molteplici frammenti che agitano il caos esistenziale.

Valerio Binasco

Ai suoi passi da sessantenne in Nigeria si intrecciano, diversamente ossessivi, quelli del quarantenne Trevisan dei “Quindicimila passi”. Vivono nella voce di Gabriele Portoghese che ne rende lo stupore ironicamente drammatico del constatare che nulla torna nei conti dei passi. E intanto tutta questa fatica del contare gli ha fatto perdere il senso delle mete raggiunte. Ma gli ha permesso, evitando di farsi cogliere di sorpresa, di non sprofondare nell’abisso esistenziale.

Una modalità – questa di inscrivere nello spazio dei passi e della carta il suo distacco dal dolore esistenziale – che l’arte può assumere per rappresentare credibilmente “la pena riflessiva” della vita: quel rimuginare senza orizzonte che non conosce pace per l’anima. “Un’ arte del tempo”: la sola adatta a rendere ciò che è mobile.

Gabriele Portoghese

Dall’arte ossessiva del contare si arriva di nuovo in Nigeria: qui ad abitare Trevisan è l’ossessione cromatica del suo biancore, e quello di pochi altri, su tutto questo paradiso di nero. Dove ci si può ancora permettere di sdraiarsi sulle panchine.

Privilegio che i veneti e i vicentini non approverebbero, ossessionati quali sono da quel tanto fare (“il mal della piera”) senza però riuscire a “sapersi vendere”. Ed è l’espressività dell’affascinante minimalismo mimico di Daria Deflorian a farsi carne nelle parole seminate in “Tristissimi giardini”.  

A lei il compito di “rappresentare” ad esempio il fascino irresistibile di una caduta, come quella che avviene anche in amore, resa con le suggestioni e i ritmi di quella musicalità jazzata propria degli “standards”. Ma Trevisan, e con lui la Deflorian, vanno oltre: qui non c’è il gusto per il gioco ma il riconoscimento di una modalità che rende credibile il pulsare dei pensieri della vita. Ai quali si tende a rimanere legati come ad una catena.

Daria Deflorian

E mentre prosegue l’intreccio della tessitura a 6 mani della vita e della scrittura di Trevisan, noi del pubblico abbiamo come la sensazione di passeggiare accanto a Vitaliano, provando a seguire i suoi passi e le sue fughe, grazie al disegno “libero” dell’arazzo, che intanto si sta componendo. E che rimarrà “fatalmente incompleto”. 

Un’inspiegabilità “che non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’» ( da “Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002).

“Farmi domande, a questo mi attengo”: il lavoro “manuale” della scrittura di Trevisan non pretende infatti mettere ordine nella vita, quanto piuttosto renderne – in modo rigorosamente ordinato – l’intrinseco disordine.

Vitaliano Trevisan

Una notte, quella di ieri sera dedicata a Vitaliano Trevisan – in un Teatro Basilica intasato da tutti coloro che non hanno resistito a tornare a rileggere ancora e ancora lo sguardo di un uomo spigoloso, crudo e illuminante qual era lui  – che non sarà l’unica. 

Questo  progetto, che nasce qui a Roma al Teatro Basilica ed è curato da Carnezzeria (direzione artistica Emma Dante e Aldo Grompone), viaggerà infatti in altre città italiane.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OTELLO di William Shakespeare – regia di Andrea Baracco

TEATRO QUIRINO, dal 6 all’11 Febbraio 2024 –

“Sono intorno a noi, in mezzo a noi. In molti casi siamo noi …”

Con un prologo che potrebbe essere anche un epilogo, l’estro del regista Andrea Baracco con acuta provocazione sceglie di orientare il pubblico in sala disorientandolo. Sì, quella che va in scena è una finzione; ma anche no.

Il regista Andrea Baracco

Se è vero – come è vero- che ciò che può l’animo umano è questione che ci riguarda tutti indistintamente, allora ha senso permettersi di additare qualcuno ? In che rapporto sono il vero con il falso ? È proprio vero che il dolore sia così inutile ? 

In un’evocativa scena indistintamente bianca (curata da Marta Crisolini Malatesta), che allude alla Venezia del ‘500 ma non solo, prende vita quella dinamica così tragicamente umana da sorprendere in trappola molti dei protagonisti in scena: quella di cosa arriviamo a fare quando sentiamo che ci viene a mancare il riconoscimento del nostro ruolo sociale ed esistenziale. 

Per Iago è la sua mancata promozione, che vede ingiustamente favorito Cassio; per Roderigo è l’amore per Desdemona, che quest’ultima ricambia però verso Otello; per Brabanzio è il non essere più riconoscito nel ruolo di padre da una figlia risolutamente incline a riconoscere rispetto a un padre ma di più ad un marito e obbedienza a nessuno; per Otello è il lacerante sospetto di perdere la propria virilità e il proprio valore sociale a seguito del supposto tradimento di Desdemona. Una sensazione che può diventare umanamente insopportabile: un po’ un “essere presi a calci come asini che non servono più”. 

Viola Marietti (clown), Federica Fracassi (Iago) e Federica Fresco (Bianca)

Baracco nella sua messa in scena – sinergica alla traduzione e alla drammaturgia curate da Letizia Russo – onora l’eredità dello Shakespeare fine conoscitore, anzi “inventore” dell’umano, come lo definì Harold Bloom: nessuno prima di lui, infatti, ha saputo intercettare e tradurre attraverso l’esercizio del linguaggio e del pensiero le sfumature caratteriali di così tante inclinazioni umane.

E anche qui, in questa tragedia, Shakespeare ci rivela quante forme diverse può assumere la medesima dinamica psicologica nella quale restano incastrati vari personaggi. Tra loro, Iago è l’unico a mettere in campo una reazione più complessa, più maleficamente raffinata. Pur essendo abitato dall’ossessione del suo odio per il Moro, dimostra non solo di gestire magnificamente la sua ansia – così da non cadere preda dei cattivi consigli della fretta – ma soprattutto è l’unico a riuscire a non prendere le distanze dal suo nemico, perversamente escogitando il modo di continuare a servirlo servendo in verità solo se stesso. Un mettersi a servizio, il suo, non dell’amore, della stima e del rispetto verso il suo superiore ma esclusivamente del proprio personale odio, tremendamente vendicativo, nei suoi confronti.

Viola Marietti (clown), Ilaria Genatiempo (Otello) e Federica Fracassi (Iago)

Il taglio registico scelto da Baracco è tale da andare oltre “la questione del genere”: in scena fa salire solo interpreti femminili proprio per rendere manifesto come tali dinamiche più che essere legate a un genere sono la risultanza di sempre nuove combinazioni e dosaggi del maschile e del femminile, che costituzionalmente abitano la psiche di ognuno di noi.

L’effetto sullo spettatore è decisamente spiazzante come è naturale che sia, abituati e viziati qual siamo ad avere solo uno sguardo sull’argomento. E intenzione (dichiarata) del regista Baracco è proprio quella di saggiare le nostre certezze, metterle alla prova, verificarle. Suscitare in noi la fertilità del dubbio e far sì che ci accompagni come saggio consigliere dello stare al mondo. Per vedere oltre le apparenze, per cogliere le meravigliose e tragiche sfumature della nostra natura.

ph Gianluca Pantaleo

Federica Fracassi è mirabilmente “a servizio” dello Iago di Baracco: ci restituisce tutto il godimento – che arriva fino all’eccitazione parossistica – del subdolo celarsi per avvelenare e così manipolare chi ancora non conosce se stesso. Metereologicamente divina nel tessere trame narrative come piogge piuttosto che come tempeste, si manifesta “terapeutica” come l’oracolo di Delfi.

Federica Fracassi è Iago

E autenticamente proprio così vogliono essere i personaggi shakespeariani, nelle cui vene scorre il male assieme al bene; il tragico assieme al comico; il dolore assieme alla terapia. È l’incantesimo della scrittura shakespeariana che Baracco riesce a esplicitare, a rendere fruibile. Perché – come sottolineava Harold Bloom – Shakespeare è un drammaturgo analitico e molto subdolo e man mano che procede nella sua carriera, quello che intende dire al pubblico supera di gran lunga quanto invece è contenuto nei versi. 

Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Ilaria Genatiempo (Otello)

Davvero suggestiva poi la scelta registica di ambientare lo spettacolo in una scena poeticamente “vaga”, universale, e portare tutto il sapore, gli odori e i suoni della Venezia della seconda metà del ‘500 dentro i personaggi, dove le donne ad esempio godono di uno status particolare, unico nel mondo di quel periodo. Shakespeare ne viene a conoscenza leggendo il libro di viaggio di Thomas Coryat “Crudezze” scoprendo così donne dal temperamento consapevole e provocante che alla maggiore età potevano rinunciare alla patria potestà, aprire attività commerciali e pochi anni più tardi laurearsi. Donne curiose, esultanti per quel cosmo agitato e imperscrutabile che era la Venezia del ‘500 e così ben descritto nel testo di Giuseppe Manfridi “Shakespeare family”.

Ilaria Genatiempo (Otello), Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Francesca Farcomeni (Emilia)

Ricco in fascino e in efficacia il clown interpretato da Viola Marietti: sacro per le sue polarità e per le sue acrobatiche metamorfosi. Per il suo far ridere e far piangere: lui stesso un po’ pierrot di decadente bellezza bohémien. Dapprima quasi marionetta nelle mani di Iago, poi libero di esprimersi nella sua autentica natura.  

Interessante anche la Bianca interpretata da Federica Fresco che porta in campo la tempestosa natura dell’eros e ricorda l’audacia nel mostrarsi delle donne dei pittori del ‘500 veneziano, dal Tiziano al Giorgione.

Giorgione, “Laura”, 1506

Baracco sceglie una recitazione in cui il corpo delle interpreti – di un’incantevole femmilità androgina – diventi linguaggio: quello proprio di ciascun personaggio. Corpi parlanti lingue e vissuti diversi tra loro. Eppure uguali. Corpi che traducono parlando agli occhi.

Sul palco un cast accordatissimo: Iago / Federica Fracassi; Otello / Ilaria Genatiempo; Desdemona / Cristiana Tramparulo; Cassio / Flaminia Cuzzoli; Brabanzio – Emilia / Francesca Farcomeni; Roderigo / Valentina Acca; Clown / Viola Marietti; Doge – Ludovico – Bianca / Federica Fresco.

Andrea Baracco ci consegna uno spettacolo avvincente fino a far male. Crudo e magnifico. Intimo e catartico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo INTERNO BERNHARD: Il riformatore del mondo e Minetti, ritratto di un artista da vecchio – regia di Andrea Baracco –

TEATRO ARGENTINA, dal 17 al 29 Gennaio 2023 –


Interno Bernhard

IL RIFORMATORE DEL MONDO
MINETTI Ritratto di un artista da vecchio

Di Thomas Bernhard


Con GLAUCO MAURI, ROBERTO STURNO
E con: FEDERICO BRUGNONE, STEFANIA MICHELI, ZOE ZOLFERINO, GIULIANO BRUZZESE


Regia Andrea Baracco
Musiche Giacomo Vezzani , Vanja Sturno
Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta
Luci Umile Vainieri 
Foto di scena Manuela Giusto
Produzione Compagnia Mauri-Sturno


Il poliedrico regista Andrea Baracco, sempre così interessato all’umanità che si nasconde dentro quei personaggi che sembrano meno predisposti ad accoglierla, è il curatore di questo interessantissimo progetto della Compagnia Mauri-Sturno “Interno Bernhard. Qui, lo spettatore, pur rischiando di essere fagocitato da insoliti esempi di umanità, coglie l’occasione di entrare a conoscere i loro “ambienti vitali”.

Andrea Baracco, il regista dello spettacolo “Interno Bernhard”

Nel primo dei due testi di Thomas Bernhard, immenso e irrinunciabile autore del Novecento non solo tedesco, ci troviamo al cospetto di un duplice paradosso umano: un intellettuale sceglie di ricevere in casa propria, rinunciando al plauso ufficiale, coloro che lo insigniranno della laurea honoris causa per aver scritto un Trattato su come poter salvare il mondo: eliminandone l’umanità.

Roberto Sturno e Stefania Micheli in una scena di “Interno Bernhard”

L’autore del Trattato (un efficacissimo Roberto Sturno), pur consapevole che l’insigne premio gli verrà conferito da chi in realtà non ha letto l’opera o non l’ha compresa (vista la paradossale soluzione proposta e teorizzata in essa) non rinuncia al piacere, e quindi a quella parvenza di calore, comunque insito nell’attesa di un’insolita cerimonia privata.

Per poi trasformarla in una pubblica denuncia della perdita di confidenza degli umani con gli elementi della natura. Nessuno “vive”: ci si limita a trovare bello “esistere”. Tirare avanti. Per questa tragicomica consapevolezza, “il riformatore” preferisce isolarsi nel suo microcosmo mentale, oltre che fisico: un asfittico e opprimente ambiente plumbeo, quasi una cappellina cimiteriale sul cui trono/sepolcro campeggia un uomo vivo e morto, profondamente sensibile e solitario. Dove non è più tollerata aria “nuova” ed è ritenuto avvilente dover sprecare di prima mattina la parola “fuori”.

Qui, anche il tempo sembra aver trovato una misurazione autonoma: sono scritte parietali dove lo spostarsi di un raggio di luce fa da lancetta digitale. “Il riformatore” del caos non vive-sepolto in solitaria: viene accudito da una donna, con la quale è in continua opposizione: quasi un’urgenza per poter accendere una qualche scintilla vitale. Per fare entrare calore: oltre che con i soliti pediluvi.

Perché tutto gli rovina lo stomaco: la cucina, la filosofia e la politica. È un’ossessione di assoluto quella che sovrasta l’ineluttabile imperfezione dell’esistenza, per Thomas Bernhard. E che tramuta la commedia in tragedia. E viceversa. Non resta, quindi, che concepire la vita come un acrobatico esercizio di resistenza artistica.  

Roberto Sturno e Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”

Suonando “all’interno Minetti””, lo spettatore viene apparentemente accolto nella apparentemente calda hall di un hotel. Dove, Minetti (un trascendentale Glauco Mauri), ormai attore vecchio e disincantato, arriva in un 31 dicembre. Da trent’anni viaggia per teatri con la sua inseparabile valigia, dove custodisce la maschera di Re Lear. Anche nella hall di questo hotel, Minetti si confronterà con due giovani donne che ricordano in qualche modo le due figlie di Re Lear.

Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”

Ma in verità la hall è (anche) il foyer di un teatro dove Minetti attende di essere convocato, anche questa sera del 31, per andare in scena con il suo personaggio. Il direttore del teatro non arriverà ma l’occasione dell’attesa sarà colmata da un racconto ammaliato e ammaliante sull’arte dell’attore. Una sorta di insolita lectio magistralis, dove “l’interno” fisico lascia penetrare quello mentale in un gioco di scambi, dove i personaggi del teatro osmoticamente passano nel foyer/hall e gli ospiti dell’hotel penetrano sul palco. Perché questa è l’arte di vivere: un’arte mai disgiunta dalla paura. Dove si va sempre cauti nella direzione opposta alla meta.

“Siamo venuti per niente, perché per niente si va -direbbe De Gregori- e il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è, che ricorda il colore di certe lenzuola di certi hotel”. Lo spettatore pretende di essere divertito e l’attore è tentato di assecondarlo. E invece no: va turbato. L’attore è inquietudine. L’attore deve terrificare.

Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”

E intanto il direttore del teatro non arriva. Ma “più aspetti, più diventi bello” – dice Minetti. Qualcosa accadrà. Qualcosa di terrificante ma indubbiamente necessario. Che collega spettacolarmente e narrativamente le due facce (“Il riformatore del mondo” e “Minetti”) dello stesso “interno”.

Andrea Baracco, Glauco Mauri e Roberto Sturno

“Il direttore del teatro” arriverà: agli applausi. Lunghissimi. E, così come gli attori, sembra dirci: “Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa. La mia faccia nei vostri occhi…”.

Il meraviglioso cast di “Interno Bernhard”


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ELETTRA -Tanta famiglia e così poco simili – di Hugo Von Hofmannsthal – adattamento e regia di Andrea Baracco –

TEATRO VASCELLO, Dal 25 Marzo al 3 Aprile 2022 –


di Hugo Von Hofmannsthal
con Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Carlotta Gamba, Alessandro Pezzali

scene Luca Brinchi e Daniele Spanò 
costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche originali Giacomo Vezzani
luci Javier Delle Monache
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
adattamento e regia Andrea Baracco

produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello

con il patrocinio di Forum Austriaco di Roma


Quasi una Proserpina rock, l’Elettra, dea degli Inferi, messa in scena dal regista Andrea Baracco ieri sera in Prima Nazionale al Teatro Vascello di Roma: stesa a terra in posizione fetale, è attratta prepotentemente dalla terra-utero, dove sceglie d’imprigionarsi alla morte del padre. Lui si rende presente da un’aldila virtuale ma non la guarda: fissa noi del pubblico e si commuove. Quasi a chiedere la nostra misericordia verso questa storia. Anche Elettra (una potente Flaminia Cuzzoli) non lo guarda e gli dà le spalle. Ma lo canta: solo così riesce a instaurare una qualche forma di comunicazione emotiva. In un angolo, in un canto.

Flaminia Cuzzoli è Elettra

Dietro di lei, il castello-acquario con quel che resta della sua famiglia: incancrenita, al vetriolo.

Carlotta Gamba è Crisantemi

In fondo a sinistra, nell’angolo opposto rispetto a quello in cui si rintana Elettra, il rifugio colmo di abiti da sposa di sua sorella Crisotemi (la fremente Carlotta Gamba, ostinatissima nell’impugnare il suo bouquet nuziale) disposta ad accogliere qualsiasi marito decidano per lei, pur di essere gravida, pur di riempire quel vuoto così mostruosamente pieno di cose da nascondere. 

Al centro del castello troneggia lei, un’oniricamente lussureggiante Manuela Kustermann nei panni di Clitemnestra, la donna il cui sguardo semina morte. Dice di vivere in una vertigine (in cui riesce a muoversi su argentei tacchi) e per questo si serve di un bastone ( che però usa come uno scettro). Dice di essere infestata da Elettra, come dalla più irritante delle ortiche e di essere perseguitata in sogno dal figlio Oreste, che succhia sangue dal suo seno.

L’ Oreste di Baracco (un inquietante Alessandro Pezzali), ancor più di quello di Hugo von Hofmannsthal, è un eroe-non eroe spogliato di ogni propositività, che ha bisogno di tatuarsi sul petto il proprio nome per poter essere riconosciuto.

Carlotta Gamba, Manuela Kustermann, Flaminia Cuzzoli, Alessandro Pezzali

Qui, la prossemica, cioè la comunicazione che si instaura nell’occupare lo spazio, parla delle dinamiche psicologiche che si instaurano tra i personaggi, più delle parole. E poi ci sono i loro corpi a parlare: dove qualcosa soffre, qualcosa parla. Perché il corpo è anche il luogo dell’altro: delle parole e dei gesti con cui ci crivella.

Il regista Alessandro Baracco adatta il testo di Hofmannsthal, enfant prodige della modernità letteraria austriaca, perla poetica (dimenticata e poi ritrovata da Antonio Taglioni) che continua ad essere di straordinario interesse per il pubblico di oggi.

Andrea Baracco

Un adattamento che evidenzia come i disagi psichici dei personaggi derivino da una difficoltà a “desiderare”, a gestire cioè quella vitale “mancanza”, che può raggiunge gli estremi di “vuoto” (Oreste) o di “troppo pieno” (Elettra).

Personaggi, tutti a loro modo, mitologicamente eredi del capostipite Tantalo, condannato dagli dèi, a causa delle sue efferatezze, ad essere dominato da un desiderio di fame e di sete, impossibili da placare. 


Recensione di Sonia Remoli