Recensione dello spettacolo IL BUIO IN AGGUATO – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO DEI GINNASI, dal 19 al 21 Giugno 2024 –

Perché è così importante ricordare ?

Non solo per non dimenticare il passato ma anche per continuare a consultarlo. 

Continuare a interrogarlo, guardandolo con nuovi occhi, ci permette infatti di cogliere ogni volta qualcosa in più: qualcosa che precedentemente non ci si era rivelato. Come anche lo spettacolo di Claudio Boccaccini ama  suggerirci.

Questo significa essere capaci di cura e di responsabilità; significa tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e dove abbiamo la possibilità di spingerci. 

Per non perdere niente di quello che esce dalla nostra vita. Niente e nessuno.

Da qui parte la regia di Boccaccini: esplorando i vari significati insiti sia nel concetto di “buio”, che quelli celati nell’ “aspettare  pronti”, come in un agguato.

La drammaturgia si apre con un atroce dubbio, che minaccia di essere confermato.

Il dubbio, parola chiave di tutto lo spettacolo e strettamente connesso al concetto di buio, si manifesta attraverso una mancanza di chiarezza e quindi come qualcosa di difficile intellegibilità. Qualcosa che resta nascosto e che minaccia di sopraffarci. 

Variazioni di un concetto che  Boccaccini ci versa nelle orecchie ricorrentemente attraverso l’insinuante carattere tzigano di una composizione rapsodica per violino. Alla quale sinistramente si aggiunge il motivo, dalla pura dolcezza, di un carillon.

Dubbi che – con un sapiente disegno delle ombre – Boccaccini sceglie anche di visualizzare facendoli scivolare come pioggia sui volti dei personaggi.

Il regista Claudio Boccaccini

Ma la capacità di confondere e di celare, propria delle tenebre di cui il buio ama avvolgersi, ha anche un suo grande fascino: spesso seducentemente legato anche al rosso piacere della sopraffazione, epurato da una messianica ossessione di ricerca della purezza.

Seduzione che gli interpreti, in qualità di testimoni dell’accusa – vale a dire Marina Basile, Alessia Consorti, Aurora Giuliani, Ignazio Martorano, Daniela Moccia, Alessandra Tedeschi – sanno far scivolare al di sotto della compostezza delle loro dolorose testimonianze. Ed è proprio questo sapiente lavoro – registico e quindi attoriale – “a sottrarre”, che rende le loro narrazioni un magnifico ed atroce solletico emozionale. 

Così come l’inganno insidioso – e altrettanto umano – a insistere nello sciogliere il dubbio in un sordo ascolto dei suoi pungolamenti, sa farsi poesia. Soprattutto quando l’amore di una figlia (Giorgia Guarnieri) riesce a esprimere la lacerante spinta a restare ciechi, anche al cospetto della luce oscuramente abbacinante della verità.

Dolcemente “illegale” e meravigliosamente straziante è allora il suo ancorarsi plastico al padre (Fabrizio Musillo), rigido come una croce alla quale è tentata, solo per un attimo, di crocefiggersi. E sarà proprio questo momentaneo cedere alla tentazione di un assecondamento filiale che le permetterà di trovare la forza necessaria per auto-deporsi dall’amata croce.

Pronta poi a trovare anche le parole per metterne a conoscenza suo figlio (Tiziano Ticconi). Perché ricordare, significa anche comprendere – senza assecondare – le debolezze nelle quali può cadere la nostra natura umana. 

Accorate sentinelle del buio, anche se da due diverse prospettive, gli avvocati e le loro acute assistenti (Giorgia Guarnieri, Alessia De Simone, Andrea Meloni, Anastasia Ulino). Loro il compito di penetrare – sotto la supervisione dello sguardo rigoroso ma necessariamente non infallibile della giudice (Valentina Noviello) – la copertura nebulosa e le tenebre terrestri della verità.

Perché il lato oscuro della nostra umanità attacca continuamente il nostro stare al mondo; si apposta e improvvisamente – ma sempre al momento giusto – insidia e poi attacca, come in un agguato. E’ attento e sa aspettare. E conosce la cura non del proteggere ma del sopraffare.

Perché è nel concetto stesso del “guardare” che si cela un’enantiosemia, una sorta di contraddizione: si guarda sia per proteggersi da un attacco, che per sfoderare un attacco al momento giusto.

E sia il guardare in risposta all’attacco, sia l’attacco come risultato di un attento guardare, sono due fini di una stessa azione: “l’aspettare pronti”. L’altro concetto chiave, in aggiunta al concetto di “buio”, intorno al quale Boccaccini costruisce la sua regia.

Perché proprio su questa contraddizione si articola il nostro concetto di giustizia possibile.

Quell’ ambiguo “aspettare pronti” allora si materializza nelle posture, negli sguardi, nei ritmi finanche dei respiri degli interpreti sulla scena. E non è qualcosa solamente di attivo, ma anche di passivo: una tentazione subdola a scegliere di non far nulla come altra faccia del manipolare.

Di riflesso, sul pubblico arriva potentemente un denso e accattivante stato di ansia e di attesa, che permette di seguire avvincentemente l’articolarsi di una dramma nell’incertezza del suo finale.

E quando accade, questa è la cifra del successo di uno spettacolo: proprio quel riuscire a tenerci in sospeso – condizione alla quale difficilmente ci concediamo,  preda di un’assurda fretta a capire tutto  e subito – che seppure scaturisce dal timore che nel racconto possa accadere qualcosa di negativo, ci seduce a trattenerci nel gioco.

Uno spettacolo necessario.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo VITE A SCADENZA – da Elias Canetti – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO MARCONI, 15 Giugno 2022 –

“Audace è chi riesce a fare qualcosa del proprio buio”. Senza lasciarsene schiacciare.

Dopo la morte del padre, avvenuta quando aveva solo sette anni, Elias Canetti (premio Nobel per la Letteratura nel 1981) dedica tutta la sua vita a “fare qualcosa del proprio buio”: il trauma della morte. Imprevista. Inattesa e che nel suo essere inimmaginabile, ci coglie impreparati. Indifesi. E ci angoscia. In questo testo Canetti prova a immaginare, invece, un’ipotetica società “diversa”, dove lo stato di impotenza umana di fronte alla morte viene rovesciato grazie ad un espediente: si nasce sapendo già la data della propria morte. La propria data “di scadenza”. Ma sarà davvero preferibile?

Claudio Boccaccini, regista di questo adattamento, all’età di sette anni, scopre, come racconta nell’emozionante monologo “La foto del carabiniere”, cosa significa vivere la morte. Nascere dalla morte. Intorno ai sette anni, infatti, viene a conoscenza del fatto che la sua nascita è stata possibile anche perché qualcuno (il vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’acquisto) sentì l’urgenza di fare qualcosa del “buio altrui”, quello dei ventidue civili ingiustamente rastrellati per essere condannati a morte dalle truppe naziste, nel corso della Seconda guerra Mondiale. Tra i ventidue civili, Tarquinio, il padre di Boccaccini. Il ventitreenne Salvo D’Acquisto scelse allora di “tramontare”, di anticipare la “scadenza” della propria vita, di stabilire lui (forse) una “scadenza”, offrendosi alla morte. Forte della consapevolezza di lasciare un prezioso testimone, regalando inebriante vita non solo ai suoi amici ma anche ai loro figli. In atto e in potenza: già nati o ancora solo desiderati. 

Sarà forse per un simile destino di prossimità alla morte che, in questo adattamento del testo di Canetti e nella resa registica dell’intero spettacolo, Claudio Boccaccini rivela una speciale sensibilità nel lavorare sul binomio vita-morte e sull’angoscia ad esso collegata.

Un orologio senza lancette abita il fondale, quasi stampato su uno stropicciato lenzuolo di raso nero che ricopre un letto (per eccellenza luogo di nascita-vita-morte) posizionato verticalmente. In alcuni momenti chiave dello spettacolo, le lancette mancanti del quadrante dell’orologio vengono rese, con geniale naturalezza, da posizioni assunte dai personaggi. Apparenti “padroni” di questo tempo distopico. Loro stessi “lancette” del nuovo tempo.

Ma nonostante ciò, anche da questa umanità “semplificata” emergono insoddisfazioni e nuove paure, rese da un disegno luci spietatamente avvincente e da un’espressività struggentemente ambigua degli interpreti, in bilico tra l’orgoglio di vivere nel momento di “massimo progresso” della storia e l’inspiegabile fascino per l’inquietante, ma vibrante, vita di chi li aveva preceduti.

Nello specifico, il disegno luci sa rendere l’insinuarsi della luce che si fa strada all’interno delle crepe che attraversano l’angoscia. E al contempo sa come rendere l’emergere delle ombre da un’apparente quiete rassicurante: sintomo dell’insistenza della vita, che non si accontenta di “programmi”, “di scadenze” e che scopre di volersi nutrire ancora di caos vitale.

La densa espressività degli interpreti, poi, sa non escludere lampi di vertiginosa audacia dentro quella paura, che solo apparentemente cerca la quiete. Un’espressività che riesce ad esprimersi anche nonostante le maschere, che in alcuni momenti dello spettacolo gli interpreti indossano e che danno vita ad efficaci giochi di specchi.

Perché gli uomini, forse, sono fatti per continui inizi, per nuovi orizzonti tutti da scoprire. E proprio per questo, ricchi di fertile eccitazione. Perché nella vita si muore non una volta ma continuamente. E altrettanto continuamente si nasce. E forse la spinta per continuare ad iniziare ci viene proprio dal sapere che prossima ed imprevista arriverà una nuova morte. 

Lo spettacolo si avvale dell’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

La musica originale del coro, che accompagna lo splendido epilogo dello spettacolo, è di Alessio Pinto. 

Vite a scadenza

TEATRO BELLI, Dal 12 al 14 Aprile 2022 –

Cosa sarebbero gli uomini senza la morte? Senza l’attesa angosciosamente incerta del suo progressivo o balenante incedere? 

Il rosso di un immenso quadrante d’orologio infiamma la scena buia: è immediatamente riconoscibile la densità della cifra registica di Claudio Boccaccini. Un’umanità di sagome in controluce si impossessano dello spazio scenico: “partorite” ed espulse dal liquido amniotico, iniziano a rianimarsi con una gestualità dapprima ancora acquatica ma poi automatica, sfociante in una corsa fine a se stessa. Individuale.

Boccaccini, seguendo il progetto di Elias Canetti (Premio Nobel per la Letteratura nel 1981), mette in scena una possibile umanità a cui è stata tolta l’incertezza del momento in cui la morte vincerà sulla vita. Un’umanità “partorita” con una data di scadenza: chi nasce sa quando morirà. Ma a quale prezzo?

Il numero di anni di vita sostituirà i nomi propri e sarà vietato comunicare agli altri la propria età effettiva. In un mondo dove tutti conoscono il tempo a loro disposizione, dove è sospesa ogni imprevedibilità, dove solo le “cifre alte” possono concludere qualcosa, le persone non sentono più l’urgenza di comunicare, di pensare, di amare. E rischiano di morire di noia.

Si cercano ma la loro è una vicinanza solo spaziale, sottolineata per contrasto dalla selezione musicale, calibrata dal regista Boccaccini, che arriva a rendere insospettatanente laceranti dilemmi etici ed esistenziali. Andando oltre il racconto, il regista infatti punta in primis all’azione drammatica, che arriva al cuore del pubblico prima ancora che al cervello.

In questa operazione è sostenuto efficacemente sia dal suo gruppo di interpreti, dei quali non si può non apprezzare la sintonia che li plasma, nonché il prezioso binomio di freschezza e insieme di profondità d’interpretazione; sia dall’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

Esalta la chiusura dello spettacolo la forza di un Coro, dove la musica originale di Alessio Pinto si coniuga ad un testo che, con una pirotecnica miscela di perfidia, tenerezza, rabbia e surrealtà, ci propone l’idea di un’umanità armonicamente forte e gioiosa.