Recensione dello spettacolo METUS NOCTIS – La paura della notte – di Roberto Russo – regia di Gianni De Feo

TEATROSOPHIA, dal 17 al 20 Ottobre 2024

Lei ci attende con un sorriso enigmatico che ricorda quello de “La Gioconda” di Leonardo da Vinci. Splende come un’icona sacra: un quadro iconografico di lussureggiante bellezza. 

Lui sembra non esserci, fuso com’è con il suo letto: dove pare rifugiarsi più che riposare. 

La drammaturgia di Roberto Russo e la polimorfica seduzione interpretativa di Alessandra Ferro riescono a nutrire così acutamente la suspence nello spettatore, da riuscire a seminare dubbi sulla reale identità di questa “icona” per una lunga parte dello spettacolo. 

E su chi invece la stessa drammaturgia – in sinergia con la randagia e sinceramente presuntuosa interpretazione di Gianni De Feo – ci porta a credere di sapere quasi tutto, subiamo uno scacco. Ammaliati anche dall’oscuro fare confidenziale del Nino Ceccarelli di De Feo, che si apre con generosità in “a parte” di natura confessionale.

Questo accade perché l’autore ci rende spettatori metateatrali del Teatro dell’Onirico, dove non trovano ospitalità né i principi della logica né quelli dell’etica, bensì il linguaggio creativamente enigmatico dell’inconscio.

La narrazione allude infatti alla forza eccedente di un desiderio che insiste nell’andare a cercare nel mondo onirico una certa soluzione, che non ha trovato accoglienza nel mondo del reale. Ma che poi qui, in questo mondo parallelo dell’inconscio, si rivelerà in altro, in conseguenza dell’ ambiguo manifestarsi di quel “pensiero frequente che diventa indecente”.

Con la complicità di un’efficace prossemica, di un sapiente uso simbolico prima ancora che estetico dei costumi di scena e di un intrigante disegno sia luminoso che musicale – la regia è curata da Gianni De Feo – lo spettatore si abbandona a spiare, e a lasciarsi spiare, da questa misteriosa complicità nella quale si ritrova aggrovigliato, quasi ancestralmente.

E che confluisce nella stupefacente bellezza del quadro iconografico conclusivo, che cita ”La pietà” di Michelangelo e sa andare oltre.

Perchè è lì, proprio nel sacro e oscuramente luminoso timore della morte, che lo spettacolo di Gianni De Feo intende – e riesce – ad immergerci.


Recensione di Sonia Remoli

DAIMON – L’ultimo canto di John Keats

TEATROLOSPAZIO, dal 2 al 5 Febbraio 2023 –

Prendendo posto in sala, lo troviamo seduto sul palco. Di spalle, su un cubo di marmo. Legge un’iscrizione: la “sente”. Non parla, così sembra. Ma le parole più belle sono quelle che naufragano nel silenzio. Si sta lasciando guidare dal suo “daimon”: lui sa cosa è più fertile per “fare anima” . Di Gianni De Feo fin da subito ci arriva la fascinazione della sua “percezione”. La sentiamo.

Gianni De Feo nell’intro allo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Poi si alza, si volta e dà inizio alla sua seducente narrazione: un ripercorrere a ritroso i momenti del palesarsi, subdolo o manifesto, di un singolare “daimon”. 

In perfetta corrispondenza con il “fare anima ” di James Hillman, De Feo, che oltre ad interpretare l’appassionante testo di Paolo Vanacore ne ha curato anche la regia, dà vita ad un meraviglioso montaggio pluri-disciplinare collegando ed enfatizzando il potere della narrazione a contributi artistici di varia natura: dalla musica alla pittura; dal canto alla danza.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

La musica è quella che si immagina esca da una radio degli anni ’20 e viene scelta per fare “da tappeto” alla narrazione, seguendone simbolicamente i diversi climi. Per la pittura, De Feo sceglie di proiettare delle tele del pittore Roberto Rinaldi: davvero di forte espressività. Il canto e l’accenno a degli eleganti passi di danza arrivano con l’entusiasmo di un’amabilissima sorpresa: De Feo rivela dei colori vocali molto interessanti e dà prova di un’intensissima interpretazione avvalendosi di un accattivante uso delle mani che, in alcuni momenti, ricorda la magia delle “mudra”.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Come nelle poesie di Keats, De Feo riesce ad evocare gli oggetti nelle sue molteplici qualità mediante l’accostamento di diverse sfere sensoriali. In questo modo le immagini risultano così vivide che non solo se ne immagina la fisicità ma si riesce a partecipare della loro vita intima.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Il testo di Paolo Vanacore immagina di ripercorrere il riappropriarsi della vocazione, “dono dei guardiani della nostra nascita”, da parte di un bambino che nasce dall’ondivago fluttuare delle onde di “un hotel di passaggio” di Atlantic City e che lascerà un’indelebile traccia di bellezza sulla Terra.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

È un teatro di narrazione colmo di intima poesia, quello in cui s’immerge Gianni De Feo. Rompendo continuamente i piani, quasi fossero onde da fendere. E ci trascina con lui. Ne “sentiamo” il carisma, ne apprezziamo il ritmo, il “farsi anima” dei gesti. Dei silenzi. Della parola. Non si può non percepire infatti la bellezza con la quale De Feo riesce a riprodurre le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici) che abbondano nei versi di Keats e che donano musicalità e grande freschezza espressiva. Particolare attenzione pone De Feo all’utilizzo delle vocali che, così come amava Keats, sono impiegate alla stregua di note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. E, così sedotti da tale bellezza, non possiamo non “lasciarci andare”. Naufragando. Paghi del nostro esserci venuti a cercare.