È versatile, di grande smalto, spettacolare. Davvero brillante. Di più: spumeggiante. Insomma di grande effetto.
Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, come un autentico acrobata cammina sulla punta delle parole. E stupisce per l’agilità funambolesca nel trovare sempre nuovi equilibri. Stupisce il suo piroettare osando numeri complessi di giocoleria e di agilità linguistici.
Un autentico equilibrista: abile nel “camminare” in situazioni difficili, destreggiandosi con maestria o con temerarietà.
I suoi “fuochi pirotecnici” si originano dall’applicazione di un’arte umana speciale: quella del fare luce attraverso la complicità delle ombre. Con un taglio fantasmagorico che sorprende e incalza in maniera serrata. È fascino, è incanto. È magnetismo.
Un piacevolissimo divertimento che ci apre: che inaspettatamente ci fa espandere. Sublimando le tensioni accumulate nel corso della giornata. Perché sì, questo tipo di divertimento, è anche terapeutico.
Particolare dell’installazione scenica di Antonella Rebecchini
È la bellezza dei pensieri insolitamente connessi. Che escono dalla vorticosa mente dell’acrobata Manfridi e come per magia si stagliano alle sue spalle, visualizzati oniricamente dal fascino enigmatico dell’installazione dell’ artista Antonella Rebecchini.
È l’epifania di una sacra investitura: un’aureola che ossessivamente si replica e si rinnova, generata da un caos che visionariamente prende forma attraverso l’istallazione della Rebecchini.
L’installazione scenica di Antonella Rebecchini
Un binomio artistico, quello tra Giuseppe Manfridi ed Antonella Rebecchini, efficacissimo. Vicendevolmente valorizzante. E quindi vincente. Due mondi, quello della parola e quello dell’immagine tridimensionale, in continuo dialogo, legati in un movimento circolare che generosamente si lascia attraversare.
Lo spettatore, rapito, si ritrova immerso in un universo che preda nel momento in cui sfugge. In verità, l’evocatività della parola lascia una traccia che, almeno per un attimo, riusciamo a trattenere. Ed è magia !
Antonella Rebecchini e Giuseppe Manfridi
Un’esperienza immersiva quella proposta da Giuseppe Manfridi a Teatrosophia, fino a domenica 15 ottobre. Un viaggio al centro delle parole, dove regina regna l’ambiguità e il suo fascino diabolico. Di cui bisogna imparare a godere.
Perché questa meravigliosa avventura linguistica è un gioco stupefacente. E giocare significa sperimentarsi, crescere.
Vivere: entrare nel gioco della vita, dove la vera vittoria è l’atto stesso del giocare.
“La vera vita degli uomini e delle cose comincia soltanto dopo la loro scomparsa” (Nathalie Sarraute).
La vita di Ivan Karamazov, ancora ferma al giorno del processo per parricidio, è quella di un personaggio pirandellianamente in cerca di un autore che gli possa regalare un finale.
Ad Umberto Orsini, suo interprete dal lontano 1969, arriva pungente l’urgenza di questa esigenza. E quello allestito, con sublime poesia, sul palco del Teatro Vascello è il luogo della mente del “personaggio” Ivan, che indugia e insiste nella mente della “persona” e ora anche “autore” Umberto Orsini. Autore assieme a Luca Micheletti.
Ma cosa significa regalare un finale ? Significa regalare, o meglio “restituire”, un’identità. L’identità, infatti, è un dono che ci possono dare solo gli altri. Perché nessuno di noi “si può fare” da solo. Drammaturgicamente ed esistenzialmente. I primi a farcene dono sono i genitori, per un periodo della nostra vita anche autori della stessa.
Ma poi entrano in scena tutte quelle persone il cui “incontro” è risultato essere stato per ciascuno di noi una folgorazione. Il cui incontro – direbbe Massimo Recalcati – ha interrotto l’abituale scorrere del tempo. Come è avvenuto tra Umberto Orsini e Ivan Karamazov.
Era il 1969 quando sulla rete nazionale della Rai andava in onda lo sceneggiato televisivo di Sandro Bolchi “I fratelli Karamazov” e un giovanissimo Umberto Orsini ne interpretava l’Ivan. Ma, a seguito di questo incontro, nulla è più come prima. E negli anni a seguire Orsini non smette di sentirselo intimamente connaturato alla propria essenza. E alla propria esistenza. Tenendolo insieme a sé con lo sguardo. E con il respiro.
Umberto Orsini è Ivan nello sceneggiato televisivo di Bolchi del 1969
Ma se l’incontro ha la cifra della folgorazione, l’identità è un processo che richiede tempo. Solo ora infatti Orsini sente che è arrivato il momento: sente di averne la giusta consapevolezza. Perché Orsini, così come Ivan, è un uomo che ha sempre tollerato di “essere disturbato” dalla polifonia di voci della sua coscienza e dalle relative contraddizioni che la abitano. Uomini, loro, che resistono alla tentazione di mettere a tacere gli elementi di disturbo della psiche (come accade ai più). Ma che anzi li accolgono. E danno loro la parola.
Uomini loro, che temono, ma di più amano la vastità del mare della vita. E nonostante tutto navigano, cercano, esplorano. Si perdono. E sognano un ritorno. Un “nostos“.
Ecco allora che dalla lirica regia di Luca Micheletti, quasi come a cavallo di una slitta, i percorsi della memoria di Ivan scivolano giù, seppur spazzati insistentemente dal vento. E tornano. Tornano a riaffrontare il caos che avvolge “i resti archeologici” di un luogo fisico e mentale. Labirintico. Costruito per cerchi concentrici. Avvolto nel buio. Una scena ( curata con sublime poesia da Giacomo Andrico, dove il suono è affidato a Alessandro Saviozzi e le luci a Carlo Pediani) capolavoro del suo dramma.
E un po’ come un quadro di Mark Rothko, catalizza lo spettatore ad una contemplazione più intima e raccolta, permettendo un viaggio ipnotico che apre una finestra sull’incomprensibilità dell’io più profondo. Sul suo dramma interiore. Una rappresentazione concreta della tragedia esistenziale del personaggio ma anche dell’interprete-autore.
Umberto Orsini
Un personaggio che denuncia in sommo grado l’assenza di una figura paterna che sappia stabilire confini, fissare leggi. L’assenza di un dio che limiti il più gravoso peso dell’umano vivere: la libertà. Perché la principale pulsione umana è quella alla sopraffazione. E l’amore si può solo imparare.
Dell’interprete Orsini folgora la freschezza del disperato ardore. L’elasticità nervosa dei muscoli. Il guizzo dalle mille sfumature degli occhi e della voce. Il respiro. Le mani. Lui, insieme dio e demone.
E così, immaginando un nuovo processo e con una diversa spiegazione dei fatti, quasi come al termine della elaborazione di un lutto – che qui rischiava di diventare permanente, cronico – Orsini riesce a sublimare quell’oscura mancanza melanconica che avvolgeva l’esistenza di Ivan Karamazov. Riesce cioè “a far iniziare la vera vita di Ivan”, come direbbe Nathalie Sarraute. E così ora quell’ ” inverno del nostro scontento è reso fulvida estate”. Da Umberto Orsini. Assieme a Luca Micheletti.
A Giuseppe Marini il Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’ Arte e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo sez. Miglior Regia): la rappresentazione ” … è un piccolo capolavoro di ingegno e ironia di Friedrich Dürrenmat… che riesce mirabilmente a conservare la leggerezza del testo e nello stesso tempo la sua complessità”.
Che cosa è successo a Delfi, l’antica città della Grecia, nella Focide, famosa per l’oracolo e il santuario del dio Apollo ?
Nel provocatoriamente dissacrante racconto dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt “La morte della Pizia”, pubblicato nel 1976 all’interno della raccolta di racconti “Mitmach” e ripreso dall’omonimo adattamento teatrale a quattro mani di Patrizia La Fonte e Irene Lösch per la regia di Giuseppe Marini, andato in scena ieri sera dal palco del Teatro Vittoria di Roma, Delfi – il centro di culto più prestigioso dell’antichità – è andato in panne. Qualcosa si è guastato; qualcosa ne ha provocato l’arresto, costringendo ad una sosta.
il registaGiuseppe Marini
Niente d’improvviso, però: che l’uomo preferisca affidarsi a qualcun altro per farsi dire cosa fare, non assumendosi la responsabilità delle proprie scelte è connaturato alla natura umana. È un’anima che ci abita da sempre e che ogni volta ci tenta a scegliere una gabbia dorata piuttosto che un salto verso una felicità sconosciuta. La libertà, infatti, non ci regala solo ebbrezza ma anche angoscia.
Dürrenmatt sceglie una chiave di lettura dissacratoria per farci riflettere sui rischi che si corrono a preferire mettersi nelle mani degli altri (inclusi gli dei) rinunciando al desiderio di costruirci di volta in volta un nostro pensiero critico su ciò che ci circonda. Svendendo, per un illusorio senso di protezione e di quieto vivere, il nostro potere di gestire la quota di libertà che ci è concessa.
L’acuto adattamento di Patrizia La Fonte e Irene Lösch unito sinergicamente allo sguardo del regista Giuseppe Marini sottolinea con elegante estro i punti nevralgici del testo originale fino a sviluppare, con suggestiva coerenza, un finale che va oltre. Cercando e trovando un’ ulteriorità. Autenticamente poetica.
Lo spazio scenico (curato con icastica eleganza da Alessandro Chiti) è abitato dalla raffinata decadenza di quel che resta dell’originario Santuario di Delfi: i resti delle tre colonne del portico delle Muse e i resti sparuti e abbandonati a terra di quello che era un ricco archivio degli oracoli già pronunciati.
Ricostruzione del Santuario di Delfi (IV sec. a .C.)
Al posto della scritta “Conosci te stesso” – che campeggiava a caratteri cubitali sul tempio originale – con genio registico c’è qui una gigantografia del volto del dio Apollo. Al sacro culto di quella che era ed è la più autentica delle realizzazioni di un essere umano – dedicare il tempo del proprio stare al mondo alla scoperta di ciò che si è davvero – si è sostituito il culto dell’immagine, dell’apparenza, dell’esteriorità.
Una scena dello spettacolo “La morte della Pizia” di Giuseppe Marini al Teatro Vittoria di Roma
Quella che campeggia al centro del palco del Teatro Vittoria – e che con decisa appariscenza si impone come una contemporanea maxi icona del dio Apollo – può alludere anche all’immagine di un Apollo inserito all’interno di uno schermo televisivo, uno dei nuovi oracoli dei nostri tempi. Così come alla foto di profilo di un social network, altro oracolo contemporaneo.
Uno scatto fotografico decisamente fashion di un dio che però volge lo sguardo altrove: perché oscuro sì, ma anche perché forse non ce la fa a guardare questa molle decadenza dei costumi. E piange lacrime di sangue.
Della sua caratteristica identificativa – il suo risultare oscuro per l’enigmaticità dei suoi oracoli, che solo la sacra capacità di entrare in trance della Pizia poteva decifrare – ci si prende gioco. “Dio è morto” – direbbe Nietzsche.
Maurizio Palladino (qui Merops XXVII) e Patrizia La Fonte (qui la Pizia)
Dell’articolata organizzazione templare dei tempi antichi – i due sacerdoti di Apollo, deputati alla cura del culto al dio e della sua statua; i 5 hosioi che controllavano il rispetto dei riti celebrati; i profeti che assistevano la Pizia e poi altro personale addetto ai sacrifici, alle pulizie e all’amministrazione – restano qui solo una Pizia (Pannykis XI) e un gran sacerdote (Merops XXVII), decisamente nichilisti.
Una Pizia (quella interpretata da un’incandescente e lirica Patrizia La Fonte ) “cenciosa”, isterica e indifferente alle fragilità umane, proprio come quella del testo di Dürrenmatt. Ma qui – ed è ciò che inizia a delinearsi come un ulteriore possibile e prezioso filo della trama, recuperato dall’adattamento e dallo sguardo registico – la Pizia è anche destinata lei stessa a decifrare un nuovo oracolo, un nuovo linguaggio: quello della fertile tensione erotico-conoscitiva dell’amore. Che sa unire; che sublima le diversità. E lo stare in panne.
Maurizio Palladino (qui Tiresia) e Patrizia La Fonte (qui la Pizia)
Fin dall’incipit dello spettacolo si affaccia un indizio: il suo declinare l’incontro con Tiresia, quell'(apparentemente) odiato cieco veggente, interpretato da un seducente e leggiadro Maurizio Palladino . Lo fa celandosi al suo cospetto sotto un lunghissimo drappo rosso fuoco, dove ama nascondersi, in solitaria, per scaldarsi di uno strano calore, così avvolgente. Ben superiore a quello dei misteriosi vapori e del semolino!
Si sottrae per timore di essere troppo vecchia e di non saper essere all’altezza della situazione (apparentemente lavorativa) richiesta da Tiresia. Ma lui, come un vero amante sa, trovata chiusa una porta, cercare ed individuare il modo di insinuarsi per un’altra via: più immaginativa. Più creativa.
E utilizzando la magica seduzione della parola, non quella che dà ordini, né quella che mira subdolamente a manipolare – ma quella che cerca di fare del confine dell’altro un luogo d’incontro – riuscirà, anche prossemicamente, ad evitare che lei continui a nascondersi o a mantenere le distanze.
Si suggellerà così un autentico incontro: quello tra ragione e follia, tra maschile e femminile. Tra le metà di un tutto. Con un’immagine di chiusura dalla potente evocatività: quella che allude al mito delle metà, descritto nel “Simposio” di Platone.
Friedrich Dürrenmatt autore del racconto “La morte della Pizia” , inserito nella raccolta “Mitmach”
La raccolta di racconti che include anche il racconto “La morte della Pizia” non a caso Dürrenmatt la intitola “Mitmach”, ovvero “Partecipare”. Oggi, nell’era dei social network, si declinerebbe in un po’ troppo appariscente “Condividere”. Ma quello che conta davvero è il “partecipare” inteso come tensione d’insieme. Un essere accordati, un’esperienza vissuta, a un tempo, da più punti di vista. Diversi. E perciò un’esperienza più ricca. Più fertile di discernimento, di emozione comunicante. Un autentico incontro che sa come sublimare le situazioni in panne.
Perché il gioco del “partecipare”, il gioco della collettività – per quanto difficile – è l’unico veramente degno di essere giocato. È il solo gioco stupefacente della nostra vita. Ed è a questo gioco, nella sua essenza, che gioca il Teatro: quel rito collettivo di cui il sagace adattamento coordinato dalla regia di Marini ci parla con tanta poesia.
Poesia di cui era ispiratore lo stesso dio della profezia Apollo e che drammaturgicamente qui viene abbinata alla chiave interpretativa della sagacia: decisamente efficace in questo contesto. In passato, infatti la sagacia, era legata a doppio filo con la profezia. Era – e ancora è – il fiuto, l’intuizione istantanea dell’invisibile. Una prontezza mentale al limite con la premonizione.
Si aprono delle porte: è un insolito sipario che cela ulteriori porte e ulteriori profondità. Sarà un invito a castello? Oppure un luogo della psiche? O forse l’adescamento in una trappola luminosamente accecante, dove rischiamo di venir risucchiati ?
Il regista Luca Ariano – anche curatore del progetto (assieme a Pietro Faiella) e della scenografia (con la collaborazione di Alessandra Solimene) – pensa progetta e realizza uno spazio per la messa in scena del suo spettacolo, tale che lo stesso spettacolo e lo stesso spettatore ne possano essere pensati. È un lampo di genio che colpisce il cuore del bersaglio: il pubblico. Totalmente.
Luca Ariano
Infatti, immerso all’interno di un calibratissimo gioco di volumi, di prospettive e di effetti cromatico-luminosi (la drammaturgia di quest’ultimi è di Max Comincini), lo spettatore viene inguaribilmente pluri-sedotto. Dapprima da un bianco “che più bianco non si può” – come recitava tempo fa il pay off dello spot pubblicitario di un noto detersivo per abiti. Ma che inconsciamente alludeva già anche alla pulizia dei nostri “habiti”, cioè dei nostri costumi, dei nostri modi di fare.
Sì, il bianco ci seduce: ci porta dalla sua parte, ci fa suoi. Ma il bianco solo apparentemente rappresenta il colore della purezza: cromaticamente è la somma di tutti i colori, e per estensione metaforica, di tutte le emozioni, di tutte le pulsioni, del bene e del male. Mescolanza, quindi: non purezza.
Come la drammaturgia cromatica e luminosa rivelerà a fine spettacolo quando, le profondissime angosce di Riccardo III emergeranno dal suo sottosuolo emozionale e lo porteranno a smarrire il suo ferreo “controllo”. Allora, proprio qui, il bianco assoluto che lo ha sempre avvolto si spaccherà in mille colori. Un effetto dalla sublime bellezza!
Alcune opere dell’artista Elisa Leclè, curatrice dei costumi dello spettacolo, esposte negli spazi di City Lab 971, in occasione della messa in scena del Riccardo III di Luca Ariano
Ma poi che cos’è la purezza? Siamo davvero sicuri che sia così sano anelarvi, sceglierla, assecondando una nostra (innata e fuorviante) spinta a “sembrare” sempre lindi ? La nostra natura umana in verità dà il meglio di sé proprio riuscendo a fare un libero e consapevole uso dell’imperfezione che comunque ci costituisce.
E allora, proporre e propagandare subdolamente il concetto opposto idealizzandolo, non sarà un inganno di chi – invece consapevole – decide di solleticare proprio questa nostra fragile tendenza tutta umana per controllarci, per portarci dalla sua parte, per sedurci, in realtà saccheggiandoci?
Anche di questo riesce a parlarci con un’elegante evidenza fluorescente questo splendido spettacolo del regista Luca Ariano, che si avvale della potente complicità di un corpo attoriale capace di restituire allo spettatore una verità senza filtri. A tutto tondo: riuscendo a liberare le innumerevoli sfaccettature proprie dei passaggi emotivi dei personaggi.
E rapisce, per l’efficace suggestione, la scelta di dare ampio spazio ad una resa recitativa “di taglio”: sul piano del profilo. Il nostro profilo, infatti, è l’immagine di noi che conosciamo meno. Eppure il disegno del nostro profilo ci rappresenta inequivocabilmente. Acuto e interessantissimo si rivela quindi il dualismo portato in scena tra frontalità e profilo dei personaggi: un denso simbolismo di luce ed ombra che si staglia mirabilmente negli occhi dello spettatore.
E poi, terribile e struggente, seduce la recitazione affidata all’espressività delle mani. Associate da sempre al potere, alla forza, alla lealtà, all’amicizia e alla fiducia, le mani celano una ricchissima simbologia. Le nostre mani parlano. Con le mani diciamo chi siamo e lasciamo emergere cosa si muove dentro di noi. E gli interpreti in scena – Roberto Baldassarri, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser – ci incantano. Su tutti brilla Pietro Faiella: un irresistibile Riccardo III. Un autentico “acrobata dello spirito”.
Pietro Faiella
Parte essenziale della drammaturgia, il linguaggio dei costumi. Dall’estro di un’artigiana della moda qual è Elisa Leclè prendono forma abiti che, oltre a sedurci per l’essenziale e alchemica raffinatezza delle linee, ci rivelano anch’essi l’ondivaga natura dei personaggi. Sono dettagli che parlano attraverso ciò che manca, attraverso ciò che stringe e dove stringe: dove si blocca l’energia vitale, l’azione, lo spirito critico. E poi i colori scelti: un’accecante tirannia nevrotica del total white per Riccardo III e le sfumature minerarie dei grigi e dei beige per le sue prede. Tinte del compromesso e della prudenza.
Uno spettacolo che ci parla non solo e non tanto della pericolosità di personalità seducentemente dittatoriali quali quella di Riccardo III ma della pericolosità di restarne abbagliati. Il problema non è tanto che ci sia stato o che ci possa essere un Riccardo III; il vero punto della questione è se e quali sono le condizioni che permettono continue ascese al potere di tanti Riccardo III .
Oltre ad affermare di aver subito tali ascese, siamo sicuri di non essere proprio noi ad alimentarle, a renderle possibili? Perché non siamo semplicemente chiamati ad accettare un invito: è in nostro potere dare forma ad un pensiero critico. Ma la libertà, in verità, nasconde un’ombra: desiderare affidarsi ad altri consegnando loro il peso dello stare al mondo. La nostra natura umana è fatta anche di questa tensione: esserne consapevoli è il primo passo per evitare di cadere nella falsa ma rassicurante trappola di coloro ai quali noi affidiamo il nostro potere.
Questo spettacolo oltre ad essere superbamente curato in ogni suo aspetto si assume la cura e quindi la responsabilità di parlarci, al di là delle parole sublimi di William Shakespeare, del pericolo sempre attualissimo nel quale rischiamo di cadere. La stessa installazione di Luca Ariano ne è una testimonianza: una messa in forma del mondo, estetica e comportamentale, come espressione della definizione mutevole delle relazioni tra l’individuo e la realtà.
Massimo Venturiello
Lo spettacolo é prodotto da “Officina Teatrale” di Massimo Venturiello e sarà in scena a Roma, dal 3 al 15 ottobre, negli spazi di CityLab 971, ex cartiera, ex centro sociale, trasformato in luogo di produzioni cinematografiche e spazio artistico e performativo, in cui bellezza e degrado si confondono.
In occasione della messa in scena del Riccardo III del regista Luca Ariano, gli spazi di City Lab 971 esporranno le opere dell’artista e designer Elisa Leclè e dello studio d’arte “Biancofiore”, collettivo artistico impegnato nella riqualificazione e rigenerazione artistica degli spazi urbani.
Le opere dello studio d’arte “Biancofiore” nello spazio espositivo del City Lab 971
Uno spettacolo ostinatamente ruvido e struggentemente poetico.
Ingredienti così ben dosati da regalare una rigogliosa “lievitazione” allo spettacolo.
Una drammaturgia e una regia, quella di Alberto Fumagalli e di Ludovica D’Auria, che ha trovato il modo di rendere prepotentemente interessante il tema della rigidità dei costumi patriarcali: una rigidità sorda e cieca alle spinte propulsive del “nuovo”.
Ma il “nuovo” comunque insiste e spinge e dilata gli argini del “vecchio”. E se l’argine si ostina nella rigidità del muro, se non ce la fa ad essere osmotico, ad accogliere altre possibili diverse “lievitazioni” , allora la spinta al “nuovo” rischia di implodere.
La stessa formulazione del titolo, scelto per identificare lo spettacolo, ce ne parla. Infatti, con estro, lega l’aggettivo “difficilissima” alla “storia” della vita di Ciccio Speranza. Difficilissima è quindi la storia, ovvero la narrazione della vita che la famiglia di Ciccio si ostina a darne, scandita rigidamente com’è da pregiudizi e da paure verso il “nuovo” .
Che comunque avanza. Insospettabilmente anche all’interno del loro nucleo familiare, così rigidamente perimetrato. Che non deve uscire cioè dalla “cornice” di quel tavolo di legno, totem intorno al quale si dipana la messa in scena della drammaturgia.
Federico Bizzarri e Alberto Gandolfo in una scena dello spettacolo “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza” in scena al Teatro Belli di Roma
L’ordine pre-costituito, quasi ancestrale, è difeso dal padre (un generoso Alberto Gandolfo) così come farebbe una fiera, una bestia selvatica: con le unghie e con i denti. Con riti ancestrali “impastati” alla croce della trinità cristiana.
Una trinità di cui i componenti familiari sono un’insolita rappresentazione: il selvatico padre-padrone, un figlio disponibile ma segretamente non rassegnato alla sottomissione (un intrigante Federico Bizzarri) e l’altro – Ciccio – destinato ad essere lo spirito santo: il lievito spumeggiante (un irresistibile Damiano Spitalieri).
Federico Bizzarri, Damiano Spitaleri e Alberto Gandolfoin una scena dello spettacolo in scena al Teatro Belli di Roma
Un mondo declinato tutto al maschile: mortifero di spinte femminili. Morta la feconda presenza femminile e materna; morte le mucche produttrici di bianco nutrimento; destinata alla “morte del cigno” ogni fertile e ribelle spinta femminile. Che comunque abita ciascuno di noi, per natura.
Damiano Spitaleri e Federico Bizzarri inuna scena dello spettacolo “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza ” al Teatro Belli di Roma
Interessante la ricerca fatta su una nuova lingua, apparentemente senza senso, una sorta di grammelot, tagliente e musicale; divertente e massacrante. Una nuova lingua efficacissima, anche perché proprio così “parlata” dai loro corpi. I tre interpreti in scena infatti caricano lo spazio di temperature di potentissima elettricità, che si aprono ad essere squarciate dalla soffice poesia ribelle di Ciccio. Autenticamente ben lievitata. Fino al rito sacrificale finale.
Qualcosa infatti si rompe: qualcosa non ce la fa a reggere la spinta centripeta contraria. E implode. Perché esistenzialmente sono gli altri a darci un nome, una prima identità, che poi ognuno di noi è chiamato a personalizzare. E a tradire, laddove necessario.
Federico Bizzarri e Alberto Gandolfo in una scena dello spettacolo “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza ” al Teatro Belli di Roma
Una drammaturgia solo metaforicamente lontana dai nostri tempi: purtroppo, in realtà, attualissima. Ecco allora che il Teatro, com’è nella sua natura, deve saper denunciare ed indignarsi tutte le volte che scorge abusi di potere sulle soggettività. Perché quando la vita diventa impermeabile all’incontro con l’altro – quando “la vita si protegge dalla vita” direbbe Massimo Recalcati – ci si incammina verso la dissoluzione.
Damiano Spitaleri in una scena dello spettacolo “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza ” al Teatro Belli di Roma
Il merito di questa giovane compagnia di ragazzi – LESMOUSTACHES – è quindi anche quello di saper sviluppare attraverso l’arte teatrale una forma di libertà che non si sgancia dal senso di responsabilità, ma che rompe l’omeostasi: quella troppo comoda tranquillità, nella quale tutti per natura tendiamo a crogiolarci. Ma che finisce per condurci verso una cronica stanchezza.
Che ci sia spazio e ascolto, quindi, a quel Teatro, come questo de LESMOUSTACHES, che si caratterizza per essere luogo capace di tenere insieme le differenze dei singoli, per il bene comune della società.
Dice di non saper ringraziare bene, di non “sentire” le luci, di faticare a starci, di rimanere decisamente in imbarazzo. Ancora oggi. Eppure da bambino furono proprio i ringraziamenti di un gruppo di attori sotto le luci della ribalta a folgorarlo al desiderio di teatro.
Ma ieri sera all’evento a lui dedicato e scelto per aprire la nuova stagione al Teatrobasilica – di cui è “il nume tutelare” – dopo l’appassionante e appassionata dedica del suo ormai inseparabile compagno di viaggio – un po’ il suo Virgilio – ovvero il regista Antonio Calenda, Roberto Herlitzka, come in un’epifania si è manifestato. Seduto tra il pubblico, seguito da un sagomatore, ha salutato e ringraziato. E la sua grazia schiva si è sprigionata rivelandosi in tutta la sua densità.
Il regista Antonio Calenda
Formatosi come “persona” e come “personaggio” alla scuola di Orazio Costa, Roberto Herlitzka è un autentico amante dello sperimentalismo: quello che alle spalle ha però una vera e propria formazione classica. Perché solo così si può affrontare la novità in modo consapevole.
E in quell’aura trascendentale eppur così caratteristica di uno spazio off qual è quella del Teatrobasilica in San Giovanni in Laterano in Roma – sospeso com’è tra sacro e profano – Herlitzka risplende di totale integrazione. E dà prova ancora di voler continuare a “lanciarsi sul palco come chi viene scaraventato in mare senza saper nuotare”. Con “fresco entusiasmo”. E con autentica spontaneità: quella che è sempre frutto di un lavoro, individuale ed intellettuale, solo alla conclusione del quale si può davvero impersonare quel determinato ruolo con naturalezza cosciente.
Il film “Roberto Herlitzka legge Dante “, che si origina dalla fertile sinergia tra la regia teatrale di Antonio Calenda e la regia video di Mauro Conciatori, è arricchito dalle foto di Tommaso Le Pera.
Di Herlitzka non può non colpire la qualità dell’avvicinamento al testo della Divina Commedia: lo stile inconfondibile con cui lo fa e che è la cifra inimitabile del rapporto tra il suo modo di stare al mondo e il suo desiderio di sapere, di continuare ad apprendere. Ancora. E lascia una traccia. Preziosissima, di cui noi possiamo essere, a vari livelli, eredi e insieme rielaboratori. Perché da certe letture e da certe interpretazioni siamo anche letti, come sostiene Massimo Recalcati: come singolarità ma anche coralmente. E allora quello con Roberto Herlitzka che legge la Divina Commedia di Dante – dal vivo o attraverso la visione del film – diventa un incontro che ha la cifra dell’unicità: di quelli che mettono una cesura tra la vita che era e quella che è e sarà. Di quelli che non si dimenticano.
Roberto Herlitzka
Come anche il regista Calenda ha con sincera commozione sottolineato, ricordando il suo personale incontro con Herlitzka risalente al 1971: ai tempi in cui presentava la prima italiana de “Il balcone” di Jean Genet con Franca Valeri e appunto Roberto Herlitzka.
Perché – ha aggiunto appassionatamente Calenda – la ricchezza di Herlitzka è nella “parola”, che in lui si fa verbo, logos: da cui riesce a “far zampillare” la verità.
La regia video di Mauro Conciatori privilegia una ricca declinazione di inquadrature in soggettiva che sottolineano la ricerca e lo sprigionarsi di un autentico pathos della narrazione. Eloquentissime le soggettive di spalle, ricavate da un suggestivo gioco di specchi, metafora del teatro e del cinema in quanto metafora base della vita stessa.
Mauro Conciatori
Su un fondale che accosta la densità del muro alla leggerezza dello specchio, seduto sulla poltroncina n.3 del Teatrobasilica, estrapolata dalla platea per essere posizionata sul palco frontalmente al pubblico – presente nell’assenza così come solo il migliore degli amanti sa farsi desiderare – Roberto Herlitzka ha l’allure di una divinità, la cui trascendenza si rende enigmaticamente immanente.
Nei suoi occhi scorre la narrazione che si fa corpo attraverso la partitura di ogni suo nervo. Tutto in lui cerca e trova l’autentica restituzione della parola dantesca. Il respiro conduce della voce i ritmi, le direzioni, la partitura delle vocali, la rottura in commozione.
Roberto Herlitzka Credit: Photo by Maurizio D’Avanzo
E il pubblico ne resta rapito. Con lui si si meraviglia, con lui si indigna, con lui prova pietà. E al termine del film si libera, scatenandosi in un applauso che non riesce a trovare conclusione.
Consapevole che qualcosa che ha la cifra dello straordinario ieri sera è accaduto.
Fluidità: questa la parola chiave dell’elegante crasi avanguardistica realizzata dall’eclettico regista Roberto Latini. Quella cioè che permette, opportunamente dosando tradizione e tradimento, di rintracciare ed evocare l’intima meraviglia che lega due testi – “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo (1892) e “All’uscita” di Luigi Pirandello (1916-1922) – che scorrono tra un secolo e l’altro, quasi uno nell’altro, come dentro un fiume. Un fiume che produce e sa lasciare sedimenti. Fertili.
Latini ha l’attitudine alla creazione, alla creatività. Una qualità complessa che si modella sull’originalità del pensiero e sulla capacità di osservare da punti di vista inusuali. Questo suo spettacolo è infatti sia un rinvenimento archeologico che l’effetto di una fertile esondazione.
L’ habitat “naturalissimo”, eppure così meravigliosamente metafisico, in cui immagina di restituire e di restituirci il fascino del legame tra queste due drammaturgie fa propria la cifra dell’evanescenza, della nebulosità, dell’opalescenza: condizioni storiche, sociologiche e psicologiche autenticamente accoglienti, inclusive e quindi fertili. Umide. Come limo. Quel prezioso mix di terra e resti organici che resta ( appunto ) in sospensione sulle acque e che, proprio per questo suo essere sospeso, può essere trasportato. Può continuare a vivere e a far vivere.
Così come la creatività: una qualità alla base dell’attitudine umana di adattarsi alle circostanze e di adattare le circostanze a sé. Un’attitudine che va esercitata: attraversare la vita senza creare è puro ristagno. Intuire, invece, il modo inedito in cui combinare elementi antichi; chiamare a essere reale ciò che prima non era neppure immaginato; rinnovare lo stupore davanti a una creazione che prende forma davanti ai nostri occhi, questo sì può la creatività. E lo spettacolo di Roberto Latini che ieri sera in prima nazionale è andato in scena al Teatro Vascello di Roma ne è una testimonianza.
Così “quel che resta” della Commedia dell’Arte confluisce nel fiume del tempo insieme alla poesia del film muto, alla mobile rigidità della meccanizzazione dei gesti, agli echi dell’opera lirica, alla tentazione alla simbiosi con il fango, con l’istinto animale, con la lallazione onomatopeica. Contaminando preziosamente il gesto e il linguaggio. La finzione e la realtà. La vita e la morte.
Con un centro di gravità non permanente: la risata. In tutte le sue declinazioni. In tutti i suoi effetti. In tutti i suoi colori: il bianco, il rosso e il nero. Colori “elementari” che contaminano la drammaturgia scenografica, quella delle luci (di Max Mugnai), quella delle musiche e dei suoni (di Gianluca Misiti) e quella dei costumi (di Rossana Gea Cavallo) restituendo, soprattutto in alcune scene, quell’elegante e sublime bellezza dei quadri di Jack Vettriano. Risata fulcro dell’ambiguità insita nella profondità dell’animo umano. Chiave di lettura del mondo che scorre tra 800 e 900. E non solo. Smascheramento dell’ipocrisia e quindi epifania del vero.
Luigi Pirandello
C’è la risata prodotta e subita dal pagliaccio Canio; quella che ricorda la musicalità di un canto d’amore di Nedda – che qui in Latini è essa stessa pagliaccio, oltre che Colombina e poi la risata “scura della moglie dell’Uomo grasso. Anche lei pagliaccio. Geniale questa declinazione al femminile della maschera del “pagliaccio” che dal femminile si arricchisce di tutta la carica più straniera, più difficilmente traducibile dal maschile.
La risata ci parla, infatti, della nostra multiforme identità: ossessione che prende consapevolezza proprio in questo corso di tempo. E Pirandello non smette di immergervisi dentro. Già qui in questa novella del 1916 che già contiene quel limo che confluirà fino a “I giganti della montagna”. Senza arrestarsi.
Perché la natura dell’identità è qualcosa di sfuggevole. È un po’ uno straniero che ci preme dentro. Che vorrebbe rompere gli argini che noi per tutta la vita, infaticabilmente quanto inutilmente, ci assicuriamo di manutenere.
Perché la vita nella sua incontrollabilità fa paura. Ci eccede. E allora cosa c’è di meglio di darle la parola? Di farla esondare fertilmente? Di includerla cioè insieme a tutto ciò che ci dà una forma, in continua necessità di mutamento? Non farlo porterebbe inesorabilmente alla violenza.
Perché Canio esonda senza essere fertile, anzi procurando una duplice cessazione di un ciclo vitale? Perché l’amante della moglie dell’Uomo grasso arriverà a mettere fine alla sua sublime e vitale risata? Per il loro non riuscire ad accettare la fluidità della vita. Per non riuscire a morire alla vita per vivere alla morte. Per “il bisogno di costruire case ai sentimenti”.
Applausi emozionati per Savino Paparella, Ilaria Drago, Marcello Sambati, Elena Bucci e Roberto Latini
Questo spettacolo, che si avvale di interpreti straordinariamente fluidi ed efficacissimi – Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati e lo stesso Roberto Latini – ha il merito di restituirci quelle sinapsi più nascoste che fondano la storia del Teatro. E della vita: soprattutto in questo periodo storico in cui siamo così tentati dall’irrigidirci in posizioni decisamente poco fluide. Poco politiche. Poco inclusive.
Che cos’è l’amore se non un incontro speciale che riesce a interrompere il nostro normale scorrere del tempo, il nostro precedente modo di stare al mondo ?
Anche su questo ci invita a riflettere l’appassionante spettacolo di Alessandro Sena“Il tuo nome brucia sulle mie labbra”, andato in scena ieri sera in prima nazionale nell’avvolgente intimità del Teatro Belli, nel cuore di Trastevere.
L’amore ci fa fare esperienza della nostra massima apertura verso l’altro. Ma non sempre si riesce a fare un buon uso di questa nostra incondizionata apertura. E allora l’amore può trasformarsi nel luogo della chiusura, della prigionia, dell’ossessione, della ripetizione. Dell’assedio.
Alessandro Sena
Questa è la condizione in cui si trova la protagonista del libro “Un corp en trop” della scrittrice francese Marie-Victoire Rouillier, libro caso letterario in Francia negli anni ’80 per gli straordinari contenuti e la bellezza del testo, di cui Alessandro Sena ha curato la traduzione italiana e dalla quale ha tratto lo spettacolo “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”.
Non un adattamento ma un’autentica messa in scena di 20 lettere selezionate ed estrapolate dal libro, che ne raccoglie nella totalità 40: quelle che una giovane donna scrive e indirizza alla sua amata, ritiratasi in convento.
Lettere che – forse lette e poi accartocciate dalla destinataria o invece cestinati tentativi di seduzione, ritenuti non soddisfacenti dallo stesso mittente – giacciono a terra, ricoprendo quasi interamente il palco. Come un corpo che si offre e che ripetutamente viene rifiutato. Tocco scenografico potentissimo.
In una realtà come quella attuale in cui si tende spesso a irridere l’amore ritenendo che ogni amore nasca portando con sé la propria morte e quindi nasca con una breve data di scadenza, questo testo recuperato e addirittura tradotto in italiano da Alessandro Sena ha il valore di riportare appassionatamente l’attenzione sull’immensità alla quale l’amore ci apre e ci consegna. Anche se qui si tratta di un amore che non ce la fa a tollerare questa apertura incondizionata.
Attraverso una messa in scena ferocemente tenera, la regia della parola di Alessandro Sena trova la chiave per farci riflettere – sequestrandoci l’attenzione dell’anima – su che cos’ è il desiderio. Su come si nutra di tatto ma anche di segni di attenzione e di mancanze. E sul potere plasmante della parola dell’altro.
Ma la regia di Alessandro Sena non manca di sottolineare efficacemente anche quella tentazione tutta narcisistica che comunque può abitarci e che ci vorrebbe auto-fondanti. Nel dare corpo a queste due spinte contrastanti, il regista sceglie di scommettere su giovani promettenti interpreti: otto, tante quante le ombre che – come inquiline – abitano il condominio dell’inconscio dell’amante.
Le otto interpreti in scena – Angela Di Domenico, Erika Fusini, Chiara Iannacone, Francesca Mele, Sara Morassut, Marta Porfiri, Micaela Iago e Sania Ricchi – rapiscono il pubblico, che inconsapevolmente si lascia andare immedesimandosi a specchio con ciò che accade sulla scena. E sentiamo insistentemente queste ombre rotolarsi anche nelle nostre pance. La partecipazione è tale che un sublime silenzio ci lega tutti e solo momentaneamente ci libera in sospiri.
Sono ombre che acquistano corpo attraverso la densità delle voci, tutte diversamente e lacerantemente affamate d’amore. Ogni ombra fa di tutto per farsi ascoltare ma quanta struggente bellezza quando le ombre si compongono coreograficamente! I loro rituali ossessivamente circolari; la potente simbologia dell’amore simbiotico rappresentato attraverso l’insana sacralizzazione del rito della comunione (il peccato originale dell’amante); la loro rabbia vendicativa da Erinni; la loro ebrezza da Baccanti; la splendida liturgia di un Alleluja illuminato dalla sinistre luci delle candele, poste sotto i loro volti. E poi la brama finale: quella del tatto con la terra, con il suolo.
Ombre incapaci di amare davvero, cioè pur non essendo corrisposte. Non a caso, forse, il nome dell’amata non è mai pronunciato. E perciò brucia sulle labbra dell’amante che non c’è la fa a chiamarla per nome assegnandole un’autentica identità. Perché qui l’altra, l’amata, è una proiezione del sé dell’amante: non c’è nell’amante una vera apertura all’affascinante diversità dell’amata. C’è brama del suo corpo, delle sue attenzioni ma non decolla mai “un vero incontro” che, solo, può produrre una nuova nascita di se stessi e quindi una riconfigurazione del mondo esterno.
Non riesce l’amante descritta nel conturbante testo della Rouillier – ma non possiamo fare a meno di amarla anche per questo – a provare una sana curiosità per l’irriducibile diversità dell’amata. Una diversità che, anche se non corrisponde, non necessariamente deve portare a reazioni violente. Anche verso se stessi. E la regia di Sena non a caso non regala un corpo all’amata. Né all’amante: quelle in scena sono solo le sue ombre inconsce. Quelle che hanno finito, purtroppo, per “cibarsi” del suo corpo.
Accuratissima l’attenzione alla resa delle ombre. Un abito, identico per ciascuna, che esteticamente e registicamente è anche un habitus: un esuberanza castrata. Una seconda morbida pelle di stoffa nera, allora, si lascia stringere sul ventre da un’ambigua guaina contenitiva che ammicca alla seduzione di un reggi giarrettiera. Castrante però: ricco in ulteriori lacci velati, che ne suggellano la costrizione.
Uno spettacolo e un libro che ci parlano della difficoltà di amare e di amarsi. Ferite di cui Alessandro Sena riesce a fare lancinante poesia.
Ma quanto è bello un teatro abbandonato ! Di quanto fascino resta impregnato ! Non quello, certo, tipico di una florida attività commerciale. No. Piuttosto quello di un luogo che riesce comunque a farci da perimetro, lasciandoci però liberi di volare. Ancora.
Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma
Soprattutto se a scoprirlo per noi e a disvelarcelo, quasi come archeologi che sanno come muoversi tra le rovine dell’Arte, sono due “dipendenti” del mondo del teatro. Non quelli bagnati dalle luci della ribalta ma delle tinche teatrali: coloro, cioè, che generalmente si trovano ad interpretare solo piccole battute per di più di scarsa importanza nell’articolarsi della storia raccontata. Tortorella e Umberto sono delle tinche sì, ma innamorate perdutamente della vita: quella che fluisce continuamente dentro la magica scatola teatrale.
Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma
In questo epifanico spettacolo, che nasce da un’idea di Elena Bucci – che ne condivide la drammaturgia, le scene, i costumi, l’interpretazione e la regia con Marco Sgrosso e che trova nel disegno luci di Max Mugnai un sublime contrappunto nel riuscire a “portare alla luce” ogni “rinvenimento” dell’anima – tutto accade durante una notte di Capodanno. La notte più magica ed evocativa di ogni altro giorno dell’anno. La notte in cui inevitabilmente si ripensa a ciò che è stato e – titubanti ma anche eccitati – ci si apre ad un futuro tutto da inventare.
Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma
Spettacolarmente la scena si apre nel momento in cui – lontani dagli schiamazzi di fine anno – Tortorella e Umberto, prossimi al rinvenimento archeologico di un teatro diroccato e abbandonato, ne dilatano quel che resta della membrana-sipario. E quasi come entrando dentro il taglio di un quadro di Lucio Fontana, restano investiti da un nuovo “venire al mondo”. Nuovamente partoriti, i due sono invasi da una meraviglia totalizzante: che paralizza e insieme apre al desiderio di volare. L’interpretazione e l’uso della voce di Elena Bucci e di Marco Sgrosso è tale da rendere queste due spinte con palpabile metafisica. E assistervi come spettatore è un’estasi inebriante. La parola e il gesto passano, infatti, continuamente da una sorta di intorpidimento a una divina musicalità. Che rapisce. Perché “niente sta fermo” ma tutto fluisce in uno scorrere eracliteo. Dove anche la musica (è Raffaele Bassetti a curarne la drammaturgia e il suono) si mette a servizio della parola: ne cerca continuamente la radice, la sottolinea, l’accarezza, la segue quasi sussurrando. In un unicum di rara bellezza.
Elena Bucci (Tortorella) e Marco Sgrosso (Umberto) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma
Finalmente soli sulla scena, Tortorella e Umberto sono tentati di cogliere questa occasione per immaginare di essere, per una volta, ciò che non sono mai stati nella realtà: dei primi attori . In verità però su questa tentazione narcisistica finisce per prevalere ancora una volta la meraviglia. E quella che voleva essere un’esibizione individualistica, si impreziosisce di una sacra voglia di coralità e di altruismo. Perché loro sono l’Arte e non il Teatro. E al pronunciare le parole magiche “ti ricordi !?” vengono invasi – in un furore tra l’apollineo e il dionisiaco – dall’urgenza di riportare alla memoria, e quindi alla vita, tutti coloro che pur nei loro piccoli ruoli artigianali costituivano il “profumo” del teatro. Un insieme di funzioni – dal suggeritore al portaceste – che davano forma ad un micro linguaggio costituzionale del teatro. Un elogio del “piccolo” che piccolo non è. E come tale va salvaguardato, ricordato. Per tenerlo ancora in vita. Perché loro sono “gli antenati” e vanno menzionati non solo quale reticolo di indispensabili funzioni ma anche ricordandone i nomi e i cognomi. Perché “chiamare per nome” salva l’identità e cura l’unicità del valore di ciascuno.
Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma
Ma dalla preziosa rievocazione di Tortorella e Umberto prendono corpo anche i turbamenti degli “stregati” : gli attori, perennemente in bilico tra “sono io o sono il personaggio?” e che proprio in questa fluidità, in questo perdersi, ci restituiscono il meglio di ogni essere umano. Perché il loro non è un semplice “fare finta” ma un essere disponibili a restare “stregati”. Ogni volta. Sono “le belle bandiere”, duttili ad essere invase dal vento della follia: una disposizione d’animo umana e divina, di cui non si riesce a dare una definizione esaustiva e categorica. Così come avviene per l’amore. Perché porta sempre altrove. Ed è la magia di ogni improvvisazione. Gli attori sono un mistero: vivono nella speranza di lasciare una scia, di essere ricordati. Vivono ossessionati dalla memoria: dapprima da quella relativa alla fedeltà al copione e poi da quella che deriva dall’aver saputo tradire il copione stesso. Struttura, rigore ma anche libertà e ribellione. Perché questo è il Teatro. Perché questa è la Vita.
Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma
Uno spettacolo ricco e accurato come un archivio. Vivo, però: pulsante. Così attento al fascino delle minuzie da rapire. Totalmente.
Un teatro di ricerca, questo della Compagnia “Le belle bandiere” che si origina dal desiderio di imparare e di continuare a trasmettere il patrimonio tecnico-poetico dei maestri, in un fluire di esperienze e di pensiero.
Un teatro di incontri e di reciproche illuminazioni, che risveglia energie insospettate e nutre l’immaginazione.
Perché noi siamo chi abbiamo incontrato. E possiamo evolverci a seconda di chi e cosa vogliamo incontrare.
Perché apertura, confronto e curiosità sono necessità imprescindibili, nel Teatro e nella Vita: aiutano a prendere coscienza del proprio valore e dei propri limiti e a guardare il mondo da prospettive sorprendenti. Scongiurando l’autoreferenzialità.
Un Teatro sovversivamente amoroso – quello della Compagnia “Le belle bandiere” – di cui abbiamo un immenso bisogno.
Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma
Un libro da regalare a chi state per lasciare – o a ben guardare – a chi vi sta per lasciare.
Un libro che invita al piacere di sorprendersi: a stare nel caos vitale.
Un libro per amare. E per amarsi.
Un libro che inebria la fantasia.
La narrazione corre e prende forma come se uscisse dal pennarello di un illustratore di grafic novel, per poi trasformarsi in una sceneggiatura cinematografica. Michele Zatta è infatti sceneggiatore, produttore e dirigente di Rai Fiction dal 2008, nonché volto noto al grande pubblico in quanto co-ideatore e sceneggiatore di “Un posto al sole” e produttore di “Mare fuori”. Con “Forse un altro”, pubblicato nel 2022 dalla casa editrice Arkadia, Zatta approda a un nuovo genere di scrittura, pur con inevitabili contaminazioni, derivanti dalla sua durevole esperienza nel mondo cinematografico.
Michele Zatta, l’autore del libro “Forse un altro” – Arkadia editore
Accattivanti personaggi, infatti, contribuiscono a dar vita ad un geniale Olimpo contemporaneo. Ma è indiscutibile anche il richiamo alla struttura e ai temi dei “Morality play“: componimenti che ebbero larga diffusione nell’Inghilterra di fine Quattrocento – primi del Cinquecento e che narrano della danza della morte (dall’irruzione nella vita dell’uomo al successivo viaggio di purificazione).
Morality Play
Il prologo, shakespeariano, invita il lettore ad un fulgente uso dell’immaginazione; infatti il testo – avverte l’autore – è semplice, il vocabolario povero e la trama prevedibile. Ma non è proprio così: diciamo che è un modo per creare un effetto sorpresa davvero potente.
La fluidità della narrazione, che rende la lettura spesso compulsiva, non esclude allusioni allegoriche o sofisticate soluzioni nella resa dell’intreccio. La lingua è uno slang giovanile, informale, effervescente, fantasmagorico, di una tale ospitalità da accogliere in sé di tutto: da stralci di celebri canzoni (inserite non come citazioni ma come espressioni fagocitate dallo slang stesso) a riferimenti filosofici.
Nella sua essenza, l’interessante libro di Michele Zatta vuol condurre il lettore alla ricerca – il più delle volte divertita e divertente – della propria auto-consapevolezza. Obiettivo da anelare, ad un certo punto della nostra esistenza, visto che si viene alla vita “in una vettura di seconda mano”: scelta, in prima battuta, da altri (i nostri genitori).
Ecco allora che questo libro contribuisce ad essere l’occasione per arrivare a desiderare di diventare “Forse un altro”: ciò che noi consapevolmente vogliamo davvero essere. Come in una nuova nascita, questa volta di prima mano. Avviando e proseguendo per tutta la vita una bella manutenzione: non alle cose che ci circondano ma al nostro modo di stare al mondo.
La copertina del libro, non a caso, raffigura una finestra: simbolo di libertà, luogo del desiderio, immagine del divino. Eppure la finestra è sostanzialmente un vuoto, una mancanza di materia. Ma è proprio la sua inesistenza fisica a trasformarla in ricettacolo di senso. Perché quel varco nello spazio è un catalizzatore di storie e un attivatore dell’immaginazione.
Edvard Munch, “Il Bacio con la finestra”, 1892
Una finestra molto particolare ha scelto l’autore Michele Zatta: quella di un celebre quadro di Edvard Munch: “Il bacio con la finestra”. Il pittore dell’anima, anticipatore dell’espressionismo, inserì questo quadro nel ciclo pittorico Il fregio della vita, dove esplorò i temi dell’amore, della paura, della morte, della malinconia e dell’ansia: temi presenti anche in questo libro di Zatta.
Ma qui l’attenzione dell’autore è volutamente solo sulla finestra: sulle sue opportunità o sulle paure che alimenta. Perché la finestra è foriera di nuove chances. E di possibili incanti, da scovare anche nelle piccole cose di ogni giorno. Il libro è ricchissimo di indizi rivelatori: come – per citarne solo uno – quello relativo alla preziosità dei libri per la nostra vita, per la nostra rinascita. Michele Zatta immagina infatti di utilizzare libri, nella sua storia, per tenere in equilibrio mobili “azzoppati”. Sembra un’immagine decadente ma non lo è affatto: sono i libri, i loro contenuti, a fornirci un prezioso aiuto nella continua ricerca di nuovi equilibri vitali.
Questo testo, riadattato su sollecitazione del regista Marco Lucchesi e con Vincenzo Ferrera nei panni di Mike Raft (il protagonista), stava per debuttare al Teatro Eliseo nel dicembre del 2014, come commedia inserita nella programmazione natalizia, se non fossero stati apposti i sigilli al Teatro proprio alcuni giorni prima. Ma si sa “le cose non vanno mai come ci si aspetta”. Forse un altro percorso le attende.
E infatti “Forse un altro” viene presentato dalla scrittrice e giornalista Maria Pia Ammirati nell’ambito delle proposte degli Amici della domenica per ilPremio Strega 2023. Ed è arrivato tra gli ottanta testi che si sono sfidati per la dozzina.