Sono come gocce che si staccano da un liquido comune: è il brano musicale che li introduce a presentarli attraverso questa immagine.
Sono spiccatamente diversi e per questo “esclusi” dalla normalità.
Chissà perché non li definiamo invece “esclusivi”? Forse perché non siamo consapevoli che il loro sapere è precluso ai più; forse perché non riconosciamo in loro un valore prezioso. Insostituibile.
La regista Valentina Ghetti
Non c’è futuro nella separazione, nel diabolico atto dell’ escludere. È nell’inclusione, nell’integrazione, che sta il futuro: un futuro più saggio, più sacro. Al di là dei sussiegosi valori identitari.
La sofferenza – figlia della disattenzione e del non ascolto – “ha scolpito” i loro corpi e le loro menti. Ma loro sanno ancora interrogarsi: sanno chiedersi se un cambiamento sarà davvero possibile. Anche per loro, apparentemente così bloccati, così incastrati.
Si lasciano attraversare dagli stimoli previsti dagli esperimenti in programma: ma lo fanno creativamente. Paradossalmente questa loro “presentazione-esibizione” diventa l’occasione per tenere insieme le loro diversità. Non per continuare a classificarle.
E’ la parola, la prima magia di cui imparano a disporre: è il raccontarsi, tentando di tenere insieme tutto ciò che sfugge verso diverse direzioni.
Poi imparano ad ascoltarsi. Come nessuna delle loro famiglie “illustri” è riuscito a fare: loro “i figli di“, vip del mondo della cultura e della politica. Ma le loro famiglie così esclusive, li hanno inclusi nelle file degli ultimi.
Sono Eduard, il figlio di Einstein; Lucia, la figlia di James Joyce; Rosemary figlia di Joseph P. Kennedy; Giorgio figlio di Edoardo Agnelli; Albino il figlio di Benito Mussolini e Aldo il figlio di Palmiro Togliatti.
Il senso di vergogna – alimentato dai loro genitori – li ha nutriti modificando i loro caratteri fisici e psichici. Un nutrimento cesello di disagio, di condanna sociale.
Perché la vergogna è il sentire del fallimento, dell’errore privato dell’occasione del ritentare. Ancora e ancora. E’ l’inadeguatezza rispetto al proprio ruolo. È molto più dell’imbarazzo: la vergogna tocca corde profonde, identitarie.
Eduard, il figlio di Einstein (interpretato da Alessio De Persio) è un brillante musicista. Intercala i suoi racconti a delle improvvise risate, che hanno perso il confine con il pianto.
Lucia, la figlia di James Joyce (interpretata da Camilla Ferranti) è un’appassionata di danza. Indossa dei bellissimi guanti verdi, fatti di squame: ciò che resta di un abito che lei stessa si era confezionata. Per resistere.
Rosemary, figlia di Joseph P. Kennedy (interpretata da Caterina Gramaglia) è una dolcezza: ogni parte del suo corpo vive di torsioni, riccioli di grazia spettinata.
Giorgio, il figlio di Edoardo Agnelli (interpretato da Dario Masciello) è un tipo stylosissimo e fragilissimo.
Albino, il figlio di Benito Mussolini (interpretato da Leonardo Zarra) è un esperto di arti di difesa personale. La sua insicurezza lo spinge a nascondersi, continuamente.
Aldo, il figlio di Palmiro Togliatti (interpretato da Luca Di Giovanni) è un affascinante intellettuale, rigidamente solitario.
In tutti si sente che sono delle menti decisamente eccezionali. E gli interpreti in scena riescono a renderne liricamente tutta la loro insolita bellezza.
Si chiedono l’un l’altro da quale Paese vengono, loro da sempre esuli dalle loro origini.
Ma attraverso il desiderio di raccontarsi, stimolato dalle diverse occasioni sensoriali, ognuno scopre di non essere solo nella propria diversità ma anche parte di un tutto, di una comunità. “Mi ha fatto bene conoscerti” – si dicono.
L’autrice Roberta Calandra
Nelle “note di sala ” dell’autrice Roberta Calandra e della regista Valentina Ghetti si invita noi del pubblico a osservare scientificamente queste loro reazioni ai diversi stimoli. Ma è impossibile: c’è in loro una poesia che seduce e ti porta a stare “con” loro. Ed è bellissimo. E doloroso.
TEATRO ARGENTINA, dal 26 Novembre al 22 Dicembre 2024
E’ una commossa e spietata analisi dei nostri tempi, quella di cui Gabriele Lavia ci fa dono.
Il suo penetrante sguardo registico-attoriale indaga forse la più complessa delle tragedie shakespeariane, che non smette di raccontarci.
Una regia, la sua, che si dà con l’acutezza che fertilmente accompagna un’indagine semeiotica, che studia i sintomi e i segni della degenerazione in cui può incorrere la natura umana, intesa sia come physis che come psyché.
Ma soprattutto, questa di Lavia, è un’indagine che si appassiona a capire come giungere ad una possibile diagnosi. La cui cura, ci arriva attraverso accorati “a parte”, di spudorata bellezza.
Gabriele Lavia
“La bufera è qui !”: questa la sensazione fotografica che Lavia fa entrare negli occhi dello spettatore al momento dell’entrata in sala. E’ l’insinuarsi della tempesta, molto prima del suo effettivo scatenarsi. Una scena, dove regna la decadenza: quella del regno di Lear, certo, ma anche delle coscienze.
Una scena, luogo non solo fisico ma anche della psiche, dove le sedie tutte rovesciate ci parlano della perdita della loro funzione logica: quella di sorreggere, di accogliere, di far accomodare. Che cosa? Valori, costumi etici.
Dov’è finita l’arte dell’accoglienza dello straniero, del diverso da noi? Dove viene fatto sedere “il bastardo”, il povero ridotto a verme, la figlia sincera, l’amico leale?
L’inconsistenza delle apparenze, dell’ipocrisia, dell’egoismo, del narcisismo – “sintomi” del diffuso prevalere dell’istinto alla sopraffazione – non necessitano della funzione fisica ed etica delle sedie.
Ed è così che Gabriele Lavia inizia a seminare indizi nei nostri occhi, per dirci che è già in atto una tempesta che ha neutralizzato ciò che le sedie rappresentano, rovesciandole: rendendole inutili.
Non a caso lo spettacolo si apre con il Matto che esce da un baule: un luogo che accoglie, proteggendo o celando. Un luogo che conserva, che ricorda. Funzioni proprie della nostra zona inconscia della psiche, che si avvale di un linguaggio diverso da quello fondato sui principi della logica ma altrettanto colto, raffinato, creativamente enigmatico.
E’ il linguaggio sapientemente folle del Matto, che si traduce in musica e in canto. Al pianoforte: oggetto di scena pressocché immancabile in Lavia, quale specchio dell’anima che ci parla della continua ricerca dell’essere umano a esprimersi e a connettersi con gli altri.
Accanto al pianoforte prendono forma molte scene dello spettacolo: uno specchio nel quale a volte si osa guardarsi, mentre altre volte invece lo si preferisce infrangere. Specchio a cui qui allude un motivetto musicale, che poi tornerà come un pungolo in particolari scene dello spettacolo.
Su queste note-prologo entrano in scena, quasi un flusso di coscienza, tutti gli attori “nudi”: in un casual total black contemporaneo. A vista, poi, “indossano” il loro personaggio: variazioni di un robone (un ampio soprabito lungo fino ai piedi) rigorosamente sempre aperto: disponibile ad accogliere ogni evento, in un’imprevedibile risposta emotiva.
Un altro “segno” di tempesta immanente che Lavia ci fa “vedere con le orecchie” è l’insistere dei “tuoni”: onde di pressione provocata dalla reazione-fulmine di un personaggio, che può manifestarsi con un colpo secco e forte, oppure con un rombo basso e prolungato.
“Tuoni” che non raccontano semplicemente un fenomeno naturale ma che ci rammemorano il mistero della natura, attraverso quella notte nera e quel nulla che smarrisce. E al quale si è tentati di reagire con un “dal nulla non deriva nulla”.
E poi, c’è anche quel teatrino “gettato” là, da un lato della scena: “un segnale” di cui intrigantemente la regia di Lavia si servirà per denunciare una finzione da teatro nel teatro.
E ancora: quel telo-fondale la cui clandestinità è garantita precariamente dai mantegni a cui tentano di stringersi le corde. E che quando si lasciano andare rivelano la cruda e poetica spietatezza della realtà celata. Cadono i veli delle ipocrisie, dei pregiudizi, delle narcisistiche pretese ma è come se si manifestasse epifanicamente anche qualcosa di “sacro”. E’ la luce e l’energia che si propagano, quasi come una preghiera, nei momenti di più alto pathos. Come il riavvicinamento tra Lear e Cordelia nella nudità spenta di quei ventilatori, che prima avevano gonfiato una tempesta e che ora sono testimoni inconsapevoli quasi di una rinnovata “natività”, tale è la gratitudine tra padre e figlia.
Così com’é di struggente bellezza “sacra” la scena del desiderio suicidario di Gloucester, intuito dal figlio Tom che, in un amorevole inganno, ricerca e trova l’altezza della sedia che può tollerare l’idea della messa in scena (terapeutica) di un suicidio apparente. E’ quel sano concetto del “correggere l’altro” che nasce per un suo bene. E non per il proprio: pretesa che invece celava l’invito al correggersi di Lear a Cordelia, di fronte all’ambiguo tentativo della figlia di esprimere a parole ciò che invece si dà nella sua autenticità solo nei gesti. L’amore.
Ma prima dell’amore – che s’impara – viene la violenza, di cui invece s’impregna il nostro venire al mondo, all’insegna dell’istinto alla sopraffazione. Una violenza che può abitare i padri così come i figli: sapientemente “pulp” è la resa registica della scena di massima crudeltà, dove l’estirpazione degli occhi dal volto di Gloucester trova compimento in un capovolgimento della sedia, sulla quale viene legato in un rituale di dionisiaca perversione erotica. Declinazione di quella pulsione di morte, in cui è tentato a degenerare il nostro inconscio.
E poi il respiro, che si fa passo. E che parla di una sofferenza dell’anima, oltre che del corpo: commovente il passo-respiro-anima che denuda Lear, ma anche Gloucester. E i figli: le falcate “da cinghiale” assatanato delle due sorelle, così come la spavalda codardia di Edmund o l’arcaico camminare a quattro zampe dell’ Edgard-Tom. Quest’ultimo di un’insostenibile bellezza bestiale.
Mirifico il lavoro sulla voce di Lear: Lavia contatta e restituisce all’orecchio e al cuore dello spettatore tutta l’umidità della sua rabbia. Prima ancora di riuscire a trovare un varco attraverso gli occhi, il suo pianto infatti si manifesta ribollendogli in gola.
E ci arriva tutta la difficoltà di un padre a “saper tramontare”, ad eclissarsi, avendo egli rinunciato alla sua valenza simbolica di “padre-legge”: un peso di cui, ieri come oggi, i padri tendono “a sgravarsi”.
Ma venendo meno l’autorità di chi è deputato a porre un limite al “desiderio di essere tutto” dei figli, può succedere che i figli – se non si perdono – siano perversamente loro stessi destinati ad essere genitori dei loro padri.
E’ quello che vediamo rappresentato in Cordelia, in Edgard ma anche in Kent, autentico servitore e amico di Lear. Persone che nella loro giovane esistenza hanno colto la precarietà della natura umana così come il valore miracoloso della compassione e del perdono. Con questa consapevolezza, riescono a vivere il potere come un incarico: una responsabilità che grava e che non va scambiata con un punto di arrivo. Né con una presunzione di eternità. Piuttosto un’eredità da sostenere con gratitudine e creatività morale: imparando a rinunciare – o riuscendo a far buon uso – del superfluo.
Al termine dello spettacolo ci si scopre così coinvolti nella rappresentazione, che si fa fatica ad uscire da questa bolla onirica che tremendamente continua ad incantarci. E’ la difficoltà che si sperimenta quando a mala voglia si cerca di uscir via da un sogno. Istanti di sublime silenzio dai quali scaturisce e si scatena un formidabile applauso.
Filmati e proiezioni da Sylvano Bussotti, RARA (film) 1968/ 1970)
nell’edizione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Bologna
Grande emozione ieri sera al Teatro Vascello per la Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale dell’Operina monodanza in un atto di notte di Sylvano Bussotti “Syro Sadun Settimino o il trionfo della Grande Eugenia”.
Sylvano Bussotti fu Accademico Effettivo dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ma anche compositore e artista dalla tempra spiccatamente poliedrica. Era noto infatti anche come pittore, poeta, romanziere, regista teatrale e cinematografico, attore, cantante, scenografo, costumista e direttore artistico di vari teatri italiani (ricordiamo la Fenice di Venezia, il Festival Puccini di Torre del Lago, la Biennale Musica).
Sylvano Bussotti
Un lavoro quello del “Syro Sadun Settimino” che dai primi anni ’70 del Novecento non ha trovato ospitalità in alcun Teatro, a causa della scabrosa partitura teatrale. Nel 1974 riesce a vedere la luce – ma solo in forma di concerto – a Royan, in Francia. Poi cala di nuovo il buio su questo lavoro.
Ora, a tre anni dalla morte del suo autore (1931-2021), il Festival di Nuova Consonanza – alla sua 61 edizione – decide di proporre la messa in scena teatrale di questo lavoro al Teatro Vascello che -cogliendone tutta la preziosa visionarietà – decide di farlo venire alla luce scenica il 25 Novembre di quest’anno.
Un anno dal valore potentemente simbolico, in quanto segna “i 50 anni di r(e)sistenza” e di continua sperimentazione del Teatro di Giancarlo Nanni e di Manuela Kustermann. Un Teatro, il loro, che da sempre si nutre d’immaginario e che lo restituisce in spettacoli che riescano a solleticare il linguaggio inconscio di giovani e di adulti.
Dacia Maraini
Ecco allora che Dacia Maraini, alla quale Bussotti alla fine degli anni ‘60 aveva commissionato il testo per voce recitante, rimette mano al testo riuscendo ad esaltarne ancor più la profonda liricità.
Testo che in questa indimenticabile occasione è stato recitato dalla stessa Manuela Kustermann, amica storica di Bussotti: una creatura che continua a far sua la magia dello stupore di chi sa incantarsi di fronte al mondo e di questo incanto, incantare.
La partitura di danza e la coreografia sono state affidate al performer, coreografo e creatore transdisciplinare Carlo Massari, la cui cifra stilistica gravita intorno alla ricerca di nuovi linguaggi performativi, approfondendo l’ibridazione e la commistione tra le diverse discipline artistiche.
Alla formazione dell’Evo Ensemble diretto da Virginia Guidi è affidata la fascinosa partitura del Coro.
Il M° Marcello Panni
Al M° Marcello Panni, attuale decano di Nuova Consonanza e “direttore d’orchestra di fiducia” di Luciano Pavarotti, nonché protagonista di importanti collaborazioni con Berio, Bussotti, Cage, Feldman, Glass – è affidata la direzione dell’orchestra Roma Sinfonietta, di cui cura anche la suggestiva mise en espace. Panni era sul podio anche mezzo secolo fa con Bussotti quando l’opera vide la luce solo in forma concertistica a Royan.
In occasione dello spettacolo di Lunedì 25 Novembre, domenica 24 nella Sala Cinema di Palazzo Esposizioni Roma, il pubblico è stato invitato alla proiezione del documentario “Bussotti par lui-même” (1976, 74′) di Carlo Piccardi. Sono intervenuti Rocco Quaglia, Marcello Panni e Daniela Tortora i quali hanno mirabilmente evidenziato la crucialità di questo documento autobiografico che racchiude la memoria e suggerisce le prospettive inaugurate dal genio di Bussotti. Ripercorrere l’opera di Bussotti infatti non si esaurisce in un atto classificatorio, sia pur esteso ed approfondito dai ripensamenti critici, ma si dà come un procedimento attivo e costruttivo, in cui i dati singoli si lasciano carpire in significati nuovi, svelando essenze mutevoli e contradditorie.
Rocco Quaglia, Daniela Tortora, Marcello Panni
Si arriva così alla sera del 25 Novembre: sera della Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale di “Syro Sadun Settimino”. Ad introdurla, una presentazione curata da Alessandro Mastropietro, che ha coinvolto in fertile dialogo Dacia Maraini, Marcello Panni e Rocco Quaglia, coreografo, ballerino, collaboratore e compagno di una vita di Bussotti.
Mastropietro inizia con il disvelare cosa si celi dietro al lunghissimo ed enigmatico titolo che Bussotti ha amato attribuire a questa sua opera. La parola “Syro” consta della somma delle iniziali dei nomi dell’autore e di un suo amico: Sy(lvano) – Ro(mano); “Sadun” è il nome del pittore Piero Sadun, a cui è dedicato uno dei pezzi vocali dell’opera.
L’ispirazione arriva dall’ ”Histoire du soldat” di Stravinskij (1918), un classico del periodo. Ma poi Bussotti va molto oltre: ai sette elementi d’orchesta (da qui “settimino”) Bussotti aggiunge un pianoforte, duplica le percussioni, introduce un coro, un dicitore, nonché una coreografia più articolata. Così come articolata è la sua scrittura musicale, che s’insinua negli interstizi della parole e che a qualche livello fa del clarinetto l’io narrante.
Il sottotitolo esplicativo “Il trionfo della Grande Eugenia” introduce invece l’argomento dell’opera. La “Grande Eugene”, piccolo cabaret parigino portato a rapida notorietà dall’abile conduzione del coreografo e pittore Franz Salieri, è il centro della vicenda. In questo locale notturno frequentato da travestiti si ritrova infatti il protagonista, la cui storia viene rievocata partendo dalla sua nascita prematura: di sette mesi appunto.
La Maraini – celebre esponente del teatro di sperimentazione – interviene per raccontare come Bussotti le chiese un testo lirico, narrato in prima persona, espressione di una particolare duttilità di sentire: capace di muoversi tra le maglie del maschile e lo scatenamento proprio del femminile. Pulsioni così vibrantemente coesistenti nell’indole del giovane protagonista.
Rocco Quaglia aiuta invece lo spettatore ad entrare nella fenomenologia dell’opera, rivelando ad esempio che l’ occasione fu data da un giovane di nome Michel, nato di sette mesi, in una famiglia di clavicembalisti.
Marcello Panni ci confida con luminosa emozione che riprendere questa opera di Bussotti era un suo grande desiderio, che finalmente questa sera raggiungerà il suo compimento.
L’Operina alterna – con sorprendente originalità – parlato, cori a cappella, balletto e un ensemble strumentale su una scenografia mobile di filmati e proiezioni da “Rara”, film di Sylvano Bussotti (1968-1970) nell’edizione restaurata dalla Cineteca di Bologna.
L’attenta partecipazione degli spettatori in sala alla pluri sollecitazione fisica e psichica dell’opera, dimostra la capacità di Bussotti ad aprire la sua densità creativa in un movimento che riesce a coinvolge un pubblico vasto ed eterogeneo, attraverso differenti possibilità di accesso al fatto musicale.
Ed è così che ci arriva la consapevolezza gioiosa di un giovane venuto al mondo in una modalità diversa. Ma comunque leale, degna di onore: onesta. Commovente il suo stupore di sentirsi ricco e lussureggiante come uno smeraldo: una pietra che parla di rinascita, crescita spirituale, rigenerazione, speranza. Una pienezza, un’armonia, che però in quanto tale scandalizza e che quindi va falciata, spennata, resa incapace di spiccare un suo volo.
Ma la sua sarà una duttile resistenza, nonostante l’immanente fragilità che lo rende predabile. Insistente sarà, la sua duplice tensione al maschile e al femminile che riesce ad esprimersi virtuosamente nella danza. Calda come la terra che lo ha generato, una “terra d’agosto che sa di coito”. Non a caso nasce di sette mesi: sospinto da una gioia eccessiva. E dall’urgenza di ballare, per esprimersi pienamente. Laddove tutti lo vorrebbero “sedentario e musone”.
Una tensione visualizzata da quella lirica dialettica che s’instaura cinematograficamente, ma non solo, tra il suo aprirsi all’avventura del mare e l’essere trattenuto dalla terra, che affonda, come su sabbia, i suoi slanci. E che contribuisce a disorientarlo al pensiero di scegliere – e quindi di rinunciare – ad una parte di sé, così essenziale.
Una tensione caratteristica dell’opera e della personalità di Bussotti: quel sistema di contraddizioni in continua espansione che fa delle relazioni e dei nessi, qualcosa che può essere colto nel suo complesso.
Qualcosa che lo spettatore è catturato a decifrare a vari livelli, divenendo protagonista di un’esperienza di straordinaria bellezza.
Assistere a questa Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale del “Syro Sadun Settimino o il Trionfo della Grande Eugenia” è stato un grande dono.
Ieri sera l’Accademia del Teatro Argot Studio ha ospitato Pietro il Rosso: la scimmia che in 5 anni ha raggiunto un livello d’intelligenza di un uomo medio.
Per la sua relazione è stato predisposto uno spazio, abitato da una struttura geometrica, che non manca di alludere al gusto e alla funzionalità di un verticale intreccio vegetativo di foresta. Una splendida metafora della tensione che abita ancora l’ospite della serata. Tensione suggellata da due linee di neon, che ricreano parzialmente una struttura contenitiva.
L’entrata in sala dell’ospite è stata preceduta da un servitore in livrea a lui dedicato, incaricato della cura del luogo e dell’ospite.
Ma ecco che si odono passi. Uditivamente, e poi visivamente, l’andamento risulta insolito, quasi baldanzoso: una compensazione del ritmo e del gesto della brachiazione.
Il servitore, quasi un servo di scena, lo aiuta nel togliersi il cappotto e il cappello ma Pietro il Rosso, nonostante la tensione al contegno geometrico, appare vagamente disorientato e maldestro. Più volte gli cadono cose dalle mani. E, dopo aver misurato e verificato lo spazio che lo sta ospitando, si rassicura estraendo dalla sua cartella una banana. E’ un rituale: basta guardarla e toccarla.
Ora può estrarre i fogli della relazione. E con l’agilità di un balzo, sale sullo sgabello e si aggrappa al leggio, come ad un ramo.
Tommaso Ragno è Pietro il Rosso
Inforca gli occhiali: le sue prime parole “Illustri Signori …” escono incertamente, come conservando un’eco di quel disorientamento appena rivissuto. Ma è un attimo. Con uno scatto si alza in piedi sullo sgabello e la voce sale per proseguire e ringraziare. Il suo, ora, è un andamento di lettura che procede (quasi provocatoriamente) come quello di un bambino delle scuole elementari: a comando. Ma poi, quando arriva il punto in cui dice che noi Accademici gli abbiamo chiesto una relazione sulla sua precedente vita di scimmia, tutto cambia. Si ferma. E, tremante, si toglie gli occhiali dicendo: “non mi è possibile”. Colpo di scena.
Adesso, per tentare di spiegare non ha bisogno di leggere, tanto che socchiude gli occhi come trasportato da un senso di ricordo. Dal quale, però, non riesce ad attingere informazioni: è un periodo della sua vita come rimosso, nel momento in cui – ferito e catturato – ha preso la decisione di “tradirlo”, fuggendo verso un altro sapore di libertà.
In questo senso una “relazione” intesa come “resoconto di informazioni” non gli è possibile. Può invece, “entrando in relazione con noi”, raccontarci di come ha imparato ad entrare in relazione con gli uomini.
Una relazione “utile” ma non “fertile”: pur avendo condiviso insieme esperienze di vita, gli uomini che ha incontrato si sono sempre mantenuti “a distanza dalla barriera” tra le loro diverse nature. E, anche lui, non è mai stato davvero attratto dal loro modo di stare al mondo.
Ma, consapevole che una vita da scimmia non gli sarebbe più stata possibile, realizza (“calcola”) che non gli resta che fuggire alla scoperta di una vita da uomo. Il segreto per riuscirci – ci confida – è stato quello di eliminare progressivamente dalla propria natura “ogni ostinazione”: segreto di ogni relazione umana. Ed è curiosamente provocatorio come Kafka ci inviti a prendere lezioni da una ex scimmia, per capire “come si diventa un uomo”.
Quello che Pietro il Rosso ha imparato per dovere, per necessità (“mi sono piegato”), nel nostro stare al mondo può essere la magia dell’incontrarsi e del contaminarsi vicendevolmente con l’altro. Con uno sguardo. Con una stretta di mano. Con un bacio.
Ed è di strabiliante bellezza come questo Pietro il Rosso di Tommaso Ragno sappia sottolineare poeticamente certi passaggi della relazione: elevandosi ora ad un allure metafisico-ieratico, ora invece ad uno spleen spudoratamente animalesco, balzando giù dallo sgabello verso di noi.
E poi c’è il suo respiro: l’inspirazione è sempre silenziosa ma l’inspirazione invece si sente, proprio là dove serve. E ci arriva tutta la tempesta di un’entità che si muove tra minaccia e piacere.
E ancora, la rabbia del nome ricevuto in sorte: un nome che non lo identifica, che lo riduce a qualcosa di insignificante come una lieve ferita al viso. Anche qui Kafka è tremendo: rende consapevole di una finezza esistenziale una ex scimmia, quando noi umani spesso neanche ci facciamo caso al nostro “essere fatti dagli altri”.
Ma non è tutto: Kafka desidera – proprio attraverso questo racconto – renderci consapevoli di come nonostante ciò – nonostante cioè siano gli altri a darci un nome, a immaginarci, a educarci, a trasmetterci i loro desideri – ognuno di noi, proprio come Pietro il Rosso, può fare qualcosa di proprio di quello che di lui hanno fatto gli altri. Qui è la misura della nostra libertà. Un po’ quella “via di fuga” di cui lui ci parla continuamente.
Via di fuga impossibile da raggiungere senza il secondo segreto: se il primo era quello dell’eliminare “ogni ostinazione” dalla propria natura, il secondo è quello di “osservare” molto bene gli uomini. Con calma. Prestare loro attenzione: dedicare loro tempo, per rimanerne contagiato.
Nella circolarità di un rituale, la relazione giunge al termine e si conclude con un’anticipazione di ciò che accadrà in albergo, dove una piccola scimpanzè semi addestrata lo sta aspettando.
Il cui sguardo, se incontrato di mattino – ci confida Pietro il Rosso – diventa inquietante come uno specchio: c’è qualcosa in esso che va al di là della possibilità offerta dal linguaggio. Ma che su di esso spinge. Ed è un qualcosa che può solo essere visto: un animale addestrato e confuso.
Proprio come quello che Tommaso Ragno ha mirabilmente cercato di renderci visivamente attraverso quel disorientamento maldestro di cui era preda, prima che iniziasse la relazione, il suo Pietro il Rosso.
“Ma non si dica che non ne è valsa la pena”- conclude il Relatore.
Ed è proprio così: tentare di entrare in relazione con un altro, inteso come qualcosa di diverso dalla nostra natura, è ciò che dà più sapore al nostro stare al mondo.
Il mistero è ciò che meglio ci racconta come individui: la sua penombra è quell’habitat fisico e psichico in cui riescono ad esprimersi le molteplici personalità che ci rappresentano.
Differentemente da quanto accade alla luce del sole, dove invece scegliamo di palesare qualcosa di selezionato: il nostro “dover essere”.
Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che ci capita di fare.
Non è la volontà a parlare di noi, quanto piuttosto l’istinto, le nostre pulsioni più personali – dirà la Donna in scena (una Giulia Morgani efficacemente enigmatica).
E’ il sapiente disegno luci del regista Claudio Boccaccini ad immergerci in questo nostro “poter essere“, che ama stare in penombra e che così efficacemente ci dispone a prestare ascolto al mistero che ci abita. Quel mistero che, in una geniale esemplificazione, vedremo rappresentato in scena.
Ed è così che dalla penombra iniziano a prendere corpo delle voci: una donna insiste per poter entrare in un appartamento dove da poco si è consumato un delitto. L’uomo che è in possesso delle chiavi e che potrebbe gestire la situazione non riesce invece a prendere una decisione. Continua a ripetere “preferirei non entrasse”. E poi, ancora senza troppa convinzione, l’accompagna.
Entrambi non hanno un nome. Opportunamente l’autore Giuseppe Manfridi – uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo e che già in occasione della prima rappresentazione di questo testo (andata in scena al Teatro dell’Orologio esattamente trenta anni fa) ottenne un grande successo – non affida loro un solo nome. Perché ciascuno di loro, tutti li racchiude. L’Uomo e la Donna in scena infatti parlano di noi, in quanto rappresentano parti della nostra psiche.
L’Uomo (un irresistibilmente nebuloso Stefano Scaramuzzino) ha quel qualcosa di tapino disneyano e di inquietantemente inafferrabile, che per certi versi ricorda il Bartebly di Melville.
La Donna invece è come se parlasse una lingua diversa: è misteriosamente raffinata, osserva tutto preferibilmente di nascosto, ama indossare guanti. Rappresenta il linguaggio proprio della nostra parte più inconscia.
Nonostante la sua apparente mediocrità, anche l’Uomo odora di clandestinità. Quella che cela è una profumazione più subdola rispetto a quella indossata dalla Donna, dove invece si intuiscono note di un sensuale afrore.
Entrambi, anche se in modo diverso, ci parlano del nostro essere mistero anche a noi stessi. Un mistero che, pur zelantemente nascosto, in certi frangenti manifestandosi violentemente perché troppo a lungo represso – infrange ogni illusione di integrità e di univoca identità personale.
L’appartamento in questione, quello dove insiste a voler entrare la Donna, prima che del delitto si macchia dell’onta dell’ “estraneità”: con il suo essere stato “messo in vendita” (anziché continuare a seguire la prassi della successione di padre in figlio) ha rotto l’ordine sul quale per l’Uomo si reggeva il condominio. Il suo.
Un condominio che qui non è infatti solo un luogo fisico ma anche il luogo della psiche dell’essere umano, dove “l’estraneità” è rappresentata dal “diverso”, ovvero da ciò che risulta “straniero” al nostro “dover essere”.
Un’ estraneità di cui anche la Donna, spudoratamente, si fa interprete: lei – che non a caso – ha sempre sulla bocca la parola “piacere”, risulta profondamente destabilizzante per Lui che si definisce “uomo dai pruriti improvvisi e ostinati”.
Lei è infatti colei che insiste: atteggiamento proprio del nostro desiderare. E poi è colei che tentenna nel “restituire” ciò che custodisce (qui, la spilla e il tappo): materiali “rimossi”, necessariamente da recuperare per superare e quindi risolvere un evento traumatico (qui, il delitto).
Ed è così che lo spettatore – per effetto dell’intrigante sinergia tra l’estro drammaturgico di Giuseppe Manfridi e l’estro registico di Claudio Boccaccini – si ritrova ad addentrarsi in quella misteriosa “stanza al buio”, attraverso una modalità insolita ed accattivante : quella di un Thriller.
Lo spettacolo resta in scena al Teatro Belli fino al 24 Novembre p.v.
Desiderare essere desiderati dal desiderio dell’altro è una tensione vitale che ci eccede. Supera la nostra capacità di stare al mondo. Può non trovare argini nella saggezza, né nella volontà. Ed è così, fino all’ultimo dei nostri giorni.
Ce ne parla con indulgente ferocia questo spettacolo di Emma Dante: una riscrittura, la sua, di una favola tratta da “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille” di Giambattista Basile (1634). Una raccolta di 50 favole, raccontate in 5 giorni da 10 vecchie donne il cui nome, in napoletano, ricorda il difetto che le contraddistingue.
Emma Dante
Con “La scortecata” la Dante riprende e rielabora la favola de “lo trattenimiento decemo de la iornata primma”: Rosina (104 anni) e Carolina (99 anni) sono due sorelle per le quali la vita è diventata un peso. E sognano la morte come una liberazione dal tempo, che la noia tende a far stagnare. I loro ruoli sono affidati dalla Dante a due uomini – Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola – interpreti di mirabolante bravura.
Carolina è la più insofferente e fin dall’inizio ci confida che desidera ardentemente “prendere una scorciatoia per i campi celesti”.
Nell’attesa, si tengono vivacemente impegnate ad immaginare di essere protagoniste di una storia d’amore (“a noi non ci ha mai voluto nessuno”). E siccome quando si sogna lo si fa in grande, loro sognano una storia d’amore con un re.
L’eros spazza via la loro malinconia tanto che, nello stabilire chi delle due potrà sedurre il re, decidono di intavolare una competizione su chi riuscirà – almeno nella superficie ridotta del dito mignolo – a raggiungere una levigatura e una morbidezza di pelle migliore. Per raggiungere questo obiettivo sono d’accordo che sia necessario succhiarsi il dito con zelo.
Sebbene siano entrambe ripiegate su loro stesse a causa di un’artrosi deformante, non desiderano tanto ritrovare una postura eretta, quanto una pelle liscia e tonica. La pelle ricopre tutto il nostro corpo ed è il nostro involucro, ciò che delimita il nostro mondo da quello esterno. E’ la nostra barriera ed attraverso di essa esprimiamo ciò che siamo, i nostri stati d’animo e le nostre emozioni. Sulla pelle sono disegnate e trattenute tutte le nostre memorie esperienziali e le emozioni che le hanno accompagnate. Desiderare una pelle nuova significa allora desiderare una vita nuova.
La Dante – da sempre appassionata dalle storie di famiglie, in quanto è in questo microcosmo che prende forma un individuo – immerge i due attori in un’epifania, che si manifesta dentro una scena vuota. Fatta eccezione per due seggioline e un castello in miniatura, che materializza il loro sognare diventare regine. In verità di una scenografia non se ne sente affatto il bisogno: i due attori sono loro stessi poetico paesaggio. Attraverso la loro lingua – un dialetto napoletano di strada dal sapore vagamente arcaico, che si traduce in una mirabile riscrittura sui loro corpi acciaccati ma non intorpiditi – sono gustosamente il contenente e il contenuto della scena.
Ma non tutto invecchia in un corpo centenario: la favola ci racconta che in verità il re resta sedotto dalla voce di Carolina, tanto da scambiarla per quella di una giovane vergine. Esiste quindi un corpo, quello della voce, che può mantenersi vivo e continuare a regalare vibrazioni ma quando poi il re si reca da Carolina per conoscerla, lei si palesa solo attraverso il suo mignolo, per il quale il re impazzisce.
Carmine Maringola (il re) – Salvator D’Onofrio (Rosina)
Arriva così il momento dell’incontro d’amore ma i due – sebbene siano distratti da odori e sapori poco giovanili – trasportati dalle note veloci ed eccitanti di un mambo trascorrono una notte d’amore.
Ed è stupefacente vedere come all’estro registico della Dante – complice la solida e multiforme interpretazione degli attori – basti un telo bianco, che alluda ad un letto e che poi plasticamente venga coreografato in movimenti di avvicinamenti e di allontanamenti eroticamente sagaci, per far sognare ed entusiasmare lo spettatore.
Ma al risveglio il re vede con gli occhi chi è Carolina e la allontana per la sua bruttezza e vecchiezza. Tramutata in giovane donna da una fata, viene poi ripresa dal re, ora in moglie. Anche qui, per raccontare una notte d’amore solleticando l’immaginazione dello spettatore, la regia della Dante ha solo bisogno del suo irrinunciabile baule, dal quale far uscire quella polvere di stelle che si materializzerà dapprima in un profumatissimo talco per impreziosire la pelle e che poi darà forma ad una fulgente parrucca e ad una veste. Per suggerire meraviglie, come dietro ad un ventaglio.
Carmine Maringola (Carolina) – Salvator D’Onofrio (il re)
Con il finale Emma Dante introduce un cambiamento: alla sua Carolina non basta il divertimento dell’immaginazione, offerto dalla favola. Non basta la seduzione del far immaginare. In lei eccede la consapevolezza di non essere mai stata desiderata dal desiderio di un altro. A maggior ragione adesso che è così invecchiata, come impietosamente gli occhi rivelano. Il suo, non è tanto un peccato di vanità, come nella favola di Basile: la Dante allude ad una nostra natura, ad una condizione esistenziale che ci accomuna tutti.
Ma si può ancora fare qualcosa, secondo Carolina. C’è ancora un altro “sogno” che può accompagnarla più vicino ai campi celesti. E ancora una volta sarà Rosina ad aiutarla.
Uno spettacolo che ci rapisce gli occhi e il cuore. E che – pur posando lo sguardo su una nostra tensione esistenziale – ci dimostra con allegra spietatezza come anche la vecchiaia possa essere arditamente, eversivamente, estrosamente, erotica.
E’ nebbia, è paradiso, è inferno, è pensiero, è fantasia, è delirio, è viaggio. E’ una sensazione attiva e passiva essere Lolit*.
Sono coloro che – dalla politica al marketing pubblicitario, dalle relazioni lavorative a quelle amorose, dalla scuola alla famiglia – ci seducono e quindi riescono a portarci da un’altra parte (la loro) rispetto al nostro desiderare.
Si avvalgono del potere dell’immaginario, del sembrare qualcosa di diverso da quello che in realtà sono e che sanno che ci piacerà irresistibilmente. Perché essere Lolit* significa anche studiare la propria preda, per poi rendersi perdutamente desiderabili ad essa.
E’ una sensazione così inebriante cadere nell’incantesimo dei Lolit*, da renderci barbari.
Francesca Macrì e Andrea Trapani – Biancofango –
E il primo “specchio” nel quale i BiancofangoFrancesca Macrì e Andrea Trapani ci lasciano riconoscere, è racchiuso in quell’esasperato-grottesco-convulsivo “Brav*, brav*”, che veicola il sottotesto “t’appartengo”. Noi, risucchiati in una dinamica come quella descritta dal brano che va in sottofondo e che rese celebre l’Ambra Angiolini di “Non è la Rai”, emblema di quelle che Umberto Eco definì “le nuove Lolite”.
Perché “t’appartengo” significa accettare la dittatura seduttiva del “e adesso giura!”, al quale siamo portati a rispondere: “io ci tengo e se prometto poi mantengo”.
Ma arriva un contrappunto: “Ve lo meritate!” . E’ quello di Andrea Trapani, un pò “il fool” dello spettacolo.
Andrea Trapani
E come siamo arrivati a questo?
All’indomani del “dio è morto” nietschiano: caduti i valori morali che ci stutturavano, abbiamo assaporato lo stordente sapore della libertà dell’”io ora posso essere dio”. Ma all’ebbrezza si è affiancata inaspettatamente l’angoscia. E quindi il nichilismo. Evapora così la funzione simbolica dei padri che attraverso la legge dei valori sapevano mettere un argine, un limite, all’erranza dei figli. Figli che, a loro volta, vivono l’angoscia della “troppa libertà”, conseguenza dell’assenza o dell’invasione emulativa dei genitori.
La docu-performance si articola grazie alla sinergia con un coro di cittadine e cittadini – Vera Borghini, Tina Cannavacciuolo, Luciano Ciamillo, Daniele Di Lazzaro, Daniela Iannola, Francesco Lepore, Giuseppe Prestano, Pasquale Rispoli, Claudio Sacchi, Antonia Stazi – intorno ad un interessante sguardo dialogante tra dentro e fuori, tra prima e dopo, tra (il credere) essere attori e l’essere spettatori di una stessa realtà. La narrazione prende avvio “dai moti rivoluzionari degli anni ’90 del Novecento”, dove ci siamo fatti persuadere dall’ambigua capacità retorica di alcuni “dei” della scena politica e sociale. Maschere che nel cerchio magico al centro della scena vengono “smascherate”, decodificate, nella loro ambiguità prossemica e posturale.
In un gioco di cerchi concentrici, anche la platea viene coinvolta nel processo di riscostruzione di una distruzione deformante. E se ancora non fossero state sufficienti le parole, le immagini, i gesti, a scuoterci arrivano i volumi e i ritmi dei suoni, resi stroboscopici come luci.
Eredi di questo inquietante sistema, sono i nostri figli pre-adolescenti ai quali non abbiamo in verità lasciato alcuna eredità, alcun imprinting che possa fornire loro gli strumenti per orientarsi nel loro essere “giovani”. Ansiosi senza riuscire ad arrivare ad essere rabbiosi, li abbiamo abbandonati al loro “risveglio di primavera”, che con modalità opposte continua a produrre gli stessi effetti di 133 anni fa, quando nel 1891 uscì il testo denuncia di F. Wedekind.
Noi, che ci siamo lasciati sedurre da chi ci diceva: “Lascio ai miei eredi tutto quello che bisogna inventarsi per essere ancora giovani”. Una sorta di maledizione. Perché i nostri figli – da noi condannati perversamente ad essere le nostre guide – si sono “inventati” modalità di attenzioni dispenser da consumare a scadenza. Voracemente affamati di amore, di cure, di attenzioni. E di regole, necessarie per il formarsi di un fecondo desiderare: regole da interiorizzare per farne propri criteri critici con cui affrontare l’età adulta.
La docu-performance si conclude con un ultimo affondo: un commosso rammarico-rimprovero da parte di chi ora è ancora nell’età dell’infanzia ma che a breve si affaccerà alla pre-adolescenza. Sulle note di un hendeliano “lascia ch’io pianga mia cruda sorte/ E che sospiri la libertà” di irresistibile bellezza.
Un fare teatro questo della docu-performance dei Biancofango – che rientra in una costellazione poetica dedicata al tema di Lolita – che dà vita a un nuovo genere di fare teatro, in cui si uniscono e si contaminano elementi artistico/fictional con elementi documentaristici, raccolti nel corso di una serie di laboratori realizzati dalla compagnia in svariate realtà italiane.
Un lavoro che scuote tutte le nostre corde, per ridestarci da questo stato di delirante annebbiamento delle coscienze, che troppo spesso ci fa dimenticare il vuoto emotivo ed esistenziale in cui stiamo abbandonando i nostri figli e i figli dei nostri figli.
Noi – che ci siamo ritrovati incapaci ad invecchiare e a saper tramontare acquisendo sapienza da trasferire – siamo tentati a regredire perversamente nella nostra seconda adolescenza. Illusi che più che energici riferimenti genitoriali, i nostri figli abbiano bisogno di noi come amici alla pari.
Ma la struttura del lavoro dei Biancofango ci suggerisce anche come si renda necessario e possibile costruire su nuove basi un fertile dialogo.
Perché la nuova generazione ha diritto al formarsi di una propria identità ontologica, impossibile senza il contributo formativo di adulti che riacquisiscano la loro funzione formativa, capace di generare in loro un autentico modo di desiderare.
Metti una sera al Basilica con la platea insufficiente ad accogliere un’onda di ventenni;
metti 5 interpreti del collettivo “Gruppo della creta” in scena con una performance ispirata alle opere di Juan Rodolfo Wilcock;
metti un titolo “Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso”
ne scaturirà una pubblica manifestazione di consenso e ammirazione.
Juan Rodolfo Wilcock (1919 – 1978)
I giovani hanno apprezzato l’idea di una performance-rituale, musicalmente accogliente, libera da una rigida architettura. Come la scena: un luogo della mente abitato da un unico oggetto di scena – un divano gonfiabile bianco – nella duplice valenza etimologica di luogo di confine e di luogo poetico.
Ma niente di statico, però: proprio così come nel mondo persiano, le decisioni più importanti erano prese nei divani a cavallo (riunioni condotte in sella) così, qui, il divano è l’occasione per fare altro.
Interrogarsi, ad esempio.
Un interrogarsi immaginato come un movimento rituale con un dentro e un fuori dal confine della dogana-divano: quasi un’area psichica inconscia, foriera di continue domande. E identificata in un tronco nudo e secco.
In effetti è questa la struttura della performance: un rituale tra una parte e l’altra del confine, tra conscio e inconscio, tra domande e risposte, non necessariamente chiare ed esaustive. Ma in rapporto osmotico.
E’ il ritratto di una generazione, quella attuale, che s’interroga sulla morte, sul sesso, sulla verità. Meno sul successo. Lo fa con dolcezza sensuale ma anche feroce. Ma ciò che conta è non smettere di interrogarsi.
E poi continuare, sempre, ad immaginare.
Come Wilcock raccomandava a suo figlio:
“… Ricorda che c’è una sola cosa/ affermativa, l’invenzione; /il sistema invece è caratteristico/della mancanza d’immaginazione./Ricorda che tutto/ accade /a caso e che niente dura, /il che non ti vieta di fare/ un disegno sul vetro appannato,/né di cantare qualche nota/ semplice quando sei contento;/può darsi che sia un bel disegno,/che la canzone sia bella: /ma questo non ha certo importanza, /basta che piacciano a te…”.
E immaginando, vivere. Anche, in attesa di passare all’atto, stazionando su un divano: luogo-dogana in cui si trasportano le energie prima di introdurle nel paese di destinazione. Immaginando come poter arrivare lì, dove si desidera andare. Perché, come diceva Wilkock:
“Vivere è percorrere il mondo attraversando ponti di fumo; quando si è giunti dall’altra parte che importa se i ponti precipitano. Per arrivare in qualche luogo bisogna trovare un passaggio e non fa niente se scesi dalla vettura si scopre che questa era un miraggio”.
Una performance, questa del Gruppo della Creta (qui in scena Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia, Alessandro di Murro) che fotografa una criticità attuale e ne propone una lettura non necessariamente fatalista. Anzi, incline a quella propositività dello “stessere ciò che c’incuora” di cui parlava Wilcock:
“Ripudiamo la facilità/come si allontana un serpente;/la facilità/dissolvente quasi-verità./ Del pensiero troppo ordinato/scoraggiamo la seduzione;/negli eccessi dell’argomentazione/non sperperiamo il nostro legato./Cerchiamo soltanto di stessere/dal tessuto di ogni ora/ciò che ci nutre, ciò che/c’incuora,/ l’universalità dell’essere.
La platea sembrava respirare assieme agli interpreti, tanta la partecipazione.
Può sembrare incredibile, ma per superare un dolore occorre aprire ciò che di solito resta chiuso. Come quando istintivamente sospiriamo, e apriamo gli alveoli polmonari che di solito restano chiusi durante la respirazione normale.
Sospirare è la prima cosa che fanno spontaneamente sia Jennie che George, i due protagonisti che hanno subìto rispettivamente un lutto e una separazione. Entrambi sono stati lasciati soli.
Sospirare, a qualche livello, aiuta a poter “tornare”, a poter ricominciare. Infatti laddove il respiro (che è vita) subisce cali di frequenza, è il sospiro che – nello spezzarne il ritmo – lo resetta.
In soccorso di George e di Jennie, che si stanno chiudendo in loro stessi, arrivano il fratello di lui (Leo) e l’amica di lei (Fey). Per attivare un reset o, per dirla con Fey, “per ridipingere la vita”. Perché noi umani siamo fatti per vivere in relazione e di relazioni.
Massimiliano Civica
Massimiliano Civica – pluripremiato regista teatrale e acuto direttore artistico – ama indagare l’animo umano. Lo fa attraverso la messa in scena dell’incontro-scontro tra possibili diversità di “essere”. Il suo teatro è una vera e propria esperienza esistenziale: un teatro dell’umano e sull’umano che – evidenziando la permanenza di alcune questioni fondamentali – prende la forma di un rito. Per apprendere – attraverso un ascolto partecipato – sempre qualcosa di più sulla vita.
Con “Capitolo Due”, Civita sceglie di tradurre e adattare un testo di Neil Simon che fotografa gli esseri umani così come sono: con le loro debolezze e le loro incoerenze. Immuni dal peso del giudizio dell’altro.
Aldo Ottobrino (George) – Maria Vittoria Argenti (Jennie)
Quando infatti George (Aldo Ottobrino) supera l’atarassia – quel respiro imperturbabile nel quale era sprofondato a seguito del lutto di sua moglie – di quel filo, necessario per resettare e quindi osare contattare Jennie (Maria Vittoria Argenti), scopre che il suo presentarsi ridicolmente ondivago fa breccia sulla “diplomata in disciplina” Jennie.
La quale coglie, nel continuo ritentare giustificato di George, l’occasione per il riaffiorare in lei (implacabile pianificatrice) di un sorriso di tenera lusinga, risultato del vibrante impegno di George di dare un arguto senso al proprio rituale di corteggiamento.
E si sente: avviene come un cambio di respiro. E la temperatura del desiderio si alza in entrambi. “Parliamo con un ritmo armonioso” – constatano increduli.
Maria Vittoria Argenti (Jennie) – Aldo Ottobrino (George)
A riaccendere la loro capacità di desiderare – e quindi di poter ricominciare – non sarà tanto la volontà, né la competenza (il saperci fare) quanto piuttosto la capacità di ascolto a entrare in relazione l’un l’altro.
Riscoprono così il potere generativo della parola, il suo magnetismo, la capacità di dare vita a qualcosa di imprevisto, che esula dallo sguardo dominato dal controllo, tipico dell’ “indagare” o dello “scrutare”. Si lasciano andare a quello che chiamano “un metodo sperimentale” per tutelarsi dalle delusioni ma in realtà quello che sta accadendo tra loro è un incantesimo. Il solo che può dare avvio alla genesi dell’impossibile.
Maria Vittoria Argenti (Jennie) – Aldo Ottobrino (George)
Genesi che passa per la diversa intonazione della voce, per la scelta delle parole. Per il ritmo del respiro (che non è più quello di una “recensione” ma di una “reazione”). Passa poi attraverso la riscoperta dei sottotesti (ad esempio quello degli “Ah,ah!” e degli “Eh!”), dal riconoscere che avere dei problemi non discrimina ma anzi accomuna: “Chi non ne ha!”. E ancora passa dallo scoprire che farsi conoscere subito con ironica serietà attraverso le proprie fragilità, può diventare un gustosissimo gioco erotico.
Un irresistibile solletico che fa dire a lei : “Adesso so che mi piaci… anche all’inizio l’avevo avvertito, sentendo che dovevo stare all’erta per tenerti testa!”.
E lui : “E’ stato bello incontrarti, ancora, per la prima volta!”.
Francesco Rotelli (Leo) – Aldo Ottobrino (George)
Ma come in tutte le relazioni vitali, arrivano situazioni che fanno da “scoglio”. E va saggiato se questo scoglio è tale da “arginare il mare” a cui ha dato vita la relazione. Tra “discese ardite e risalite/Su nel cielo aperto/E poi giù il deserto/E poi ancora in alto/Con un grande salto”.
I quattro attori in scena – Aldo Ottobrino (George), Maria Vittoria Argenti (Jennie), Francesco Rotelli (Leo), Ilaria Martinelli (Fey) – ci regalano, complice lo sguardo registico di Massimiliano Civica, un’interpretazione del testo che non smette di sorprenderci, per il fascino così credibile del loro essere assurdamente veri, autentici.
Maria Vittoria Argenti (Jennie)
Un teatro di parola che, grazie alla fissità del corpo e degli sguardi, ci catapulta nell’emozione pura del respiro e dei colori della parola. Inclusa la splendida partitura dei silenzi.
Quei colori con cui Civica arreda lo spazio scenico in una dualità relazionale, che si ripropone negli abiti – non solo di scena ma simbolo di veri e propri “habiti” (modi di fare) – dei personaggi.
Quei colori che, in un crescendo di emozioni, si trasferiscono passando dalle parole e dal respiro fino a comporsi e scomporsi nella luce del silenzio.
“Il Silenzio è tutto ciò che temiamo. C’è Riscatto in una Voce — Ma il Silenzio è Infinità. In sé non ha un volto”.
Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Lucia Raffaella Mariani, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera
Una scena nuda, da “lavori in corso”, senza protezione sulle aree più pericolose.
Una scena metafora di una stagione della vita: l’adolescenza.
Un periodo di “lavori in corso” in cui i ragazzi sono al massimo della loro vitalità ma anche al massimo del loro rischio di morte.
Biologicamente la corteccia prefrontale del cervello, infatti, adibita alla valutazione dei rischi delle azioni, negli adolescenti è ancora “in fase di costruzione”. Prevalendo quindi in loro l’azione sulla riflessione, sono ad alto rischio di morte.
Nel 1891 Frank Wedekind pubblica “Risveglio di primavera” ma non riesce a mandarlo in scena. E quando dopo vari anni ci riuscirà, e sarà la regia di Max Reinhardt a farlo debuttare nel 1906 a Berlino, dopo la prima replica sarà censurato. Perché?
Con “Risveglio di primavera” Frank Wedekind fu il primo ad avere il coraggio di affrontare il conturbante tema dell’adolescenza, evidenziando le cause e le conseguenze di una mancato ascolto delle pulsioni che si affacciano nei corpi e nella mente dei ragazzi, una volta messe a tacere da regole morali.
Con uno stile molto audace, Wedekind solleva ogni velo perbenistico sull’argomento e fotografa la cruda realtà del rapporto tra gli adolescenti e le istituzioni familiari, scolastiche e religiose.
Ne emerge un fallimento, come sempre accade quando si crede che tacere sia meglio di ascoltare e mettersi in discussione.
I ragazzi infatti non ricevendo informazioni sul perché e sul come cambiano il loro corpo e la loro mente durante l’adolescenza – ma invitati anzi a un muto e vergognoso ascolto moralistico – difronte ai prepotenti segnali della necessaria tempesta ormonale, perdono ogni orientamento, desiderando fuggire, anche nella morte.
In un clima di ignorante repressione moralistica, riuscire a trovare le parole per dirle certe sensazioni, oppure osare condividerle con qualcun altro, non è affatto semplice per gli adolescenti. Tutt’oggi, anche se non si parla più di morale, essendo passati nell’eccesso opposto. Eppure restano ancora sintomi, tracce, di questo retaggio culturale. Ad esempio, quando si parla delle conseguenze dell’abito troppo poco lungo di una ragazza. Episodio con cui si apriva “Risveglio di primavera” 133 anni fa.
Con acuta poesia invece lo spettacolo dei PoEM (Potenziali Evocati Multimediali) prende avvio da un canto, dolcemente ombroso: un canone. Una composizione contrappuntistica che unisce a una melodia più imitazioni, che le si sovrappongono progressivamente.
Ed è splendida, la scelta di un tipo di canto che rimanda ad un atteggiamento proprio dell’adolescenza: quello che passa per la necessità dell’imitazione di una regola, di un canone appunto.
E la performance canora ed interpretativa dei 9 ragazzi in scena (ne seguiranno di diverse nel corso dello spettacolo, posizionate in punti nodali della drammaturgia) è davvero molto coinvolgente nel rendere “naturale” la scoperta di come non sia più nettamente separabile il dolce dall’amaro, la luce dal buio, il bene dal male.
Gabriele Vacis
Fin dall’inizio dello spettacolo prende forma uno dei temi centrali della regia di Gabriele Vacis: come in questa età adolescenziale sia vorticosamente travolgente la sensazione “di non sapere dove mettere le mani”.
Un gesto – molto ben declinato nel linguaggio non verbale di ciascun personaggio – ma anche un modo di dire del linguaggio comune, che può assumere varie espressioni: non saper cosa fare, non saper da dove cominciare. Ma anche non saper dove mettere le proprie mani sul proprio corpo e su quello dell’altro.
Molto interessante drammaturgicamente l’inserimento e la modalità di “a parte” con funzione narrativa: aiutano a chiarire, a fare il punto della situazione, a stabilire nessi e differenze tra passato e presente. Facendo riflettere il pubblico, soprattutto sulla mancata assunzione di responsabilità dei genitori riguardo l’educazione sentimentale e sessuale dei propri figli. Wedekind nel 1891 fu il primo a sentire l’esigenza di assumersi pubblicamente questa responsabilità: nessuno prima di lui ne ebbe il coraggio. Non a caso questo testo è citato da Sigmund Freud come documento di storia della civiltà.
I genitori, come la mamma di Wendla (protagoniste del testo), per un eccesso di protezione preferiscono “fermare” la naturale crescita dei propri figli: “Io ti conserverei così come sei” – confessa la madre a Wendla, dopo non essere riuscita a trovare il modo per aiutarla a decifrare i suoi naturali turbamenti. Nell’illusione così – perseverando nel riproporre l’assente linea educativa dei propri genitori – di tenerli al riparo dai turbamenti della crescita verso l’età adulta: “bene avrà chi non muta”. Molto efficace anche la prossemica portata in scena, che parla ancor più eloquentemente del testo di queste dinamiche.
Di contro, per effetto, i ragazzi disarmati e confusi si scoprono ferocemente curiosi. Emblematico l’interrogativo ontologico degli adolescenti, ricorrente nel testo e nello spettacolo: “perché siamo al mondo? Che senso abbiamo?”. Interrogativo esistenziale che si porta dentro domande quali: “che senso ha il pudore? Cosa si prova a subire violenza? E ad esercitarla? Perché sogno mia madre? Perché appena guardo una ragazza penso subito a qualcosa di sensuale? Perché non mi piacciono più i giochi ma solo le ragazze, ora?”.
Tutte domande che trovano un enigmatico habitat nei sogni e che poi entrano con serpeggiante prepotenza anche nella vita diurna. Ma nella realtà è difficile sostenerne il peso. Ed è commovente vedere come nel tentativo di gestirlo, posturalmente i ragazzi in scena osano trattenerlo, senza eccessi, o solo su una gamba, o alternando il peso prima sull’una e poi sull’altra gamba. In Moritz è evidentissimo e parimenti efficace.
Un’insostenibile leggerezza dell’essere che si affaccia ora per la prima volta in una sublime curiosità senza argini, che rischia di farsi mortale. Una morte ingenuamente desiderata come unica via di fuga e insieme come godimento.
Uno spettacolo tragico e poetico dove emerge un meraviglioso “canto” corale a più voci, libero da muri e in cerca di nuovi confini.
Molto intensi anche gli ascolti e gli sguardi di chi resta “a vista” in scena, anche se non primariamente coinvolto nel “canto” interpretativo.