La vita è un viaggio tempestoso e pieno di avventure, dove la nostra libertà ha modo di esprimersi e saggiarsi.
Ma la nostra libertà – come sottolineano con dissacrante comicità Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Leoni d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2018 – sembra prediligere, soprattutto in questo frangente storico, le rassicuranti limitazioni tracciate dalle boe della volontà di un altro.
Anziché, quindi, rimanere solleticati dalla possibilità di affrontare continue sfide personali, preferiamo consegnare la nostra libertà nelle mani di chi, in cambio del nostro “stargli dietro”, crediamo possa offrirci una sensazione di durevole sicurezza.
Antonio Rezza – Daniele Cavaioli
Concetto efficacemente visualizzato, in questa nuova creazione del duo artistico RezzaMastrella, nel passaggio narrativo dall’epopea paradossale di un viaggio per mare – dove i componenti della ciurma sanno ancora reagire (anche se solo individualmente) al fare manipolatorio dell’Ammiraglio, decidendo quando distanziarsene – al visionario viaggio spaziale, dove un Capitano perde anche quest’ultimo residuo di egoica capacità critica, spalmando la propria volontà “dietro” quella dell’Ammiraglio.
Una tendenza del nostro stare al modo dove, più o meno consapevolmente, ci deprediamo della preziosa occasione di avvalerci del “diritto” a manifestare un dissenso: un rifiuto ad obbedire a certi ordini dettati da un altro.
Una creazione questa di “Metadietro” il cui valore si fonda sulla capacità di andare oltre l’oggetto fisico per rappresentare idee ed emozioni, che il linguaggio logico non può esprimere.
E così, attingendo a simboli universali – quali quello del viaggio – trasforma l’atto creativo in un ponte tra il mondo sensibile e quello astratto, dando forma originale ad una ricerca di senso.
Parlano di questo anche le scelte cromatiche, le forme e i materiali selezionati da Flavia Mastrella per questo suo nuovo habitat, frutto ogni volta di un accurato studio sul diverso darsi “deformato” della comunicazione sociale.
Efficacemente pungente l’idea di legare l’habitus, ovvero le modalità manipolatorie, del personaggio dell’Ammiraglio al colore blu: un colore un tempo considerato dei degenerati e dei barbari ma che poi ha conquistato tutti.
Un Ammiraglio siffatto (che in scena è un Antonio Rezza che “è. E non ha mai smesso”) saccheggia infatti l’esperienza del viaggio dei suoi aspetti caratteristici, che ne fanno una preziosa occasione di trasformazione, di crescita interiore, di scoperta di sé e di superamento dei propri limiti.
Incluso l’ammutinamento: come si legge nelle note di regia, in un viaggio esistenziale “l’ammutinamento è sempre auspicabile in un organismo sano”. Perché l’ammutinamento rappresenta un po’ le nostre difese immunitarie, che si attivano quando qualcosa dall’esterno mette in pericolo un equilibrio interiore. Difese che sono metafora della protezione del Sé e quindi del mantenimento di quell‘integrità e di quell’equilibrio, che rendono organismo capace di affrontare le sfide che la vita presenta.
Antonio Rezza sceglie allora – com’è nella sua cifra estetica – di lavorare in questa sua creazione con Flavia Mastrella intorno al concetto di “gioco”: un gioco che parla di un dramma intriso di divertimento, capace di indurre lo spettatore a smarrirsi.
Così da veder cadere le maschere all’interno e all’esterno di sè stesso. Così da essere solleticato da stimoli capaci di attivare nuove modalità di viaggio, che sanno incontrarsi anche con fertili derive.
Un gioco quello portato in scena dal duo RezzaMastrella che sa erompere sulla scena come una felice invasione barbarica, capace di generare continui corto-circuiti su modi di fare intrisi di pregiudizi. Alla scoperta di spiegazioni sempre nuove e mai rigidamente compiute.
Che arrivano allo spettatore sotto forma di frammenti. Così come frammentaria è la precarietà della verità, così come frammentaria è la percezione del sè e del mondo.
Frammenti che provocano nello spettatore non un senso di rinuncia o di rassegnazione, ma uno stimolo all’esplorazione e alla ricostruzione di un proprio senso personale.
Antonio Rezza – Flavia Mastrella
Perché RezzaMastrella sono generatori di clamore, di risveglio comicamente drammatico, di coralità.
Perché i loro spettacoli sconfinano, si s-proteggono dalle sovrastrutture, cercando e ottenendo un contatto epidermico con “i corpi” degli spettatori, tale da improvvisare anche su di loro un’acuta regia.
Flavia Mastrella – Antonio Rezza
“Con che speranza cerco il dialogo, se è più facile cambiare canocchiale che idea?” – si chiede sul finale l’Ammiraglio. Se i legami sono divenuti guinzagli, se si finisce col preferire al contatto dei corpi la modalità di sfioramento di apparecchiature?
Quale esperienza di libertà racconteremo dopo?
Quella del nostro essere “stati dietro” a qualcun altro?
Daniele Cavaioli – Flavia Mastrella – Antonio Rezza
Già al debutto del Luglio scorso al “Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato” dallo spettacolo ci si lasciava turbare per la bellezza notturna del suo sguardo.
Anfiteatro romano di Ostia
Nello spostarsi ora dal palco en plein air del teatro romano, alla complice intimità del palco al chiuso del Teatro Vascello di Roma – anch’esso spazio simile ad un anfiteatro, con platea a gradoni e palcoscenico a filo della prima fila – la sublime bellezza di quell’osmosi di profonda inquietudine è notevolmente salita.
Teatro Vascello
Effetto della “conclamazione” tra i due spazi scenici, ci confida Roberto Latini nelle sue poetiche note di regia. Effetto cioè di un vibrante rivelarsi dello spettacolo, grazie all’accordarsi degli spazi che lo accolgono, attraverso entusiastiche convergenze sulla “messa in voce di suoni e corpi”.
Se ne trova luminosa traccia nell’incedere con cui ciascun personaggio entra in scena; nella diversa eppure uguale tessitura del racconto delle mani della nutrice (una calibratissima e affettuosamente ancestrale Manuela Kustermann) e in altro ancora che ciascun spettatore potrà avere il piacere di notare.
Ne risulta un’ ”Antigone” bruciantemente vicina allo spettatore.
Complice una diversa drammaturgia della luce curata da Max Mugnai in accordo alle trame di musica e suoni di Gianluca Misiti: una luminosità più oscura, più allusiva, evidente e impenetrabile. Arcana.
Una drammaturgia della luce delle ombre – proprie della natura umana – che sembra celare qualcosa carico di una dignità e di un potere tali, da dover restare inaccessibile in penetrali lontani. Un qualcosa da mantenere, cioè, come protetto dalla sfera pubblica e da cui la sfera pubblica deve essere protetta.
Un senso dell’arcano al quale la regia di Latini osa efficacemente avvicinarsi, rendendo ancora più fluida la “non distribuzione delle parti” degli interpreti.
Lo spettatore finisce, allora, per farsi più prossimo alle intime e contraddittorie scelte – incluse le non scelte – di ciascun personaggio. Che qui si rivela in cambi di “habitus” (di modo di essere) attraverso una raffinata scelta registica che fa fluire determinate parti della psiche dell’uno in quella di un altro personaggio – con il quale può “conclamarla” – attraverso un’affascinante duplice distribuzione. “Siamo Antigone e Creonte insieme, o lo siamo già stati più volte, di più in certe fasi della vita e meno in altre e viceversa o in alternanza” – ci ricorda Roberto Latini.
Una fluidità esistenziale in bilico tra il sentirsi ora più uomini ora più umani. Ora convinti che si è arrivati a essere quel che si è in base alle scelte che si sono fatte. Ora in base alle scelte che “non” si sono fatte. Ora assecondando la Legge, ora il proprio sentire.
(ph. Manuela Giusto)
Ne è un fulvido esempio la presenza dell’elemento “polvere-sabbia” e la sua manipolazione. Ma anche il rapporto dei personaggi con la regola stradale del “passaggio pedonale”: nessuno ne fa l’uso previsto dal “Codice della strada”, ma quello più accordato al proprio sentire. Così come, al contrario, ci sono le guardie che – sprovviste di immaginazione – credono ciecamente che non esista altro se non ciò che viene ordinato loro dalla Legge.
Antigone, soprattutto quella di Jean Anouilh qui riletta da Roberto Latini, ci parla di questa fluidità e ci invita a non sfuggirla. A farla nostra ogni volta, lasciandola risuonare sempre in ogni nostro “habitus” (modo di essere) che l’altro, con il quale veniamo a contatto, ci riaccende.
Un invito al quale Latini allude quando dice che il miglior modo di “incontrare” Antigone è quello di permetterle di parlarci sempre di qualcosa di nuovo. Di qualcosa che comunque ci riguarda.
“Sapendo che ogni variazione è già Teatro”: è vita che fluisce e resta.
“Come quando lo spettacolo incontra un altro palcoscenico oltre quello del debutto”.
“Come quando lo spettacolo incontra un’altra platea oltre quella del debutto”.
– Come 16+29 persone hanno attraversato il disastro delle Ande –
DRAMMATURGIA
Linda Dalisi e Fabiana Iacozzilli
Tutto è respiro, il respiro è tutto. Questo di Fabiana Iacozzilli è un racconto di respiri.
Un racconto di come il ritmo del respiro può generare gesti che prima ha immaginato.
Un racconto delle tracce che il respiro lascia sui finestrini di quel che resta di un luogo accogliente, divenuto passaggio verso una nuova mèta: la fusoliera dell’aereo del volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana, che trasportava i membri della squadra di rugby Old Christian Club, alcuni amici e familiari. E che il 13 ottobre del 1972 si schiantò sulle Ande.
Un racconto delle tracce che il respiro lascia nelle parole di chi c’era e c’è ancora. Parole che attendono di essere ricordate, ricercate, riesplorate. Per far sì che si esprima ciò che ancora non è stato colto. Come sempre lascia fare il passato.
La regia della Iacozzilli ci riporta allora a quel momento: a immaginare, immersi nel buio, di essere a bordo. Lascia parlare il suono del motore del veivolo, che ad un certo punto stona e poi s’infrange.
E poi “ci vediamo” in quello che appare in scena: una sublime rappresentazione iconografica di corpi traumatizzati, irrigiditi. E, insieme, friabili.
Ma a riemergere riesce il respiro, il soffio vitale, il desiderio. E’ meravigliosamente visualizzato dai performer Andrei Balan, Francesco Meloni, Marta Meneghetti, Giselda Ranieri, Evelina Rosselli, Isacco Venturini, Simone Zambelli che fanno vivere i puppets, regalando loro tutte le variazioni dell’impeto e della ritrosia; della delusione e dell’entusiasmo, della cura e della paura. “Le vediamo”, queste variazioni emotive: quasi fino a toccarle, tanto sono ricche in espressività.
C’è cura, c’è soccorso, c’è conforto, tra i sopravvissuti: ci si assist-e. E’ una particolare partita quella che prende forma: questa volta tra la vita e la morte. E, ci sarà in qualche modo anche un ”terzo tempo”.
Sulla scena si delineano due squadre: da un lato i superstiti, dall’altro i morti. Questi sono a terra, quasi come in “un ruck”. Gli altri sono sofferenti ma ricchissimi in espressività. Sguardi, i loro, di cui si colgono finanche i sottotesti. La sinergia tra la surreale disponibilità delle sculture di Paola Villani e il sensibile contaminarsi con esse dei performer, e’ davvero di sconcertante bellezza. Una magia.
“Quando sei a 4.500 metri” – racconta un superstite in un contributo audio – la mente rallenta e il cuore impenna. Si perdono le coordinate del reale e ci si sente come in un sogno.
Il freddo invece resta reale e fa tremare. Così come i morsi della fame. E pure il rumore di un aereo che sorvola sopra le loro teste. Ma come fare ad uscire dal “sogno” per farsi notare? Allora ciascuno immagina, ciascuno gioca il proprio ruolo, tutti “uniti” per raggiungere un’insolita mèta.
C’è poi chi trova una radio e tutti – ognuno con un proprio assist – concorrono a far sì che funzioni. E poi, ancora, tutti a capire come eliminarne le interferenze. Ignari di andare incontro all’ascolto proprio della notizia dove si dichiara la chiusura delle ricerche su di loro.
Stringe il cuore “vedersi” in loro: vedere nei loro occhi e nelle loro posture la frustrante delusione. Ma è un attimo. Che lascia spazio alla fiera consapevolezza che ora la responsabilità della propria salvezza è tutta nelle loro mani. Serve immaginare ora: serve riuscire a vedere con la mente quello che si cerca, che si desidera. Serve “passarsi” la speranza dell’immaginare, come se fosse una palla ovale. Serve immaginarsi una ritualità del fare: serve una nuova partita.
Ed è così che ogni giorno – raccontano – sembrava di rinascere: ogni giorno con la sensazione di aver superato un limite impossibile. Molti di loro hanno meno di vent’anni, nessuno ha mai scalato una montagna, anzi la maggior parte di loro è gente di mare che non ha mai visto la neve.
Ma servono assolutamente anche delle proteine: i pochi cibi messi in comune finiscono e si cerca di assecondare l’illusione di masticare qualcosa provando con le suole delle scarpe, con la pelle degli accessori.
L’essere umano si abitua a tutto. Anche a cercare e a trovare Dio “fuori da se stessi, per poter aiutare anche Lui”. Scegliendo di cantare tutte le volte che si ha paura. Cosicchè, nonostante tutto, si possa continuare ad immaginare una mèta.
Anche quando “ci si vede” come un puntino. Anche quando per capire di essere vivi si cerca la propria ombra. Anche quando guardando l’altro per averne cura, si prova terrore specchiandosi nella sua tentazione a mollare.
Una segreta consapevolezza però li sostiene: quella che “ciascuno fa dell’altro un uomo migliore”. E che verso la civiltà si può riuscire ad arrivare insieme. “Insieme”, come insegna il rugby.
Ed è così che alla fine in 16 riescono a salvarsi. Ma solo perché “sono insieme” agli altri 29. Una modalità, un “come”, che la Iacozzilli sottolinea con efficacia già dal sottotitolo.
Come un vero collettivo, i ragazzi infatti prendono, dopo alcuni giorni dal disastro, la decisione di mettere ciascuno a disposizione del gruppo i propri corpi. Anche una volta che il proprio respiro si sarà separato dal corpo: per poter continuare così a giocare ancora “con” la squadra il proprio ruolo. “Sostenendo” cioè chi riuscirà a continuare a tenere unito il respiro al corpo, portando avanti la mèta.
Una storia così vera, che nessuno riesce a dimenticarla.
Una filosofia vitale la cui essenza è alla base dello stesso rugby. Perché una delle caratteristiche più distintive di questa disciplina è la sua natura inclusiva, che predispone alla creazione di comunità solide e unite: attraverso la passione condivisa per il gioco che sa andare “oltre” la squadra.
Passarsi la palla vuol dire infatti che da solo non ce la puoi fare, ma che avanzi solo se riesci ad avere una solida intesa col tuo compagno e ad essere il suo sostegno se scatta lui in avanti. Nel rugby il leader non esiste, perché è con l’aiuto di tutti che è possibile arrivare in mèta.
Consapevoli che “il mondo va avanti grazie a quei pazzi, che immaginano cose impossibili”. Insieme.
Come quella di non arrendersi, finché non si riuscirà a raggiungere la civiltà. Insieme.
E la civiltà arriva. E qui, in scena, è l’incontro con noi della platea.
Un incontro che ci permette di ri-esplorare “insieme” come si attraversa un disastro: un evento che parla della vulnerabilità dell’essere umano di fronte a forze incontrollabili, siano esse naturali o provocate dall’uomo.
Un evento che si dà prepotentemente – per un’avversità degli astri – come un punto di svolta che costringe a ripensare il futuro, la gestione delle risorse, le priorità. E che diventa parte della memoria collettiva contribuendo a plasmare l’identità di una comunità, con un forte impatto psicologico ed emotivo.
“In quel fuori radicale, dove non ci sono le condizioni per la vita e solo ci si arriva per colpa di una forma di violenza verticale, si palesa la domanda sull’arrivo dell’uomo all’esistenza (Gabriel Galli).
Una domanda che si fa strada nei frangenti più oscuri della vita: quando la vita prende le sembianze di una tragedia. Una tragedia dove non valgono più le regole che ci siamo costruiti con la mente, ma entrano in gioco quelle dettate dal corpo. E dalla capacità di immaginare.
Fabiana Iacozzilli
Cifra stilistica estetica e poetico-filosofica dell’autrice e regista teatrale Fabiana Iacozzilli è il suo darsi attraverso la “contaminazione”: un andare “oltre”, il suo, verso una generosa accoglienza di fertili diversità.
“Contaminare” significa infatti andare al di là del dictat della purezza: fondendo, incrociando, “sporcando”. Rendendosi duttili e pronti ad entrare in relazione con nuovi habitat.
“Contaminare” significa “evolversi”, anziché estinguersi chiudendosi al diverso. “Contaminarsi” significa “vivere insieme”.
Come ci racconta questa potentissima storia di sopravvivenza, di metamorfosi e di rinascita. Dove la Iacozzilli, per riuscire a raccontare che tipo di filosofia di vita prende forma all’indomani di un disastro, contamina la narrazione scenica, con i linguaggi visivi e la ricerca documentaria; il teatro di figura con le voci delle testimonianze.
Ed è così che – attraverso la complicità della splendida drammaturgia di Linda Dalisi, dei sette performer e dei puppets progettati da Paola Villani – lo spettatore giunge a contattare l’esperienza umana attraversando tutte le profondità delle sue falde sotterranee. “Oltre” ogni comprensione logica. Con amore.
Lo spettacolo si apre con la pronuncia di una sentenza di colpevolezza verso colei che si è spacciata come una sopravvissuta alla strage del Bataclan del 13 Novembre 2015.
A lei si ispira l’irresistibile Audrey di Gabriele Paolocà, interpretata da una candida e perturbante Claudia Marsicano, che incanta lo spettatore con il suo caleidoscopico appeal. E con una voce da sirena di Ulisse, che sa raggiungere profondità segretamente orrorifiche.
(ph. Manuela Giusto)
Per la Legge dello Stato lei è uno sciacallo: una donna che si è approfittata di un trauma collettivo per trarne profitto personale.
Per la legge dell’umano stare al mondo – sulla quale l’autore e regista Gabriele Paolocà investiga con sollecita cura – Audrey è anche una donna tentata dall’opportunità, in qualche modo offerta dai social, di cogliere l’occasione di continuare a crearsi una nuova identità (ma non più in solitaria), per poter essere – ora finalmente – oggetto di quelle attenzioni da sempre a lei negate.
Gabriele Paolocà
Con acuta genialità Paolocà immagina e mette in scena un sistema concentrico di cortocircuiti drammaturgici, per arrivare a solleticare lo spettatore laddove meno se lo aspetta. E lo fa provocando quei continui cedimenti emotivi, che sanno smuovere le prime considerazioni dello spettatore sul modo di reagire di questa giovane donna.
Un personaggio ispirato al fenomeno delle cosiddette “false vittime” fiorite, successivamente al trauma collettivo del 13 Novembre 2015, quando Parigi fu colpita da una serie di attentati terroristici di matrice islamica, poi rivendicati dall’Isis. Il più sanguinoso e tristemente noto dei quali, avvenne al Teatro Bataclan, dove era in corso il concerto del gruppo americano «Eagles of death metal»: vi morirono novanta persone.
La solidarietà e l’attenzione con le quali per la prima voltafurono investiti i sopravvissuti, i parenti e i conoscenti delle vittime,grazie al clamore mediatico, sollecitarono nell’animo umano reazioni di partecipazione emotiva di varia intensità. Non ultima, una sorta di cortocircuito emotivo tale che, per alcuni, coloro che furono toccati da vicino da tale tragedia divennero occasione di invidia.
Attraverso la sua appassionata indagine, Gabriele Paolocà ci invita a prestare attenzione a questa insolita reazione – ma in dosi omeopatiche presente nelle corde di ogni essere umano – accompagnandoci nel conoscerla meglio: andando un po’ più in là della prima analisi dei fatti.
Per “seguire” Audrey occorre infatti “accettare la sua amicizia” osservandola più da vicino: scendendo sotto la prima impressione che ci suscita e iniziando ad averne cura. Cioè immaginando di “avere a che fare” con lei. Mettendo così in campo la possibilità di un secondo sguardo che – proprio come una seconda chiave di lettura – ci può permettere di aprire varchi, che altrimenti rimarrebbero chiusi.
Ed è allora che Audrey inizia con l’arrivarci anche come un personaggio dalla verve shakespeariana: che fino al momento della strage vive la sua quotidianità di bambina e di ragazza “seguendo” e assecondando la fulgida musa della fantasia. Per esistere e resistere alle brutture di un passato familiare di deplorevole violenza.
“Seguendo” l’invito shakespeariano, lei riesce infatti a vedere, ad esempio, la mamma come una duchessa e le lenzuola, dalle quali mai si separa, come una dorata distesa di grano.
Finché crescendo non entra in scena lui: il computer e la rete di “connessioni” e di “sguardi” offerti dai social network.
Ora la valvola di esistenza e di resistenza del raccontarsi attraverso la lente della fantasia shakespeariana assume nuovi connotati.
Ora la rete social permette al suo personaggio shakespeariano di varcare quel sipario, dove prima era come in solitaria attesa, dietro le quinte.
Ora, pirandellianamente, il suo personaggio in cerca d’autore incontra la complicità pubblica offerta da altri “sopravvissuti”. Anche loro colpiti da vicino da una forma di violenza e in attesa di elaborare un lutto familiare.
(ph. Manuela Giusto)
Ed è così che, in un continuo e fertile attentato ai rigidi principi di identità e di non contraddizione e di causa-effetto propri della logica, Gabriele Paolocà ci porta a sentire il fascinoso bilico del nostro stare al mondo.
Lo fa mandando in scena una concatenazione di cortocircuiti drammaturgici, che coinvolgono sinergicamente la regia, la drammaturgia e le liriche (di sua cura), così come la composizione delle musiche (di Fabio Antonelli), lo spazio scenico (di Rosita Vallefuoco), il disegno delle luci (di Martin Emanuel Palma), la drammaturgia fisica (di Carlo Massari), i costumi (di Anna Coluccia).
(ph. Manuela Giusto)
Nello specifico ci ritroviamo coinvolti in cortocircuiti come quello che scaturisce dal contatto tra l’innocua briosità del musical e l’efferatezza rock della tragedia; oppure dal contatto tra l’ingenuità di una bimba mai riconosciuta nel suo esistere e la perversione del suo chiedere (e ottenere) attenzione da patologica manipolatrice narcisista. Ma ci ritroviamo coinvolti anche nel cortocircuito che scaturisce dal contatto tra la realtà da rifiuto organico delle origini di Audrey e la sua abilità trasformativa capace di fare, ad esempio, del suo letto, un vitale luogo d’incontro con la fantasia.
E poi il cortocircuito finale: quello che paradossalmente passa dalla fulvida fantasia shakespeariana, all’eccitante occasione d’incontro offerta dalla postazione pc.
(ph. Manuela Giusto)
Cortocircuito ben visualizzato anche cromaticamente da quel rosa morbidamente immaginifico, che diviene poi brillante e impudentemente shocking lasciandosi attrarre dalla scabrosità del nero. E che ci parla di ciò che “esiste” ma soprattutto di ciò che “resiste” (nel bene e nel male) nel nostro stare al mondo di esseri umani.
Lei, Audrey, un Amleto dei nostri giorni che – in bilico tra l’essere e il non essere – è portata a scegliere di esserci non essendoci.
E se l’inizio dello spettacolo si apriva con una lapidaria condanna alla quale con soddisfazione aderivamo, alla fine dello spettacolo qualcosa vacilla nel giudizio iniziale. Qualcosa è cambiato. E ci arriva la sensazione che essere rigidamente al sicuro nelle nostre idee, ci “acceca” nella capacità critica. E umana.
Questa generosa faglia si verifica perché “nel mentre”, ovvero tra l’inizio e la fine dello spettacolo, Gabriele Paolocà – con la complicità di Claudia Marsicano e di Gabriele Correddu (un intrigante servo di scena nonché fulgente personificazione della musa della fantasia) – attenta costruttivamente i nostri confini difensivi.
Proponendoci , attraverso questa sua indagine drammaturgica, la testimonianza di un possibile “stare insieme aperto”.
Un fare comunità cioè dolce e devastante, perché racconto di un insieme distinto, che partecipa di un valore che è insieme onere e dono.
Un fare comunità che si basa sul tenere viva l’attenzione su “ciò” e “chi” è stato e ora non è più. Ma che resta. Grazie alla diponibilità di accettare di parlarne in tanti modi differenti.
Un fare comunità realizzabile attraverso un uso sempre migliore dell’apertura critica offerta dalla cultura. E quindi anche dal Teatro.
Per non restare sordi al “gocciolio” di una rottura.
Per non smettere di “sprofondare dentro le storie degli altri”, temendo di non amarli più.
Per non sentirci al sicuro, solo se da soli.
Per parlare, per interrogarci, insieme.
Per fare, insieme.
Per non lasciarci fare.
Questo di “Microclima” è un accorato invito a indirizzare la nostra attenzione su ciò che agisce in noi dall’esterno, senza fare troppo rumore. Lentamente provocando condizionamenti sotterranei, capaci di stravolgere le nostre capacità di sentire e di agire.
Questo di “Microclima” è un lavoro – che nasce dalla fertile sinergia concertata tra la drammaturga e regista Alessia Cristofanilli, la Fondazione Friedrich-Ebert, Fragile Spazio e La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello – frutto di un’osservazione e di un’analisi, che hanno evidenziato come certe influenze del nostro macrocosmo socio-politico riescano a penetrare, quasi inavvertitamente, nelle nostre posture esistenziali più intime. Nello specifico, nei modi di stare dentro la nostra prima forma di comunità politica: il microcosmo familiare.
Questo di “Microclima” è un titolo che sapientemente già allude ad un possibile stare al mondo prossemicamente separato, con una particolare inclinazione-deviazione rispetto alle dinamiche del macrocosmo. Un “clima piccolo”, debole e quindi inoffensivo, che si fa fatica a definire ancora libero arbitrio. Perché a predominare è il sapore dell’astensionismo: qualcosa di simile ad un auto-esiliarsi in patria. Un’amputazione, in anestesia, del corpo organico della “comunità”: un deviare, rispetto al legame di partecipazione socialmente attiva. Rispetto alla funzione di “parte” di un tutto: legame politico-esistenziale che è legge e dono.
Ecco allora la scena darsi come una sorta di “luna park”, solo apparentemente nato dal desiderio di evasione dalla routine, per cimentarsi nell’esperienza sensoriale della vertigine e del movimento continuo. In realtà metafora della vita nel suo scorrere ciclico, rappresentato dalle rotazioni delle giostre, visualizzate genialmente dallo scorrere di uno skateboard. Vento di libertà – che sfida i limiti e incoraggia la perseveranza a cadere, a fallire e a rialzarsi – circoscritto qui ad un’unica traiettoria.
Perché la libertà è ebbrezza e angoscia; navigazione e nostalgia della terraferma. In questo dualismo esistenziale ciascuno cerca di trovare continue forme di equilibrio. Provando e riprovando. Ma in noi umani la tensione securitaria è così forte da portarci a preferire, spesso, un male conosciuto a un bene nuovo, tutto da scoprire. E con il quale non smettere mai di confrontarsi.
E così può accadere – come narrato in questo spettacolo – che due ex attivisti impegnati concretamente per un cambiamento politico e sociale, a seguito di delusioni e di subdoli condizionamenti socio-politici, preferiscano non riprovare ancora, e ancora, a dare vita ai propri ideali. Smettendo di sollevare l’ancoraggio dal fondo, per poter salpare. E finendo così per “serrarsi” in uno spazio protetto ma chiuso; sicuro ma asfissiante. Un microclima così sospeso e separato, da far perdere la cognizione del tempo.
Un’arca immobile, in cui portare in sicurezza tutte le piante del vivaio, altrimenti facile preda di parassiti. Quegli “stranieri” così inaccettabili, da immaginare un futuro “senza”. “Che cosa sono gli stranieri ?” – chiedono infatti i loro figli – “di chi è la terra?”. Figli per i quali si desidera un’educazione “intra moenia”: quella del microclima domestico. Almeno finché, come le piante, i figli non si saranno costruiti una solida struttura.
Ma mentre virtù delle piante è “il non farsi sentire”, lo stesso non si può pretendere per i giovani ragazzi loro figli. Perché “è un inferno non farsi sentire”. Soprattutto quando il cielo si fa sempre più povero di “stelle”: occasioni dell’attendere e del desiderare.
E può venire allora facile farsi tentare dalla postura esistenziale dell’“aderire” cieco, de-responsabilizzato. Smarrendo sempre più la propria sensibilità critica a “sintonizzarsi” o meno con l’altro. Ma soprattutto barattando, con un’illusione di “costante sicurezza”, il nostro potere di riuscire a cambiare, a re-iniziare, a ri-generarci. Anche quando in noi, provati dalle avversità, pulsa di vitalità solo una minima parte. Alcune piante riescono a farlo anche solo con un 15% di salute. Per noi è più complesso, perché più controversa è in noi la gestione contrastante delle spinte ad arginare e ad esplorare il mare del desiderare, del conoscere.
In scena gli interpreti – Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli – brillano nel restituirci quelle profondità subdolamente oscure, colonizzate da pregiudizi. Profondità eppure così umane, così vicine. Così confinanti le nostre. Un confine sul quale si va a finire insieme. Incontrandosi. Complice anche la decisa delicatezza di questo spettacolo, che “pota” orizzonti per permetterne una nuova fioritura.
Lo spazio scenico ci parla, infatti, di lussureggianti solitudini: di un habitat sospeso, dipinto di “un verde assoluto che – come era solito dire Kandinskij – è un elemento immobile, soddisfatto di sé, limitato in tutti i sensi”. Dove, a specchio, si esercita il diritto di gestire (manipolare) una comunità “muta” di piante. Da dove è esclusa ogni tentazione libertaria alla “manifestazione”, proprio perchè iper protette e quindi lasciate indebolire. Divenendo incapaci di misurarsi con inevitabili “infestazioni” parassitarie: “manifestazioni” del mondo vegetale. E non solo.
Perché il “manifestare” è parente dell’ “infestare”: quest’ultimo più subdolo, più strisciante: non si avvale dell’uso delle “mani”. Un fermento sotterraneo. Perché invece quando manifestiamo pubblicamente un’urgenza o una contrarietà, è come se acchiappassimo con le mani un fuggente tratto di realtà e lo presentassimo all’evidenza del pubblico, della piazza, degli altri. Con una concretezza che si stringe fra le dita.
“Microclima” è un’opera originale che intreccia intimità psicologica e riflessione civile, eleggendo il linguaggio del teatro, ricco in umana meraviglia, a leva capace di sollevare efficacemente l’attenzione al confronto, personale e collettivo, con una delle questioni più urgenti del presente: la fragilità della democrazia e la normalizzazione delle destre.
E lo fa attraverso una “manifestazione” poetica.
Senza proporre facili risposte, lo spettacolo riesce a gettare luce dove regna l’ombra, offrendo uno spazio di riflessione collettiva sulle contraddizioni della società contemporanea: sulla percezione di minaccia e sul significato – politico e personale – di crearsi un proprio “microclima”, in tempi di instabilità e radicalizzazioni.
Perché oggi, più che mai, serve interrogarsi su come e dove si stia muovendo l’ecosistema democratico.
Perché la cultura, in tutte le sue forme, è uno dei luoghi da cui ripartire.
Cifra stilistica e politica delle regie di Leonardo Lidi è la vocazione ad applicare la propria testimonianza a servizio della salvaguardia dell’eredità di un testo, sia esso classico o contemporaneo. Arrivando a confrontarvisi poi in maniera originalissima ed efficace per la contemporaneità.
Lidi sviluppa così un imprinting tutto suo, con il quale conduce lo spettatore a riallacciare immaginari fili tematici – sia durante la visione dello spettacolo che una volta uscito dal teatro – con la tessitura dei suoi lavori precedenti.
Leonardo Lidi
Al calar delle luci, Lidi inizia a seminare il suo primo indizio sagomando la nostra attenzione sulla nipotina di casa Polliott (una deliziosa Greta Petronillo). Che ci confida, attraverso la sua interpretazione di Fly Me to the Moon, il suo desiderio di piccola donna che sogna l’amore: un amore capace di non temere universi lontani e sconosciuti. Un amore che non trattiene, che non manipola: un amore che lascia volare il desiderio oltre la Luna. Un desiderio da scoprire insieme, tenendosi per mano. Nonostante tutto.
Ma, ad un certo punto, il suo “canto alla vita” inizia ad incrinarsi, ad essere risucchiato, fino a venire brutalmente interrotto. E il sipario si apre su uno spazio ampiamente vuoto, accecantemente freddo, dal mortificante lindore marmoreo (la cura della scena è affidata, così come il disegno luci, a Nicolas Bovey). Dove sua zia – la preraffaellitica Margaret di Valentina Picello – va in fulgenti escandescenze per una macchia di sporco sul suo vestito, provocata dal vivace e imprevedibile gioco dei nipotini, invitati alla festa di compleanno del nonno.
Valentina Picello è Margaret
Arriva così allo spettatore quella sensazione stonata di qualcosa che è stato spazzato via, che è andato perduto. Un po’ come ne “il Giardino dei Ciliegi”, che chiudeva la trilogia del Progetto Čechov di Lidi.
Ma cosa significa ora, qui nel testo di Tennessee Williams del 1954, quel concetto di “utile” così centrale già là nella Trilogia? E come parla a noi oggi?
“Utile” è ancora ciò che economicamente produce frutto, come un terreno, appunto. Ma anche come una donna, qui in Williams. E non solo: la tentazione è tornata attuale.
Perversamente produrre frutto fa esistere in quanto utili e funzionali ad un sistema, che ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi. E che non a caso, in cambio, ci illude di renderci visibili e inclusi.
Un sistema cioè che fa leva sui bisogni più radicati nell’essere umano: l’inclusione nella vita di una comunità (a partire dalla prima comunità: quella della coppia) e poi il bisogno costitutivo di sentirci (sempre) al sicuro. Protetti. Preferibilmente da altri. Bisogni che se subdolamente manipolati, ci svuotano del nostro personale e autentico desiderare. Ed è proprio questa la sensazione che avvertiamo all’apertura del sipario: un gran vuoto sterile di vitalità, scambiato per un paradiso.
Un paradiso che, qui, il padre della famiglia Polliott ha messo a frutto nei suoi primi (e ultimi) 65 anni di vita. Ossessionato da quella visibilità che si riceve in cambio a patto di trasformare il capitale umano in un valore “economico”, alla stregua di una merce. E così, fedele all’etica a cui si è votato, il patriarca vale quello che possiede: dollari e acri di terra. Sarà paradossalmente l’incontro con il sospetto di un’imminente morte a riattivargli la vista. Una vista senza cataratte d’ipocrisia che riporta alla luce, tra le rovine, anche una profonda sensibitià dialogica con Brick, con echi di maieutica socratica.
Questo testo per il quale Tennessee Williams venne insignito del Premio Pulitzer – il secondo, dopo quello per “Un tram che si chiama Desiderio” – denuncia nella sua versione non edulcorata e censurata la perversione di un sistema incentrato sulla subdola protezione fondata sull’ipocrisia.
Nicola Pannelli è il Padre – Fausto Cabra è il figlio Brick
“Ma la vita è fatta d’ipocrisia – ricorda il padre a Brick – E tu non vuoi vivere d’ipocrisia? Ma caro mio, non si può vivere d’altro. Io tutta la vita ho navigato nell’ipocrisia e ci navigherai anche tu!…L’ipocrisia, è il sistema in cui viviamo…”.
“Ipocrita” è colui che dopo aver deciso di separare, e quindi di nascondere, qualcosa da qualcos’altro, risponde in una determinata maniera alla vita e agli altri.
Ecco allora che Leonardo Lidi – con la complicità della traduzione di Monica Capuani – sceglie registicamente e politicamente di restituire autenticità al testo di Williams mandando in scena la sostanza dei “segreti” e quindi dei “sogni” e quindi delle diverse forme, che può assumere “il desiderio”. Quella “sostanza” – così pericolosamente destabilizzante per un sistema societario basato sull’apparente sensazione di perbenistica sicurezza – che è stata per troppi anni condannata ad essere accuratamente messa a tacere. Perché sporca: scandalosamente vitale.
Fausto Cabra – Valentina Picello
Lidi invece restituisce cittadinanza agli esclusi: ai tabù e a quelle fragilità che ci abitano ontologicamente. E che non devono farci perdere fiducia in noi stessi, né negli altri. Fragilità da affrontare insieme: “con” l’altro, senza scandalizzarci.
Perché “lo scandalo”, in realtà, etimologicamente si dà come una “ trappola”, un errore, un inganno, in cui è umano poter cadere. Una trappola esistenziale che solo successivamente è stata caricata di una connotazione morale: una tentazione, ovvero un’occasione di peccato di cui vergognarsi.
Parlare e quindi condividere “scandali” può essere invece fertilmente trasgressivo, se aiuta a restituire ossigeno ad atteggiamenti asfittici, mortificanti e mortiferi. Se aiuta a farne cioè occasioni di nuovi inizi: per capire meglio chi siamo.
E così mentre Margaret si accanisce (cadendo in una trappola) contro i figli dei cognati, che le ricordano quanto lei sia pericolosamente minacciata di esclusione a causa del suo mortificante mancato dare frutto come semplice terreno, suo marito Brick, pur essendole fisicamente vicino, la ignora. “Tu non vivi con me”. Tu vivi insieme a me nella stessa gabbia (trappola)”.
Lui infatti pur continuando a stare fisicamente in famiglia vive come in esilio volontario, autopunendosi e autoescludendosi, con la complicità dell’alcool, da quella vita sociale e familiare che ha tacitamente assecondato, non riuscendo a condividere e a difendere “con” Skipper la verità dell’omosessualità che li legava.
Verità che continua a legarli: ossessivamente il suo desiderare resta bloccato in un perverso tentativo di recupero e di espiazione, in cui Brick si riempie gli occhi di un continuo sedurre ed essere sedotto dal suo amore perduto.
E Lidi rende questo disperato dialogo erotico di dilaniante bellezza. Il Brick di Fausto Cabra è come reduce da una guerra che ha perso e che lo ha mutilato nel corpo. Ma non tutto è finito: riesce a succhiare linfa vitale non tanto dalla bottiglia quanto dal non voler smettere di dedicare attenzione erotica al suo oggetto del desiderio. I suoi occhi sono ancora languidamente vivi, la sua voce è umida di un pianto che vorrebbe scatenarsi come un temporale – per ricevere e per concedersi il perdono – ma che si limita a lambire provocantemente la sua bocca, mai paga (apparentemente) di alcool. Che gli viene servito dal fantasma di uno Skipper (Riccardo Micheletti ) che Lidi immagina di inquieta bellezza neoclassica. Un giovane uomo dallo stupefacente allure femmineo, che tesse intorno e insieme a Brick una magnetica prossemica. Seducente, come un rituale di corteggiamento in cui ci si mescola a portare e ad essere portati.
Così facendo Lidi ci regala anche una persuasiva visualizzazione di quanto l’irrazionale possa essere più potente di ogni tentativo di imbrigliamento egoico-razionale. E di come sempre l’irrazionale sia un linguaggio raffinatamente enigmatico, prezioso sia per l’individuo che per la collettività, se messo in dialogo con quello razionale.
Questa visualizzazione prende forma attraverso una sorta di imprinting con il quale Lidi guida il nostro sguardo – e quindi la nostra attenzione – a tenere insieme le due storie parallele: quella tra Brick e Skipper (narrata attraverso un linguaggio irrazionale) e quella del resto della famiglia (narrata attraverso i principi della logica). Con un passaggio successivo Lidi fa di Skipper il collegamento che pone in dialogo le due narrazioni. Skipper infatti, posizionando la porta /quinta a doppio specchio all’interno di alcune dinamiche, porta lo spettatore a “vedere” sottotesti diversi. Un efficacissimo procedimento registico “cinematografico”, dove a parlare sono certe inquadrature in primo piano, ma anche degli interessanti piani sequenza.
Greta Petronillo (la nipotina) – Valentina Picello (Margaret) – Fausto Cabra (Brick)
Effetto di questo ensemble di raffinatissime trame di montaggio registico è l’arrivo della consapevolezza nello spettatore che diversamente da quanto sembrerebbe, cio’ che più conta per ciascun personaggio, è ciò che a ciascuno manca.
Al di là dei travestimenti che ognuno di essi sceglie di indossare, ciascun personaggio ci parla anche di altro.
Margaret ad esempio – una Valentina Picello dalla verve disperatamente lussureggiante – è un’insolita gatta, “castrata” dalla famiglia e dalla società nella sua natura selvaticamente felina. Essendo lei etichettata come un terreno che non dà frutto, rischia di scomparire. Rischia di essere esclusa, ancora una volta ai margini della società. Anche nella vita di coppia le è preferito Skipper. E forse veste non a caso un abitino di un ceruleo “non ti scordar di me” (la cura dei costumi è di Aurora Damanti). Non si può permettere e non ce la fa a scappare, a saltar giù dal tetto che scotta. Non si può permettere di essere sensibile e vulnerabile: deve cambiare natura, deve resistere con acume. E da manipolata diviene a sua volta manipolatrice. Ed è consapevole della sua mutazione: dice di sentirsi “diversa”. E’ consapevole di non essere una persona buona, ma nessuno lo è. Tanto che alla domanda di Brick: “come farai a fare un figlio con un uomo che non ti può soffrire?” – lei sul momento riconosce la difficoltà, ma non si arrende. Sa attendere rimanendo in ascolto e l’occasione arriva dopo lo scatenamento del temporale interno alla famiglia. E lei si fa trovare pronta quando sarà proprio Ida a servirgliela: è un sogno e un inganno. Ma Brick lo sa: “la verità va oltre il parlare: la verità è esasperante”. E lui sceglie di farsene complice. Ma non è quello che sembra.
Papà Polliott, il padrone della “tenuta più fertile al mondo dopo quella del Nilo” – un elegantemente ruvido Nicola Pannelli dal denso carisma – è l’altro personaggio che dice di sentirsi “diverso”, di essere cambiato (dopo il sospetto di morte). Per non restare escluso ai margini dalla società, lui ha immolato il suo desiderio vitale per diventare ricco e quindi degno della stima e dell’invidia degli altri. E così si accontenta di valere quello che possiede. Non solo: il progressivo arricchirsi lo rende così tracotante da credere di poter gestire anche l’arrivo della morte. Ma poi la morte invece si palesa con un inganno e lui cade in crisi, fortunatamente. Così può cogliere l’occasione per vedere tutto con nuovi occhi, tamto da sentirsi “più saggio e più triste”. E riuscirà persino ad aiutare suo figlio Brick a “partorire maieuticamente” la causa del suo disgusto.
Nicola Pannelli (il padre) – Fausto Cabra (il figlio Brick)
Ida, sua moglie – una strepitosamente remissiva Orietta Notari, commovente nella sua resiliente energia vitale – è anche lei, in teoria, una donna “realizzata” e “inclusa”, perché in regola con il sistema (il suo terreno ha dato frutti) e perché ha sposato un uomo che nel tempo è diventato sempre più ricco. In realtà, più degli altri, Ida ha ricevuto in dono il potere dell’invisibilità e per tramutare questo dono in continue epifanie ama vestirsi di paillettes luccicanti. L’unica che in verità regala visibilità a Ida è Margaret: lei è la sola a chiamarla per nome e così facendo le restituisce la sua identità di donna. E forse non a caso Ida cercherà il suo appoggio prima-durante-dopo lo scoppio del “temporale familiare”. Ed è sempre includendo Margaret che si compone quello che Mae, con invidiosa ironia, definisce “un bel quadro familiare”, preludio all’annuncio del miracolo-mistero della tanto attesa natività.
Gooper – un efficacissimo Giordano Agrusta apparentemente morbido ma dallo sguardo carico di saette pronte per essere scagliate – è il fratello (apparentemente) “realizzato” perché divenuto avvocato e sposato ad una donna che non smette di rendersi fertile per il sistema. In verità Gooper da sempre soffre del fatto che fin dalla nascita i suoi genitori hanno preferito Brick a lui. E per sublimare questo insopportabile senso di esclusione, ha dedicato la sua vita allo studio dell’applicazione della giustizia, così da prepararsi adeguatamente alla vendetta finale sull’eredità paterna.
Mae – una raffinata Giuliana Vigogna avvolta in un panneggio color veleno – è la complice perfetta di Gooper per acume misto sia ad accondiscendente sottomissione che a ipocrita trasgressione. E insieme fanno di tutto per portare a termine la loro vendetta, che ha il sapore infantile di un giudizio universale, misto al piacere di un colpo alla Bonnie e Clyde.
Leonardo Lidi, attraverso la sua preziosa vocazione alla salvaguardia dei contenuti originari di un testo, ci restituisce tutto il carattere scandalosamente di denuncia, contenuto nell’opera di Tennessee Williams: “quell’odore dell’ipocrisia che è l’odore più potente che esista, un odore di morte”. E la bellezza del suo personale adattamento si dà proprio nel non escludere la possibilità che uomini e donne possano essere scandalosamente magnifici, riuscendo a “fare comunità” proprio attraverso le proprie fragilità.
E’ avvolta elegantemente in un morbido mantello che la cinge in un seducente abbraccio. E che lascia cadere all’indietro. Emerge dal buio con la complicità di una luce, divinamente crepuscolare. E’ la Eleonora Duse di un’incantevole Manuela Kustermann.
Accanto alla poltroncina che l’accoglie con agio, il tempo in musica delle melodie al pianoforte di un’altra donna, Cinzia Merlin, accompagnano il suo ricordare. E la sospingono a condividerlo con noi, in platea, a cui vien voglia di sederci a terra, accanto a lei, per farci ancora più prossimi.
La rievocazione del suo daimon, ovvero la rievocazione della ricerca della sua felicità attraverso l’ascolto del proprio demone guida, è affidata alla penna capace di stupore di Andrea Chiodi, che ne sa cogliere anche l’intima femminilità dei dettagli.
Andrea Chiodi
La Kustermann indossa della piccola bigiotteria, proprio come amava la Duse: non serve altro per sottolineare il suo incarnato autenticamente vivo. Dall’avvincente panneggio del mantello, s’intravede un abito di leggero chiffon nero. Gli abiti erano la passione della Duse.
Fortuny, un designer e artista spagnolo, creò abiti e accessori per lei, declinando in essi la sua passione per la moda e per l’arte. La Duse apprezzava lo stile unico e la qualità dei lavori di Fortuny, sartoria celebre per un approccio innovativo verso la moda, ricco in forme fluide e dinamiche. Abiti al di là della moda convenzionale del tempo, questi, che sapevano parlare dell’ habitus della Duse: del suo autentico modo di stare al mondo e sul palco.
Eleonora Duse
Incontri femminili hanno dato forma alla sua vita.
Quello con la sua mamma: che fin da subito seppe sostenerla nell’entrare in relazione con l’affascinante mistero dell’arte teatrale. “E’ per ridere che ti fa male!” – le sussurrava quando a quattro anni salì per la prima volta sul palco ad interpretare la Cosetta de “I Miserabili” di Victor Hugo. E per aiutarla a piangere la sollecitavano con dei pizzichi.
Eleonora Duse e la sua mamma
Poi, alla morte della mamma in giovane età, fu l’incontro con Giacinta Pezzana a rendere più consapevolmente erotica la passione per l’arte teatrale.
Giacinta Pezzana
La lunga carriera sulle scene della Pezzana – che inizia con l’unità d’Italia e si conclude con la Prima guerra mondiale – è spesso ricordata proprio per i rapporti artistico-pedagogici che stabilì con la giovane Duse e per l’interpretazione di Teresa Raquin di Zola. Sua la vocazione creatrice a tutto tondo e quell’anticonformismo che rese più difficile la sua carriera.
Eleonora Duse e Matilde Serao in vacanza a St. Moritz nel 1895. Fondazione Giorgio Cini
Altro incontro formativo fu quello con Matilde Serao. La loro amicizia, testimoniata da una fittissima corrispondenza, era autentica e piena di affetto. Fù, il loro, “un incontro spirituale, umano, oltre che letterario”.
Sarah Bernhardt – Eleonora Duse
E poi ci fu il primo incontro con “l’artista prediletta dagli dei”: Sarah Bernhardt. Conosciuta in un periodo di crisi, tale da spingere Giuditta Pezzana a lasciare la compagnia, la Bernhardt rappresentò per la Duse una testimonianza così vibrante, da incoraggiarla ad osare nel non assecondare il pubblico, quanto piuttosto “meravigliarlo”.
E così fu meraviglia quando la videro recitare John Joice e il suo giovane figlio James, tanto da sentire l’esigenza di dedicarle una poesia. Tanto da ispirarsi a lei, proprio alla sua interpretazione de La Gioconda di D’Annunzio, per il personaggio di Molly Bloom ne l’ Ulisse.
La Duse ne fu onoratissima ma non si sorprese: “ogni forma d’arte alimenta sempre altre forme d’arte” – era solita sostenere.
Ma l’incontro più bruciante fu quello, a 14 anni, con la Giulietta del “Romeo e Giulietta” di Shakespeare. In questa sua interpretazione sentì di farsi “fiore di rosa” e come rosa si donò a Romeo, fino a ricoprire con i suoi petali il corpo di lui immobile.
Sentire poi Romeo parlare di lei come “ella insegna alle torce ad ardere” fu folgorante per la Duse: le aprì la consapevolezza della sua vocazione per il teatro. Che in seguito definirà “non un’altra vita, ma vita”. Un prodigio che fa sì che lei sia tutte le donne che interpreta, e loro lei.
Perché – diceva – “l’arte ci ricorda chi siamo veramente: attore è chi riannoda le fila dell’alfabeto”.
Manuela Kustermann
Una rievocazione meravigliosa, quella che ieri sera è andata in scena dal palco del Teatro Vascello. Manuela Kustermann ha dipinto con i colori della sua voce la poesia di un ritratto di Eleonora Duse, disegnato da Andrea Chiodi, davvero ammaliante.
Si conclude questo pomeriggio, il Progetto di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann per la regia di Francesco Tavassi “6 donne che hanno segnato la storia – 6 autori che le raccontano”, trovando coronamento con il racconto di Maurizio De Giovanni su Billie Holiday.
Sono gocce di un demone femminile che sa di costanza e determinazione: quella che scava la roccia.
Sono gocce che hanno inciso, segnato e modificato la nostra Storia, attraversando battaglie sociali, discriminazioni, sofferenze.
Con la grazia tempestosa di un incantesimo, ieri sera ha debuttato il Progetto “6 donne che hanno segnato la storia – 6 autori che le raccontano”.
Il progetto di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann, curato dalla regia raffinatamente simbolica di Francesco Tavassi, si articolerà in 6 giorni dove ogni replica sarà dedicata ad una grande figura femminile. Raccontata, attraverso diversi registri narrativi, da 6 autori e restituita in forma di reading pensato per due voci: quelle di Mariangela D’Abbraccio e Manuela Kustermann, protagoniste del nostro teatro, interpreti fra le più attente e sensibili della scena italiana.
Camille Claudel e la sua creazione “L’ abandon” (1888)
Ieri sera dal palco delle Teatro Vascello è andata in scena un’epifania di Camille Claudel (1864-1943): la più grande scultrice di tutti tempi, il cui prorompente talento – proprio perché femminile – fu messo a tacere in primis dalla famiglia, con la complicità della società del tempo. Una donna che, nonostante tutto, proprio attraverso la scultura riuscì ad intagliare un materno mortificante ed una società solidamente miope.
Un folle nettare abita Camille: un fiore di donna il cui nome evoca una pianta medicinale simbolo di forza e di resistenza, proprio grazie alle sue proprietà lenitive.
Dacia Maraini
Una linfa vitale, la sua, che sa farsi malia di parole nella penna delle meraviglie di Dacia Maraini: è lei che cura la drammaturgia dello spettacolo dedicato a Camille, restituendo al suo stare al mondo uno charme profetico. Parole, quelle tessute dalla Maraini, che trasmutano nella sublime matericità della voce di Mariangela D’abbraccio, così disponibile a lasciarsi sfaccettare dalla vitalità erotica di Camille.
Ed è contagio.
Un contagio tale da scolpire una nuova forma di partecipazione nello spettatore. Che si raccoglie, solerte, intorno al vento di presenze fantasmatiche che fanno visita alla mente di Camille: quelle che popolano i lunghi anni del crudele internamento, che la condurrà alla morte. Abbandonata da tutti.
A sinistra, Camille Claudel nell’atelier che occupava al numero 117 di rue Notre-Dame-des-Champs nel 1887, mentre lavora al gesso di Sakuntala; sullo sfondo, Jessie Lipscomb, sua amica e collega di lavoro (fotografia di William Elborne, fidanzato di Lipscomb) . A destra, il gesso originale dell’opera, in quegli stessi anni donato e ancora conservato al Museo Bertrand di Châteauroux.
E’ un vento, infatti, che riporta in superficie soprattutto traumi: “non sei una ragazza seria … per castigo perderai le braccia”- le ripete sua madre. Vento, che sa cambiare anche direzione contrappuntandosi, ad esempio, al fragrante piacere – totalmente appagante – dell’attesa della cottura della creta.
Ma poi torna ancora a soffiare quel vento: “cosa se ne fa una donna della sciagurata scultura?”.
“Come può una donna dal corpo così liscio – fatto per amare – sentire un’attrazione così irresistibile per la libertà?”.
Ma lei, Camille, pur così spaurita, è anche prepotentemente decisa.
E continua a gocciolare.
Fino alla fine.
Auguste Rodin
Auguste Rodin (1840-1917), suo maestro e amore inscalfibile della sua vita nonostante tutto – nonostante non sia riuscito ad onorare la loro più viva creazione – sosteneva che Camille fosse innanzitutto uno stupefacente mix olfattivo: essenze che sia la scrittura della Maraini che l’interpretazione della D’Abbraccio rendono pervasivamente. “Le ho mostrato l’oro, ma l’oro che trova è tutto suo”- scrisse di lei, a (parziale) dimostrazione di quanto Camille fosse un autentico talento, un’esplosione di originalità.
Mariangela D’Abbraccio
Sinesteticamente sono gli occhi della D’Abbraccio a veicolare tutta la fragranza di questo oro: sono lampi olfattivi. Perché solo “gli occhi innamorati sanno fermare la luce!”.
E che brio commosso la sua restituzione, con quelle mani capaci di scolpire nell’aria tensioni.
E poi quell’intimo tremito, che sa farsi autentico riso nervoso, per epilogare in ossessive e quasi impercettibili contrazioni.
Camille Claudel davanti alla sua statua del Perseo (1898 ca)
Una restituzione davvero ricca in meraviglia, quella che ieri sera si è incisa nei sensi dello spettatore, tornando a puntare l’attenzione sulla bellezza del genio di Camille Claudel. Un genio la cui umanità continuò a brillare anche una volta privata della libertà, del cibo e dei più elementari conforti.
Una donna, la cui testimonianza, va portata sempre con noi.
Mariangela D’Abbraccio
Il progetto prosegue questa sera con il racconto di Sandra Petrignani su Marie Curie, interpretato da Manuela Kustermann.
Un’idea alla quale non si riesce a smettere di pensare, essendo stato versato nelle nostre orecchie un sospetto per far sì che diventi un assillante dubbio, è quella che si è soliti definire “una pulce nell’orecchio”. Un’idea così disperatamente insinuante, da risultare simile all’effetto provocabile da una pulce che, una volta entrata nell’orecchio e muovendosi per uscirne, non fa altro che ricordare continuamente la propria fastidiosa presenza.
Drammaturgicamente l’idea rappresenta un’occasione per costruire uno spassosissimo e super adrenalinico meccanismo tragicomico – e Georges Feydeau (1862-1921) ne era un grande maestro essendo, oltre che attore e drammaturgo, anche orologiaio, ingegnere, appassionato di matematica e del gioco degli scacchi.
Georges Feydeau
Esistenzialmente rappresenta invece una dinamica relazionale, che sottende shakespearianamente alla conoscenza di una certa inclinazione tutta umana: quella alla sopraffazione. Inclinazione con la quale tutti veniamo, fin da subito, gettati al mondo. Per “sopravvivere”.
Aprirsi a “vivere” – e quindi ad amare – è un passaggio esistenziale successivo, che richiede un desiderio e un impegno educativo verso l’arte di entrare “in relazione” con l’altro. Cercando sempre nuovi equilibri per non sopraffare e per non restare sopraffatti.
Ecco allora che il sospetto – generato dalla pulce nell’orecchio – rappresenta una postura esistenziale che ci parla del nostro istintivo difenderci dall’essere oggetto di “uno scacco” da parte dell’altro. Qui in questo testo, nello specifico, tutti sospettano di aver subito un tradimento. Perché, sebbene l’occasione nasca dal sospetto e dai relativi fraintendimenti riguardanti una singola coppia (Raimonda e Vittorio Emanuele) chi ne viene a conoscenza ne resta come contagiato “a specchio”, cadendo nella trappola del dubbio di esserne a sua volta oggetto.
“Essere traditi” è un trauma-tabù che ci mette decisamente in allarme. Nasce come un sospetto, che poi può gonfiarsi fino ad assumere connotazioni via via sempre più invadenti.
Ma “tradire” è un impulso naturale ed istintivo.
Carmelo Rifici
Ed è questa la pulce che intende introdurci nell’orecchio il regista Carmelo Rifici, che insieme a Tindaro Granata ha curato la traduzione, l’adattamento e la drammaturgia di questo spettacolo: indirizzare la nostra attenzione sulla potenza difficilmente controllabile della nostra psiche.
Spettacolosa visualizzazione ne è la volutamente disorientante scenografia, solo apparentemente un tradimento allo stile del vaudeville tutto porte, armadi e letti sfatti alla Georges Feydeau. Qui, infatti, il regista Rifici chiede all’acuto estro di Guido Buganza di realizzare una scena aperta, destrutturata, proprio per poter essere disponibile a rendersi continuamente modulabile. Adattabile alle diverse esigenze che le aree della nostra psiche, come turbolenti condòmini di un hotel, reclamano. Divertentissimo, il sapiente gioco registico attraverso cui queste aree di volta in volta, a seconda delle situazioni emotive, vengono “abitate” dagli interpreti in scena. Una coralità attoriale dalla musicalità matematica assai efficace e trascinante.
12 attori (alcuni chiamati a un doppio ruolo) donano infatti una vitalità folle a 15 personaggi che convivono in uno spazio franco: regno dell’equivoco, del doppio, di una babele di lingue e di difetti. E che non si capiscono quasi mai fra loro, ma proprio per questo si guardano con curiosità, si cercano, s’inseguono.
“Sono il primo a divertirmi quando posso sistemare faccia a faccia due personaggi che non dovrebbero mai incontrarsi. La comicità è la riflessione naturale di un dramma” – ci rivela Carmelo Rifici.
Al centro degli elementi modulari della scenografia, resta l’archetipo dell’armadio che – in una concatenazione di dinamiche surreali, che vanno al di là dei principi della logica (ovvero il principio di identità e di non contraddizione e il principio di causa-effetto) – può essere non solo un armadio ma anche una lavagna, una cabina telefonica e molto altro ancora. Insomma un crogiolo di soluzioni creative, proprie del linguaggio creativamente inconscio della nostra psiche.
Una creatività fuori dall’ordinario che ci permette di non dimenticare come al di là di ogni ipocrisia sociale ed esistenziale (vedi un presunto controllo egoico sulle altre parti della nostra psiche) noi siamo in verità curiosissimi di provare e gustare tutto. Proprio come avviene nel teatro che va in scena ogni notte nei nostri sogni. Potenzialmente liberi da gabbie logiche e moralistiche.
E dalle pareti separatorie di porte, armadi, o compartimenti di altra natura. Come quella rappresentata dal palato, ad esempio: una parete che se forata non permette l’espressione fonetica delle consonanti. E Tindaro Granata nel ruolo di Camillo ci rende tutta la tenera disperazione di chi si sente un diverso e quindi “uno sconosciuto”: non a caso, qui in Rifici, prende sembianze che alludono a quelle di Charlot. Come lui è infatti un pò l’emblema dell’alienazione umana.
Ma è innegabile, anche, come il suo linguaggio “manchevole” sappia risultare – a chi lo ascolta con curiosa attenzione – comprensibile, seppure al di là delle “pareti” della logica.
Rifici chiede inoltre ai propri attori di essere così accoglienti da offrire ospitalità alla multiforme natura del linguaggio, rendendone i colori più intraducibili verbalmente attraverso la musicalità seducentemente inquietante di strumenti musicali, in osmotico dialogo con la scena.
Una scena che con sagacia elegantemente giocosa Guido Buganza immagina e realizza ispirandosi argutamente alla concezione scenica di Adolphe Appia (1862 – 1928), che scardinò il senso della messinscena, generando un’attenzione tutta nuova verso la componente emotiva del linguaggio scenico. Dove il regista non è più l’unico artefice della trasmissione del messaggio del testo letterario: anche la scenografia e la drammaturgia luminosa vi concorrono, andando al di là della precedente funzione esclusivamente realistica.
Nasce così la nuova architettura del “palcoscenico plastico”, in cui i fondali e le quinte dipinte sono sostituite da praticabili posti su piani diversi e da scivoli che permettono all’attore movimenti che rivelano plasticamente l’apparenza eternamente fluttuante del mondo fenomenico. Un teatro, il suo, non tanto della “rappresentazione” quanto della “relazione tra attore e spettatore”. Uno spazio sempre meno “edificio” ma sempre più “una questione di valori”: necessario strumento linguistico ed espressivo di un ritmo scenico.
Quel ritmo che, qui in Rifici, è immanente e trascendente il contesto teatrale – ricco com’è di riferimenti extratestuali quali “Tanto rumore per nulla” di Shakespeare, “I giganti della montagna” e “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello e ancora la Maieutica socratica. E che diviene una denuncia giocosamente perspicace della nostra ipocrisia esistenziale, nonché del nostro impoverimento esperienziale su “ta erotika”: quelle “cose dell’amore”, di cui Socrate parla nel “Simposio” di Platone.
Affinché il nostro vivere soggettivo e civile sia sempre meno ossessionato da pretese di sicurezza protettiva: imparando a stare al mondo senza “bretelle”, insomma. Progressivamente meno sospettosi nell’investire tempo e risorse per “assicurare” l’altro.
Perché l’altro è uno sconosciuto sì, ma uno straniero che ci assomiglia, più di quanto immaginiamo. Decisamente prezioso per conoscere meglio noi stessi.
Perché “la primavera non è mai troppa”.
Ma soprattutto perché “nessuno muore mai veramente”.
Ma sarà proprio vero che “l’energia genera sempre energia” e che “non bisogna fermarsi mai”?
Cosa prende forma ad un certo punto della vita tra un “mi hanno insegnato” e un “mi manca” ?
Che uso si deve, o si può, fare delle proprie origini professionali e personali ? E che cosa significa trasmetterle ?
Insomma, cosa s’insinua “dietro la luce” di una danzatrice e di una donna di successo ?
Cristiana Morganti – performer di fama internazionale diplomata in danza classica e in danza contemporanea e formatasi per oltre un ventennio al Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, approfondendo lo studio sulla voce e sulla ricerca teatrale con gli attori dell’Odin Teatret di Eugenio Barba – ci invita con ironica e provocante dissacrazione a “rompere” la quarta parete e a sintonizzarci sulla sua lunghezza d’onda. Concedendo libero corso a tutto ciò che abbiamo sacrificato per un determinato periodo della nostra vita e che ora ci va troppo stretto per riuscire a continuare a farlo.
Ma cosa si può fare – di creativo – di questo invadente disagio?
(ph. Ilaria Costanzo)
Sorprendendoci continuamente, la Morganti ci tiene alla poltrona di sala tesi a spiccare il volo: ognuno il proprio. Un volo nuovo, un nuovo inizio: come è accaduto a lei, subito dopo che la vita l’ha scaraventata a terra. Ma “stare a terra” può aprire a nuovi orizzonti, a nuovi desideri, che in parte tradiscono i precedenti e in parte se ne fanno personali – e quindi liberi – legami.
E così, ad esempio, l’essenza dell’iconica sedia delle origini (vedi il Café Müller di Pina Bausch) resta ma prende le sembianze di una morbida, leggera, coloratissima, rimbalzante o sprofondante poltrona gonfiabile.
(ph. Ilaria Costanzo)
Rosa fluo: un colore brillante, impossibile, impudente, energico.
Un colore che nel corso della performance la Morganti inizia anche progressivamente ad indossare e a fare suo, come un nuovo temperamento.
E che associa al nero: un colore in perenne espansione, pronto ad inghiottire tutto. Ma sebbene sia la traduzione dell’assenza di luce, nessun nero riesce ad esserne totalmente scevro.
Soprattutto per una donna e una professionista come la Morganti che, interrogandosi, scopre di non essere solo rigorosa ma anche curiosissima e quindi restia a scegliere rigidamente. Insofferente, ora, a fare tagli, sebbene una parte della sua psiche più sabotante la inviti a farlo.
E’ il suo gesto danzante così poetico a parlarcene, nel momento in cui lo vediamo reiteratamente geometrizzarsi in una chiusura, in un perimetro, in un limite che separa e non invita ad un prossimo nuovo incontro.
Così come si rivela di lacerante ironica bellezza il suo modo di rendere creativo il dissidio tra fragilità e forza. Come quando, ad esempio, entra in relazione con uno dei dictat asfissianti della propria formazione, prima cercando di sublimarlo in un canto dalla luminosa ironia melodrammatica e poi – ancora non paga – rinunciando alle stesse parole per affidare lo scioglimento del disagio al dialogo tra l’espressività corporea e quella musicale.
(ph. Antonella Carrara)
Perché lei si riscopre golosa di vita, laddove la vita e la danza le hanno richiesto l’ascesi della rinuncia. Ma l’esplorazione del limite, non come separazione ma come soglia di dialogo con l’oltre, ora ha la meglio sulla sua mitica compostezza. Messa a dura prova anche da terremoti esistenziali.
Ecco allora che la sua parola diviene “ironica” perché – proprio come sosteneva Kierkegaard – «L’ironia è la via; non la verità, ma la via». Perché l’ironia è come un mare, in cui ci si può tuffare per avere un «tonico refrigerio» quando l’aria è troppo pesante.
(ph. Ilaria Costanzo)
Concetti fascinosamente visualizzati attraverso gli originali e raffinati video di Connie Prantera e da una drammaturgia luminosa curata da Laurent P. Berger.
Una performance – questa di Cristiana Morganti affiancata alla regia da Gloria Paris – sorprendentemente spiazzante, sapientemente provocatoria, profondamente liberatoria, vibrantemente energizzante.