Recensione dello spettacolo LA CIOCIARA di Alberto Moravia – regia di Aldo Reggiani

TEATRO GHIONE, dal 9 al 12 Novembre 2023 –

Rievocare per non dimenticare. 

Questo l’alto valore della scelta etica, prima ancora che estetica, di Caterina Costantini nel riproporre dopo 38 anni dal primo allestimento l’adattamento di Annibale Ruccello de “La ciociara” di Alberto Moravia con la regia di Aldo Reggiani. Lo spettacolo, ieri sera al debutto, resterà in scena al Teatro Ghione, in anteprima nazionale, fino al 12 novembre p.v.

Le atrocità e gli orrori della guerra infatti, temi centrali del testo originale, purtroppo sono ancora attualissimi.

È davvero molto necessario allora ricordare che cos’ è la guerra e cosa diventano gli uomini in guerra. Perché – come sosteneva Primo Levi – “chi dimentica il passato è costretto a ripeterlo”.

E seppure è innegabile che la guerra acutizzi il nostro ancestrale e prepotente istinto alla sopraffazione, è importante non smettere di desiderare di voler imparare a diventare capaci di amare. Perché l’amore s’impara: non è un sentimento che riceviamo per natura.

Alberto Moravia e Caterina Costantini

Lo spettacolo prende avvio immaginando un “the Day After”: un “dopo” successivo alla conclusione del testo originale dove una Rosetta, sempre più alienata da sé (interpretata da una Flavia De Stefano al suo primo e luminoso debutto), un po’ come ” il figliol prodigo”, reclama anzi tempo la sua eredità, per il capriccio di acquistare un’automobile.

La sua è l’urgenza di omologarsi a quell’italietta del tempo, preda di una “rivoluzione invisibile” di cui solo un sensibile ed altruista intellettuale come Michele riesce ad avere consapevolezza. A differenza del padre della parabola, Cesira (una carismatica Caterina Costantini, inossidabile nell’appassionarsi e nell’appassionare) si rifiuta di cedere soldi alla figlia ricorrendo ad un’ipoteca sulla loro casa: “la casa non si tocca”.

È infatti quel che resta della “roba” di cui può ancora disporre, ora che sua figlia, sfuggita all’iper protezione materna dopo il trauma della violenza subita, è ancora alla ricerca di se stessa. Lo scontro rievoca in Cesira – in una sorta di teatro nel teatro, enfatizzato da un’interessante drammaturgia della luce – una serie di ricordi e di apparizioni: ombre più o meno vaghe del suo passato.

La più vivida è quella di Michele (un fiero Vincenzo Bocciarelli) che – quasi come l’Oracolo di Delfi – la invita a riflettere sul fatto che di Rosetta lei ora raccoglie ciò che come madre è stata capace di seminare in passato: il desiderio di accumulare “roba”.

Caterina Costantini (Cesira) e Rosetta (Flavia De Stefano) in una scena dello spettacolo

Ma “seppure gli uomini muoiono – continua Michele – il dolore li fa rinascere”. E con questo invito a fare un buon uso della sofferenza per poter dare avvio ad un nuovo inizio, ad una nuova consapevolezza di sé, Michele dimostra ancora una volta di ad aver cura di lei.

Lei che resta “trincerata” – e la scena sa rendere con eloquente bellezza drammatica questo suo luogo/condizione della mente e dell’anima – dietro i suoi “valori” esistenziali basati esclusivamente sull’accumulo. Perché il primo comandamento che la guida è ancora quello che recita “l’importante è che vinca il più forte”. E di conseguenza, se non si riesce ad esserlo, si diventa complici di chi lo è.

Lorenza Guerrieri (Concetta), Caterina Costantini (Cesira) e Flavia De Stefano (Rosetta) in una scena dello spettacolo

La guerra riattizza la nostra tensione più prepotente: quella alla sopraffazione. Ma anche la mancanza di cultura educa al’insensibilità: alla divisione, all’opportunismo. “Le donne in tempo di guerra non possono andare troppo per il sottile”: a dirlo non è un uomo ma una donna (Concetta, una credibilissima Lorenza Guerrieri ), una contadina che solo in apparenza è accogliente con Cesira e sua figlia ma che all’occorrenza non ci pensa neppure un attimo a barattare la sua complicità alla vendita di Rosetta ai fascisti pur di avere liberi, cioè in “suo” potere, i suoi due figli. Perché i fascisti (qui rappresentati da un interessante interpretazione di Marco Blanchi) “c’hanno tutto: la provvidenza ce li ha mandati”.

“Che c’hai ? “. E’ questo infatti il bieco pulsare di quel che resta della coscienza. Perché in un’umanità che ha sostituito il senso della “pietà” con quello della “pietanza”, è ciò che si ha che restituisce il valore della persona. Un’umanità che parla esclusivamente di cibo da accumulare: in pancia e in quel che resta del cuore. 

Per questo è importante ricordare, cioè riportare al cuore – luogo del coraggio e della concordia – in quale deriva noi esseri umani possiamo essere trascinati in tempi di guerra.

Ricordare ci dà la possibilità di consultare il passato, di interrogarlo e di interrogarci.

Per capire ed essere capaci di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro.

Per tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e di dove abbiamo la possibilità di spingerci.

Il cast de “La Ciociara” di Aldo Reggiani

E riportare in scena questo struggente spettacolo – che si arricchisce anche delle presenze interpretative di Armando De Ceccon (nel ruolo di Filippo) e di Vincenzo Pellicanò (nel ruolo di Tommasino) – proprio in un momento storico quale quello che stiamo attraversando, lo rende estremamente prezioso.

Un necessario contributo che il Teatro non smette di rendere al vivere civile.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO GHIONE, Dal 17 al 20 Marzo 2022 –

Che cosa desiderano davvero i “Sei personaggi”? L’eternità “garantita” dalla parola scritta, che incide e lascia impressi i segni di una presenza. Vogliono un autore che sappia trasformare l’unicità della loro storia in “scrittura”.

Ma per riuscirci occorre saper credere nei paradossi di un teatro che è metafora di se stesso e si autoanalizza. Non abbiamo qui attori che recitano una parte, ma Personaggi “incarnati”, “spiranti e semoventi” (come li definisce Pirandello nella Prefazione), che si presentano in un teatro, dove si sta provando la commedia “Il giuoco delle parti”, sempre di Pirandello.

“Sono” Personaggi partoriti e poi abbandonati da un autore che rinuncia a scrivere il loro dramma. Orfani della mente dell’autore, i Personaggi s’incarnano e ossessionano il Capocomico e la sua Compagnia, perché ascoltino la loro storia e la recitino così com’è: vita direttamente balzata sul palcoscenico, senza la mediazione di un testo scritto. La vita è già teatro.

Gli Attori protestano, si rifiutano di recitare parti non scritte ma i Personaggi impongono alla Compagnia di assistere direttamente agli eventi che verranno riproposti nella loro verità carnale, con le emozioni di quel momento ora vissuto dai Protagonisti. Gli Attori diventano cosi spettatori e gli spettatori della platea sono costretti ad assistere allo smontaggio analitico della forma teatrale.

La regia di Claudio Boccaccini sa restituire quelle atmosfere paradossali di un teatro che si autoanalizza. Lo si percepisce dalla valorizzazione dedicata a determinate parti del testo, colte nella loro polivalenza;

nella direzione degli interpreti (incluso se stesso, che da alcune edizioni interpreta con elegante arguzia il ruolo del Capocomico); nel lavoro sulla voce e sul corpo fatto su e con gli interpreti, così necessario in un testo come questo dove, più che in altri, anche il corpo è il luogo di un teatro. Dove qualcosa parla: dice l’anima.

A questo proposito è risultata particolarmente efficace la scelta (propria di questa edizione) di mettere in scena “scalza” la Figliastra, esaltandone così ancor di più la vibrante felinità (resa con molta efficacia da Francesca Innocenti). Di particolare intensità i personaggi della Madre (una Silvia Brogi che sa rendere le varie sfumature dell’essenza del dolore),

del Padre (un Felice Della Corte che sa tratteggiare le diverse pieghe del rimorso)

e quella del Figlio (un Gioele Rotini efficace maschera dello sdegno).

Tutti gli interpreti danno prova di specifica incisività e al tempo stesso risuonano ben accordati fra loro

ma la restituzione più intensa Boccaccini l’affida alla sua interprete preferita: la Luce, che sa rendere magicamente l’inquietudine tipica del teatro dell’inconscio, del rimosso, del fantastico come caos psichico.

Il fondale che ri-partorisce incarnando “quel che è” dei Sei personaggi è reso con una perizia tale da suggerire sempre nuovi giochi di panneggio a dei semplici teli di leggerissimo nylon, dai quali quasi rotolano, come onde concrete e insieme evanescenti, le sagome-fantasmi dei Sei personaggi. Sembra un mare dal quale, con la violenza selvaggia di onde cariche di elettricità, riescono ad emergere le creature della Fantasia.

Gli Attori, testimoni di questa epifania, iniziano a fare esperienza dell'”aperto”, del “senza margini”, del senza regole. E, colti da immenso disagio, ridono nervosamente, tentando di sminuire l’effetto provocato su di loro dall’angoscia e insieme dal’ebbrezza della libertà. Ma il Capocomico comprende che quella è l’occasione di dare la parola allo “straniero”, gettando così le basi ad una “integrazione”. Perché questi selvaggi personaggi non sono potenze minacciose da cui difendersi: sono luogo di energia inesauribile.

Va infine sottolineata l’opportuna resa iconografica del disegno luci che enfatizza la contrapposizione della “realtà” degli Attori da quella dei Personaggi.

Claudio Boccaccini rende la prima, immergendo gli Attori in una calda e rassicurante luce, come in certi quadri di Jack Vettriano; mentre per rendere la seconda

sceglie di tuffare i Personaggi in una luce brumosa che si carica di energia di tempesta ed esplode in bagliori, come in un quadro del Caravaggio.


Recensione di Sonia Remoli