Recensione dell’episodio n.3 della Saga NELLE PUNTATE PRECEDENTI – regia Pier Lorenzo Pisano e Alessandro Di Murro

Una saga familiare 

ideata 

dal Gruppo della Creta e da Pier Lorenzo Pisano

per riflettere

sulla trasposizione della narrazione seriale a Teatro 


Episodio n.3

Titolo: “Giro di vite”

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Continua la dilagante affluenza di giovani al Teatro Basilica, intrigati dal seguire ogni episodio della saga familiare “Nelle puntate precedenti”.

Ieri sera si era tutti in attesa dell’Episodio n.3, scritto da Lorenzo Fochesato, intitolato “Giro di vite”.

Provoca infatti una reazione simile “a un giro di vite”, il colpo di scena con il quale si conclude l’episodio precedente: la rottura del segreto finalizzato a far credere alla 25enne Giulia di essere l’unica figlia di Chiara e Max.

Un giro di vite che drammaturgicamente si dà attraverso l’inasprirsi dello sguardo che ciascun personaggio rivolge su se stesso, e di conseguenza sull’altro. E che porterà ad una nuova situazione tragica.

L’attanagliante struttura con cui è stata pensata, scritta e realizzata questa saga familiare, prevede infatti che ogni episodio si dia sia come risultante del colpo di scena con cui si è chiuso l’episodio precedente, sia come crogiolo nel quale viene di nuovo a prendere forma un colpo di scena, i cui effetti apriranno l’episodio successivo.      

Un po’ come in poesia, infatti, anche la serialità è un’espressione artistica che insegue l’invenzione formale, rispettando le regole del genere che si è scelto. Anzi, è proprio il “genere” (qui, quello della “saga familiare”) con i suoi vincoli e le sue specificità a farsi ostacolo indispensabile alla scrittura, senza il quale la creatività non avrebbe ragione di trovare nuove soluzioni. 

Metafora e “forma metrica” di questo terzo episodio è quella del “giro di vite”: una stretta, e quindi un inasprimento, che in alcuni personaggi nasce dalla sana in-tenzione a vivere “le prossime puntate” (ovvero, il futuro) con una maggiore solidità esistenziale e relazionale. E che in altri personaggi nasce invece dall’in-tenzione di chiudere totalmente con le “puntate precedenti” (ovvero il passato), nell’illusione di riuscire ad eliminarne ogni traccia.

Le mura del castello di segreti e di manipolazioni che fino all’episodio precedente continuavano a stare in piedi, dopo l’infrangersi del segreto legato all’esistenza di una precedente figlia di Chiara e Max, crollano ora sui personaggi della saga familiare. Molto interessante si rivela, a questo riguardo, il lavoro registico – reso con grande efficacia dagli interpreti – volto a visualizzare il tipo di relazione, che si spinge fino alla simbiosi, tra ciascun personaggio e il proprio muro di menzogne.

Nello specifico:

La coppia genitoriale si scioglie. Mentre il marito Max attraversa il peso incombente del suo muro di complicità, finendo per aprirsi ad una nuova possibilità per affrontare il presente e il futuro; la moglie Chiara non entrando in tensione con il proprio muro, finisce per costruirne un altro, che taglia fuori suo marito.

La coppia dei giovani, Giulia e Francesco, vivono il muro familiare come elemento di occultamento della realtà. E mentre lui si dà come punto fermo disposto ad ospitare, nella confusione, il nuovo che vuole entrare e il vecchio che va filtrato; quello di lei è un continuo muoversi nello spazio, nell’ostinazione contraddittoria a scovare- buttare-tenere habiti (ovvero, modi di essere) del passato nel presente.

Che poi scopre poter accogliere nello spazio di uno zaino. E di un bacio. Nuovi scenari da condividere con Francesco.

Rassicurata e stimolata anche da un’eredità paterna, che si dà come viatico per sentirsi vicini anche guardandosi da lontano. Per non affogare nella palude delle iper protezioni familiari. Ma soprattutto per imparare ad appassionarsi alle “puntate successive” della vita: così, proprio per la loro affascinante incertezza. Senza avere troppa fretta di sapere come andrà a finire.

E poi c’è la coppia madre-figlio, ovvero Agnese e Riccardo. 

E sarà Agnese la mater familias, nonché nonna di Giulia, che con un colpo di scena si spalmerà, ostinatamente in simbiosi, sopra il muro delle sue manipolazioni. Continuando a confondere e a manovrare i desideri dei suoi figli: ora quelli di Riccardo. Che “insignisce” – con (subdola) menzione di grande fiducia nei suoi confronti – del compito di bruciare tutto. Inclusa la sua amata vigna che, stressata dalle continue pretese di raccolta, da tempo non produce più un buon vino.

In verità Riccardo si era curato di aprirsi creativamente al futuro, dopo il caos familiare provocato dal disvelamento del segreto sulla prima Giulia, piantando una nuova piccola vigna, proprio come fece Noè all’indomani del diluvio. Oltre a continuare a prendersi cura della vigna di famiglia. 

E ora non ce la fa proprio a rinunciare a tutto. Proprio ora che, invece, avrebbe tanto voluto aspettare e conoscere “le nuove puntate” della storia della sua vigna. Piantata e curata da solo. O meglio, con il suo Rino, ora che Max se ne è andato.

Ma la mamma insiste. 

E occorre trovare la forza di trasformare l’acqua in fuoco: il miracolo della vita, nel suo sterminio. 

Occorre un ulteriore “giro di vite”. E di lacerante bellezza si rivela la resa registica di questa tragedia personale.

Splendidi echi di malinconica vitalità cechoviana punteggiano la scrittura di Lorenzo Fochesato, regalando alla narrazione tragica di questo episodio momenti di luminosa poesia. Di cui gli attori – Laura PanniaDaniela GiovanettiAlessio EspositoMatteo BaronchelliShadi RomeoVittorio Bruschi  – sanno farsi seducenti interpreti.

E così ben predisposti alle “prossime puntate”, vien da proiettarsi ancora una volta a fantasticare sugli esiti che si manifesteranno ora nel quarto episodio: quello scritto da Valeria Chimenti, dal titolo “Due passi indietro e uno avanti”.

In scena il 18 e il 19 Novembre p.v.


NELLE PUNTATE PRECEDENTI


Recensione di Sonia Remoli

Recensione NELLE PUNTATE PRECEDENTI – regia Pier Lorenzo Pisano e Alessandro Di Murro – (episodio 2)

Una saga familiare

ideata

dal Gruppo della Creta e da Pier Lorenzo Pisano

per riflettere

sulla trasposizione della narrazione seriale a Teatro 






EPISODIO N.2

Titolo: “Replica”

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Ma che meraviglia questo sperimentare a Teatro una narrazione seriale!

E quanti giovani!

In tantissimi stanno invadendo ogni settimana il Teatro Basilica.

Tanto che sono state aggiunte repliche ad ogni prossimo episodio della saga. 

L’idea del progetto porta la firma del Gruppo della Creta e di Pier Lorenzo Pisano, per la regia di Pier Lorenzo Pisano e di Alessandro Di Murro.

Dopo il primo episodio – scritto da Pier Lorenzo Pisano e intitolato “Scatenare incendi” – ieri sera è andato in scena il secondo episodio della saga familiare “Nelle precedenti puntate”, intitolato “Replica” e scritto da Giulio Fabroni e Veronica Penserini –  

Un titolo scelto argutamente, per lasciare fin da subito nello spettatore la sensazione di quanto ciò che ci precede – le “puntate precedenti”, ovvero il nostro passato – ci costituisca. Fino a invaderci. 

Già dalla nascita veniamo alla luce non solo grazie al dna organico dei nostri genitori, ma anche grazie al dna dei loro desideri, delle loro aspettative su di noi. A partire dalla scelta del nostro nome, spesso associato a chi dovremmo assomigliare. Così loro sperano, spesso fino a pretenderlo.

Intrigantemente qui il concetto è reso, anche, attraverso la riproposizione di un habitus (un modo di fare) che si desidera tramandare, simboleggiato dal tipo di dono che la mamma fa a Giulia: un abito uguale a quello che indossa la nonna e che Giulia già indossava da bambina.

Questa specie di destino a cui si dà forma – in scena, così come nella vita – sarà la causa scatenante dell’accendersi di certi meccanismi emotivi incendiari, dalle conseguenze sotterraneamente divampanti.

Incendi il cui trasporto si può rivelare attraverso un forma di mania, condizione capace di svelare il presente nella sua verità più profonda. Soprattutto nei frangenti in cui il futuro si dà come incerto e oscuro.

Qui il racconto si snocciola intorno a Giulia e alla sua famiglia. 

E’ una storia antica, che inizia molto prima di lei: negli anni settanta, prima che sua madre Chiara e sua zia Serena smettessero di parlarsi. E che arriva ai giorni nostri. 

Il primo episodio ci ha presentato i personaggi festeggiare il primo compleanno della piccola Giulia che, pochi giorni dopo, è morta accidentalmente mentre era sotto la custodia della zia Serena. Zia che viene allontanata dalla famiglia, essendo ritenuta rea di essersi macchiata di questa colpa. 

Nel secondo episodio si riparte ancora da un compleanno: è di una giovane donna che si chiama ancora Giulia e che ha 25 anni. Lei è la sorella della Giulia morta, ma ancora non lo sa.  Lo scoprirà per caso, spinta dalla curiosità di vedere una misteriosa cassetta VHS, titolata “Primo compleanno di Giulia”. 

Questa cassetta VHS è l’unico ricordo preservato dall’incendio che i suoi genitori hanno appiccato a tutte le foto che raccontavano la loro attesa della prima Giulia, così come il primo anno trascorso insieme.  Credendo di liberarsi così, di una tremendamente dolorosa “puntata precedente”. 

Ma questa cassetta VHS – che il papà desidera ardentemente rivedere con sua moglie proprio alla vigilia del 25esimo compleanno della seconda figlia Giulia, e che poi lascerà incustodita – rappresenterà un vero e proprio deus ex machina. Creerà cioè un colpo di scena che sovvertirà il corso della storia di Giulia. Così come l’avevano immaginata i suoi genitori, tenendole cioè segreto il suo destino di “replica_nte”. Segreto portato avanti per 25 anni.

Di accattivante bellezza artigianale ed esistenziale la costruzione scenica di questo deus-ex machina che – proprio perché confezionato dal papà quasi come un’esca, rende allo spettatore l’incendio del suo desiderio sotterraneo. Complice anche un’accattivante modalità scenica che sa rendere l’effetto di un piano sequenza a teatro. E che quindi parla allo spettatore di come noi stessi, possiamo essere artefici del nostro destino. Anche quando, apparentemente, pare caderci addosso involontariamente.

Destino che spesso siamo noi a far sì che ingrigisca non solo i nostri capelli, ma anche la nostra vita. Di struggente poesia la visualizzazione di questo messaggio attraverso il gesto della mamma di Giulia dell’incipriare e dell’incipriarsi i capelli e il viso di quel grigiore che sa di triste distacco. Ma che odora ancora di borotalco.

La saga familiare “Nelle precedenti puntate” è infatti la storia quotidianamente epica di una colpa generatrice che, come nelle tragedie antiche, continua a tramandarsi senza scampo. 

È una storia esistenziale di scoperta del proprio ruolo nel mondo e nella famiglia, nonché di liberazione da quello che si è ereditato dal passato. Perchè, per dirla con Sartre, “l’importante non è ciò che hanno fatto di noi, ma ciò che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”.

La coralità degli attori – Laura PanniaFederica DordeiDaniela GiovanettiAlessio EspositoMatteo BaronchelliAlessia SantaluciaElena VanniShadi RomeoVittorio Bruschi,  Lorenzo Garufo -restituisce allo spettatore tutta la pulsante e naturale visualizzazione del nostro stare al mondo incendiario e incendiato.

Grazie anche ad un diverso modo di vivere il tempo, proprio della serialità: scegliere di raccontare una storia dilatandola in diversi episodi, alimenta infatti un rapporto di maggiore confidenza tra attore e spettatore. Il quale ha la possibilità di sintonizzarsi sulle frequenze del personaggio, seguendolo nella sua evoluzione psicologica nel tempo. Fino a portarlo nella propria quotidianità. Dando vita così ad una nuova forma di ritualità teatrale, che si ripete e si rinnova ad ogni episodio. Con cadenza settimanale. Geniale l’aver visualizzato questo concetto anche attraverso la serialità del tempo scandito dalle 25 bottiglie di vino (una per ogni anno della festeggiata), anziché attraverso un’unica torta di compleanno.

Il tipo di narrazione seriale scelto dagli ideatori del progetto – Il Gruppo della Creta e Pier Lorenzo Pisano – è quello della “saga”, ovvero l’insieme dei racconti sul decorso storico-evolutivo (qui brillantemente ridefinito “puntate precedenti”) di un personaggio o, meglio, di una genealogia di personaggi con radici comuni. 

Un insieme di racconti che si articola in episodi, che possono essere visti anche singolarmente.

Episodi dove i fatti si tramandano oralmente, quasi come leggende, regalando allo spettatore un senso di continuità e di appartenenza, che fa sì che le esperienze individuali si colleghino ad una dimensione collettiva, vivificandone la memoria.

Episodi dove, altresì, si affrontano sfide con il proprio destino: attraverso un meccanismo testuale che prevede il ritorno di strutture costanti e allo stesso tempo la loro variazione.

E forse è questa l’esigenza che porta al Teatro Basilica maree di spettatori, soprattutto giovani: l’esigenza che trova soddisfazione nella ritualità seriale del riconnettersi ad un’idea collettiva di realtà. Come già evidenziava Umberto Eco nel saggio “L’innovazione nel seriale” del 1985, dove analizzava i meccanismi che regolano il piacere della serialità.

Ed è così che già da oggi, ci si ritrova ad immaginare cosa ci riserverà il Terzo episodio della saga familiare “Nelle puntate precedenti”. Episodio scritto da Lorenzo Fochesato, in scena l’11 e il 12 Novembre, dal titolo “Giro di vite”.


NELLE PUNTATE PRECEDENTI


Recensione di Sonia Remoli

LA SPARANOIA – regia Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri –

TEATRO BASILICA

dal 23 al 27 Aprile 2025

In uno spazio ontologicamente violento, deprivato e depravato, in cui il tempo è scandito dall’orario della messa in onda dei telegiornali la cui narrazione enfatizza episodi di cronaca domestica e sociale all’insegna della violenza repressiva, va in scena “La sparanoia”: una sparatoria sulla nostra inclinazione esistenziale a privarci della responsabilità di essere liberi. Paranoicamente indotti, da chi di ciò è consapevole, a diffidare degli altri così da restare innocue monadi isolate in casa, anziché una comunità che si ritrova in piazza – o a teatro – per difendere i propri diritti.

“La sparanoia” è uno spettacolo ustionante come uno scroscio di lapilli, rovesciati sul pubblico da due narratori terribilmente capaci a tramutare l’acqua in fuoco.

“La sparanoia” è un inveire aggressivo osmoticamente grottesco.

“La sparanoia” è un consuntivo e un’autoanalisi feroci, di e su gli attuali trentenni, eredi “sociali” di figure di riferimento repressivamente iper protettive.

Niccolò Fettarappa – Lorenzo Guerrieri

ph. Antonio Ficai

Uno spettacolo che fin dall’inizio prende d’assalto lo spettatore facendo emergere un’angoscia che, in un crescendo incalzante, arriva a riaccendere il sapore di un trauma. E lo senti anche in gola: come il nodo di quella cravatta che i due interpreti indossano e che sembra diventare sempre più opprimente. Quasi un cappio.

Si può uscire dallo spettacolo con il sorriso ma anche con un forte peso di compassione, di preoccupazione, di timore: quello conseguente all’aver visto riflesso come in uno specchio, con crudo realismo, cosa siamo disposti a diventare in nome di uno pseudo quieto vivere, fatto di “cancelli” che bandiscono ogni spazio d’aggregazione.  

Accettando di “fare la rivoluzione nel proprio piccolo e con tutto il bene del mondo”.

Lorenzo Guerrieri – Niccolò Fettarappa

ph. Laura Farneti

Attraverso la narrazione che si origina dall’esplosiva sinergia tra Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri e che si avvale del contributo intellettuale di Christian Raimo, si avventa sullo spettatore una tempestosa pioggia di invettive. Potenzialmente assai fertile, perché non scatenata da un capriccio fine a se stesso, quanto piuttosto da un voler “farsi mezzo” per riaprire un possibile varco erotico. E così riuscire a ricontattare quel fuoco del desiderare, capace di “agitare” quell’atarassico stagnare infantile da cui tendono ad essere attanagliati i nuovi trentenni. Tempo in cui sono immersi gli stessi interpreti in scena.

E’ la loro, infatti, una narrazione il cui narrar-si implica un ritorno su se stessi, che fa guardare il sé anche come altro da sé. E comune ad altri.

Questo loro saper disporre di un libero uso del potere della parola, diviene “un dono”, capace di regalare allo spettatore la possibilità di fare luce su mistificazioni, che si tendono a produrre a discapito del soggetto e del cittadino.

La parola infatti può produrre incantesimi, che non hanno niente a che vedere con la magia del colpo di bacchetta o con lo strofinio della lampada. La parola dispone di un potere che la rende un rito magico capace di generare quell’impossibile che passa attraverso l’intonazione della voce, attraverso la scelta dei verbi, attraverso il ritmo del respiro su cui si regge il suono. L’incantesimo della parola è cioè consapevolezza del potere dell’asserzione: quell’affermazione, in sé non dimostrata, con cui si può tessere però una posizione, un’argomentazione, un’identità.

Questo lavoro di Fettarappa e Guerrieri risulta disturbante proprio perché, rivelandoci cosa si cela dietro certi usi della parola, taglia quell’illusione di protezione che alcuni discorsi, ai quali abbiamo offerto il nostro orecchio, pretendono di veicolare. E ci fa sanguinare d’angoscia. Ma ci dobbiamo stare dentro.  Perché solo consapevoli del potere perverso di certe asserzioni, possiamo muoverci fuori da esse: oltre l’asfissia di quei rassicuranti perimetri. Verso un primo avanzare. Fuori.

Co-protagonisti in scena, insieme ai due interpreti, alcuni oggetti che simbolicamente vanno oltre il loro valore di attrezzeria: in primis uno stendino da bucato, oggetto domestico e addomesticante, dove si può credere di aprirsi ai venti della vita restando sempre in casa, ben bloccati ai suoi fili. Al massimo, sventolando da fermi. Un oggetto costruito su una “X” che si richiude su se stessa: cifra caratterizzante la genitorialità e le figure sociali di riferimento degli attuali trentenni.

E poi quel “metro quadrato di casa” simboleggiato da un tappettino che rende benissimo l’idea di come questi giovani restino ancora posturalmente “appesi “ e ”sospesi” alla vita, anche quando sembrano staccarsi dall’appendino per gestire un vivere autonomo in una nuova casa. In realtà un monolocale più simile ad un cestello fermo di una lavatrice dove, credendo di essere al sicuro in un ammollo di delicatezza, scoprono invece di annegare nella depressione. Privati come sono dell’imprinting all’avventura perché “allevati” senza quei necessari “tagli”, propri dei continui svezzamenti vitali.

E poi quell’ anticamera che c’è ma non si trova: simbolo di quel luogo dell’animo dove “saper attendere” può significare non annichilirsi ma riscoprire la possibilità di incendiarsi di desiderio d’azione. Insieme.

Perché è l’unione che fa la forza. E’ la comunità che può rendere liberi e non il singolo individuo che, chiuso nella sua solitudine crede di doverla affrontare individualmente nella segretezza di uno studio psicoterapeutico. Perché il disagio non è di un singolo, come si preferisce far credere, ma di un grande gruppo. E la vera leva è scendere in piazza, in uno slancio politico collettivo.

Perché la piazza – come il teatro – è un luogo di trasformazione, che può opporsi al nichilismo subdolamente insufflato nelle orecchie da chi ci rassicura che andrà tutto bene se si rimarrà isolati narcisisticamente nelle proprie case.

E così lo scroscio di invettive roventi di Fettarappa e Guerrieri può diventare, proprio passando attraverso il trauma dell’angoscia,  “slancio” esistenziale e politico. Finanche dimensione morale, capace di accendere di furore.

Alla ricerca ognuno – al di là di un anonimo e innocuo habitus grigio divisa – del proprio “fattore X”: quel qualcosa di unico, così eccitante da scoprire e da riscoprire continuamente, che riesce a farci “brillare”.

Disposti, allora, a non accettare più di “fare la rivoluzione nel proprio piccolo e con tutto il bene del mondo”.

Ma “fuori” e “insieme”.

Lorenzo Guerrieri – Niccolò Fettarappa


Recensione di Sonia Remoli

MARIO E MARIA – Il turista del sentimento – di Natalia Vallebona e Faustino Blanchut – regia Natalia Vallebona

TEATRO BASILICA

dal 15 al 17 Aprile 2025

Cosa si nasconde sotto il tappeto persiano di un elegante interno borghese?

Cosa celano i garbati punti-luce disseminati in questo habitat così raffinatamente arredato e così ricco in decoro?

Sarà l’entrata in scena della drammaturgia fisica dei corpi dei quattro interpreti – gli stupefacenti Poetic Punkers : Faustino Blanchut, Julia Färber Data, Marianna Moccia, Florian Vuille – a rendere visibile l’invisibile. Incidendo negli occhi e nell’animo dello spettatore i sottotesti di questo habitat così insospettabile.

Saranno i loro corpi a svelare tutti quei disequilibri, portati in superficie da incontri imprevisti che – nonostante tutto il decoro di cui vogliamo ammantarci – riescono a farsi strada e a sovvertire i nostri piani, così gradevoli. 

Sono corpi nudi, anche quando ricoperti da abiti: urlano chi siamo e cosa desideriamo davvero. O cosa invece siamo disposti a “non essere”, in cambio di una pseudo normalità, omologatamente riconosciuta.

Sono corpi che a qualche livello istintivo “scelgono” di rischiare, di esporsi. E di fidarsi: del corpo.

O meglio: della “mente del corpo”.

La loro è una fragorosa perfezione: libera di essere anche imperfetta. E proprio per questa “scelta”, i loro corpi risultano di accecante bellezza plastica. E musicale. Perché corpi colmi di accoglienza. 

Una drammaturgia fisica, la loro, in osmosi con il loro “volere” più istintivo: sono corpi che danno forma a pensieri, a immagini. Autentici: non manipolati, né manipolabili. 

Corpi, dunque, “politici”.

Corpi che hanno voce e sanno prendere la parola, lasciandosi spostare da sempre nuove intuizioni. Corpi come “volontà creativa”.

Corpi  liberi, che denunciano quotidiane ritualità: senza pieghe, ben stirate. Linde, vuote. 

Corpi liberi, che denunciano iper-protezioni materne 

– Ma ‘e sorde p’ è camel/Chi te li dà/La borsetta di mammà – 

dalle quali, se non ci si emancipa, si rischia di restarne inchiodati.

Corpi-voce che invitano all’arte di saper fare un buon uso degli occhi: intuendo quando tenerli ben aperti, quando spingere lo sguardo avanti – come in un “campo lungo” – e quando invece è preferibile chiuderli: per riuscire più potentemente a immaginare e a lasciarsi andare:

Comme te po’ capi’ chi te vo’ ben/
Si tu le parle miezo americano/
Quanno se fa l’ammore sott’ ‘a luna/
Comme te vene ‘ncapa ‘e di’ I love you

Fino a ricontattare quel giorno in cui la nostra vita sarebbe potuta cambiare. Per un amore, ad esempio. Quando lo si vede per la prima volta e per la prima volta “ci si vede”. 

Quando succede a Mario, lui attiva il manuale per i rituali di corteggiamento. E funziona. Ma poi, autenticamente coinvolto, si perde: perde il controllo del manuale. E se ne va.

E’ lutto. Ed è di conturbante bellezza la contorta elaborazione “plastica” del lutto che Mario riesce a fare, metaforicamente, con le altre parti di se stesso. I Poetic Punkers sono sconvolgenti. Faustino ha qualcosa di “divino”.

La Maria di Mario, invece,  è una donna generosa, dal grande fascino, che riesce a scardinare le convenzioni con coraggio, che si fida della mente istintiva del suo corpo. E si lascia cadere in amore, con fiducia. E anche dopo la fine dell’amore, riesce a non rimpiangere nulla delle scelte fatte. Perché riuscire ad amare, vale più dell’essere ricambiata.

La drammaturgia del testo, ricca in meravigliosa suspense, racconta la storia di un Mario, crocefisso dalle scelte dettate dal suo desiderio di sicurezza. Nel quale viene dolorosamente facile ritrovarsi. Un Mario convinto di essere libero dando (e dandosi) ordini, all’insegna di una “neutra” atarassia.

Un testo ed una performance profondamente erotici: potenti come un “romanzo di formazione”, affascinanti come un’educazione sentimentale, vibranti come una testimonianza di consapevolezza politica ed esistenziale. 

L’estetica di Natalia Vallebona stimola  infatti la fiducia in un corpo forte – perché flessibile- che conosce il potere del suo “peso” e il rapporto con la forza di gravità. Un corpo che contiene un’anima fragile, perché predisposta a sfuggire l’errore – in verità indispensabile per poter vivere creativamente con gusto – in nome di un confortevole senso di sicurezza.

Natalia Vallebona

Un’estetica che parla, metaforicamente, di etica: perché il nostro “stato” psico fisico è anche uno “stato” politico. Perché “essere prossimi” gli uni agli altri è qualcosa che ci costituisce come “umani” ma a cui per natura siamo repellenti, ancor più dopo l’esperienza pandemica.

Un invito allora questo di Natalia Vallebona e del collettivo dei Poetic Punkers verso un riscoprire uno stare al mondo insieme, come “turisti del sentimento”: viaggiando nella vita quasi fosse un “Grand Tour”. In continuo movimento, in continua ricerca di noi stessi. Immergendosi totalmente in una bellezza, che incivilisce perché spinge ad avvicinarci con generoso stupore verso l’altro: per capirsi, per perdonarsi, per evolversi. 

Perché “il turista” scorre lieve sulla terra; è fluido nell’organizzazione.

Coglie la vita che gli serve per la vita: quella realtà che pulsa di energia e di vitalità magnetica.


Poetic Punkers è un progetto di ricerca e creazione artistica nato a Bruxelles nel 2013.
Vive tra l’Italia e Parigi dove è sostenuto dall’associazione “Les choses qui font Boom”.
Il progetto è guidato da Natalia Vallebona, coreografa e regista.
Natalia è un’artista indipendente che per dieci anni ha seguito in Europa delle linee di ricerca fra la danza il teatro e la performance come Thierry Verger, Gabriella Maiorino, Les Ballet c de la B, Balletto Civile, collaborazioni che l’hanno portata a costruire una cifra artistica potente e personale, che parte da un uso virtuoso del corpo, che attinge alla “componente intuitiva” che c’è in ognuno di noi.

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Recensione di Sonia Remoli

A COLPI D’ASCIA. UNA IRRITAZIONE – riduzione drammaturgica, regia e interpretazione Marco Sgrosso

TEATRO BASILICA

18 e 19 Marzo 2025

“Ma quanto siamo mostruosi ! “ – sembra volerci confessare, suo malgrado, Thomas Bernhard.

Tutti: è una postura anche dei deboli. La riceviamo a corredo, per natura, non appena gettati al mondo.

Questo testo avviluppante nel suo essere sferzante – e servito allo spettatore con irresistibile gustosità da Marco Sgrosso (attore, regista, pedagogo e co-fondatore assieme ad Elena Bucci della compagnia “Le belle bandiere”) e dal suo complice in musicalità Cristiano Arcelli (affermato sassofonista) – si apre e si chiude con un’innocente debolezza. 

Marco Sgrosso – Cristiano Arcelli

(ph. Luca Bolognese)

Ma così non è. Perché, paradossalmente, anche chi si tiene a distanza, e ben separato (come il protagonista), si scoprirà simile a coloro che depreca. Anche lui “coniuge” – diversamente coniugato – a loro: unito dallo stesso giogo, quello che ci porta ad essere per natura persone mostruose.

Lui però, il protagonista, è  anche “libero” e quindi capace di “mettersi in salvo”. Perché desideroso di trovare respiro a questa “irritante” e soffocante inclinazione, attraverso la scrittura.

“… e intanto correvo, come fuggendo da un incubo, correvo, correvo sempre più velocemente… e pensavo, mentre correvo, che le persone che ho sempre odiato e odio adesso e sempre odierò le maledico ma non posso fare a meno di amarle…e mentre correvo pensavo su questa cena artistica io scriverò, pensavo…non importa che cosa, solo subito, pensavo, subito e immediatamente, prima che sia troppo tardi…”

Eh sì, è davvero difficile entrare autenticamente in relazione con l’altro, investendo la propria libertà e il proprio tempo per sperimentare equilibri sempre nuovi con chi ci è diverso. Non a caso questo è il tema che acutamente il Teatro Basilica ha scelto di coniugare e declinare quest’anno all’interno della programmazione teatrale  2024-2025 intitolata “Persone”, ricordando come il padre della medicina Ippocrate invitasse i suoi pazienti – per conoscere meglio se stessi e quindi per relazionarsi meglio con gli altri – “ad allontanarsi dalla vita quotidiana” prescrivendo loro, oltre al riposo e al digiuno, di vedere almeno tre tragedie e una commedia.

Anche qui in “A colpi d’ascia. Una irritazione” di T. Bernhard, il protagonista da più di venti anni ha provato a “tenersi a distanza” dal mondo dall’ipocrisia di quegli artisti e intellettuali viennesi, soliti riunirsi in un’atroce mondanità. Così come prova, senza riuscirci, a declinare il recente invito dei coniugi Auersberger. E poi, pentitosi ferocemente, prova ancora a tenersi a distanza dal convivio del dopo teatro.

Ma lo fa morbidamente accolto nella sua Bergère, come su un trono. Da dove – apparentemente defilato ma in verità protagonista, com’è la natura stessa della poltrona con la quale entra in simbiosi – non fa che ridursi alla stessa ipocrisia di quegli ipocriti, che critica in quanto tali.

E’ il sax di Cristiano Arcelli ad aiutarci ad entrare ancor più in relazione con il protagonista di questo romanzo. Perché il sax è un’estensione dell’anima ed é sua la capacità di suonare bene sia da solista che in un ensemble. Lo stesso si può dire dell’estensione interpretativa di Marco Sgrosso che pur restituendo la verve egoica del protagonista, ce ne rende insieme la miriade di “variazioni”, proprie del suo (e nostro) condominio psichico.

(ph. Paolo Cortesi)

Sgrosso fa un uso potentemente inquieto degli occhi, a cui lega un efficacissimo e morboso gusto ad assaporare tutti i più reconditi sapori del disgusto, di cui possono essere farcite onomatopeicamente  (e non solo) le parole. Irresistibile, ad esempio, l’insostenibile scioglievolezza del sottotesto insito nel costrutto “bosco d’alto fusto a colpi d’ascia”. 

Ma l’essenza del personaggio di Sgrosso è opportunamente rigida. E solo perifericamente lo abita un brio furiosamente scattante. Tutto in lui recita: finanche i capelli. E’ lui il gallo del pollaio: ce ne parla anche la drammaturgia del disegno luci (curata da Loredana Oddone). E la stessa prossemica.

E ancora il sassofono: strumento meravigliosamente imperfetto. Come la condizione umana, che secondo Bernahard rischia l’autodistruzione se si prefigge un ideale di “perfezione”. “Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte” – fu il suo commento quando ricevette un premio nazionale nel 1968. Confrontarsi con qualcuno migliore di noi può essere una tragedia: può rendere troppo vulnerabile la nostra intima natura di “soccombenti”.

 “Non necessariamente dobbiamo essere dei geni per poter essere unici al mondo” – fa dire Bernhard al narratore de “Il soccombente”: il primo volume dedicato all’arte della musica della Trilogia delle arti, di cui “A colpi d’ascia. Una irritazione” è il secondo (dedicato all’arte del teatro) e “Antichi maestri” il terzo, dedicato all’arte della pittura. 

Il nostro essere imperfetti è infatti un tema che avviluppa moltissimo Bernhard e che esplora in tutte le sue variazioni, passandole allo spietato vaglio della razionalità.

Quelle persone credono, poiché si sono fatte un nome e hanno ricevuto molti premi e pubblicato molti libri e venduto quadri a molti musei e pubblicato i loro libri presso le migliori case editrici e sistemato i loro quadri nei migliori musei, poiché questo Stato disgustoso ha concesso loro tutti i possibili premi e ha appeso al loro petto ogni possibile medaglia e decorazione, quelle persone credono per questo di essere diventate qualcuno, e invece, pensavo, non sono diventate nessuno”.

O anche:

“…E una simile persona ha il coraggio di sostenere come se niente fosse che lei scrive meglio di quella Virginia Woolf che io, da quando ho cominciato a riflettere sulla letteratura, ammiro e considero la prima di tutte le scrittrici al mondo”.

Il suo feroce odio verso tutti coloro che credono di essere diventati, o di poter diventare, “qualcuno” ci parla di quanto sia importante per Bernhard capire dove trovare comunque una sua personale “identità”.

Una possibile risposta può essere rintracciata nel suo stile di scrittura, che è lo specchio del suo particolare, e quindi unico, modo di stare al mondo: uno stile che si basa sull’ossessione del ritmo quasi maniacale che è la riproposizione del suo ritmo esistenziale. Vitale, anche se è un respirare che si dà in una continua ripetizione di concetti che produce l’effetto di un andamento a spirale, piuttosto che quello di una consequenzialità lineare. Ma la consequenzialità implica “legami”, o almeno “relazioni”, dai quali Bernhard si tiene accuratamente alla larga, traumatizzato com’è dalla sua origine.  Un’origine che vive non tanto nel passato ma nel presente, nell’istante che fugge.

E seppure il mondo risulti così orrendo e le ruminazioni della mente non lascino spazio ad alcun ottimismo, i meccanismi trovati da Bernhard per esprimere il disastro in cui viviamo sono davvero esilaranti.


Uno spettacolo questo di e con Marco Sgrosso che fin da subito, nonostante la complessità dello stile di Bernhard, è riuscito ad avviluppare l’attenzione e il gusto dello spettatore. Che si è poi scatenato avviluppando, a su volta, Marco Sgrosso e Cristiano Arcelli in  un lunghissimo applauso. 


Recensione di Sonia Remoli

Serata teatrale SHAKESPEARE SUL TITANIC – un libro di Giuseppe Manfridi

TEATRO BASILICA

11 Marzo 2025

“Nulla finisce tutto s’interrompe” : è il pensiero che ispira l’estetica di Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo. 

Con questo stesso pensiero Manfridi “suggella transitoriamente” l’ultima pagina della sua nuova creatura editoriale: il testo in due volumi “Shakespeare sul  Titanic” (Edizioni Efesto), presentato ieri sera al Teatro Basilica di Roma.

E quale luogo poteva meglio incarnare questo pensiero estetico – “nulla finisce tutto s’interrompe” – se non quel centro d’accoglienza culturale, porto d’incontri imprevedibili, qual è il Teatro Basilica, che nasce proprio sulle fondamenta di una basilica “interrotta” ? Difronte all’area in cui sorgeva la più antica basilica romana, oggi occupata dalla basilica manierista di San Giovanni in Laterano. 

Lì, da anni, si era “interrotta” anche la gestione di un teatro. Riavviata e ricostruita poi come Teatro Basilica grazie all’entusiasmo e all’impegno dell’attrice Daniela Giovanetti, del regista Alessandro Di Murro, del collettivo Gruppo della Creta, di un team di artisti e tecnici. E con la collaborazione di Antonio Calenda. 

Un perfetto binomio d’intenti, quindi, quello tra l’estetica di Giuseppe Manfridi e la filosofia del Teatro Basilica: un magnifico intreccio di volontà e traiettorie, che amplia una comunità. I responsabili del Teatro Basilica, infatti, si sono fatti compagni di viaggio di questa nuova avventura, che ieri sera è stata festeggiata tra amici e che ora prenderà il largo.

Un viaggio nel viaggio: “Shakespeare sul Titanic” è esso stesso un libro-viaggio, che permette al lettore di navigare lungo rotte inaspettate, che ci parlano di un insolito Shakespeare. Ma è anche un libro che sa far scegliere al lettore quando fermarsi a largo: per lasciarsi andare a meditazioni filosofiche sulla giovinezza, ad esempio. Sul nulla, magari. Oppure lasciandosi trascinare da quello “sporgersi“ proprio della propalazione, che trova  terreno fertile anche in quella “teologica laica” chiamata Letteratura.

Un viaggio, questo “Shakespeare sul Titanic”, che è quindi una somma di imprevedibili viaggi. Anche perché l’orizzonte d’esplorazione è tale da ravvisare in ogni partenza sempre qualcosa che l’ha preceduta; così come in ogni approdo non la fine di un viaggio. Ma ancora uno “sporgersi” oltre.

Concetto-metafora splendidamente visualizzato da quella prua del Titanic e da quel balcone di Verona – installazioni dell’artista Antonella Rebecchini – che ieri sera hanno agito il palco del Teatro Basilica assieme ai tre compagni di viaggio di Manfridi, rappresentanza del Teatro Basilica: Antonio Calenda – tra i più prolifici registi italiani nonché supervisore artistico del Teatro Basilica; Daniela Giovanetti e Alessandro Di Murro co-fondatori del Teatro Basilica oltre che, rispettivamente, attrice e regista.

“Shakespeare sul Titanic” viaggerà nel tempo e nello spazio onorando antiche rotte e sperimentandone di nuove, grazie all’elegantissima versione cartacea alla quale se ne affianca una tecnologica, scaricabile dal sito della casa editrice Edizioni Efesto. Una preziosa occasione di lettura ma anche di scoperte, di curiosità inedite, di legami insospettabili, di approfondimenti, di ricerche. E ancora: i primi 100 acquirenti della versione cartacea riceveranno i due volumi che costituiscono l’opera in un prezioso cofanetto, confezionato artigianalmente da Alessandro Scura.

Il sapiente e accattivante racconto di Manfridi sulla genesi dell’opera – gravitante intorno alle rievocazioni delle forme assunte nel tempo dalla storia di Romeo e Giulietta – è stato gradevolmente intervallato da un’appassionata presentazione del regista Antonio Calenda e da un’intrigante lettura dell’attrice Daniela Giovanetti, che con la sua interpretazione ha cesellato alcuni passi dell’opera di Manfridi.

Una serata piena di gioia, quella di ieri, che forse – come sostiene Giuseppe Manfridi – è iniziata già prima e che proseguirà “sporgendosi” oltre noi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo TOTALE – con Gioia Salvatori e Andrea Cosentino -drammaturgia e regia Pier Lorenzo Pisano –

TEATRO BASILICA

dal 27 Febbraio al 9 Marzo 2025

La coppia é un “pianoforte”: un caleidoscopio sonoro. Una danza tra tasti neri e tasti bianchi, la cui portata è senza confini. Un diario musicale inciso da emozioni, sogni e aspirazioni vitali.

La coppia è un ponte tra anime ed epoche: uno strumento che, come il pianoforte, ci parla della nostra continua ricerca a connetterci con noi stessi attraverso l’altro. I tasti neri, infatti, non hanno un nome fisso: dipendono dalla relazione con le note bianche “vicine”.

Il tema del pianoforte, e della “vicinanza” tra tasti e identità, è la forza di attrazione dalla quale prendono forma non solo gli straordinari habitat scenografici di Rosita Vallefuoco, coordinati ai costumi di Raffaella Toni. Con estrosa genialità, tutto lo spettacolo ci parla della complessità del “concertarci” con l’altro. Incontrandoci sul confine, che vorrebbe solo separarci.

Ne parla l’efficace e accattivante sinergia tra la drammaturgia e la regia di Pier Lorenzo Pisano; ne parla la stuzzicante interpretazione attoriale di Gioia Salvatori e di Andrea Cosentino, capace di visualizzare intrigantemente la continua tentazione a staccarsi dal mantenersi in relazione con l’altro, desiderando ciascuno “avere tutto” – la totalità del proprio desiderare, appunto.  

Gioia Salvatori – Andrea Cosentino

Ma il nostro stare al mondo non prevede la possibilità di “avere tutto”, né di “essere tutto”: siamo esseri finiti e incompleti che vivono di relazioni che – al di là del facile concretizzarsi in rapporti di potere e di sottomissione – anelano alla valorizzazione delle diversità di ognuno. In un equilibrio, sempre nuovo, di disponibilità ad aprirsi in una danza di passi, di reciproco incontro con l’altro. Cercando cioè un equilibrio sempre nuovo tra il guidare, il cedere il passo e il seguire l’altro, sul piano-forte di quella danza propria della vita di relazione.

Andrea Cosentino – Gioia Salvatori

In scena ieri sera al Teatro Basilica (fino al 9 marzo p.v.) la storia di una coppia che non si rassegna alla fine della loro relazione amorosa e che cerca, in diverso modo, di salvare l’investimento esistenziale elargito. Perché anche la fine può essere “vicina” ad un nuovo inizio.

Lei, più riflessiva e più seducentemente lenta, prova a recuperare la magia dell’incontro iniziale; lui, più impaziente e più concreto, rintraccia ed esibisce la certificazione dei momenti felici, che non andranno persi perché trascritti, come beni acquistati e acquisiti, su scontrini. 

Pier Lorenzo Pisano, autore e regista dello spettacolo “Totale”

Un’interessante drammaturgia, questa di Pier Lorenzo Pisano, che riattualizza per certi versi “Il diario di Adamo e Eva“ di Mark Twain, proponendone insieme un avanzamento.

Erotico non è solo “il sentire” di una coppia, come sostiene la Eva di Pisano, una fantasmagorica Gioia Salvatori, dalla sconfinata comunicazione visiva. Erotico è lo sguardo sul mondo, a cui ogni coppia dà forma. Intriso di eros, cioè, è un nuovo mondo edificato dalla coppia, dal quale ci si congeda – al termine di una storia – elaborandone necessariamente il lutto. 

Gioia Salvatori

Lutto che qui prova a trovare concretizzazione nella rievocazione e nella trascrizione su carta dei loro momenti di felice e insensata relazione, ancorati dall’Adamo di Pisano – un Andrea Cosentino irresistibilmente tramortito dalla multiformità del femminile – all’insostenibile solidità propria degli oggetti. Una mimica e una gestualità anche verbale, le sue, che incantano, nel loro tentativo di dare un margine, un confine netto, e quindi ricco in tagli, alla poliformità del femminile.

Incontrarsi e’ un evento imprevedibile, fascinosamente insicuro, che chiede di essere disponibili “a fare una voltura”.  Non è quindi ricreabile a tavolino e con buona volontà, come prova a immaginare la Lei di Gioia Salvatori, terrorizzata dall’idea di soffrire. 

Piuttosto l’incontro è quel qualcosa di così inaspettato che arriva, ad esempio, nel lasciarsi suonare e poi cantare da una melodia senza parole. Un liquido flusso onomatopeico, dal quale può nascere una nuova forma. Di noi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL DIO DELL’ACQUA – di Gianni Guardigli – regia Alessandro Di Murro –

Con Daniela Giovanetti e Amedeo Monda

TEATRO BASILICA

dal 13 al 16 Febbraio 2025

Chi meglio del dio dell’acqua sa sciogliere i pesi e i grumi che opprimono e intasano la fluidità della nostra esistenza?

Anche lui li ha vissuti sulla propria pelle; anche lui si è perso naufragando dentro la tempesta della vita.

Anche lui è acqua: l’elemento fluido da cui tutto può originarsi e in cui tutto può tornare a prendere forma. Generosamente, senza trattenere nulla. Ma lasciando che sempre nuove forme prendano vita, all’interno di un ciclo in continua trasformazione. Il dio dell’acqua infatti si dà per movimenti.

Daniela Giovanetti

Protagonista di questo testo di grande bellezza lirica, scritto dal drammaturgo  Gianni Guardigli, è una creatura che in nome del diritto alla libertà propria e altrui si scopre a far del male. Un istinto alla sopravvivenza e una libertà di scelta che passano attraverso forme di “violenza”.  

Sono pesi che non se ne vanno, sono grumi che non si fluidificano, perché non ci sono parole giuste per spiegare e per capire. Forte è la tentazione a voler morire, dopo aver visto quello che la creatura ha visto di se stessa. Ma qualcosa inaspettatamente muterà, nel momento in cui continuerà a stare nel ciclo della vita, fino alla fine. 

Daniela Giovanetti

Una fine tempestosa che non è “la” fine, ma ancora l’inizio di nuove trasformazioni. Un inizio che arriva come una piacevole e rigenerante brezza: un nuovo, eppur lo stesso, respiro vitale. Un nuovo sogno, sul pelo dell’acqua. E una voglia matta di sprofondare: di tuffarsi per scendere più giù. Fino a perdersi. Senza avere paura di essersi persi. Tanto che, in questa nuova condizione, riesce a farsi strada un’insospettata contentezza: quella che ti fa sentire come un dio, il dio dell’acqua, che nulla vuole trattenere perché disponibile a tutto trasformare.

Amedeo Monda – Daniela Giovanetti

Ad interpretare questo vibrante monologo – diretto da Alessandro Di Murro e prodotto dal Gruppo della Creta – è una voce così candidamente piena di colori, da ammaliare. Lei, sirena e naufraga, ci parla come immersa in un canto pieno di meraviglia, che è insieme lamento e preghiera. Ma soprattutto è vita: quella che prende forma quando ci si guarda e ci si ascolta. E si naufraga. Insieme. Come avviene a Teatro.

Daniela Giovanetti

Lei è Daniela Giovanetti: la creatura metafisica il cui corpo della voce si estende in una morfologia ancestralmente ibrida. Dove bene e male si scoprono non solo a convivere, ma ad essere legati in un paradossale rapporto di causa-effetto.

Il suo parlare crea la suggestione come di un’eco: un’opera scultorea eppure impalpabile, di cui si rende fertile complice l’ombrosa drammaturgia della chitarra elettrica di Amedeo Monda. Ed è emozione. 

E’ l’epifania del palesarsi di un riflesso dalla bellezza indistinta e cangiante, insito già nella stessa parola “eco”. Che infatti al singolare è di genere femminile e al plurale diviene di genere maschile. 

Daniela Giovanetti

La lingua della ninfa Giovanetti assapora tutto l’espandersi del significante e del significato. Per frammenti. Una dilatazione che inaspettatamente si dà nel chiudersi in continui confini, fecondi di micro pause, che ne sottolineano l’incanto generativo.  

Uno spettacolo di favolosa bellezza estetica, complice la drammaturgia del disegno luci di Matteo Ziglio e la cura dei costumi di Giulia Barcaroli. Ma soprattutto uno spettacolo che propone un approccio conoscitivo, dal fascino potentemente rigenerativo, sulle mille meraviglie che si celano nel nostro stare al mondo: come ospiti di un ciclo che ci vuole insieme navigatori e naufraghi. Divinamente felici perché fruibili – in quanto temporanei fruitori – da sempre nuove meraviglie: come quelle disciolte nella magia del ciclo di trasformazione dell’acqua.

Amedeo Monda – Alessandro Di Murro – Daniela Giovanetti – Gianni Guardigli


Recensione di Sonia Remoli

Recensione a DIARIO DI UN DOLORE – un progetto di Francesco Alberici –


Diario di un dolore“, tratto dall’omonimo libro di C.S. Lewis e dall’ “Autoritratto” di Franz Ecke

Un progetto di Francesco Alberici, con la collaborazione di Astrid Casali, Ettore Iurilli, Enrico Baraldi

in scena Astrid Casali, Francesco Alberici


TEATRO BASILICA, dal 16 al 19 Gennaio 2025

Si apre come un cassetto, nel quale per molto tempo è stato custodito un segreto. E che un giorno si riapre, scoprendo di volerlo condividere con qualcuno. 

Spiazza continuamente lo spettatore: lo tira in causa in maniera diretta e indiretta, seminando ad ogni passo disorientamenti di varia natura.

Parla al corpo e del corpo: come sa fare il dolore. Facendo “risuonare”, come in uno specchio, il dolore fatto di sobbalzi e d’irrequietezza. Ma anche quello da stordimento d’ubriacatura. 

Francesco Alberici e Astrid Casali

Va in scena, cioè, la cronaca diaristica della fenomenologia di due dolori realmente vissuti: quello di Astrid e quello di Francesco. I quali, come C.S. Lewis, preferiscono avere gente intorno: noi.

Perché il dolore arriva a contattare energie dilanianti, in fermento nel sottosuolo, che urlano attraverso il corpo.

Ed è una disarmante sorpresa, che fa presa.

E che imprigiona in un rituale ossessivo: “nessuno mi aveva detto mai …” .

E’ l’inceppamento di una coreografia vitale. 

Lo spettacolo, andato in scena ieri sera al Teatro Basilica, nasce da un progetto di Francesco Alberici, che si avvale della collaborazione di 𝗔𝘀𝘁𝗿𝗶𝗱 𝗖𝗮𝘀𝗮𝗹𝗶, 𝗘𝘁𝘁𝗼𝗿𝗲 𝗜𝘂𝗿𝗶𝗹𝗹𝗶, 𝗘𝗻𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗕𝗮𝗿𝗮𝗹𝗱𝗶, per lavorare intorno agli inceppamenti che paralizzano le nostre vite. E sui loro possibili “riavii”.

“Vedendo oltre gli incantamenti ma senza che l’incantamento scompaia”.

Francesco parte allora dalla testimonianza del suo personale inceppamento e lo intreccia con quello di Astrid.  In verità tutto lo spettacolo – in un interessante gioco metateatrale – è dedicato al “riavvio” dell’inceppamento di Astrid: la sua seconda possibilità di rivivere il suo dolore, per riavviare questa volta però la sua coreografia vitale. Cercando e liberando, cioè, i tempi, le modalità e quelle parole che, come “proiettili”, hanno fatto sanguinare, ad esempio, la costruzione della sua vocazione di attrice. E di figlia.

Una modalità di teatro “nudo” – questo del progetto di Alberici – che dosa, con cura, accoglienza e imbarazzo; verità e finzione; dolore e catarsi; sorriso e commossa poesia. E che nel raccontare e nel “denunciare” un dolore, lo lascia libero di prendere un’altra direzione.  

Un teatro che parla di ferite che sanguinano ma che possono trovare il modo di entrare in relazione con la morte, quale partner di un respiro vitale più fluido.

Dove ogni separazione si rivela una fase “diversamente” accogliente.

Dove ogni nuovo inizio è un valido inizio. Seppur con tutti i suoi difetti, con tutte le sue resistenze, con tutta la sua imprevedibilità. 

“Perché la realtà guardata fissamente è insopportabile”.

E allora noi, come il Perseo di Calvino possiamo imparare a sostenerci su ciò che vi è di più leggero, come i venti e le nuvole. E spingere il nostro sguardo su ciò che può rivelarcisi solo in una visione indiretta, come in un’immagine catturata da uno specchio. 

Come è avvenuto a Francesco quando ha incontrato l’ “Autoritratto” di Franz Eckee.

Come accade a noi, con questa performance.

Astrid Casali e Francesco Alberici


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO NOI SOLI PENSIAMO ALLA MORTE E AL SESSO – drammaturgia Tommaso Cardelli e Tommaso Emiliani – regia Alessandro Di Murro –

TEATRO BASILICA, dal 14 al 17 Novembre 2024

Metti una sera al Basilica con la platea insufficiente ad accogliere un’onda di ventenni;

metti 5 interpreti del collettivo “Gruppo della creta” in scena con una performance ispirata alle opere di Juan Rodolfo Wilcock;

metti un titolo “Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso”

ne scaturirà una pubblica manifestazione di consenso e ammirazione.

Juan Rodolfo Wilcock (1919 – 1978)

I giovani hanno apprezzato l’idea di una performance-rituale, musicalmente accogliente, libera da una rigida architettura.  Come la scena: un luogo della mente abitato da un unico oggetto di scena – un divano gonfiabile bianco – nella duplice valenza etimologica di luogo di confine e di luogo poetico. 

Ma niente di statico, però: proprio così come nel mondo persiano, le decisioni più importanti erano prese nei divani a cavallo (riunioni condotte in sella) così, qui, il divano è l’occasione per fare altro.

Interrogarsi, ad esempio. 

Un interrogarsi immaginato come un movimento rituale con un dentro e un fuori dal confine della dogana-divano: quasi un’area psichica inconscia, foriera di continue domande. E identificata in un tronco nudo e secco. 

In effetti è questa la struttura della performance: un rituale tra una parte e l’altra del confine, tra conscio e inconscio, tra domande e risposte, non necessariamente chiare ed esaustive. Ma in rapporto osmotico.

E’ il ritratto di una generazione, quella attuale, che s’interroga sulla morte, sul sesso, sulla verità. Meno sul successo. Lo fa con dolcezza sensuale ma anche feroce. Ma ciò che conta è non smettere di interrogarsi. 

E poi continuare, sempre, ad immaginare. 

Come Wilcock raccomandava a suo figlio: 

“… Ricorda che c’è una sola cosa/ affermativa, l’invenzione; /il sistema invece è caratteristico/della mancanza d’immaginazione./Ricorda che tutto/ accade /a caso e che niente dura, /il che non ti vieta di fare/ un disegno sul vetro appannato,/né di cantare qualche nota/ 
semplice quando sei contento;/può darsi che sia un bel disegno,/che la canzone sia bella: /ma questo non ha certo importanza, /basta che piacciano a te…”.

E immaginando, vivere. Anche, in attesa di passare all’atto, stazionando su un divano: luogo-dogana in cui si trasportano le energie prima di introdurle nel paese di destinazione. Immaginando come poter arrivare lì, dove si desidera andare. Perché, come diceva Wilkock:

Vivere è percorrere il mondo
attraversando ponti di fumo;
quando si è giunti dall’altra parte
che importa se i ponti precipitano.
Per arrivare in qualche luogo
bisogna trovare un passaggio
e non fa niente se scesi dalla vettura
si scopre che questa era un miraggio”.

Una performance, questa del Gruppo della Creta (qui in scena Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia, Alessandro di Murro) che fotografa una criticità attuale e ne propone una lettura non necessariamente fatalista. Anzi, incline a quella propositività dello “stessere ciò che c’incuora” di cui parlava Wilcock:

“Ripudiamo la facilità/come si allontana un serpente;/la facilità/dissolvente quasi-verità./ Del pensiero troppo ordinato/scoraggiamo la seduzione;/negli eccessi dell’argomentazione/non sperperiamo il nostro legato./Cerchiamo soltanto di stessere/dal tessuto di ogni ora/ciò che ci nutre, ciò che/c’incuora,/ l’universalità dell’essere.

La platea sembrava respirare assieme agli interpreti, tanta la partecipazione.


Recensione di Sonia Remoli