Ferito a morte

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 15 Gennaio 2023 –

Pigramente guardare. Preferire sabotare i timpani e usare l’orecchio come fosse “il buco di un lavandino”, addomesticandolo solo all’ascolto di racconti. Non farsi tentare dal fascino conviviale dei cibi; non lasciarsi guidare dal fiuto; non abbandonarsi al tatto. Solo guardare. E poi: preferire rinunciare.

Andrea Renzi (Massimo adulto) in una scena dello spettacolo “Ferito a Morte” di R. Andò

Quasi creando un rapporto biologicamente chiasmico tra natura e vita umana: la natura è la nemesi della vita, perché nemesi è la grande occasione mancata. “Quanto siamo fatti di ciò che possiamo perdere?”. E allora perché non godere perversamente nel perdere occasioni. Soprattutto quando è proprio lì, facile, a portata di mano. Galleggiando.

Andrea Renzi e Paolo Mazzarelli (Sasà) in una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Per poi abbandonare ogni pigrizia nel costruire una propria narrrazione : attenti e accuratissimi nel creare la “suspense”. Obbedendo alle aspettative “degli altri” che pretendono, seppur impazienti di arrivare al punto, di venir eccitati dalla dovizia dei particolari. Inventati, spesso. Ma non importa: la vita si inventa, non si vive.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte ” di R. Andò

È colpa della città che “o ti ferisce a morte o ti addormenta”. Nella magnifica regia di Roberto Andò costruita sull’adattamento di Emanuele Trevi (celebre “coltivatore” di pure forme laterali di scrittura, dalla recensione alla prosa di viaggio, dalla saggistica alla narrativa pura, dalla memorialistica all’epistolario) quest’affermazione diviene un mantra. “Boccheggiato” da uomini che, in un seducente gioco di specchi e di proiezioni tridimensionali, si accontentano di vivere nel mare della vita, come in un rassicurante acquario.

Il rinomato regista Roberto Andò

Dove, grazie ad una sapiente costruzione scenografica continuamente in movimento, abilmente “velata” o “freezzata”, il passato si confonde con il presente. Un tempo scandito e numerabile solo attraverso il ricordo della donna che quell’estate “furoreggiò”. Si fa per dire: ogni donna si dà cura di informare “in anticipo” quali sono i suoi “gusti “, così da evitare insopportabili sorprese. Insomma, si vive con “un libretto delle istruzioni” per tutto.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

I dialoghi, com’è nella cifra stilistica di Andò, che qui si coniuga perfettamente con la qualità del testo di Raffaele La Capria, tendono ad essere sostituiti da lunghi monologhi-confessioni: dimensione dove poter rintracciare la misura, la chiave, per penetrare la città e i suoi misteri, aldilà di una misurazione del tempo cronologica. Concezione “iniziatica” della letteratura, declinata assieme a Emanuele Trevi, che ne ha curato l’adattamento con la sua caratteristica lucidità impeccabilmente intensa.

Emanuele Trevi

È un uomo dal thymos ancora intriso del trauma della guerra, quello raccontato in questo spettacolo, terrorizzato dall’ambiguità del reale, nonché dall’ambiguità del linguaggio. E che, per “reazione”, preferisce riporre la propria fiducia chiudendosi, nella presunta verità di un solo punto di vista. Perché come non si sa cosa nasconda l’acqua, così non si può sapere cosa ci nasconda la vita.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Si celebra così lo iato tra ciò che appare e ciò che è, tra la voce dei monologhi e la realtà dei fatti. Ma così gli “appetiti” finiscono per sopirsi, se si decide di rinunciare alla “caccia” (tranne Sasà, il Mandrake dell’improvvisazione). Paura e coraggio sono le due facce del desiderio ma qui si sceglie di “parlare” di fare l’amore, piuttosto che farlo davvero.

Sabatino Trobetta (Massimo giovane) e Laura Valentinelli (Carla) in una scena dello spettacolo

Tutta la narrazione è registicamente gestita da Massimo, narratore interno ed esterno, che anche scenograficamente abita prevalentemente una cameretta, di vanghoghiana memoria, costruita fuori dal palco ma ad esso contigua. Sospeso tra flusso di coscienza, sogno, ricordi e flashback. Sul palco si aprono e si chiudono fluidamente scene (curate da Gianni Carluccio, così come il disegno luci), a volte anche parallelamente, come fossero cassetti di un grande troumeau: la vita. Dove si vive come “monadi”, come “fotografato” con genio registico attraverso la scena esemplare dell’apparente “convivio”.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Non si ama entrare nella relazione con l’imprevisto che l’altro costituisce. Così ognuno si costruisce una propria weltanschauung, una propria visione della realtà, rendendola consona e accettabile a se stesso e agli altri. Quelli del Circolo: nuovo macrocosmo. È così confortevole! “Una vestaglia tiepida”, così come il sole. “Noi del Sud siamo predisposti al fascismo”. Ovvero ad abdicare al libero arbitrio, che implica quel gran fardello delle responsabilità. Meglio le catene, l’obbedienza: com’è nelle più intime corde della natura umana. Restare eternamente figli, incapaci di desiderare lo sviluppo della propria autonomia.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Ma è anche tutto così noioso! Inevitabilmente. E subdolamente feroce. Tanto che la solitudine prende il sopravvento, nonostante si stia prossemicamente vicini. E ci sono scene che sembrano uscite dal pennello di Edward Hopper.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

E si finisce per eccitarsi per l’ebrezza della morte. E per il dolore, che fa sentire vivi, in un mondo ovattato dalla menzogna, rivelata narrativamente in scena da superfici specchianti che non si limitano a “riflettere” ma anche a “proiettare”.

Complici di eleganti vizi e bizzarrie, un microcosmo di due camerieri: una donna e un uomo che nell’assecondare i loro “padroni” contribuiscono visivamente a creare scene alla Jack Vettriano. Meravigliosi i costumi di Daniela Cernigliaro.

Uno spettacolo fatto per gli occhi. Uno spettacolo che incanta. Che sceglie le immagini come veicolo privilegiato per arrivare a toccare il fondo. Delle nostre anime. Un inno alla risalita, all’ebrezza dell’aprirsi alla tridimensionalità della vita. Complice un cast impeccabile.