Si vive tentando di entrare in relazione con qualcuno. Autenticamente. Qualcuno con cui continuarsi a guardare, con curiosa meraviglia. E non si muore davvero se la vita, passando nella morte, continua a generare nuovi inizi.
La morte di Roberto Herlitzka germoglia meraviglia. Così come era avvenuto in vita. Pur avendo vissuto con ostinata precisione la sua missione teatrale, non smetteva infatti di risultare imprevedibile. E’ la qualità di alcuni: quelli che hanno scoperto il loro desiderio vitale e se ne sono lasciati guidare. Con generosità.
Ieri sera al Teatro Basilica ci si è ritrovati per ricordarlo: una mostra fuori scena accoglie scatti di Tommaso Le Pera, che riescono a raccontare suggestivamente il silenzio di Herlitzka.
Ad una platea gremita di inquieti – desiderosi di occasioni in cui venire a contatto con la sua unicità – si sono resi testimoni del meraviglioso contagio herlitzkiano il critico teatrale Rodolfo Di Giammarco, il regista Antonio Calenda, il regista cinematografico Marco Bellocchio, l’autore e regista Ruggero Cappuccio. Ciascuno di loro ha scelto di condividere emozioni, sentimenti, frammenti di lavori, aneddoti dell’uomo e dell’artista. Tutti splendidi.
Ma ciò che davvero si rendeva tangibile, ieri sera, era la sincera meraviglia verso il talento di un uomo e di un artista, che continua a darsi con fertilità in chi lo ha conosciuto.
Antonio Calenda, che ha condiviso con Roberto Herlitzka oltre 50 di vita a teatro, ci ha rivelato di aver individuato in lui lo “Spirito Tutelare del Teatro Basilica”.
Perché Roberto Herlitzka è “una costruzione sentimentale” e “un moltiplicatore di sogni” ( Ruggero Cappuccio); è colui che “sa lasciare un segno nel farsi della parola” (Antonio Calenda); “è l’evento della parola” (Marco Bellocchio); “é ossigeno di alta montagna” (Rodolfo Di Giammarco).
Roberto Herlitzka, nella sua delicata “selvatichezza”, nel “darsi implicito” dei suoi sentimenti, c’era sempre: si percepiva la sua attenta presenza. Anche ora, se ci voltiamo a cercarlo, lui continua a guardarci. Con quel suo piglio meraviglioso. Al quale non vogliamo rinunciare.
Carlo Emilio Lerici sceglie di immergere il testo di Colm Tóibín in un ambiente abitato da sonorità oniriche: il luogo di un altro linguaggio, di un linguaggio di là dei principi della logica, che dà la parola al silenzio delle ombre.
E’ il luogo di Ismene: la figlia nell’ombra, che sta dietro la fulgente Antigone, la figlia nell’angolo e che percepisci solo con l’angolo dell’occhio: per la quale non ti volti. Perché lei è la figlia “opaca”; dall’altro canto c’è Antigone: la figlia che brilla, che brucia, che accieca.
Colm Tóibín – che nel 2018 si appresta a riscrivere la tragedia sofoclea sulla scorta di recenti casi di cronaca legati a «questioni di genere, di abuso di potere, di silenzio e comunicazione», temi a lui cari e trasversali alla sua produzione – sente una speciale attrazione per le figure del mito oscuramente chiare, a cui si è trovata una casella e un’etichetta nelle quali confinarle per metterle poi a tacere in un canto, in un angolo. Ma lui da queste figure si sente come chiamato: ascolta il loro grido di richiesta d’attenzione e le fa rivivere togliendole dagli impropri confini in cui sono state asfissiate. Riattivando così la luminosità delle loro ombre, perché sono ombre che plasmano – o possono plasmare – ogni essere umano. E che quindi è utile conoscere: per conoscerci meglio e per riuscire a farne un buon uso. Un uso creativo.
Carlo Emilio Lerici, regista solleticato dalle scelte difficili e dalle sfide drammaturgiche che richiedono un‘inclinazione a misurarsi con orizzonti culturalmente ambiziosi, sceglie il testo di Tóibín, lo adatta e lo mette in scena calibrandolo al suo sentire.
E fa di Ismene prima ancora che un personaggio, l’espressione di un luogo della nostra psiche. Un luogo dove sopravvivono resti, rovine, traumi che, sapientemente illuminati dal basso e resi più prossimi, parlano di noi più di mille parole. Perché il silenzio di ciò che è andato dimenticato, sotterrato, rimosso, parla. Ci parla.
Lerici fin da subito evidenzia come proprio attraverso quel luogo in cui è immersa Ismene – un sottosuolo da cui sta riemergendo come sul confine tra il sogno e la veglia – le arrivino quegli indizi, quei resti mnemonici andati persi e attraverso i quali lei – solo dopo aver attentamente osservato in silenzio – riuscirà a condurre un efficace mutamento.
Perché è proprio di chi si sa mantenere sul confine – ovvero sul margine inteso come luogo d’incontro e non solo di separazione con l’altro – riuscire a cogliere la preziosità della vita.
L’Ismene di Lerici diventa “la sorella minore” anche perché minore ha tra i suoi significati quello di “marginale” appunto, al quale noi siamo tentati però di dare esclusivamente il significato di trascurabile, di irrilevante, di inferiore. E’ nella nostra natura cadere in questo terreno paludoso, perché il primo istinto che ci viene dato a corredo al momento in cui veniamo gettati nella vita è l’istinto alla sopraffazione. Per poter sopravvivere. Poi, per vivere, si impara ad amare e quindi ad entrare in relazione. Resta sempre però la tentazione a non mantenersi in dialogo con l’altro sul margine che ci separa, quanto piuttosto a scavalcarlo.
Antigone è in questa visione colei che ha scelto di allontanarsi da quel luogo fisico e psichico che è la camera dove le sorelle dormivano, scegliendo di andare ad abitare un’area mortifera della psiche: quella della grotta. Quella di un eccesso di giustizia insensibile a mediazioni, al dialogo, alla relazione.
Ismene non è solo preoccupata, lei “sente” l’avvicinarsi del pericolo in cui sta per affidarsi la sorella. Lei, Ismene – come è mirabilmente evidenziato dall’interpretazione di Francesca Bianco – è una donna che acutamente trova risposte – più che nelle parole – nella prossemica, nella postura, nelle espressioni non verbali del viso dell’altro. Nei silenzi. E proprio perché interessata a “fare amicizia con il proprio peggio” – per citare il titolo di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio – proprio perché ascolta le sue ombre, riesce a leggere e a decifrare quelle dell’altro.
Quelle ombre così incantevolmente rese in tutte le loro variazioni dal canto di Eleonora Tosto: un canto opportunamente enigmatico eppure pungentemente chiaro, risuonante, perturbante. Così come il contrappunto della chitarra elettrica di Matteo Bottini.
Carlo Emilio Lerici ha trovato una modalità raffinata e umbratile per mandare in scena il teatro del nostro inconscio mettendolo in dialogo con il teatro della luce diurna del conscio. Una luce apparente, ma che è così facile far diventare certa, netta, tagliente e quindi mortifera per gli altri e per se stessi. Perché non è possibile fare del bene senza calarsi ogni volta nella situazione specifica, senza incontrarsi con l’altro sul margine che vorrebbe dividerci.
Per riuscire a dire “io non ho paura di te”: come fa Ismene, anche su consiglio dello stella spettrale di Antigone, che come le stelle morte del cielo continua a essere luminosa anche se ormai morta. Luminosa di una luce diversa ora, meno eccessiva, meno accecante perché intrecciata e in dialogo alla luce delle ombre di sua sorella Ismene.
Una dichiarazione “io non ho paura di te” che impropriamente siamo tentati di cogliere come un atto di sfida (come fa Creonte) ma che invece può diventare la base di un possibile dialogo. Possibile appunto solo a patto che si deponga a terra, sul confine, l’arma della paura.
Un testo necessario, tradotto da Lerici in una messa in scena che riesce a farci tornare a casa con delle domande, necessarie per “fare amicizia” con nuove prospettive.
Tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli
SAN GINESIO (MC) – 18 Agosto 2024 – Chiostro di Sant’ Agostino ore 21:30 –
Il dono della pioggia scende, quale rito di fertile augurio, sulla serata d’apertura della quinta edizione del Ginesio Fest 2024, diretta da Leonardo Lidi.
Leonardo Lidi
Splende, bagnato a lucido, il borgo medievale marchigiano di San Ginesio a vocazione artistica, in quanto luogo del Santo protettore della comunità attoriale.
A lui é stato intitolato anche il Premio San Ginesio “ All’arte dell’ Attore”, ideato e voluto da Remo Girone,
La comunitá di San Ginesio – sotto l’egida della Direttrice generale del festival Isabella Parrucci – sa come non perdere smalto e, viva d’entusiasmo, sa come riuscire a non smettere di dare vita a sempre nuovi inizi. Com’è nella nostra natura di esseri umani – diceva Hannah Arendt.
E di continui nuovi inizi ci ha parlato anche lo spettacolo che ha dato avvio alla prima serata del Ginesio Fest 2024 : “Senza motivo apparente” di e con Christian La Rosa, tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli.
In uno stile accattivante dalla caratura cinematografica Christian La Rosa, fin da subito e per tutta la durata del suo monologo, ci trascina con sé dentro un racconto concertato per più voci narranti. I suoi campi sequenza narrativi , sapientemente contrappuntati da campi corti e primi piani, ci seducono al punto da entrare nel ritmo dei suoi respiri: scattante, complice, colmo d’emozione. Efficace anche la costruzione della suspense, che ci risucchia dentro intuizioni e sospetti solo poi confermati o disattesi. Sono le diverse micro contrazioni che danno forma alle sue spalle a parlarcene, rendendo la comunicazione maledettamente intrigante.
Christian La Rosa
E’, quella di Christian La Rosa, un’urgenza magnificamente umana di evidenziare i continui nuovi inizi che hanno sfidato e sfidano la perversa volontà di chiudere e di insabbiare gli elementi che hanno dato origine all’omicidio del dottor A., ovvero all’omicidio di Amedeo Damiano.
Amedeo Damiano
A lui é dedicato lo spettacolo essendo la sua morte avviluppata all’interno di un’intricata vicenda, ancora oggi parzialmente irrisolta. E vede, come prima fonte d’ispirazione, il testo firmato da Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”, acquisito agli atti processuali proprio in virtù della sua precisa ricostruzione dei fatti. Sergio Anelli, facente parte della commissione d’inchiesta presieduta da Amedeo Damiano, scrisse infatti il romanzo per approfondire quello che questo attentato di mafia tracció non solo a livello politico e sanitario, ma soprattutto sociologico: il nuovo volto della mafia, quello che si stava delineando negli anni ’80. L’assassinio di Damiano portò infatti alla luce insospettate vicende malavitose in una pacifica realtà di provincia “di portici e geometrie”: la pacifica Saluzzo, apparentemente immune da dinamiche a carattere mafioso.
Ma 37 anni fa, Amedeo Damiano, presidente dell’allora Ussl 63, (Unità socio-sanitaria locale) di Saluzzo fu ucciso in un agguato la sera del 24 marzo 1987. “Il dottor A” aveva appena varcato la porta del palazzo del centralissimo corso Italia, dove viveva con la moglie Giuliana Testa e quattro figli, quando nell’androne dell’abitazione due uomini aprirono il fuoco. Quello che doveva chiaramente essere una sorta di avvertimento, una ‘gambizzazione’, finirà però in tragedia. I colpi di pistola oltre a fratturargli il femore, lesionarono anche il midollo spinale, paralizzandolo. Dopo un lungo calvario in diverse strutture ospedaliere, Damiano morirà a distanza di 100 giorni dall’attentato, il 2 luglio 1987, mentre era ricoverato in una clinica di Imola dove era stato portato per un disperato tentativo di riabilitazione.
Giornali e telegiornali iniziarono a farsi domande.
Fortunatamente.
Perché porsi domande è un’inclinazione squisitamente etica che ci permette di comprendere il passato, evitando di ripeterne gli errori.
Perché domandare esprime un desiderio di sapere – e non di dimenticare – alla base anche del metodo di conoscenza socratico.
Domande si pose “il dottor A.” per riuscire a risanare la situazione sanitaria precedente.
Domande si pose Sergio Anelli nel suo lavoro di fine archivista, al fine di raccogliere il maggior numero di dettagli informativi per fare chiarezza sul caso del “dottor A.”
Domande continua a porsi Christian La Rosa per educare il pubblico a porsi domande.
E attraverso il suo spettacolo teatrale sa lasciare una traccia in chi lo ascolta: com’è nella natura di un attore e regista dal carisma erotico. La narrazione di Christian La Rosa sa infatti appassionare alla ricerca della verità e al suo continuo saper ricominciare: al di là di ogni possibile sconfitta, al di là di ogni possibile ostacolo.
Proprio com’è nella natura del Teatro: quella di essere un continuo luogo d’incontro. Tra attore e spettatore; tra domande e possibili risposte; tra l’ “ e poi mamma?” E il suo “chissà!” ; tra il nostro “io” e le altre parti che compongono la nostra anima. Tra l’inclinazione naturale a sopraffare – con la quale tutti noi veniamo al mondo – e l’educazione all’amore della verità, che passa per il rispetto dell’Altro, da imparare una volta gettati al mondo. Per realizzarci davvero, autenticamente. Al di là di ogni “solitudine”: anche giudiziaria, come quella di cui ci parla questo caso, rievocato dallo spettacolo di Christian La Rosa. Una rievocazione laica della passione della morte del “dottor A.”
A lui, a 30 anni di distanza dall’omicidio Damiano, “è stato chiesto” infatti di occuparsi di un evento cittadino di scottante importanza. Alla “domanda” La Rosa ha risposto con entusiasmo, utilizzando l’ ‘arma’ di cui sa mirabilmente disporre: quella della rappresentazione teatrale. E con una calibratissima e seducente drammaturgia, La Rosa sale sul palco a raccontare l’intricata vicenda giudiziaria che ha portato dopo 14 processi ad un nulla di fatto sul mandante di quell’attentato. Solo i tre esecutori materiali vennero condannati: “Nessun movente, nessun mandante. Il dottor A. venne ucciso senza motivo apparente”. La Rosa ha avuto la possibilità di confrontarsi a lungo con la famiglia Damiano, di accedere alla rassegna stampa dell’epoca e soprattutto al libro di Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”
Una storia non solo cuneese ma, al di là di ogni solitudine, italiana.
Una storia su cui continuare a interrogarsi, perché solo così ci si accorge di essere vivi: continuando a tenere in vita la ricerca della verità.
Perché solo così si cresce, si va avanti.
Insieme.
San Ginesio (MC)
Il Ginesio Fest 2024 ha avuto il suo magnifico inizio: la magia è scesa su questo primo incontro e saprà continuamente rinnovarsi.
Che cos’è la verità? Quando si realizza un disvelamento? Quando riusciamo a togliere la coltre di oscurità che ammanta gli aspetti più profondi della nostra esistenza? Oppure quando riusciamo a sostenerne il buio ?
Ad enfatizzare la mordacità caratteristica della drammaturgia britannica – in questo caso pervasa anche dalla vena poetica di Ben Norris – un’efficace drammaturgia delle luci ci guida verso la consapevolezza che l’emozione, e quindi ciò che in noi c’è di più autenticamente vero, può nascere solo dal buio. E che è in nostro potere fare del buio qualcosa di interessante: di fertile per la nostra esistenza.
Ben Norris
Cosa decidiamo di svelare di noi in un incontro? Quante “prove” sono necessarie per costruire un’immagine di noi che gli altri sicuramente accoglieranno ? In altre parole dove è conveniente – nel presentarci ad un altro – far cadere la luce su di noi e dove invece è decisamente preferibile toglierla, nascondendo? Quanto è importante il giudizio degli altri? Cosa ci permettiamo di desiderare?
Ilaria Martinelli e Elena Orsini
In una serrata e pungente tenzone, dove apparentemente ci si sfida a rompere schemi mentali nonché spaziali, solo dalle domande fatte a bruciapelo zampillano autentiche risposte. E le due interpreti in scena – Elena Orsini ( curatrice anche della traduzione del testo e della regia dello spettacolo ) e Ilaria Martinelli – brillano della luce delle proprie ombre. Brillano cioè in quel lacerante lasciar trapelare l’oscurità delle loro fragilità.
Si domandano, tra gli altri svariati enigmi che punteggiano le loro (e le nostre) vite, se l’alta tecnologia sia davvero così salvifica e “democratica”. E soprattutto se vale la pena affidarsi alla rassicurante guida in modalità “pilota automatico” piuttosto che ad una guida manuale, magari meno affidabile, ma continuamente e stimolantemente migliorabile.
Ma poi, perché ci viene così spontaneo affidare la guida della nostra vita a qualcuno esterno a noi? Chi è Alexa? Il nuovo oracolo di Delfi ? Conoscere se stessi significa diventare un “prodotto tipico” ? Cosa vuol dire “vivere” ? Vivere per avere soldi con cui comperare cose oppure vivere di passione artistica, condividendo con altri artisti quel poco che si possiede?
Elena Orsini
In scena, oltre la potenza della parola – resa dalla feroce tenerezza dell’interpretazione – è la prossemica a disvelarci le tensioni autentiche di queste due ragazze che s’incontrano, diventano amiche e poi scoprono di essersi innamorate l’una dell’altra.
Ma come sono diversi i loro vissuti e com’è difficile incontrarsi senza scontrarsi, senza cadere nella tentazione di scegliere cosa mettere in luce o in ombra l’una dell’altra? Senza manipolare e lasciarsi manipolare. Senza lasciarsi condizionare dal giudizio degli altri.
Le due interpreti – dandosi così generosamente nelle loro zone d’ombra – ci attraggono tremendamente. Stanno parlando di noi, oltre che a noi: delle nostre difficoltà ad amare e ad entrare davvero in “contatto” con l’altra persona; della paura ad essere travolti dalla follia dell’amore e della difficoltà a darsi la possibilità di perdersi con l’altro. Per poi ritrovarsi rigenerati dall’incontro reciproco. Continue sono le varianti da affrontare e sulle quali continuamente riequilibrarsi. E noi invece, proprio come loro, siamo tentati a credere che nella vita “servono le spalle grosse e un lungo termine”.
Ilaria Martinelli
Ma poi incontriamo la morte e dobbiamo rifare daccapo i conti con tutto ciò che ci eravamo tanto impegnati a organizzare, a fissare, a rendere stabile a lungo termine. Tutto sembra saltare, ritrovandoci così in un “buco nero”. Scoprendo però insospettatamente che del buio, del nero, si può fare qualcosa di interessante, di fruttuoso. Dal buio possono emergere nuove consapevolezze, nuovi strumenti da mettere in campo. Per vivere fidandosi un po’ di più dell’irrazionale.
Un’occasione davvero stimolante – questo spettacolo Autopilot curato da Elena Orsini e supervisionato da Mario Scandale – per condividere temi così prepotentemente presenti nelle nostre vite con lo storytelling ironico e poetico, attento ma anche foriero di nuove torsioni esistenziali, come quello d’Oltremanica.
Ne emerge un teatro di energica curiosità, disposto a sperimentare nuove possibilità espressive.
Rodolfo di Giammarco
Prezioso, quindi, il Trend Festival curato dall’acuto sguardo di Rodolfo di Giammarco teso, da 22 anni, a monitorare e a selezionare quelle che sono le opere e gli autori delle nuove frontiere della scena britannica.
Si fa strada nel buio. Ed entra con scanzonata eleganza, lui: chiuso nel profondo mare nero di un abito, dal quale spumeggia, bianchissima, una camicia. Il blu resta imprigionato negli occhi; l’acqua salata tra i capelli. Eppure il capriccio di un’onda gli invade la fronte. Solo su lui, complice, cade a picco la luna.
Sempre scanzonatamente, cavalcando l’estro e l’imprevisto delle onde, fischietta e ci pare di sentire: “Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare, come è profondo il mare, come è profondo il mare”. Un dramma collettivo. E ci guarda insistentemente. Anche noi lui. E decidiamo di “salire a bordo”. La sua voce ci fa accomodare; ma è un attimo.
Avanzano le onde e, basculando, siamo costretti a cercare di continuo l’equilibrio. Misterioso è il mare, mai spaventoso. Complice, mai amico. “Sul mare si fugge o si rincorre qualcosa”: così scrive Joseph Conrad. Ma, come una canzone d’amore, il mare sa anche cullare i nostri cuori: cosi il finale de “La mer” di Charles Trenet. È un fascinoso montaggio di testi letterari e musicali, tenuto insieme dal fil rouge del tema del desiderio, quello scelto e organizzato da Lino Guanciale per questa magica serata.
E poi leggende e credenze marine da tutto il mondo, dove scopriamo essere “eroi gli uomini, quando incontrano l’onda del mare”. La platea si lascia incantare da questo interprete, profondo e dolce, che sa declinare tutti i colori del mare servendosi dei suoi occhi, dei suoi capelli, della sua voce, del suo corpo. Tra sussulti, sorrisi, sospiri e risa, prendono vita onde di applausi, che si srotolano sul “piccolo” mare di Corigliano Calabro, così come sul “grande” mare dell’epica. E sui versi dell’ Eneide, vanno le note di Fred Buscaglione.
E ancora: due diverse traduzioni a confronto: quella celeberrima di Annibal Caro e quella attualissima di una studentessa, che però trova come esaltare il focus del testo: la natura di “profugo” di Enea. Il fondatore della nostra civiltà, sì Enea, era un profugo. È interessante ricordarlo. Così come profugo della contemporaneità, per cinque lunghi anni, è stato il piccolo-grande Alì Ehsani, protagonista del libro “Stanotte guardiamo le stelle” (Feltrinelli). “Non litigare mai e non rassegnarti mai”: questi i “comandamenti” ereditati da suo fratello Mohammed, che non riuscirà ad arrivare insieme a lui in Italia. In mare e in terra, il suo fianco resterà orfano di questa preziosa presenza.
E come tutti coloro che ardono tra le fiamme del desiderio vitale, anche Alì non potrà fare a meno di aspettarlo tornare. Non tornerà. Ma scoprirà, Alì, che basterà alzare lo sguardo per ritrovarlo nelle stelle che popolano il cielo sopra di lui.
Lino Guanciale ha conosciuto personalmente Alì e quale testimonial di UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite), oltre all’impegno per le campagne in Italia, ha partecipato a brevi missioni in Libano nel 2017 e in Etiopia nel 2019. Nel mondo sono oltre 80 milioni le persone costrette alla fuga per guerre e persecuzioni. Donne, uomini e bambini sfidano il mare, il deserto e le montagne in lunghi e drammatici viaggi alla ricerca di un futuro e di un posto più sicuro.
“Restituire speranza a chi ha perso tutto, significa restituirla anche a noi stessi – dice Lino Guanciale nel suo diario di viaggio – Perché la cura reciproca è l’unico antidoto efficace contro la violenza e le derive fondamentaliste”.
Recentemente, il 25 agosto scorso, Lino Guanciale ha ritirato il Premio Ginesio Fest 2022 “All’ Arte dell’Attore”. Il direttore artistico Leonardo Lidi e i giurati del Premio San Ginesio, Remo Girone, Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, si sono detti orgogliosi di conferire questo riconoscimento ad uno degli attori che negli ultimi anni si è sempre più distinto non solo per le sue indiscusse qualità attoriali, ma anche per la sensibilità artistica. Aspetti, questi, che lo hanno reso uno degli artisti più amati dal pubblico italiano.