SARABANDA – regia Roberto Andò

TEATRO ARGENTINA

dal 27 Maggio al 1 Giugno 2025

“Johan e io non abbiamo più contatti. Nessun tipo di contatto da molti anni ormai. E le due nostre figlie sono distanti, anche per me. Martha è in una casa di cura e sprofonda ogni giorno di più nell’isolamento della sua malattia… E molto spesso penso che dovrei fare una visita a Johan”.

Quanto ci rende vivi  l’entrare in “contatto” con qualcuno diverso da noi, impegnandoci a mantenere aperto questo dialogo?

Quanto ci risulta più rassicurante evitare questo contatto, o interromperlo al palesarsi degli inevitabili contrasti?

Renato Carpentieri (Johan) – Alvia Reale (Marianne)

In questo poetico e disperatamente vitale ultimo lavoro, Ingmar Bergman porta lo spettatore a focalizzare, di scena in scena, l’attenzione su come le relazioni umane saltino in aria, o si corrompano, quando viene a mancare un autentico “contatto” con l’altro. 

Un “contatto” cioè capace di sgretolare la nostra immobile identità, spingendoci ad interrogarci su noi stessi, attraverso il dubbio veicolato dall’altro. Sospensione di giudizio che permette alla coscienza di dischiudersi per imparare a vivere senza la certezza e tuttavia senza restare paralizzati dall’esitazione. E’ l’effetto che, ad esempio, “il contatto” di Anne ha avuto su Johan: una donna che lui definisce “venuta su questa terra per renderla meno odiosa”.

Caterina Tieghi (Karin) – Elia Schilton (Henrik)

Non c’è inquietudine nel principio di identità che esclude la contraddizione dell’altro, perché  la realtà così mutilata non appare nella sua autentica duplicità 

Anche l’identità personale non è una prerogativa individuale, bensì un fatto sociale: sono gli altri che la rafforzano o la mortificano con il loro riconoscimento o misconoscimento. E se nella nostra identità si esprime la nostra unicità, questa unicità ci è data dall’essere riconosciuti come tali dall’altro.

Elia Schilton (Henrik) – Caterina Tirghi (Karin)

La forma musicale che dà origine al titolo è la Sarabanda dalla quinta Suite di Bach, nella tonalità meditativa di Do minore, composta per violoncello solo, con la prima corda in “scordatura”. Metaforicamente, anche “la sarabanda” allude, nel suo significato originario, a questo concetto di dialogo alla ricerca della propria identità, attraverso il riconoscimento dell’altro.

La sarabanda nasce infatti come una danza a due: una sorta di dialogo eccitante ed eccitato che prevede, attraverso movenze lascive, un “contatto” tra i due danzatori. Proprio come gli opposti di un dialogo, i due si fronteggiano per conoscersi meglio, disponibili al confronto per lasciarsene modificare. Senza mai escludere l’altro.

E forse non è un caso che il primo titolo di questo testo di Bergman fosse: “Tentativi di analisi di una situazione complicata”.

Roberto Carpentieri (Johan) – Elia Schilton (Henrik)

Successivamente per il cristianissimo Occidente questo danzare “con contatto” sembrò un po’ eccessivo, tanto che nel 1583 Filippo II di Spagna vietò la danza della sarabanda. Finchè nel Seicento barocco la sarabanda fece di nuovo la sua ricomparsa, questa volta però come danza dall’andamento lento e solenne.

E qui in Bergman il concetto di sarabanda sembra trovare espressione anche nella tensione tra la sua prima valenza di danza caoticamente eccitante, presente all’interno dell’inconscio di ciascun personaggio, dove si sfrena il loro furore indecente; e la sua seconda valenza di danza lenta e solenne, presente a livello conscio attraverso apparenze calme e manierate. Una danza quindi tra il ribollire indecoroso dell’inconscio e il perbenismo stagnante del conscio: opposti in dialogo, in cerca di “contatto”.

Roberto Carpentieri (Johan) – Alvia Reale (Marianne)

(ph. Lia Pasqualino)

Un esempio di questo dialogo danzato è ben descritto da Anne, un personaggio assente perché defunto ma la cui testimonianza esistenziale continua a ingombrare le vite di chi resta e fatica a coglierne l’eredità, facendola propria. Scrive Anne ad Henrick, suo marito, prima di morire: “io fingo di star bene, tu fingi di crederci, ma nonostante i nostri sforzi io leggo sul tuo viso la gravità del mio male”. 

La sapiente restituzione dei personaggi da parte degli attori in scena – Renato Carpentieri (Johan); Alvia Reale (Marianne); Elia Schilton (Henrik); Caterina Tieghi (Karin) – riesce a veicolare questa danza ancor più che con le parole, attraverso una potente espressione non verbale.

Renato Carpentieri (Johan) – Caterina Tieghi (Karin)

Laddove le parole possono rivelarsi insufficienti, è l’espressione non verbale del corpo e della voce ( il silenzio) a rivelarsi un efficace mezzo per accedere al di là del conformismo razionale, verso il linguaggio raffinatamente enigmatico dell’inconscio. 

Ed è così che il Johan di Renato Carpentieri riesce a “far sentire” allo spettatore come il suo immobilismo da eremita non sia ancora immune dalla seduzione di un’irrompente sorpresa, accompagnata dal “contatto” dei baci e delle carezze della Marianne di Alvia Reale. Lei, così composta ma ancora così capace di un accogliente e fresco entusiasmo. Nonostante la danza di esistere abbia messo la sua forza vitale femminile a silenziarsi, viene ancora “scelta” per confrontarsi in dialogo con quell’imprevedibile esuberanza che l’età mestruale scatena e di cui ora si sente come impossessata la Karin di Caterina Tieghi. Esuberanza che sarà decisiva nell’aiutarla a liberarsi – anche grazie al “contatto” con Marianne – dal giogo simbiotico di un narcisista manipolatore: suo padre, ovvero l’Henrik di Elia Schilton.

Renato Carpentieri (Johan) – Elia Schilton (Henrik)

Una mirabile regia di Roberto Andò riesce a declinare efficacemente il movimento di questa dialogica danza esistenziale, proprio della sarabanda, anche attraverso una straordinaria costruzione dello spazio teatrale. E, nell’immaginarla, si avvale della complicità raffinatamente rigorosa di Gianni Carluccio, che ne cura le scene e il disegno luce. 

Roberto Andò

L’adattamento ricavato da Andò – su traduzione di Renato Zatti – selezionando ed arricchendo il testo originale con creativo e fedele tradimento, viene visualizzato in scena da Carluccio attraverso la costruzione di una sorta di fondale che – come uno stupefacente paesaggio psichico – si apre, si chiude, avanza, arretra, evita o si focalizza ossessivamente su qualche dettaglio particolarmente significante del vissuto dei protagonisti. Movimento psichico che ricorda fascinosamente quello di una macchina da presa, così come quello di una “carrellata”.

Così facendo, ottiene il risultato di riuscire a visualizzare i diversi punti di vista prodotti dai dialoghi tra i personaggi, attraverso “inquadrature” che aiutano lo spettatore nella identificazione dei relativi sottotesti.  Effettivamente, quella portata in campo da Gianni Carluccio, è davvero una splendida soluzione scenografica per creare una scala di piani cinematografici, a teatro.

E poi ci sono le incantevoli musiche originali di Pasquale Scialò – sempre in ascolto dei timbri della narrazione immersa in questa dimensione filmica – a fare da sfondo e ad accompagnare la cadenza ritmica delle 10 scene, precedute da un prologo e seguite da un epilogo. Una cadenza inframezzata da momenti di buio, abitati così pervasivamente dalla meravigliosa indicibilità propria del linguaggio musicale proposto da Scialò, da risultare davvero efficace nell’aiutare lo spettatore ad entrare in “contatto” con tutta la potenza tattile delle tensioni dialogiche dei protagonisti.

Alvia Reale (Marianne) – Caterina Tieghi (Karin)

(ph. Lia Pasqualino)

La bellezza della vita, non disgiunta dall’angoscia, si rintraccia – sembra volerci dire Bergman – nella sua imprevedibilità e nelle occasioni di contatto umano che ci propone. L’angoscia è il sintomo della vertigine che provoca in noi il darsi sconfinato della libertà proprio nell’angustia delle nostre mani. E’ un’ebbrezza che può togliere il respiro e far precipitare nell’agitazione, tanto che per uscirne l’essere umano può essere spinto a chiudersi in se stesso, nell’illusione di essersi ritagliato così una più adeguata dose di libertà. Ma anche scegliere di non scegliere è una scelta. Di cui comunque siamo responsabili.

Da qui si origina l’interessante finale proposto da Roberto Andò, dove tutti i personaggi vengono colti nel loro denudarsi dai propri habiti (quei modi di essere che ciascuno sceglie di vestire al fine di essere ipocriticamente accettato) per rivelarsi, ciascuno a suo modo, in un’autentica e disperata richiesta d’amore. Epidermicamente in attesa di essere “toccati” dall’altro – che invece si tiene distante, chiuso com’è nella propria angoscia – per ricevere la conferma della propria individualità. E della propria esistenza.

Caterina Tieghi, Elia Schilton, Renato Carpentieri, Alvia Reale

Il loro è quel “grido nella notte” – iconograficamente visualizzato qui in una compresenza di riso isterico/panico/dolore estatico –  che tutti ci accomuna, perché parla del nostro umano cadere, del nostro essere abbandonati, del nostro tradire, della nostra solitudine, della nostra debolezza.  

E questa scena che ci fa da specchio – noi siamo loro, noi siamo come loro – è un invito brutale e misericordioso a prendere consapevolezza della nostra “comune” condizione esistenziale. Quella di Roberto Andò è una potente esortazione a restare “in contatto” tra noi che condividiamo la medesima condizione esistenziale. Evitando di chiuderci come monadi. Perché l’angoscia di vivere, tutti la conosciamo. Anche se tendiamo a vestirla di altro.

Renato Carpentieri (Johan) – Alvia Reale (Marianne)

(ph. Lia Pasqualino)

Esortazione, questa di Andò, rintracciabile nello stesso testo di Bergman. Almeno due sono i momenti: il primo, in apertura, è proprio quella “scelta d’impulso” – il cui “perché” resta indicibile – che porta Marianne alla ricerca della tana di Johan, dopo 32 anni di assenza di contatti con il suo ex-marito. Il secondo momento, di cui è sempre Marianne a farsi portatrice di “contatto”, è quello che la lega, fin dal loro primo incontro, a Karin. Marianne resta toccata dal silenzio espressivo di questa ragazza e l’accoglie mostrandole come possibile ciò che Karin crede impossibile: seguire “il suo” desiderio “personale”.

Alvia Reale (Marianne) – Caterina Tieghi (Karin)

Volevi parlare con tuo nonno? … Se ne hai voglia puoi aiutarmi con i funghi! … Se ti va possiamo parlare, oppure stare in silenzio… Volevi dire qualcosa?”. E Karin, dopo un iniziale momento di sospetto, permette a questa donna sconosciuta di farsi toccare, toccandola lei a sua volta, chiedendole: “Tu com’eri prima della mestruazione?”. Ovvero: tu com’eri prima che qualcosa di fortemente dionisiaco prendesse il sopravvento su un certo “dover essere”, così necessario per compiacere gli altri? Karin qui si sta mettendo a nudo per essere toccata e per toccare l’esperienza di Marianne, a proposito di questo contatto “divino”, che le fa perdere il consueto controllo della volontà e della disciplina. E che la porta a detestare quel “vivace con brio ma senza alcuna espressione e assai pianissimo” di Paul Hindemith.

Renato Carpentieri (Johan) – Caterina Tieghi (Karin)

Ma sarà proprio questo nuovo cervello mestruale a permetterle di “ri-contattare” la sua autentica vocazione esistenziale: ora Karin può essere in grado di infliggere un taglio a quel dovere mortificante, con il quale il padre ha cercato di plasmarla dopo la morte della moglie. E lo potrà fare in nome di una nuova “legge”, che non si oppone al suo desiderio vitale, ma che lo costituisce.

Molto espressiva la narrazione cromatica che accompagna e sottolinea l’evoluzione psicologica della Karin di Caterina Tieghi, proposta dalla sensibilità di Daniela Cernigliaro, curatrice dei costumi dello spettacolo.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CLITENNESTRA regia di Roberto Andò

da “La casa dei nomi” di Colm Toíbín

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 21 Gennaio 2024 –

Il suo sguardo è prigioniero di una visibilità opalescente. La Clitennestra di Colm Toíbín, a cui si ispira il regista Roberto Andò, è ossessionata dal tormento di non aver intuito l’intento omicida di suo marito Agamennone, nei confronti dell’adorata figlia Ifigenia.

Roberto Andò

Proprio lei, così ricca in dimestichezza con l’odore del sangue, si è lasciata sedurre dal riporre fiducia in Agamennone. “Ti ho creduto”: un imperdonabile errore.

Colm Toíbín

La partecipe commozione di Andò per lo sguardo sui fatti della Clitennestra di Toíbín fa sì che immagini la regina di Micene nell’atto di rievocare, con follia lucida e opalescente, i fatti che precedettero e seguirono la morte di Ifigenia.

Lo spazio scenico è la rappresentazione di un disvelamento della mente della donna, generalmente considerata tra le più spietatate del mito. Andò, come Toíbín, non è interessato a processarla per condannarla, quanto piuttosto a prendersi cura di svelarne le dinamiche relazionali e psicologiche. Come una donna estrapolata dal mito e immersa nelle incertezze della quotidianità. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Cosa succede allora nella mente di una donna, di una madre e di una moglie tradita dalla fiducia riposta nel marito che, pur di proseguire con successo la guerra è disposto a sacrificare la vita di una figlia ? E pretende subdolamente la complicità della moglie, facendole credere che è un matrimonio quello a cui lei sta preparando la figlia ? Un marito che anche successivamente giustifica il suo atto come il male minore ? Meglio la morte di una persona, piuttosto che la morte di un esercito di persone.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Nell’opalescenza della sua psiche, conseguenza di un inarginabile dolore, la Clitennestra di Andò cerca un varco. Può farlo solo procedendo con l’aiuto delle mani, come cieca: accecata dal dolore. Trova il varco: ci trova. 

Le sue palpebre, sipari scenici, faticano a sostenere il peso della luce. Vince la tentazione a chiuderle: così si affida alla voce, al racconto, a quello che resta del suo rievocare. Allucinato e ossessivo. Sono ombre che si allungano, l’odore della morte che permane, gradito come la visita di un grande amico. Lui sì, compagno fedele. Le palpebre riescono a risollevarsi: rivelano scenari di vuoto squallore, come dopo aver ripulito una mattanza. 

Una lacerata e lacerante Isabella Ragonese tormentata dalle viscere e preda dell’incanto del dolore subìto e oramai ingovernabile – “sarò lasciata così, per gli anni che mi saranno riservati. Non di più ” – si dona a noi padri, madri. E figli: perche la condizione di figli tutti ci accomuna. E lei si danna per aver ricevuto un dna, un’eredità genetica, così luttuoso. Non se la prende con gli dei, o con il dio di Abramo ed Isacco. Qui, dallo scenario esistenziale, gli dei dono assenti. È la natura umana ad essere indagata in purezza da Toíbín, e quindi da Andò. 

I personaggi in scena (Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Bacheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini e il coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini e Antonio Turco) non sono quelli della tragedia greca: sono uomini e donne del primo Novecento, attraversati dalle guerre mondiali e immersi in una sorta di nichilismo nietzschiano. Sono gli anni della diffusione della psicoanalisi, di una nuova attenzione per la malattia mentale. Abita la scena – e i costumi di Elettra e di Ifigenia – un’atmosfera anche da ospedale psichiatrico.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Il coro perde la solennità della postura: è seduto, spesso a terra, come se la forza gravitazionale diventasse più difficile da sfidare. È il richiamo della terra a dominare, degli instinti alla sopraffazione: così connaturati in noi. Innati. Non è solo il dna di Clitennestra ad essere luttuoso.

I meandri della natura umana sono misteriosi. A volte irriducibili. E ci accomunano tutti. Sempre. Non solo nel mondo greco del V secolo a.C.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

La regia di Roberto Andò porta in scena una condizione esistenziale così credibile da essere di una bellezza agghiacciante. Ha l’audacia di proporre un diverso punto di vista su questa donna, madre e moglie, che ci è vicina più di quanto immaginiamo.

Così vicina da risultare quasi irresistibile correre sul palco a donarle solidarietà: quando la Ragonese si apre in quel filamento di urlo metallico, che fatica, come un cigolio, a farsi suono nella gola. 

Arianna Bacheroni (Ifigenia) e Ivan Alovisio (Agamennone)

in “Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Così come strazia, fino a lasciarci quasi in brandelli, la dolcezza disarmata di Ifigenia: figlia che si scopre asciutta di lacrime e senza la persuasione necessaria per convincere il padre a non ucciderla. A preferirla alla guerra. Tanto risulta innaturale chiederlo. Tanto ci si aspetterebbe fosse innato, scontato. E invece no. Siamo anche così. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Accattivante la coralità tragica e seduttiva della danza degli intrighi, delle ambiguità e delle macchinazioni proprie della psiche umana. In un crescendo parossistico. E disperato.

Umano.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli



Recensione di Sonia Remoli

Recensione del docufilm SCARROZZANTI E SPIRITELLI – 50 anni di vita del Franco Parenti – regia di Michele Mally –

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023, Auditorium Parco della Musica – 23 Ottobre 2023 –

Poesia di luce e di speranza, 50 lunghe candele fanno ardere di fulgente intima magia le emozioni e i ricordi dei primi 50 anni di vita di quel “santuario della parola” che è stato, è, e sarà il Teatro Franco Parenti.

“Davar” in ebraico significa, infatti, “parola”. Ma anche “avvenimento”. Parlare quindi vuol dire anche far accadere le cose. Sacro è il fuoco della parola, che crea la vita umana. Divino è il legame che istituisce tra il visibile e l’invisibile. 

Andrée Ruth Shammah al Teatro Franco Parenti

Ecco allora che l’incandescente ed eclettica Andrée Ruth Shammah decide di riplasmare lo spazio teatrale, predisponendo una scenografia potentemente essenziale. Capace, cioè, di ospitare un grande fuoco attorno al quale invitare a riunirsi, in magico cerchio, tutti i più cari amici del Franco Parenti – i testoriani “scarrozzanti” – testimoni ed eredi della filosofia di questa “Casa del teatro”.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli” presso il Teatro Franco Parenti

Tanti gli amici registi e attori, con un ruolo-chiave per la storia di vita del Parenti, che hanno condiviso anche nel docufilm la loro testimonianza sul rapporto con questa realtà: Mario Martone ne sottolinea il legame imprescindibile con Milano; Marco Giorgetti il fatto di essere un teatro-mondo che soddisfa ogni esigenza culturale e di vita; Anna Galliena ne ricorda la genesi come “di una storia che non sembrava e che invece poi è stata”; Roberto Andò evidenzia che quello che si sente al Parenti è un’idea di teatro che è un autoritratto della Shammah. Solo per citare alcune delle testimonianze colme d’emozione che si sono susseguite. E poi la dichiarazione-incoronazione di Filippo Timi: “La vera fortuna, e non possiamo far finta che non lo sia, di questo teatro sei tu, che sei il presente. E’ fondamentale Andrée perchè “x” che tende all’infinito ha bisogno di un punto e Andrée sei tu. Chiamalo il cuore, chiamalo The Mother, chiamalo luce”.

In sala ieri sera, oltre a molti di loro, la prestigiosa presenza umana e professionale di Adriana Asti, testimone del profondo sentire che la lega al Parenti e alla Shammah.

Ma il docufilm – la cui regia è affidata alla densa sensibilità di Michele Mally – tiene memoria anche di coloro che solertemente lavorano e hanno lavorato dietro le quinte, ovvero gli artigiani del Teatro. Nominati uno ad uno: perché è dando un nome che si riconosce un’identità. Perché anche loro sono “il fuoco del teatro” – come ha ricordato con sincera commozione Raphael Tobia Vogel.

Scena di un contributo video di Adriana Asti ne “La Maria Brasca”

E per quelli che non ci sono più – in primis Franco Parenti, Giovanni Testori, Dante Isella ma anche e soprattutto Eduardo De Filippo, quelli che la Shammah chiama gli “spiritelli” e che sono stati “pericolosi perché hanno vissuto i loro sogni ad occhi aperti con il proposito di attuarli” – la loro assenza sarà presente attraverso il fulvido fuoco del ricordo di questa splendida comunità. Fuoco e quindi medium tra il nostro e il loro mondo. 

Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah

Come nel 1973, è stata la serata del 16 gennaio 2023 quella in cui si è rievocato l’inizio dell’attività dell’allora Salone Pier Lombardo. Quando cioè andò in scena la prima regia di Andrée Ruth Shammah: “L’ Ambleto” di Giovanni Testori, primo capitolo della “Trilogia degli Scarrozzanti”. E proprio nell’incontro del 16 gennaio scorso, intitolato “In compagnia della loro assenza”, si è consumato questo solenne e “primitivo” rito collettivo: per celebrare il Teatro. Prima ancora che il Franco Parenti. 

Andrée Ruth Shammah in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Da sempre l’uomo affida al rito i momenti di passaggio – così ricchi di pericolosa opportunità – della sua esistenza personale, nonché della collettività di cui fa parte. E cerca in esso la garanzia del mantenimento della propria identità e di quella della comunità di appartenenza.

Quello infatti che l’arguta direttrice artistica ha scelto di mandare in scena per il magico attraversamento del 50esimo anno di vita della sua realtà esistenziale, prima ancora che professionale, è un sacro “atto di scelta”, di ancora viva testimonianza e aderenza ad uno stile di vita e di lavoro.

Una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”

Ad aprire la preghiera-rituale comune, la Shammah ha investito il caro amico Massimo Recalcati – rinomato psicoanalista e saggista ma anche appassionato amante del teatro – che ha gettato luce, con la solenne grazia della sua parola, sulla deriva dalla quale è bene liberare l’atteggiamento della “nostalgia”. Lei che ci avvolge così prepotentemente nel momento in cui avvengono degli eventi che segnano un forte cambiamento di rotta al nostro navigare nel mare della vita. Ma la sacra esigenza del ricordare, propria dei momenti di rievocazione di un ameno passato, lungi dal favorire atmosfere di mero rimpianto che portano ad una sterile stagnazione o ad una paralisi evolutiva, può e deve prendere la forma di una profondissima gratitudine. Perché chi non c’è più è presente proprio grazie alla sua assenza. Nostro compito è allora quello di “portarli con noi”, nel presente e nel futuro. Perché è questo ciò che davvero in maniera più autentica essi desiderano. E dei loro insistenti desideri sono ancora intrisi gli stessi muri del Teatro. Perché così fanno i desideri, quelli autentici.

Franco Parenti è “L’Ambleto” di Giovanni Testori

Ecco allora anche la scelta di continuare ad assegnare l’incipit del docufilm alla voce-presenza dell’ ambletico Franco Parenti. Così come la chiusura del docufilm: perché ogni fine contiene in sé un nuovo inizio, un nuovo incipit.

Perché l’importanza dei “maestri” – coloro cioè che “hanno portato con sé un po’ di mondo da difendere” – chiede di essere ricordata. Ma soprattutto “presa”: colta e fatta propria. Nel presente. In un ciclo vitale, capace di continuare a far emergere fresca linfa, all’interno di un naturale e prezioso passaggio di consegne.

Perché così “il teatro existerà contra de tutto e de tutti, enzino alla finis de la finis” .

Raphael Tobia Vogel in una scena del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”


Scarrozzanti e spiritelli

50 anni di vita del Teatro Franco Parenti

ideazione e direzione artistica Andrée Ruth Shammah

regia Michele Mally

sceneggiatura di Didi Gnocchi e Paola Jacobbi

con i contributi video di Raphael Tobia Vogel

una produzione 3D Produzioni

in collaborazione con Teatro Franco Parenti e Rai Cinema

con il sostegno di MIC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo



CALENDARIO DELLE PROIEZIONI

Lunedì 6 Novembre 2023 – ore 20:00 : Sala Excelsior – Anteo Palazzo del Cinema Milano

Lunedì 27 Novembre 2023 – ore 19:00: Cinema Modernissimo – Cineteca di Bologna


Recensione di Sonia Remoli

 

Ferito a morte

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 15 Gennaio 2023 –

Pigramente guardare. Preferire sabotare i timpani e usare l’orecchio come fosse “il buco di un lavandino”, addomesticandolo solo all’ascolto di racconti. Non farsi tentare dal fascino conviviale dei cibi; non lasciarsi guidare dal fiuto; non abbandonarsi al tatto. Solo guardare. E poi: preferire rinunciare.

Andrea Renzi (Massimo adulto) in una scena dello spettacolo “Ferito a Morte” di R. Andò

Quasi creando un rapporto biologicamente chiasmico tra natura e vita umana: la natura è la nemesi della vita, perché nemesi è la grande occasione mancata. “Quanto siamo fatti di ciò che possiamo perdere?”. E allora perché non godere perversamente nel perdere occasioni. Soprattutto quando è proprio lì, facile, a portata di mano. Galleggiando.

Andrea Renzi e Paolo Mazzarelli (Sasà) in una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Per poi abbandonare ogni pigrizia nel costruire una propria narrrazione : attenti e accuratissimi nel creare la “suspense”. Obbedendo alle aspettative “degli altri” che pretendono, seppur impazienti di arrivare al punto, di venir eccitati dalla dovizia dei particolari. Inventati, spesso. Ma non importa: la vita si inventa, non si vive.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte ” di R. Andò

È colpa della città che “o ti ferisce a morte o ti addormenta”. Nella magnifica regia di Roberto Andò costruita sull’adattamento di Emanuele Trevi (celebre “coltivatore” di pure forme laterali di scrittura, dalla recensione alla prosa di viaggio, dalla saggistica alla narrativa pura, dalla memorialistica all’epistolario) quest’affermazione diviene un mantra. “Boccheggiato” da uomini che, in un seducente gioco di specchi e di proiezioni tridimensionali, si accontentano di vivere nel mare della vita, come in un rassicurante acquario.

Il rinomato regista Roberto Andò

Dove, grazie ad una sapiente costruzione scenografica continuamente in movimento, abilmente “velata” o “freezzata”, il passato si confonde con il presente. Un tempo scandito e numerabile solo attraverso il ricordo della donna che quell’estate “furoreggiò”. Si fa per dire: ogni donna si dà cura di informare “in anticipo” quali sono i suoi “gusti “, così da evitare insopportabili sorprese. Insomma, si vive con “un libretto delle istruzioni” per tutto.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

I dialoghi, com’è nella cifra stilistica di Andò, che qui si coniuga perfettamente con la qualità del testo di Raffaele La Capria, tendono ad essere sostituiti da lunghi monologhi-confessioni: dimensione dove poter rintracciare la misura, la chiave, per penetrare la città e i suoi misteri, aldilà di una misurazione del tempo cronologica. Concezione “iniziatica” della letteratura, declinata assieme a Emanuele Trevi, che ne ha curato l’adattamento con la sua caratteristica lucidità impeccabilmente intensa.

Emanuele Trevi

È un uomo dal thymos ancora intriso del trauma della guerra, quello raccontato in questo spettacolo, terrorizzato dall’ambiguità del reale, nonché dall’ambiguità del linguaggio. E che, per “reazione”, preferisce riporre la propria fiducia chiudendosi, nella presunta verità di un solo punto di vista. Perché come non si sa cosa nasconda l’acqua, così non si può sapere cosa ci nasconda la vita.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Si celebra così lo iato tra ciò che appare e ciò che è, tra la voce dei monologhi e la realtà dei fatti. Ma così gli “appetiti” finiscono per sopirsi, se si decide di rinunciare alla “caccia” (tranne Sasà, il Mandrake dell’improvvisazione). Paura e coraggio sono le due facce del desiderio ma qui si sceglie di “parlare” di fare l’amore, piuttosto che farlo davvero.

Sabatino Trobetta (Massimo giovane) e Laura Valentinelli (Carla) in una scena dello spettacolo

Tutta la narrazione è registicamente gestita da Massimo, narratore interno ed esterno, che anche scenograficamente abita prevalentemente una cameretta, di vanghoghiana memoria, costruita fuori dal palco ma ad esso contigua. Sospeso tra flusso di coscienza, sogno, ricordi e flashback. Sul palco si aprono e si chiudono fluidamente scene (curate da Gianni Carluccio, così come il disegno luci), a volte anche parallelamente, come fossero cassetti di un grande troumeau: la vita. Dove si vive come “monadi”, come “fotografato” con genio registico attraverso la scena esemplare dell’apparente “convivio”.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Non si ama entrare nella relazione con l’imprevisto che l’altro costituisce. Così ognuno si costruisce una propria weltanschauung, una propria visione della realtà, rendendola consona e accettabile a se stesso e agli altri. Quelli del Circolo: nuovo macrocosmo. È così confortevole! “Una vestaglia tiepida”, così come il sole. “Noi del Sud siamo predisposti al fascismo”. Ovvero ad abdicare al libero arbitrio, che implica quel gran fardello delle responsabilità. Meglio le catene, l’obbedienza: com’è nelle più intime corde della natura umana. Restare eternamente figli, incapaci di desiderare lo sviluppo della propria autonomia.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

Ma è anche tutto così noioso! Inevitabilmente. E subdolamente feroce. Tanto che la solitudine prende il sopravvento, nonostante si stia prossemicamente vicini. E ci sono scene che sembrano uscite dal pennello di Edward Hopper.

Una scena dello spettacolo “Ferito a morte” di R. Andò

E si finisce per eccitarsi per l’ebrezza della morte. E per il dolore, che fa sentire vivi, in un mondo ovattato dalla menzogna, rivelata narrativamente in scena da superfici specchianti che non si limitano a “riflettere” ma anche a “proiettare”.

Complici di eleganti vizi e bizzarrie, un microcosmo di due camerieri: una donna e un uomo che nell’assecondare i loro “padroni” contribuiscono visivamente a creare scene alla Jack Vettriano. Meravigliosi i costumi di Daniela Cernigliaro.

Uno spettacolo fatto per gli occhi. Uno spettacolo che incanta. Che sceglie le immagini come veicolo privilegiato per arrivare a toccare il fondo. Delle nostre anime. Un inno alla risalita, all’ebrezza dell’aprirsi alla tridimensionalità della vita. Complice un cast impeccabile.