Sono “care” e quindi preziose le “tante cose”, ovvero i tanti incontri, che Massimo De Lorenzo – noto attore di cinema e di teatro – desidera rievocare in questo delizioso libro sorprendentemente profondo, pubblicato da Bibliotheka Edizioni.
Incontri che l’autore ha vissuto lasciandosi arricchire da donne e da uomini che hanno dato una forma sempre più complessa e piú completa alla sua vita. Donne e uomini che lo hanno messo in contatto con parti diverse della sua psiche, facendo sì che potesse giungere a conoscersi meglio.
E infatti, cosa si augura ad una persona a cui si vuol bene ? “ Tante care cose!”: di fare interessanti incontri, quelli cioè che stimolano a crescere, a migliorare. In ogni momento dell’ esistenza.
“Care” sono infatti le “cose” cifra di un mondo in cui ciò che più si ha di caro non è caro, non avendo un costo economico. Perché quando ci si vuol sentir ricchi davvero, conta proprio ciò che si ha e che non può essere comprato.
Massimo De Lorenzo
E’ “la casualità” a caratterizzare gli incontri indimenticabili che Massimo De Lorenzo ha vissuto e qui rievocato. Ma “suo” è stato il desiderio a far diventare “necessità” ciò che si è presentato sotto le vesti della “casualità”: suo – grazie alla disponibilità ad entrare in un’autentica relazione con l’Altro – l’aver saputo intercettare, proprio in quel particolare incontro, la possibilità “irrinunciabile“ per accedere ai suoi desideri più nascosti, più personali, più veri. Ad esempio, quei desideri d’amore che sanno andare al di là dei confini fissati dal vivere civile e religioso. O anche quei desideri di conoscenza “erotici”, perché al di là del nozionismo: desideri di fedeli tradimenti, necessari per “rifare proprio” un insegnamento, un’eredità.
Desideri, più in generale, quali “ponti” capaci di mettere in comunicazione due linguaggi differenti: quello fondato sui principi della logica (identità-non contraddizione e causa-effetto) e quello libero da questi principi e vicino al linguaggio inconscio dei sogni. Linguaggi che narrativamente danno vita ad una duplice prospettiva: una dall’alto e l’altra che scende nelle profondità, proprio laddove sono restati incastrati alcuni desideri più personali. Con il risultato che, tornando in superficie, si scopre di conoscere meglio se stessi. Per aver “lasciato le vesti” precedenti: quelle che portano a dire – come alibi al non mettersi in gioco – “…nessuno ti vuole bene come la tua famiglia, la Calabria è sempre la Calabria e nessun posto ci rende felice come starcene a casa propria, che noi abbiamo il cibo più buono, il mare più bello e poi la famiglia…”.
E così quella che apparentemente si presenta come una gradevolissima raccolta di mail reali o immaginarie – una collana di perle di saggezza comica e poetica – in verità ha l’essenza di un’esplorazione “in soggettiva”, dove ogni mail narrativamente “è montata a schiaffo” all’interno di una narrazione quasi cinematografica.
Sono mail che non nascono per avere una risposta: Massimo De Lorenzo non scrive a loro (ai suoi destinatari) ma a tutti, di loro. Perché se é vero che é a loro che l’autore si è raccontato e sono loro che hanno saputo ascoltarlo con autentico interesse ( “ci aprivamo la testa con chiacchierate meravigliose”), le sue mail sono piuttosto degli atti di gratitudine alla Vita per avergli permesso di assaporare com’è “ bellissimo perdersi in questo incantesimo”: quello che riesce a distorcere immobili certezze.
Efficacissima anche la scelta di copertina: un raffinato e spiritoso disegno di Livia Alessandrini che raffigura un Massimo De Lorenzo schiacciato da una prospettiva che lo riprende dall’alto. L’immagine s’intitola “Figurante” e può alludere al fatto che assecondare chi ci guarda dall’alto ci schiaccia a vivere da “figuranti” . Solo osando – e quindi essendo curiosi di scendere dentro di noi portando alla luce i nostri desideri più autentici – ci fa evolvere da “figurante” non solo a “personaggio” ma anche a “persona”.
Perché “niente di grande è stato fatto senza passione” – ricorda hegelianamente l’autore. E perché “chi cerca, prima o poi trova, dappertutto “. Se stesso.
Un libro, questo di Massimo De Lorenzo, che ci legge. E che si fa leggere come un prezioso invito a non perdere mai la curiosità a conoscere noi stessi. Ricordandoci di essere sempre grati nei confronti di quegli incontri che ci hanno saputo plasmare contribuendo a valorizzarci o spingendoci a fare conoscenza – e, nel migliore dei casi, “amicizia – con il nostro peggio”, come direbbe Massimo Recalcati.
La sua è un’entrata in scena che coinvolge sfere sensoriali differenti: é felpata all’udito, morbida agli occhi.
La sua è la grazia della discrezione, che ieri sera si è vestita di verde: il colore della libertà a procedere, ad andare avanti al di là dei netti e regolari confini.
Verde é il colore di base della sua musica, la quale è un inno contro la schiavitù delle separazioni e delle gerarchie. E infatti partendo da questa base cromatica Rita Marcotulli, geniale e pluripremiata compositrice e pianista di musica jazz, desidera restituire valore, e quindi identità, a tutte le diverse colorazioni sonore della sua verve creativa, che le chiedono di essere espresse. Come avviene nel Teatro. Come avviene nella Vita.
Rita Marcotulli ieri sera al Teatro Cortesi di Sirolo
La Marcotulli incarna quel tipo di eleganza che si apre generosamente alla vocazione all’integrazione.
Quell’eleganza che sa ospitare e promuovere tutte quelle diverse fioriture, che on the road chiedono di essere ascoltate e di avere uno spazio per esprimersi.
Ieri sera, nella meravigliosa cornice del Teatro Cortesi di Sirolo, emblema per vocazione architettonica ed artistica di integrazione civile e di valorizzazione sociale, abbiamo avuto l’onore di assistere al prendere forma di questo stato di grazia creativo.
Il Teatro Cortesi di Sirolo, ieri sera prima dell’inizio del concerto di Rita Marcotulli
Liberi dall’esigenza di un programma di sala, disponibili a non rispondere alle pretese di quell’eccesso di controllo che ci impone di voler sapere sempre tutto prima, ci siamo lasciati cullare, trascinare, strapazzare – in totale disponibilità d’ascolto – da quel multiforme processo creativo che la Marcotulli si è resa a sua volta disponibile ad ospitare.
La compositrice e pianista Rita Marcotulli
Abbiamo così potuto assistere ad una sublime dimostrazione di come la gioia di vivere si inventi continuamente nuove strade per non lasciarsi incatenare dall’ossessiva rassicurazione all’uniformità. A quell’omologazione che mette a tacere il fulgore della bellezza delle diversità. Rita Marcotulli ci dà prova di quale onorevole uso si può fare del rispetto della tradizione e di come se ne può essere testimoni: mantenendola vitale attraverso fedeli tradimenti sperimentali.
Rita Marcotulli
Tra le dimostrazioni più luminose, le interconnessioni con la poetica sincerità della narrazione cinematografica della Nouvelle Vague (François Trouffaut e quindi anche Jean Renoir) ma anche interconnessioni con la folle e dannata pulsione d’amore scritta e descritta da Pier Paolo Pasolini, e interpretata da Domenico Modugno, in “Cosa sono le nuvole”. Ma poi, ancora più dichiaratamente inclusivo, lo sperimentalismo sincretico delle collane vibrazionali, magicamente esotiche, dell’album “Koinè”. Qui dall’acuto ed estroso – e quindi rispettosamente libero – sperimentalismo sincretico della Marcotulli, prende vita qualcosa di cosí meravigliosamente inaspettato la cui sonorità, a tratti, ricorda quella di un caleidoscopico clavicembalo.
Rita Marcotulli
Perché le sue creazioni sono come impasti lievitanti di colori, di sapori, di profumi, di tattilità. Una tattilità di cui si fa strumento la diteggiatura, che si concerta con la danza dei piedi e poi con quella di tutto il corpo. Ma senza inutili eccessi: è quella di Rita Marcotulli una rivoluzione morbida, vellutata, felpata. Perché inclusiva, aperta a nutrirsi di fertili differenze.
La compositrice e pianista Rita Marcotulli
Il pubblico ha espresso il proprio entusiasmo attraverso una calibratissima attenzione che sul finale si è scatenata in interminabili applausi.
A conclusione della magica serata, Paolo Larici, Presidente e Direttore Artistico del Centro Studi Enriquez, è salito sul palco per dedicare la straordinaria bellezza della serata all’indimenticabile costumista Elena Mannini, scomparsa da appena poche ore.
E con immensa gratitudine ha consegnato il Premio Franco Enriquez 2024 a Rita Marcotulli per l’unicità del suo impegno civile e sociale, dimostrato attraverso l’esigenza di rintracciare e concertare sempre nuove identità collettive e traducendole poi magistralmente nel fascinoso linguaggio della musica.
Rita Marcotulli riceve da Paolo Larici il Premio Franco Enriquez 2024
Donna poetica inguaribilmente affamata di vita, di curiosità, d’eternità.
Donna di ricerca, alla ricerca.
La poetessa Nanda Anibaldi
Donna che per creare, per produrre e quindi portare in superficie poesia, scende in ascolto delle vibrazioni delle proprie profondità abissali, giungendo a localizzare fertili sorgenti d’acqua sotterranee e preziosi giacimenti minerari interiori.
Solo così trova le parole per dirla, la sua inquieta semplicità di verità. Con fatica: sempre con estrema, drammatica ma anche bellissima fatica. Una fatica dannata, un po’ come quella di Sisifo – ci confida l’Anibaldi: il poeta infatti è a qualche livello un Titano che per tentare di sconfiggere la morte e per liberare – almeno momentaneamente – gli uomini dai loro affanni del vivere, sconta questa sua tracotanza di vivere con il continuo tornare a ricercare. Ancora, e ancora. Per continuamente sfiorare zone di verità.
Un’urgenza quella del Poeta, in quanto abitato da un eccesso di vita; da un entusiasmo di cui non conosce “il perché“, né il controllo. Travolto come da una irresistibile passione amorosa, che sa andare oltre la ricompensa, oltre l’essere ricambiati. Un amore necessario.
Un’origine simile a quella della Poesia, inconsapevole e necessaria, dà vita anche al Teatro – spiega l’Anibaldi – che nasce come “un sapere senza sapere”, cieco per poter vedere meglio. Nasce infatti da un’oralità: quella dei racconti reali e immaginati degli aedi. Le loro erano “performance” – in diretto contatto con l’uditorio – prive di testo scritto: loro stessi erano compositori, creatori in versi, poeti. Scrittori del pensiero. E scrittori di gesti.
La Poesia diviene piú consapevolmente Teatro quando un ensemble di autori (costumisti, scenografi, disegnatori della luce) coordinati da un regista danno nuova forma ad un testo. Ma vale anche il contrario – continua l’Annibaldi: teatro e poesia sono legati e intrecciati tra loro in un rapporto chiasmico. Da qui la scelta del titolo della serata: La Poesia del Teatro il Teatro della Poesia.
L’attrice Elisa Ravanesi
Le acute riflessioni di Nanda Anibaldi nel corso della serata di ieri al Centro Studi Franco Enriquez hanno trovato un sublime coronamento nella lettura interpretativa delle sue poesie da parte dell’attrice Elisa Ravanesi. In uno splendido “pas de deux” prende vita allora la rievocazione del percorso poetico, generosamente riconosciuto dal pubblico, della Anibaldi: quello che va dalla prima pubblicazione del 1989 all’ultima del 2021. Percorso lungo il quale, di volta in volta, la poetessa “si trova un vestito suo” in un “tempo suo”: perché “siamo noi stessi per essere diversi”.
E così all’interno di una sua personalissima vocazione ad individuare – e insieme a rinunciare – alla scoperta dell’identità delle cose (appresa anche attraverso l’imprinting materno) finisce per imbattersi con l’ontologia del “baro”: la meschinità che si cela sotto ogni presunta verità. Una sofferenza certo, che però non smette di accompagnarsi ad un potente slancio vitale. Il tutto custodito in una sublime segretezza, così irresistibile proprio perché così sfuggente.
Elisa Ravanesi, Paolo Larici e Nanda Anibaldi
Una serata, tra le varie e stimolanti in cartellone anche quest’anno, di cui essere grati al Maestro Paolo Larici, per vocazione Presidente e Direttore artistico del Centro Studi Franco Enriquez. Suo il desiderio di testimoniare e consegnare ai giovani la fertile eredità del grande regista Franco Enriquez, che elesse Sirolo – insieme all’adorata Valeria Moriconi – quale luogo di ispirazione creativa e buen retiro.
L’eredità di un Teatro polivalente: che può accogliere tutto e in cui tutto trova una certa sistemazione.
Perché la Vita è un Teatro “dove si va sempre in scena, in qualunque momento… e quando il magico sipario si apre, devi esserci. E ci sono tanti modi per esserci, per creare quella magia irripetibile».
Tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli
SAN GINESIO (MC) – 18 Agosto 2024 – Chiostro di Sant’ Agostino ore 21:30 –
Il dono della pioggia scende, quale rito di fertile augurio, sulla serata d’apertura della quinta edizione del Ginesio Fest 2024, diretta da Leonardo Lidi.
Leonardo Lidi
Splende, bagnato a lucido, il borgo medievale marchigiano di San Ginesio a vocazione artistica, in quanto luogo del Santo protettore della comunità attoriale.
A lui é stato intitolato anche il Premio San Ginesio “ All’arte dell’ Attore”, ideato e voluto da Remo Girone,
La comunitá di San Ginesio – sotto l’egida della Direttrice generale del festival Isabella Parrucci – sa come non perdere smalto e, viva d’entusiasmo, sa come riuscire a non smettere di dare vita a sempre nuovi inizi. Com’è nella nostra natura di esseri umani – diceva Hannah Arendt.
E di continui nuovi inizi ci ha parlato anche lo spettacolo che ha dato avvio alla prima serata del Ginesio Fest 2024 : “Senza motivo apparente” di e con Christian La Rosa, tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli.
In uno stile accattivante dalla caratura cinematografica Christian La Rosa, fin da subito e per tutta la durata del suo monologo, ci trascina con sé dentro un racconto concertato per più voci narranti. I suoi campi sequenza narrativi , sapientemente contrappuntati da campi corti e primi piani, ci seducono al punto da entrare nel ritmo dei suoi respiri: scattante, complice, colmo d’emozione. Efficace anche la costruzione della suspense, che ci risucchia dentro intuizioni e sospetti solo poi confermati o disattesi. Sono le diverse micro contrazioni che danno forma alle sue spalle a parlarcene, rendendo la comunicazione maledettamente intrigante.
Christian La Rosa
E’, quella di Christian La Rosa, un’urgenza magnificamente umana di evidenziare i continui nuovi inizi che hanno sfidato e sfidano la perversa volontà di chiudere e di insabbiare gli elementi che hanno dato origine all’omicidio del dottor A., ovvero all’omicidio di Amedeo Damiano.
Amedeo Damiano
A lui é dedicato lo spettacolo essendo la sua morte avviluppata all’interno di un’intricata vicenda, ancora oggi parzialmente irrisolta. E vede, come prima fonte d’ispirazione, il testo firmato da Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”, acquisito agli atti processuali proprio in virtù della sua precisa ricostruzione dei fatti. Sergio Anelli, facente parte della commissione d’inchiesta presieduta da Amedeo Damiano, scrisse infatti il romanzo per approfondire quello che questo attentato di mafia tracció non solo a livello politico e sanitario, ma soprattutto sociologico: il nuovo volto della mafia, quello che si stava delineando negli anni ’80. L’assassinio di Damiano portò infatti alla luce insospettate vicende malavitose in una pacifica realtà di provincia “di portici e geometrie”: la pacifica Saluzzo, apparentemente immune da dinamiche a carattere mafioso.
Ma 37 anni fa, Amedeo Damiano, presidente dell’allora Ussl 63, (Unità socio-sanitaria locale) di Saluzzo fu ucciso in un agguato la sera del 24 marzo 1987. “Il dottor A” aveva appena varcato la porta del palazzo del centralissimo corso Italia, dove viveva con la moglie Giuliana Testa e quattro figli, quando nell’androne dell’abitazione due uomini aprirono il fuoco. Quello che doveva chiaramente essere una sorta di avvertimento, una ‘gambizzazione’, finirà però in tragedia. I colpi di pistola oltre a fratturargli il femore, lesionarono anche il midollo spinale, paralizzandolo. Dopo un lungo calvario in diverse strutture ospedaliere, Damiano morirà a distanza di 100 giorni dall’attentato, il 2 luglio 1987, mentre era ricoverato in una clinica di Imola dove era stato portato per un disperato tentativo di riabilitazione.
Giornali e telegiornali iniziarono a farsi domande.
Fortunatamente.
Perché porsi domande è un’inclinazione squisitamente etica che ci permette di comprendere il passato, evitando di ripeterne gli errori.
Perché domandare esprime un desiderio di sapere – e non di dimenticare – alla base anche del metodo di conoscenza socratico.
Domande si pose “il dottor A.” per riuscire a risanare la situazione sanitaria precedente.
Domande si pose Sergio Anelli nel suo lavoro di fine archivista, al fine di raccogliere il maggior numero di dettagli informativi per fare chiarezza sul caso del “dottor A.”
Domande continua a porsi Christian La Rosa per educare il pubblico a porsi domande.
E attraverso il suo spettacolo teatrale sa lasciare una traccia in chi lo ascolta: com’è nella natura di un attore e regista dal carisma erotico. La narrazione di Christian La Rosa sa infatti appassionare alla ricerca della verità e al suo continuo saper ricominciare: al di là di ogni possibile sconfitta, al di là di ogni possibile ostacolo.
Proprio com’è nella natura del Teatro: quella di essere un continuo luogo d’incontro. Tra attore e spettatore; tra domande e possibili risposte; tra l’ “ e poi mamma?” E il suo “chissà!” ; tra il nostro “io” e le altre parti che compongono la nostra anima. Tra l’inclinazione naturale a sopraffare – con la quale tutti noi veniamo al mondo – e l’educazione all’amore della verità, che passa per il rispetto dell’Altro, da imparare una volta gettati al mondo. Per realizzarci davvero, autenticamente. Al di là di ogni “solitudine”: anche giudiziaria, come quella di cui ci parla questo caso, rievocato dallo spettacolo di Christian La Rosa. Una rievocazione laica della passione della morte del “dottor A.”
A lui, a 30 anni di distanza dall’omicidio Damiano, “è stato chiesto” infatti di occuparsi di un evento cittadino di scottante importanza. Alla “domanda” La Rosa ha risposto con entusiasmo, utilizzando l’ ‘arma’ di cui sa mirabilmente disporre: quella della rappresentazione teatrale. E con una calibratissima e seducente drammaturgia, La Rosa sale sul palco a raccontare l’intricata vicenda giudiziaria che ha portato dopo 14 processi ad un nulla di fatto sul mandante di quell’attentato. Solo i tre esecutori materiali vennero condannati: “Nessun movente, nessun mandante. Il dottor A. venne ucciso senza motivo apparente”. La Rosa ha avuto la possibilità di confrontarsi a lungo con la famiglia Damiano, di accedere alla rassegna stampa dell’epoca e soprattutto al libro di Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”
Una storia non solo cuneese ma, al di là di ogni solitudine, italiana.
Una storia su cui continuare a interrogarsi, perché solo così ci si accorge di essere vivi: continuando a tenere in vita la ricerca della verità.
Perché solo così si cresce, si va avanti.
Insieme.
San Ginesio (MC)
Il Ginesio Fest 2024 ha avuto il suo magnifico inizio: la magia è scesa su questo primo incontro e saprà continuamente rinnovarsi.
“Professore,lei è un poeta e nonha paura delle parole. Questo è morire” – disse il medico al malato Luigi Pirandello.
Ed è così che la “fine” annunciata di Pirandello prende forma “agli orli” con “l’inizio” della lavorazione di quest’ultima opera.
La gestazione de “I Giganti della Montagna” inizia dalla rielaborazione del primo attode I fantasmi (pubblicato nel dicembre del ’31 sulla Nuova Antologia) seguita alla rielaborazione del secondo atto (pubblicato nel novembre del ’34 sulla rivista Quadrante). Sopravvenendo poi la morte e non riuscendo Pirandello a scrivere per esteso il terzo atto, lo traccia schematicamente al figlio Stefano.
Una vera e propria opera-testamento, quindi, questa de “I Giganti della Montagna”; un’eredità necessaria, da lasciare a chi desidererà farsi testimone di un particolare modo di intendere l’Arte e la Vita.
Ingresso al giardino dalla navata destra della Basilica di Sant’Alessio
E difatti “I Giganti della Montagna” è inserita nella terza e ultima delle sezioni in cui sono state classificate le opere di Pirandello – “Il Teatro dei Miti” – con il titolo di “Il Mito dell’Arte”.
Ma che cos’è un “mito” per Pirandello ?
E’ una favola, una narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore simbolico. Narrazione che costituisce un’affascinante spiegazione di fenomeni naturali, sociali, culturali e trascendentali.
Qui ad esempio il tema dei “Giganti” si riallaccia al mito dell’antica Grecia, dove si parla dei Giganti come di coloro che – nati dalla Terra e dal sangue dell’evirato Urano – costituiscono un popolo selvaggio e criminale affine, sebbene più forte, alla stirpe umana e, come questa, mortale.
Pirandello allude ai rappresentanti del potere politico ed industriale del suo tempo: coloro che “con l’esercizio della forza” stanno trasformando il mondo con grandi opere. Nate però unicamente dall’esaltazione del potere della razionalità, che finisce per inaridire e poi censurare lo sviluppo della parte più creativa della psiche umana: quella legata al nostro linguaggio inconscio, fucina dell’Arte.
Le sorti del Teatro, in tale contesto, preoccupano non poco Pirandello: privato del valore politico-sociale-culturale, il Teatro viene svalutato dal potere vigente a (innocuo) intrattenimento da dopo lavoro, perdendo così quella preziosa funzione artistica, educatrice dell’animo umano.
Ed è attraverso il pubblico costituito dai servi dei giganti della montagna che Pirandello ci parla proprio della deriva in cui sfocia l’essere umano diseducato alla ricerca della bellezza e privato della capacità ad usare creativamente la parola.
Infatti, a chi ha perso l’abilità a usare le parole per esprimere le emozioni del proprio dissenso, non resta che manifestarlo attraverso la violenza dei gesti.
E in un crescente disappunto per la conclusione dell’acclamato momento di evasione offerto dalle gag comiche e il conseguente inizio della rappresentazione de “Il figlio cambiato”, il pubblico con inaudita ferocia – resa con poesia di plastica suggestione dalla regia di Marcello Amici – fa a pezzi (e quindi divide) ciò che la bellezza unisce, accogliendola in sé: la meraviglia della diversità.
Una scena dello spettacolo “I giganti della montagna” regia di Marcello Amici
Ecco allora che contro questa mortifera deriva separatista, Pirandello ci invita a riassaporare il gusto di una realtà altra, legata all’espressione di quel linguaggio proprio della zona della nostra psiche più inconsciamente libera e quindi fertilmente creativa. E che – nonostante i vari tentativi di censura – comunque entra in scena in noi ogni notte, grazie all’ospitalità onirica.
Un linguaggio, quindi, che ci costituisce e che non può essere censurato: pena la perdita della più vitale libertà d’espressione della nostra natura. “Siamo della materia di cui son fatti i sogni – ci ricorda Shakespeare – e la nostra piccola vita è circondata da un sogno” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV).
Ed è importante allora non allontanare lo sguardo dalla testimonianza di un uomo e di un intellettuale che, seppur in procinto di congedarsi dalla vita e consapevole della crisi dei costumi dell’epoca in cui è immerso, sente l’urgenza di stimolare ancora nuovi inizi. Dei quali noi possiamo e dobbiamo essere eredi.
Luigi Pirandello
Pirandello ci conduce infatti a tornare ad “immaginare” – qualità dell’animo che in periodi di iper-razionalismo e di iper-opportunismo si rischia di smarrire – restituendo spazio, e quindi attenzione, a luoghi come quello della Scalogna: dimensione da cui si lasciano abitare uomini e donne desiderosi di bellezza.
Un’umanità ricca di diversità – concertate tra loro mantenendone le preziose peculiarità espressive – sensibili verso gli incanti rivelati dalla magia di un poeta: Cotrone, alter ego di Pirandello.
E allora, al di là del finale così drammatico – il dilaniamento della Poesia – un messaggio ulteriore si fa strada all’interno dell’opera, così come sempre all’interno del Teatro: non smettere mai di ritentare e quindi di rieducare alla bellezza. Consapevoli, sempre, che “come la scena priva di sostanza/ ora svanita/ tutto svanirà/ senza lasciare traccia” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV). Ma gli uomini – come amava ripetere Hannah Arendt – “anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”.
Ricca di spunti di riflessione è stata ieri sera la rappresentazione de “I Giganti della Montagna” portata in scena da Marcello Amici: interessante il lavoro di adattamento mirato a rendere ancor più fruibile da parte del pubblico l’esigenza, che tutti ci accomuna, di esprimerci anche attraverso un linguaggio inconscio, necessario per scoprire di quali altre esigenze siamo composti e alle quali è così utile e sano dare voce e spazio. L’unico linguaggio che ci permette di far cadere quelle maschere che, per la preoccupazione di essere accettati dalla società che ci vuole tutti “uniformi” e quindi “informi”, ci rendiamo disponibili ad indossare.
Efficace il lavoro sulla comunicazione prossemica, così come quello sullo studio dei costumi.
Sulla scena, gli interpreti della compagnia La Bottega delle Maschere – Marcello Amici (Cotrone); Tiziana Narciso (Ilse); Fabio Galassi (Il Conte, suo marito); Mirella Martinelli (Diamante); Marco Bellizzi (Cromo); Gabriele Casali (Spizzi); Maurizio Sparano (Battaglia); Francesca Di Gaetani (Lumachi); Emilia Guariglia ( La Sgricia); Marco Tonetti (Quaqueo); Alice Zanoni (Duccia); Marco Sicari (Milordino); Beatrice Picariello (Mara-Mara); Alice Zanini (Maddalena) – restituiscono al pubblico, attraverso la credibilità e il sapore delle loro interpretazioni, la sensazione di un viaggio “sugli orli” della vita e della morte, della verità e della finzione, quale fascinosa avventura all’interno della complessità di un testo, così necessario allora ma forse ancor di più oggi.
Già nel 2019 Camerini aveva portato in scena l’opera all’Off Off Theatre, in un unico atto della durata di un’ora, interpretando lui stesso tutti i personaggi.
Ora in questa tre giorni favolosa al Teatro Basilica l’intenso ed audace attore e regista ha consegnato al pubblico un’operazione colossale con trentotto attori: i suoi allievi del Laboratorio di Arti Sceniche, diretto da Massimiliano Bruno.
Negli anni ’70 già Luchino Visconti e Harold Pinter tentarono di portare a termine l’impresa su pellicola ma non si riuscì a decollare oltre la sceneggiatura.
Duccio Camerini
L’opera di Duccio Camerini nei giorni appena scorsi “è stata servita” in una libera modalità: allo spettatore la scelta di assaporarla suddivisa “in tre porzioni” (che rispecchiano totalmente la Recherche) oppure goderne parossisticamente in una stupefacente “porzione unica”. Il tutto accompagnato da fiumi di musica dal vivo interpretata da Margherita Fusi, Antonella Franceschini, Samuel Di Clemente e Alessio Mascelloni.
I tre episodi
1° Dalla parte di Swann – All’ombra delle fanciulle in fiore,
2° Dalla parte deiGuermantes – Sodoma e Gomorra,
3° LaPrigioniera – Albertine scomparsa – Il Tempo Ritrovato
sono andati in scena rispettivamente giovedì 18, venerdì 19 e sabato 20 luglio. Domenica 21 luglio invece, per chi lo preferiva, si poteva godere della Trilogia completa.
Il fine sguardo registico di Duccio Camerini sceglie di aprire lo spettacolo evocando il potere generativo della “memoria”. Ed è il narratore che, un po’ come il Prospero shakespeariano, ci confida di quale “materia” è fatta la realtà:
“La realtà prende forma nella memoria; tutto non esiste se non nella memoria”
E la “memoria” fa il suo ingresso in scena: é una folla di personaggi che nel valicare il confine scenico – metafora del confine tra il passato e il presente ma anche tra l’inconscio del sogno e la tensione conscia del ricordo del sogno – un po’ si piegano e un po’ tremano per la fatica del passaggio temporale e di coscienza. Immagine coreografica di poetica bellezza che potrebbe anche alludere ad un’amplificazione del gesto del “piegarsi” del polso nell’intingere la petite madeleine nell’infuso di tiglio. Gesto che, sinergicamente al gusto, apre Marcel alla gioia “metafisica” dell’esperienza della “memoria involontaria”.
Ma poi le sinapsi dei ricordi iniziano ad accoppiarsi e l’ “io” inizia a dare senso all’ “es”. E il passato – così come il sogno – si fa più limpido, aderendo alla scrittura che lo ha evocato. Anzi, amplificandola. Perché nel passato, così come nel nostro inconscio, si celano tracce in attesa di essere riesaminate nel presente. Ma anche tracce che invece resistono, refrattarie ad ogni possibile trasformazione. Tracce irriducibili.
Musicalmente – questo concetto che regge e quasi paradossalmente mantiene aperta l’architettura dell’opera proustiana – viene tradotto dalla scandalosa musicalità delle aderenze a ritmo ternario di un vorticoso “valzer”. Sovrastato poi dalle note di rottura del “rock”, descritte dalla gravità di un basso elettrico. Note che smuovono, fino a far rotolare pietre che soffocano. Come quelle relative ad un (presunto) corretto orientamento sessuale, ad esempio. Evocato subito dopo nella sezione “Dalla parte di Swann”.
Scenograficamente le due spinte coesistenti di passato e presente, di inconscio e conscio, di sacro e profano, trovano una sublime traduzione nell’architettura del Teatro Basilica, situato nella navata centrale della cripta della Scala Santa di Piazza San Giovanni in Roma.
L’incontro di queste due spinte restituisce magnificamente, a più livelli, l’imprevedibile esito del racconto, che proprio mantenendo l’intreccio tra volontà e abbandono e tra identità e alterità, ne moltiplica il potenziale abbattendo i confini del prevedibile.
In questa struttura aperta si accoglie con generosità allora il fatto che l’autore possa essere sia il narratore esterno, che il personaggio di Marcel, ma anche Swann, in quanto suo alter ego. In questa particolare dimensione, infatti, così come in quella onirica del sogno cadono i principi della logica: sia quello di identità e di non contraddizione, che quello di causa-effetto.
manoscritto-Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust
Deliziosamente maliziose le coreografie: efficacissima la briosa modalità di resa, sapientemente minimalista, dei convegni della “piccola tribù del giovedì”.
Carico di suggestioni poi il ritornare della “sonata di Vinteuil”, restituita da un’ orchestrina che si sviluppa in altezza quasi come una cattedrale di sonorità. In particolare il ritornare di quella “piccola frase”, inno dell’amore di Swann per Odette: oggetto simbolico per eccellenza – come Gilles Deleuze ha sottolineato – proprio in quanto “oggetto intangibile”, a differenza ad esempio di oggetti simbolo quali la madeleine, i campanili, ecc.
Con accattivanti passaggi di bellezza cinematografica si arriva alla messa in scena della sezione “All’ombra delle fanciulle in fiore”, dove alla passione ancora goffa di Marcel in amore, si aggiunge la sua nomea di “malatino”. E poi il suo modo di amare già così intriso di gelosia, nonostante la leggerezza a cui lo iniziano il turchese fare liquido delle “ragazze in fiore”.
Sorprendentemente intrigante gli risulterà, invece, la vicinanza prossemica del Barone di Charlus, che contribuirà ad accentuare in Marcel l’indecisione ad accettare il proprio orientamento sessuale. Così ”scandaloso” eppure così ipocritamente diffuso negli ambienti da lui frequentati.
Ma Marcel è vissuto, fin da piccolissimo, a strettissimo contatto con un microcosmo femminile: quello composto dalla sua mamma, dalla nonna Adéle e dalla zia Elisabeth e questo sforzo continuo a mascherare la sua autentica inclinazione non può non tenerlo in costante turbamento. Lo asfissia: l’asma ne è una manifestazione psicosomatica. Così come il disorientamento nell’assumere consapevolezza e responsabilità nei confronti della sua vocazione da scrittore.
Successivamente, i Proust si trasferiscono presso coloro che abitano nell’altra strada e Marcel, come tante volte sognato, può finalmente sperimentare come si vive “Dalla parte dei Guermantes”. Qui la regia di Camerini sa cogliere e restituire, ancora una volta, l’intensità di quelle “azioni” che ci rimandano il sapore delle nuove esperienze del protagonista.
Il modo di gustare la vita in questo salotto prende forma attraverso nuovi “incontri”, spesso trampolino di lancio non solo e non tanto all’interno della “vita di corte”, quanto piuttosto per il recupero di esperienze passate. Splendide, sempre, le restituzioni prossemiche delle dinamiche, i colpi di scena delle rotture dei piani, la sentita complicità degli “a parte”, la sapiente estrosità della comunicazione affidata al cromatismo, l’insinuarsi fascinoso dei contributi musicali, i cambi di scena così fluidamente impetuosi. Un inno alla minuziosità e all’impeto della scrittura proustiana.
Duccio Camerini
Su tutto splende la restituzione coreografica della seduzione dell’attraversamento dei confini tra vita e morte in occasione della morte della nonna di Marcel. Per una donna così fertilmente nutrita di vita, l’incontro con la morte non può essere nulla di “mortificante”. Piuttosto assume il sapore di un incontro erotico. Il suo è un agonizzare, infatti, sul confine con il godere: godere del piacere di un nuovo incontro, quasi un insolito amplesso con la morte, di cui i familiari hanno un rispettoso pudore. E da loro, la nuova donna “rigenerata” dall’incontro con la morte, si congeda con un canto di sublime bellezza seduttiva. Un vibrante canto di rinascita, partorito dall’incantesimo di questo ancestrale legame vita-morte-vita. Una magnifica apologia alle intermittenze del cuore, coronata dal desiderio struggente di Marcel a non voler dimenticare ciò che solo apparentemente sembra essere andato perso. Un piacere del soffrire come acme di una nostalgica gratitudine.
Qualcosa di estremamente diverso dal piacere manipolatorio degli incontri amorosi descritti nella successiva sezione “Sodoma e Gomorra”. Esemplificati scenograficamente, con raffinato e subdolo fascino, dal filo rosso della passione al quale si legano certi amanti, come ad un guinzaglio.
Così come di una sorta di prigionia psicologica ed emotiva – causata dalla gelosia e dal desiderio di controllo – si ammala Marcel: siamo ora nella sezione “La prigioniera”. Marcel sente Albertine sfuggirgli. E non potendola “possedere”, la molla. Ma alla sua mancanza, o meglio al desiderio irresistibile di esercitare un controllo su di lei, non sa resistere. Ne è lui stesso assediato: arriva a vederla anche attraverso delle allucinazioni. E allora torna a cercarla. Ma è troppo tardi.
Quanto è difficile amare? Quanto è difficile cioè amare la libertà dell’altro?
“Come c’è una geometria dello spazio, deve esserci una psicologia del tempo“ – scrive Marcel. Ma “una malattia intermittente è la gelosia”. Magari la donna potesse essere programmata meccanicamente e poi telecomandata ! La donna è quanto di più “straniero” possa esserci per l’uomo: sembra come una lingua intraducibile.
manoscritto-Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust
Alla notizia della morte di Albertine, Marcel cade in depressione – siamo ora nella sezione “Albertine scomparsa” – ma per il desiderio (anche morboso) di continuare a conoscere qualcosa di lei che non smette di sfuggirgli, continua a “investigare” su di lei. Ma quante Albertine esistono ? Con quale delle sue personalità lui di volta in volta si relazionava ?
Nel mentre di questa indagine, Marcel accetta l’invito per un concerto dai Verdurin: attrazione della serata è l’esecuzione del settimino per violino da parte di Charles Morel, dal cui ascolto Marcel riceve “impressioni” che gli riportano alla memoria la “piccola frase”, il brano legato al suo amore per Odette. Di magico lirismoè la resa scenica di questo momento colmo di commozione. La prossemicad’ascolto degli invitati, l’esecuzione al violino di Antonella Franceschini e il riverbero interiore dell’interprete di Morel fanno della scena un incanto.
Altra scena di seducente bellezza quella in cui l’anziana zia dei Guermantes sente l’avvicinarsi della morte. Anche lei, come la nonna di Marcel, esige di restare sola durante l’appuntamento con la morte e per incontrarla sceglie “d’indossare” pensieri d’amore. E in effetti la morte la renderà di nuovo giovane: una sorta di rinascita è la sua, suggellata dalla sensualità di un canto scelto per il congedo: lo stesso scelto dalla nonna di Proust.
Arriviamo così all’ultimo volume “Il tempo ritrovato”: Marcel viene ricoverato in sanatorio e smette di scrivere. Ne esce e accetta ancora un invito dai Guermantes. Qui Marcel fa esperienza di come il tempo, che solitamente sembra passare invisibile, lasci invece segni evidentissimi della sua presenza sui corpi. Tanto da faticare nel riconoscere i compagni salottieri. Ma, proprio nell’osservarli, recupera involontariamente tanti ricordi: non ultimo la profezia di colui che gli vaticinò un impossibile destino da scrittore, ritenendolo privo di mezzi interiori. Ma il ricordo ora non ha più quel sapore mortificante di quando lo visse in gioventù. No, ora – alla luce di tutte le esperienze attraversate e quindi anche grazie a quello che considerava tempo perso e che ora scopre di aver ritrovato sotto nuova forma, questa maledetta profezia risulta gustosamente piccante. Tanto da trarne l’esigenza necessaria per tornare a scrivere. Perché “le forze spirituali vengono con il dolore”. E la stessa morte, ora, sarà la migliore delle sue amanti, musa per eccellenza della scrittura.
Ed è così che ci si rivela – in una mirabile scenografia a specchio – che i compagni di salotto e tutti i personaggi con i quali Marcel ha intessuto la sua esistenza sono gli stessi che all’inizio della storia erano entrati in scena come “memoria”. E con questa mirabile chiusura circolare dell’opera sembra quasi di sentire ancora il narratore confidarci, come all’inizio:
“La realtà prende forma nella memoria; tutto non esiste se non nella memoria”.
Duccio Camerini – con la complicità nell’adattamento del testo di Marcello La Bella – riesce in una sfida vertiginosa nel tentativo di visualizzare personaggi che vivono in larga misura nella memoria, inserendoli all’interno di una dinamica narrativa, manifesta e segreta, che il racconto di Proust non molla mai.
E così, partendo dall’affresco di un’epoca apparentemente lussureggiante e ipocritamente lussuriosa, si arriva a portare luce nel sottosuolo di un’umanità oggi ancora più viva che mai.
Un’umanità che continua a dimenticare la preziosa fertilità della “diversità”, ossessionata dal bisogno di essere “accettata” dai più e quindi necessariamente ad essi “sottomessa”. Prezzo che accetta di pagare pur di non rischiare di essere additata come “diversa” e quindi relegata ai margini. Margini che però da sempre sono i luoghi più interessanti, proprio perché aperti a feconde contaminazioni, a patto che oltre ad essere confini identitari siano anche luoghi d’incontro tra le varie diversità.
In fondo che cosa piaceva dei salotti ? Esserne al centro dell’attenzione. Oppure il gustarsi, assecondanti, il voyerismo. Ma chi è che decide chi guardare e quando non guardarlo più? Qualcuno a cui si è disposti a riconoscere un potere, in cambio di un’effimera sicurezza di protezione.
Un messaggio esemplare quello che Camerini ci consegna attraverso la riproposizione teatrale di quest’opera-mondo. Un teatro necessario il suo, il cui crogiolo creativo non si limita alla trasmissione di un’ incandescente preparazione attoriale – i suoi allievi brillano sulla scena per freschezza, ritmo e resa del sapore del gesto – ma si cura anche di solleticare il modo di stare al mondo di chi assiste allo spettacolo. Un teatro politico.
La meraviglia di un giardino si cela dietro l’altare della Basilica di S. Alessio all’ Aventino. Ci si arriva attraverso un percorso dove ciò che sembra non è. Ma è bellissimo: è un pirandelliano luogo (fisico ma anche della mente) dove da 25 anni va in scena il Pirandello di Marcello Amici e della sua compagnia “La Bottega delle Maschere”.
Dal palco si recita per il pubblico – ospitato con ogni cura nel giardino – e per la Città Eterna, della quale si gode un incantevole panorama.
Marcello Amici nel Giardino della Basilica di Sant’ Alessio all’ Aventino
In questa XXVIII Edizione la Rassegna propone dal 4 Luglio al 4 Agosto 2024 due commedie di Luigi Pirandello: I giganti della montagna e Cosí è (se vi pare).
Il 22 Luglio, giorno della Gran Festa del Teatro, si celebrerà invece il gemellaggio artistico tra “La bottega delle maschere” di Roma e “La Compagnia del tempo relativo” di Canicattì (Agrigento), la quale porterà in scena l’opera “L’altro figlio” di Luigi Pirandello.
Ieri era di scena una replica di “Così è (se vi pare)”, opera teatrale rappresentata per la prima volta il 18 giugno 1917 e poi riproposta in una nuova edizione arricchita nel 1925. In essa si fa più volte riferimento al terremoto della Marsica – realmente accaduto nel 1915 – durante il quale sarebbero morti tutti i parenti della signora Frola e il paese raso al suolo.
Di conseguenza la signora Frola, suo genero il signor Ponza e la donna che lo accompagna si trasferiscono nella (apparente) tranquillità di una cittadina di provincia, dove i tre vengono accolti come pericolosi (perché affascinanti) “stranieri”. La rigida cortesia degli abitanti mal tollera infatti le anomale abitudini di questa famiglia, così fuori dalle righe della presunta normalità.
E come spesso accade “il diverso” spaventa perché attira: è quel “vorrei ma non posso” che “i normali” si negano, in nome di un’aderenza alle convenzioni dei più, che garantiscono inclusività. E allora compensano la loro “sete” soddisfacendola con una conoscenza “di sapere” (e non “del sapere”) spiando “fonti” di vitale curiosità “straniera”. Parvenza di vitalità che, almeno momentaneamente, toglie loro quella rigidità posturale (ed esistenziale) alla quale si condannano.
Acutamente la regia di Marcello Amici – anche affascinante interprete nel ruolo di Lamberto Laudisi – sceglie di vestire la corte di familiari e amici che gravita intorno al consigliere Agazzi tutti uguali: gli uomini – tranne Laudisi, personaggio voce dell’autore – tutti nel medesimo tailleur; le donne tutte in completini grigio perla. Tutti, in splendido stile Belle Epoque: i costumi sono curati daLivia Ciuco e da Gianfranco Giannandrea.
Marcello Amici è Lamberto Laudisi
Uniformante è anche la prossemica: la corte, ad esempio, si siede – solo dietro la precisa formulazione di uno specifico comando del consigliere Agazzi – e lo fa a mo’ di “schiera”, proprio a sottolineare la fedele appartenenza al loro “capo branco”. Gli ospiti, invece, in quanto estranei, e quindi “diversi”, sono tenuti in piedi ed esaminati a debita distanza.
Infatti sempre più fitti sospetti, nutriti di morbosa curiosità, cadono sull’insolita modalità abitativa dei tre nuovi arrivati e sull’ancor più accattivante modo di frequentarsi. Picchi di eccitante follia si manifestano poi allorquando iniziano a profilarsi diverse identità in relazione alla donna che accompagna il Sig. Ponza.
Sordi alle filosofiche considerazioni sul relativismo conoscitivo che fin dall’inizio il Sig. Laudisi – cognato dell’ Agazzi – semina in mezzo alle loro rigide certezze, perdono il senno ostinandosi nella ricerca di un’unica verità, che pretenderebbe di risolvere l’irrisolvibile domanda: “chi siamo ?”. Possiamo essere “definiti” univocamente in base ai principi della logica, o invece siamo “ospiti” in un condominio di personalità differenti ?
In verità “abbiamo ognuno le nostre debolezze e dobbiamo compatircele a vicenda” dice con acume la signora Frola: solo così possiamo evitare di incorrere nella tentazione di sentirci “realizzati” imponendo la nostra esigenza di controllo sul fare altrui. E spacciandolo poi per amore di conoscenza o di relazione, incorrendo invece nelle pericolose derive rispettivamente del pregiudizio fanatico e della smania di possesso, ultimo stadio della gelosia. Temi ancora di lacerante attualità, purtroppo.
Gli interpreti in scena – Marcello Amici (Lamberto Laudisi), Ester Albano (la signora Frola), Marco Bellizzi (il signor Ponza), Alice Zanoni (la signora Ponza), Maurizio Sparano (il consigliere Agazzi), Tiziana Narciso (la signora Amalia, sua moglie), Alice Zanoni (Dina, loro figlia), Emilia Guariglia (la signora Sirelli), Gabriele Casali (il signor Sirelli), Lucilla Di Pasquale (la signora Prefetto), Marco Sicari (il commissario Centuri), Beatrice Picarello (la signora Cini), Francesca Di Gaetani (la signora Nenni) – diretti appassionatamente da Marcello Amici, consegnano allo spettatore uno spettacolo gradevolmente profondo, ricco in ritmo e impreziosito da una coreografia delle posture e delle voci così ben concertata, dal raggiungere un sapiente risultato armonico, nel rispetto delle preziose specificità di ciascun interprete.
Una proposta dell’Estate Romana, questa della Pirandelliana di Marcello Amici, che si riconferma decisamente stimolante.
Era una certa sera, quella di ieri a Castel Sant’Angelo. Colma di stupore.
Avevamo ricevuto il suo invito e ci siamo trovati tutti ad aspettarlo nella straordinaria cornice del cortile Alessandro VI. Noi, nella sua casa dell’eternità, come sulla soglia del confine tra la vita e la morte.
E poi arriva lui: luminosamente vestito di ombre, esoticamente scalzo. Lo accompagnano due giovani donne con i loro strumenti musicali.
Ci saluta tutti, vorrebbe chiedere a ciascuno di noi ma poi sceglie di iniziare col parlare di sé.
Claudia Della Gatta, Luisiana Lorusso, Roberto Latini
Ci ha convocati spinto dall’urgenza di vederci e di parlarci. Perché “chi parla non è morto”. E perché per lui è necessario che noi sappiamo qualcosa di essenziale che lo riguarda, al di là di quello che le fonti hanno scritto.
A partire dal mistero che avvolge la sua nascita: a lui non fu dato sapere con certezza quale “luogo” gli diede i natali, né gli fu riservata la cura di essere subito “ufficialmente” adottato da coloro che, una volta restato orfano all’età di nove anni, si occuparono di lui. Avvenne molto più tardi.
“Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri” – scriverà di lui la Yourcenar .
E poi patria fu “il viaggio”: costante della sua vita , lui che confessa di non aver «mai avuto la sensazione di appartenere completamente a nessun luogo, […] straniero dappertutto, non mi sentivo particolarmente isolato in nessun luogo».
Publio Elio Traiano Adriano (117 – 138 d.C)
Ma nonostante questo essere privo di autentiche origini, Adriano seppe farsi amare: perché fu lui il primo ad amare gli altri. Fu generoso in tolleranza: dimostrò una brillante sopportazione delle proprie fragilità e contemporaneamente seppe far dono di accoglienza alle varie differenze altrui.
Lui ci sapeva fare con i confini: non solo quelli a valorizzazione delle Province dell’Impero. Ci sapeva fare nel restituire “la qualità del valore” di un luogo e di un uomo. Era attento, accurato: fece suo il metodo della “conoscenza diretta” degli uomini e dei luoghi.
Vallo di Adriano – confine tra la provincia romana della Britannia e la Caledonia –
Si mescolò a loro per capire e per dare l’esempio. Durante il suo ventennio di pace relativa riuscì, ad esempio, nel ristabilire la disciplina nelle basi militari. Caduta l’aspettativa di nuove conquiste, i soldati tendevano a condurre una vita più rilassata e a circondarsi di comodità inadatte alla vita militare. E allora si trasformò lui stesso in un esempio per i suoi soldati: marciava con loro, dormiva all’aperto e mangiava lo stesso rancio. Fu così che scoprì il valore formativo che costituiva per un esercito la realizzazione di opere pubbliche. Con esse i soldati si forgiavano, non si abbandonavano a un’esistenza oziosa e per di più scoprivano l’importanza di saper lavorare in squadra. Ma soprattutto la realizzazione di opere pubbliche era destinata a consolidare “la frontiera”.
Vallo di Adriano – confine tra la provincia romana della Britannia e la Caledonia –
Il valore del muro, del confine, stava per Adriano nella capacità di “regolare” i limiti della vita civilizzata e di “canalizzare” gli scambi fra il territorio romano e quello barbaro. E’ una frontiera aperta, la sua, ma controllata.
Eclettico, versatile e multiforme è Adriano: un uomo assetato di conoscenza e allo stesso tempo dotato di virtù pratiche. Animo raffinato e sensibile ma anche spirito inquieto, attratto dal mistero. Inclinazioni che lascerà in eredità al luogo – sul quale nessuno questa volta dovrà nutrir dubbi – che ne custodirà le sue ceneri: il Mausoleo di Adriano oggi conosciuto come Castel Sant’ Angelo.
E come per osmosi tale luogo – situato sulla sponda destra del Tevere di fronte al pons Aelius (attuale ponte Sant’Angelo), a poca distanza dal Vaticano e collegato ad esso attraverso il corridoio fortificato del “passetto” – si è rivelato “testimone” della versatilità del suo “padrone di casa”. Mausoleo, fortilizio, carcere e oggi “simbolo delle Arti”: luogo dove corpo, suono e immagine trovano un linguaggio comune proprio nella coreografia.
Un omaggio al modo di stare al mondo, e quindi alla “qualità” del regnare di Adriano, caratterizzato dalla tolleranza, dall’ efficienza e dallo splendore delle arti e della filosofia. Adriano si fece infatti appassionato promotore di molti edifici pubblici in Italia e nelle province: terme, teatri, anfiteatri, strade e porti. Nella villa che fece costruire a Tivoli riprodusse i monumenti greci che amava di più e trasformò la sua dimora in museo. Ma è a Roma che volle lasciare un segno indelebile: attraverso l’edificazione del suo mausoleo (Castel S. Angelo) e attraverso la ricostruzione del Pantheon, distrutto da un incendio.
Villa Adriana – Tivoli –
Perché i luoghi continuano a parlarci di chi li ha voluti, di chi li ha generati e di chi in essi ha voluto incarnarsi per “manomettere la morte”. Con questo desiderio Adriano ha donato vita anche a Antinopoli, la città dedicata – nonché suo nuovo corpo – al grande amore della sua vita: Antinoo. Affetto del quale ieri sera, con squisito riserbo, ha preferito non parlarci.
E cambiando argomento, Adriano inizia a parlarci di Castel Sant’Angelo: il luogo dove ieri sera ci ha riuniti e nel quale lui continuerà a sopravvivere alla morte. Ce lo descrive “anatomicamente” e in tutte le sue trasformazioni eclettiche. Ma in questa nuova narrazione sceglie che a fissarne la punteggiatura siano gli strumenti ad arco delle due giovani e virtuose musiciste che ha portato con se: Luisiana Lorusso (violino) e Claudia Della Gatta (violoncello).
Fa il suo ingresso anche un refolo di vento: presenza inquieta del suo raccontarsi e del suo gettare ponti verso altri confini: quelli della poesia di altri poeti a lui particolarmente cari.
Roberto Latini
Dicono che l’uomo prima di parlare abbia cantato e che prima di scriver prosa abbia fatto poesia: funzione del linguaggio non era “descrivere” il mondo ma “farlo sentire”. E l’Adriano di Roberto Latini, nel lasciarsi attraversare dalla poesia, s’inebria come preda della sublime bellezza di una passione amorosa. Ce ne parla il suo disarmato accogliere quel prezioso e tormentato disequilibrio creativo di cui si fa strumento e che trova un varco nei suoi piedi, per poi riuscire a salire fino a colonizzare tutto il corpo, incluso il corpo della voce. L’avvio al “viaggio poetico” è dato dai suoi versi, quelli pronunciati da Adriano prima di morire:
Piccola anima smarrita e soave / compagna e ospite del corpo / ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli / ove non avrai più gli svaghi consueti.
Non c’è in Latini manifestazione della volontà: lui lascia che la parola poetica “dica” tutto il suo potere prestandosi, lui stesso in quanto “luogo”, a contrazioni e dilatazioni morfologicamente sonore. E il suo “fare esperienza” diventa, per osmosi, anche il nostro.
In analogia al profondo desiderio di viaggiare che animava l’Imperatore Adriano, quello che ci propone Roberto Latini è un viaggio che ci porta “ad incontrarci” sulla soglia di quei confini che regalano un’identità a ciascuno dei poeti da lui scelti per questa avventura poetica ma di cui lui e noi possiamo fare “compagni di viaggio”.
Perché il concetto di “viaggio” gemma da quello di “viatico”, cioè da ciò che riteniamo utile portare con noi per il viaggio stesso. Ecco allora che il viaggio poetico al quale l’Adriano di Latinici ha invitati ieri sera è saluto, è appoggio, è presenza persistente . E’ il non rimanere “solo”, è il non ricevere ancora “il dono dell’abbandono” .
Un invito che sul momento rapisce lasciando sbalorditi. Come solo ciò che sa provocare stupore riesce a fare. Ma che poi, ricontattando l’esperienza a posteriori, dilata il tempo in una dimensione nuova.
Investire nel teatro e nell’arte in generale rende viva una città, testimoniando la sua collettività e la sua democrazia. Come questa rassegna “sotto l’Angelo di Castello: danza, musica, spettacolo”, guidata dal Direttore generale Musei Massimo Osanna e curata da Anna Selvi, ne è un luminoso esempio, nel suo promuovere – quale valorizzazione del monumento – il dialogo tra l’arte dell’attore, del danzatore e del musicista con gli spazi del museo.
Terza edizione “Re(s)print” – L’Estate Elettra , 1 -15 Luglio 2024
Quanto bisogno abbiamo di vivere “un incontro” che per anni abbiamo solo immaginato?
Quanto bisogno abbiamo di rivelare, chiedere e sentirci rispondere qualcosa di univoco, al di là delle mille ipotesi che abbiamo formulato nel tempo?
Anche su questo ci porta a riflettere il penetrante testo di Antonella Antonelli, autrice dello spettacolo di cui Massimiliano Milesi cura acutamente la regia, andato in scena ieri sera nel piccolo gioiello del Teatro Elettra, ad un passo dal Colosseo.
Massimiliano Milesi
La Antonelli, che con Milesi e la loro Compagnia “TeatroDaViaggio” condivide la passione e quindi il lavoro di ricerca pluriennale sulle opere di Carlo Goldoni, da queste si è lasciata attraversare fino ad arrivare ad interrogarsi sulla stessa personalità del celebre commediografo. Nello sguardo di Antonella Antonelli confluisce infatti oltre alla prospettiva di attrice e a quella di dramaturg della compagnia, anche quella di psicologa clinica.
Antonella Antonelli
E se è vero, come è vero, che è la capacità travolgente e sconvolgente di certi “incontri” a dare forma alla nostra vita, allora si può convenire che fosse necessario immaginare e dare realtà teatrale ad “un incontro” tra le due donne più amate dal Goldoni: sua moglie Nicoletta Connio e la presunta amante Maddalena Marliani, musa e prima interprete della Mirandolina de “La locandiera”.
E’ la Connio (qui resa da Barbara Bergonzoni) a sentire l’esigenza di contattare la Marliani, per chiederle di recarsi da lei, all’indomani della morte del marito. Ed è sulla qualità del suo attendere, resa mirabilmente dalla postura e dal sentire degli occhi, che si apre lo spettacolo di Milesi.
Appassionato si rivela l’incontro tra le due femminilità così diversamente esuberanti: l’una, la Marliani, visibilmente vibrante; l’altra, la Connio, decisamente più composta ma parimenti partecipe in emozione.
E la sensazione che arriva allo spettatore nel corso della rappresentazione è qualcosa di simile ad un fertile ricongiungimento di due costitutive parti del femminile.
La moglie di Goldoni non può tacere la sorpresa nel vedere l’amante del marito senza l’abituale coronamento seduttivo dei lunghi capelli. “Pesavano” – le risponde con intensa profondità Maddalena.
L’ Antonelli autrice – qui anche interprete di densa sensibilità nel ruolo di Maddalena – semina con questa allusiva risposta il primo dubbio e quindi il primo indizio che fa immaginare allo spettatore che una qualche ricerca di trasformazione interiore sia già in atto anche in Maddalena.
Lei stessa lasciata da Goldoni, come le altre amanti di cui amava circondarsi, anche a causa di un disturbo di ciclotimia: un’estrema instabilità dell’umore che lo faceva scivolare in atteggiamenti depressivi per poi risalire al suo consueto ottimismo. Così ci rivela l’Antonelli nelle sue note d’autrice.
“Ma voi non siete stata come le altre” – le rivela la moglie Nicoletta, restituendole quell’identità unica e necessaria che aveva così bisogno di contattare Maddalena. “Lui non ha mai smesso di pensarvi e di riconoscere il vostro talento, fino agli ultimi giorni: voi siete stata un sostegno per lui, non l’avete usato. Per questo io, di voi, non sono mai stata gelosa”.
Nicoletta infatti, sebbene avesse sempre accolto con paziente disponibilità le incursioni del marito nel femminile delle altre donne, al femminile di Maddalena sente il bisogno di congiungersi, riconoscendo a qualche livello in esso il sano completamento del suo femminile. Esclusivamente di natura comprensiva, prudente e devota, in omaggio al quale il Goldoni scrisse la commedia “La buona moglie”. Ma solo conoscendola di persona Nicoletta scopre che Maddalena chiama il “suo” Carlo, Osvaldo. Nome che Nicoletta sapeva che il Goldoni detestasse, ma di cui ora scopre si lasciasse “rinominare” in esclusiva da Maddalena.
Ecco allora che, attraverso il potere del “racconto”, l’Antonelli rende possibile una fertile contaminazione tra le due femminilità, a cui la regia di Massimiliano Milesi sa donare corpo con guizzo naturalistico. Entrano così nello spazio scenico – spazio della memoria delle due donne – i compagni complici e rivali di tante giornate e di tante avventure artistiche ed umane. Sono Arlecchino (Alessio Serafini), Brighella (Giovanni Pratichizzo), il Giovane Innamorato (Manuel Kilani), la Giovane Innamorata (Maria Elena Pagano), il Poeta (Marco Laudani), Silvestra (Laura Nardi), Teodora (Maria Grazia Bordone) e il Goldoni (Fabio Di Valentino).
Molto interessante il lavoro sulla prossemica – opportunamente calibrato per un palco così “intimo” come quello del Teatro Elettra – nel quale è riuscita ad esprimersi un’appassionata sinergia attoriale.
Grazie alla quale noi del pubblico riusciamo a condividere il prender forma di un personaggio così moderno come quello di Mirandolina, al quale il Goldoni si era ispirato conoscendo Maddalena. Ciò che non immaginava però è quanto la stessa fosse disposta ad osare, non solo nell’interpretarlo – consapevole di rischiare di non assecondare il gusto del pubblico e della morale vigente – ma anche contribuendo alla stesura stessa del testo, con sempre accresciuta audacia.
Audacia decisamente non ipocrita in quanto dichiarata, anche all’interno della compagnia, alla luce del sole e non garbatamente alle spalle: “Ma io sono l’amante del Goldoni !” – soleva rispondere alle insinuazioni dei compagni di lavoro.
Quell’audacia di cui ci parlano le volute di quel filo rosso di cui Maddalena si adorna il collo e i piedi, segno – e non solo oggetto – di quell’amore per se stessa che solo in quanto tale poteva essere così generoso verso l’Altro. Segno e non solo oggetto di quel suo desiderare, a cui si è sempre mantenuta fedele. Disponibile ad accoglierne tutti i possibili disequilibri; proprio lei che per così tanto tempo si era allenata invece a curare il proprio equilibrio fisico, così come richiesto ad una ballerina di corda.
Ma sarà proprio questa accoglienza verso il disequilibrio ontologico al nostro desiderare a restituirle la consapevolezza dell’instabilità della vita e delle relazioni che la tessono: “occorre vivere il momento !”. Stabile, può e deve essere la nostra follia all’interno del teatro della vita.
Un testo e una regia – questi di Antonella Antonelli e di Massimiliano Milesi – che ci parlano con poetica bellezza del bisogno, che tutti ci accomuna, di essere riconosciuti e quindi apprezzati nella nostra unicità. E dell’esigenza, sempre più consapevole, che tale unicità sia la risultante di un lavoro di ricerca su noi stessi aperto ad accogliere – e quindi ad “incontrare” in fertile “dialogo” – parti differenti e in continua evoluzione di noi stessi.
Un’evoluzione esistenziale non meno necessaria dello scardinamento della fissità delle parti attoriali, di cui si avvertiva così tanto il bisogno nel teatro goldoniano.
con Donatella Allegro, Anna Luigia Autiero, Younes El Bouzari
al drone Francesco Lombardi
scenografie Luana Pavani
musica Stefano D’Arcangelo
videodisegni Sara Pour
Quanto siamo intimamente legati al desiderio di volare ?
Cosa siamo disposti a fare per assecondare questa spinta ontologica così legata al nostro desiderio più profondo di libertà’ ?
Una libertà che così magnificamente trova espressione nell’ebbrezza del volo e che non sembra essere sfiorata da una spinta centripeta alla sicurezza, che pure ci abita?
Lo spettacolo portato in scena ieri sera al Nuovo Teatro Ateneo dell’Università Sapienza di Roma a conclusione della terza edizione del Festival “Teatro delle Migrazioni”, ha rappresentato un tentativo di sublime efficacia nel rendere la labirintica rete di punti di vista su questo folle e necessario desiderio: quello del volo.
Lo sguardo drammaturgico e registico di Pietro Floridia sceglie di impostare la narrazione con un taglio giornalistico: si parte da un’intervista “on air” che dà avvio alla ricostruzione della vicenda – al limite tra una fake e una teoria da sito complottista – che vede protagonista un cosiddetto “arabo volante” presunto “veicolo” per l’ingresso clandestino di migranti. Taglio giornalistico successivamente integrato arricchendolo – e quindi contaminandolo – con una molteplicità di punti di vista, resi registicamente con un’efficace ed avvincente tecnica, anche cinematografica, di suspence.
Suspence che si origina dalla scrittura drammaturgica per arrivare a declinarsi nella multiforme suggestione di proiezioni visive – anche specchio di dinamiche interiori – raffinatamente integrate alla liricità di un evocativo disegno luci.
Pietro Floridia
Ed è attraverso la bellezza della struggente malinconia del canto-racconto di Joseph “l’arabo volante” (un Younes El Bouzari la cui voce sa farsi cielo e corpo) che arriviamo a fare esperienza di quanto la nostra natura umana educata -quando non obbligata- a muoversi dentro confini, patisca l’effetto-gabbia.
E poi, è ancora attraverso l’atto d’amore, espressione di sconfinata vitalità umana, che possiamo sperimentare qualcosa di simile all’ebbrezza del volo. Così come nell’attività artistica. Ma in tutte queste modalità espressive sembra non essere possibile rifuggire da un desiderio umanissimo di confinamento, di manipolazione.
Labilissimo è infatti il limite tra la ricerca della libertà e la tentazione alla sopraffazione. E la regia di Pietro Floridia sa come visualizzare – e quindi veicolare emotivamente seducendo la mente – questa tensione esistenziale nella quale, volando, rischiamo di finire bruciando noi stessi o l’Altro.
E’ l’urgenza che abbiamo di “lasciare un segno” che fa sconfinare la nostra esperienza di volo, di libertà.
E’, ad esempio, il tratto che l’artista (un’accattivante Anna Luigia Autiero) traccia durante l’atto d’amore con il suo modello-amante Jouseph, intenta prioritariamente a portare a realizzazione il suo ciclo di quadri dedicati all’esperienza del volo. Splendida qui la drammaturgia dei corpi, che ci racconta con sensuale lacerazione come l’atto d’amore sia non tanto “un rapporto” sessuale quanto piuttosto un “corpo a corpo” tra un fluido incontrarsi e un confinante mettere l’altro “in croce”.
E’ il desiderio di sapere che l’antropologa (un’efficacissima Donatella Allegro) sente di assecondare per un’urgenza di conoscenza sempre più esigente. E che poi prende la forma (il segno) di un dossier sul caso dell’ “arabo volante”. Desiderio del quale riesce anche a contaminarsi, abbandonandosi nell’adesione al sogno di volare con Jouseph.
Riuscire a instaurare un fertile conflitto dialettico tra queste due tendenze che ci abitano, quella verso la libertà e quella verso il controllo, può rendere il nostro stare al mondo un’esperienza interessante e feconda. Perché “il confine” non è solo il luogo che separa ma anche “la soglia” sulla quale ci si può incontrare. Così da evitare il più possibile la degenerazione dannosa in rapporti di simbiosi o di sopraffazione di varia natura.
E’ un invito ad una riflessione oggi più che mai necessaria, questa sollecitata con grazia inquietante dal teatro di cui si fa testimone il collettivo dei Cantieri Meticci, che accoglie e restituisce i temperamenti della geografi umana di artisti provenienti da 30 diversi Paesi del mondo.
Che elegge a luoghi di interesse quei luoghi che ancora tendono a rimanere troppo inesplorati: le periferie, le scuole, i centri di accoglienza, le piccole biblioteche di quartiere, le parrocchie. Fucine di storie di un’umanità desiderosa di incontrarsi “sulla soglia” con le realtà centrali della città, così da poter dare vita ad un’inedita Agorà. Perché ciò che ci risulta estraneo, “straniero” può essere accolto anche come un “ospite”.
Perché saper volare significa anche saper atterrare, cioè far sì che con la terra si realizzi un incontro e non un drammatico scontro. Come Abbās ibn Firnās, inventore arabo del primo aereomobile nel IX sec. ci ha insegnato: solo cercando di integrare e di accordare tra loro ali e coda si può davvero volare.