Recensione dello spettacolo SENZA MOTIVO APPARENTE di e con Christian La Rosa – Ginesio Fest 2024 –

Tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli

SAN GINESIO (MC) – 18 Agosto 2024 – Chiostro di Sant’ Agostino ore 21:30 –

Il dono della pioggia scende, quale rito di fertile augurio, sulla serata d’apertura della quinta edizione del Ginesio Fest 2024, diretta da Leonardo Lidi.

Leonardo Lidi

Splende, bagnato a lucido, il borgo medievale marchigiano di San Ginesio a vocazione artistica, in quanto luogo del Santo protettore della comunità attoriale.

A lui é stato intitolato anche il Premio San Ginesio “ All’arte dell’ Attore”, ideato e voluto da Remo Girone,

Remo Girone

Presidente della Giuria composta dal giornalista Rodolfo di Giammarco, dall’attrice Lucia Mascino, dalla poetessa Francesca Merloni e dal regista Giampiero Solari. Quest’anno la giuria ha attribuito il premio a Vanessa Scalera e a Giuseppe Battiston, ai quali sará assegnato il Premio il 25 Agosto, giorno della festa del patrono San Ginesio.

Isabella Parrucci

La comunitá di San Ginesio – sotto l’egida della Direttrice generale del festival Isabella Parrucci – sa come non perdere smalto e, viva d’entusiasmo, sa come riuscire a non smettere di dare vita a sempre nuovi inizi. Com’è nella nostra natura di esseri umani – diceva Hannah Arendt.

E di continui nuovi inizi ci ha parlato anche lo spettacolo che ha dato avvio alla prima serata del Ginesio Fest 2024 : “Senza motivo apparente” di e con Christian La Rosa, tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli.

In uno stile accattivante dalla caratura cinematografica Christian La Rosa, fin da subito e per tutta la durata del suo monologo, ci trascina con sé dentro un racconto concertato per più voci narranti. I suoi campi sequenza narrativi , sapientemente contrappuntati da campi corti e primi piani, ci seducono al punto da entrare nel ritmo dei suoi respiri: scattante, complice, colmo d’emozione. Efficace anche la costruzione della suspense, che ci risucchia dentro intuizioni e sospetti solo poi confermati o disattesi. Sono le diverse micro contrazioni che danno forma alle sue spalle a parlarcene, rendendo la comunicazione maledettamente intrigante.

Christian La Rosa

E’, quella di Christian La Rosa, un’urgenza magnificamente umana di evidenziare i continui nuovi inizi che hanno sfidato e sfidano la perversa volontà di chiudere e di insabbiare gli elementi che hanno dato origine all’omicidio del dottor A., ovvero all’omicidio di Amedeo Damiano.

Amedeo Damiano

A lui é dedicato lo spettacolo essendo la sua morte avviluppata all’interno di un’intricata vicenda, ancora oggi parzialmente irrisolta. E vede, come prima fonte d’ispirazione, il testo firmato da Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”, acquisito agli atti processuali proprio in virtù della sua precisa ricostruzione dei fatti.  Sergio Anelli, facente parte della commissione d’inchiesta presieduta da Amedeo Damiano, scrisse infatti il romanzo per approfondire quello che questo attentato di mafia tracció non solo a livello politico e sanitario, ma soprattutto sociologico: il nuovo volto della mafia, quello che si stava delineando negli anni ’80. L’assassinio di Damiano portò infatti alla luce insospettate vicende malavitose in una pacifica realtà di provincia “di portici e geometrie”: la pacifica Saluzzo, apparentemente immune da dinamiche a carattere mafioso.

Ma 37 anni fa, Amedeo Damiano, presidente dell’allora Ussl 63, (Unità socio-sanitaria locale) di Saluzzo fu ucciso in un agguato la sera del 24 marzo 1987. “Il dottor A” aveva appena varcato la porta del palazzo del centralissimo corso Italia, dove viveva con la moglie Giuliana Testa e quattro figli, quando nell’androne dell’abitazione due uomini aprirono il fuoco. Quello che doveva chiaramente essere una sorta di avvertimento, una ‘gambizzazione’, finirà però in tragedia. I colpi di pistola oltre a fratturargli il femore, lesionarono anche il midollo spinale, paralizzandolo. Dopo un lungo calvario in diverse strutture ospedaliere, Damiano morirà a distanza di 100 giorni dall’attentato, il 2 luglio 1987, mentre era ricoverato in una clinica di Imola dove era stato portato per un disperato tentativo di riabilitazione.

Giornali e telegiornali iniziarono a farsi domande.

Fortunatamente.

Perché porsi domande è un’inclinazione squisitamente etica che ci permette di comprendere il passato, evitando di ripeterne gli errori.

Perché domandare esprime un desiderio di sapere – e non di dimenticare – alla base anche del metodo di conoscenza socratico.

Domande si pose “il dottor A.” per riuscire a risanare la situazione sanitaria precedente.

Domande si pose Sergio Anelli nel suo lavoro di fine archivista, al fine di raccogliere il maggior numero di dettagli informativi per fare chiarezza sul caso del “dottor A.”

Domande continua a porsi Christian La Rosa per educare il pubblico a porsi domande.

E attraverso il suo spettacolo teatrale sa lasciare una traccia in chi lo ascolta: com’è nella natura di un attore e regista dal carisma erotico. La narrazione di Christian La Rosa sa infatti appassionare alla ricerca della verità e al suo continuo saper ricominciare: al di là di ogni possibile sconfitta, al di là di ogni possibile ostacolo.

Proprio com’è nella natura del Teatro: quella di essere un continuo luogo d’incontro. Tra attore e spettatore; tra domande e possibili risposte; tra l’ “ e poi mamma?” E il suo “chissà!” ; tra il nostro “io” e le altre parti che compongono la nostra anima. Tra l’inclinazione naturale a sopraffare – con la quale tutti noi veniamo al mondo – e l’educazione all’amore della verità, che passa per il rispetto dell’Altro, da imparare una volta gettati al mondo. Per realizzarci davvero, autenticamente. Al di là di ogni “solitudine”: anche giudiziaria, come quella di cui ci parla questo caso, rievocato dallo spettacolo di Christian La Rosa. Una rievocazione laica della passione della morte del “dottor A.”

A lui, a 30 anni di distanza dall’omicidio Damiano, “è stato chiesto” infatti di occuparsi di un evento cittadino di scottante importanza. Alla “domanda” La Rosa ha risposto con entusiasmo, utilizzando l’ ‘arma’ di cui sa mirabilmente disporre: quella della rappresentazione teatrale. E con una calibratissima e seducente drammaturgia, La Rosa sale sul palco a raccontare l’intricata vicenda giudiziaria che ha portato dopo 14 processi ad un nulla di fatto sul mandante di quell’attentato. Solo i tre esecutori materiali vennero condannati: “Nessun movente, nessun mandante. Il dottor A. venne ucciso senza motivo apparente”. La Rosa ha avuto la possibilità di confrontarsi a lungo con la famiglia Damiano, di accedere alla rassegna stampa dell’epoca e soprattutto al libro di Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”

Una storia non solo cuneese ma, al di là di ogni solitudine, italiana.

Una storia su cui continuare a interrogarsi, perché solo così ci si accorge di essere vivi: continuando a tenere in vita la ricerca della verità.

Perché solo così si cresce, si va avanti.

Insieme.

San Ginesio (MC)

Il Ginesio Fest 2024 ha avuto il suo magnifico inizio: la magia è scesa su questo primo incontro e saprà continuamente rinnovarsi.

Qui il programma dei prossimi eventi

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA DANZA DELLE OMISSIONI di Alessandro Serra

TEATRO BASILICA, 28 Novembre 2023 –

“La danza delle omissioni” è lo spettacolo di Alessandro Serra che ieri pomeriggio è andato in scena al Teatro Basilica. In forma di dono: un saggio di autenticità; un’offerta agli spettatori che emerge in tutto il suo rilievo umano e morale. Finanche spirituale: di tale natura infatti è per Serra l’avventura teatrale.

Prova ne è anche “La danza delle omissioni”: un “distillato” della sua precedente “La Tempesta” di Shakespeare – come lo ha definito Guido Di Palma, che con Serra ha dialogato al termine dello spettacolo. Un’operazione di separazione della diverse “sostanze” dalla miscela del tutto. Per estrarre il meglio: la parte nobile, spirituale. Ciò che si cerca davvero.

Ecco allora che questa messa in scena risulta scevra dei ricchi costumi, della mirabolante scenografia, degli oggetti di scena e della drammaturgia luminosa che abbiamo visto ne “La Tempesta”.

È nuda e insieme metafisica, nel rispetto della prima regola del teatro, secondo Alessandro Serra: il Teatro è l’Attore. E agli spettatori si chiede – come era solito fare Shakespeare :”sopperite alle nostre deficienze con le risorse della vostra mente… con l’aiuto della fantasia”.

Alessandro Serra

Qui, gli attori infatti sono vestiti di una seconda pelle indifferenziata (per tutti camicia bianca e pantaloni neri) per affidare la caratterizzazione di ciascuno di loro ad una diversa partitura musicale. Una specifica partitura di voce e gesto. 

Così, dal buio, prende vita il rito ancestrale racchiuso in “un indegno tavolato”: un territorio segnato. Fin dall’inizio tutti gli attori sono in scena. Dentro o fuori dal territorio segnato. Al centro lo spiritello Ariel, in un crescendo di evocazione e possessione, origina ed è il caos della tempesta: contenente e contenuto. Qui, è lui a passare dal tremare al gonfiarsi come telo, quasi a levitarsi, fino a volteggiare e a vorticare.

Coloro che Ariel ha fatto naufragare, mantenendoli illesi, sono ora nelle sue mani. Letteralmente: come marionette gestite da un burattinaio. Oppure animati dal suo zefiro. O ancora quali scattanti pupazzetti ubbidienti alla sua carica.

A Caliban è affidata una doppia partitura: parla una lingua “chiusa”, vicina al ringhiare e al rantolare degli animali ma poi – snaturato da Miranda – parla anche una lingua molto più “aperta”, fatta di sillabe e vocali allungate, vicina a quella dei presunti “normali”. Lo definiscono “il mostro”, perché diverso da loro. Ma così irresistibilmente affascinante e libero da doverlo predare, per poi esporlo a pagamento. Un’opera d’arte da offuscare.

Caliban invece è colto da autentica meraviglia nel vedere persone diverse da sé: è il più predisposto ad entrare con loro nella relazione, rinunciando ad una pretesa libertà assoluta e mitigando l’istinto alla sopraffazione, che tutti ci accomuna. Per natura.

Anche lo spazio scenico ci parla di questa demarcazione tra il territorio segnato e il fuori, che spesso nel corso dello spettacolo perde di rigidità diventando follemente osmotico.

E proprio la difficoltà umana dell’entrate in relazione con l’altro è, forse, il distillato che ci offre questa “Danza delle omissioni”. Distillato suggerito anche nella poetica scelta del titolo: quel movimento dell’oscillare della danza – quel procedere che non esclude l’indietreggiare – necessario per passare oltre i nostri confini, oltre i nostri pregiudizi. Omettendoli.

È la potenza del perdono di Prospero. È il meraviglioso senso di libertà del pianto di Antonio. È la bellezza sublime dell’ “esporsi”, mostrando – finalmente liberi – le proprie ferite segrete.

È il gettare indietro il bouquet da parte di Miranda: invito a nuove unioni, a nuove relazioni.

Perché “per fare meta e andare avanti si deve passare la palla indietro”.

Mirabile la forza espressiva a tutto tondo di alcuni freeze: potentissimi altorilievi. È la scultura del tempo e dello spazio, è il talento degli attori a sostegno del vuoto.

È la regia: quella di Alessandro Serra. 

Alessandro Serra


Questo spettacolo offerto da Alessandro Serra e dal Teatro Basilica e il relativo dialogo con il regista appartengono al ciclo di incontri Artigiani di una tradizione vivente nell’ambito del progetto Le lacrime della Duse – Il patrimonio immateriale dell’attore.

Il progetto – di grande valore artistico – nato per recuperare l’antica cultura artigiana del teatro che punta a preservare e valorizzare il patrimonio immateriale dei saperi teatrali, dopo il primo ciclo di formazione teatrale e drammaturgica per giovani attori under 35 curata da Glauco Mauri, inaugura ora il secondo step dedicato agli “Artigiani della tradizione vivente”, un ciclo di incontri con grandi attori e attrici della tradizione teatrale condotti da Guido Di Palma.

La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura e tantomeno ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono.  Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni. Per questo, nel quadro della Terza Missione universitaria, la Sapienza sostiene il progetto Le lacrime della Duse”.

Guido Di Palma

I prossimi appuntamenti vedranno protagonisti: 

venerdì 1° dicembre ore 16:00 Mimmo Cuticchio (Teatro Ateneo)

lunedì 4 dicembre ore 16:00 Lino Musella (Vetrerie Sciarra).


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL VAJONT DI TUTTI – Riflessi di speranza – scritto e diretto da Andrea Ortis

TEATRO AMBRA JOVINELLI, 21 e 22 Novembre 2023 –

È la storia dell’acqua.

L’acqua, risorsa naturale così abbondante in Italia e dono così prezioso, offerto dal suolo che ci ospita.

Un dono scambiato per possesso. 

Un dono che pur essendo abbondante non risulta sufficiente a nutrire quell’ingordigia che a volte offusca il cuore dell’uomo.

Andrea Ortis

Lo sguardo del friulano Andrea Ortis – autore, attore e regista di questo appassionato e appassionante spettacolo – fa sì che sulla scena la storia scorra su due flussi narrativi. Quasi due torrenti d’acqua che a loro modo parlano, ricordano, piangono, testimoniano. Per non dimenticare. Per impedire che prendano ancora forma disastri torbidi e tragici di questa portata.

Il torrente narrativo di Ortis scorre sul proscenio: il suo è uno storytelling puntualissimo nei contenuti – sostenuti anche da una storica e tecnica documentazione visiva – e nostalgicamente poetico nel sentire più profondo.

È un senso della memoria, il suo, forgiato da un desiderio di fedele testimonianza che si vena di accenti di quel lirico languore proprio di chi ha vissuto quell’attraversamento tra il prima e il dopo e che avverte viscerale la consapevolezza che l’uomo tende a smarrire l’intimo legame a sentirsi in armonia con la natura.

Una testimonianza che – scevra dalla rassegnazione – si carica della volontà ad impegnarsi nel rinsaldare una rispettosa continuità tra la storia della natura e quella dei suoi ospiti, presto – sia spera – consapevoli e disponibili a farsi “docile fibra dell’universo” – come scriveva Giuseppe Ungaretti.

Michele Renzullo e Selene Demaria in una scena dello spettacolo

Alla narrazione di Ortis s’intervalla quella di chi è sopravvissuto al dramma e fatica a mandar via quell’insopportabile odore tipico del senso di colpa per essere vivi. Alcune scene sono rievocate mirabilmente come dentro la diga stessa, utero maledetto. E una tremenda emozione ci assale. Ma è in nostro potere riuscire a fare del buio del dramma qualcosa di interessante, di fertile per il nostro futuro. E allora proprio da quell’utero maledetto, che ci lega a non dimenticare, ci può arrivare il dono di una nuova e potente consapevolezza.

Infatti, seppur “Perché sei vivo?” sia la domanda che ossessivamente assilla chi resta, la tentazione a sentirsi in colpa può essere splendidamente sublimata dal pulsante orgoglio a sentirsi eredi e quindi testimoni. Per non dimenticare il passato e quindi non essere costretti a ripeterlo. Perché “la storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare”. 

In un magnifico gioco scenografico di presenze/assenze pluri presenti – regalato da un sapiente uso della drammaturgia delle luci su una superficie velata – riesce ad imporsi allora anche visivamente l’urgenza di raccontare.

Ed è la storia del loro vivere quegli anni ’40 -’50- ’60 ignari che il tempo che li separa dal tragico destino sia segnato non solo da momenti di ritrovata spensieratezza post bellica ma anche da torbide complicità su superbi deliri di onnipotenza.

Jacopo Siccardi, Elisa Dal Corso e Mariacarmen Iafigliola in una scena dello spettacolo

Ecco allora l’avvicendarsi di momenti in cui ci si ritrova insieme anche a cantare, a “godere fantasticamente del proprio corpo unificato» come diceva Roland Barthes. Ed è mirabile l’interpretazione dei ragazzi de La Compagnia della Rancia, dove dalla partitura delle voci riesce ad emergere “una grana” che sa farsi corpo.

Una cifra stilistica degli spettacoli di Ortis questa, dove anche e soprattutto attraverso il canto si raggiunge una potentissima forma di comunicazione con il pubblico.

Ma ad essere rievocate sono anche le scene degli inquietanti luoghi dove si presero superficiali decisioni, nonostante voci autorevoli si fossero battute, prove alla mano, andando oltre il chiudersi in un “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”. Piuttosto salvando proprio quel valore simbolico così fondamentale proprio della parola “tutti”.

Una parola così carica di potente energia non può finire per farci mollare. “Tutti” infatti ha la forza rivoluzionaria del tenerci insieme, “aggrappati” gli uni agli altri, per essere un’autentica comunità che lotta contro egoistici “a solo”. 

In occasione dell’anniversario dei 60 anni della tragedia che colpì il Vajont il 9 ottobre 1963,

la MIC – International Company, in coproduzione con il Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia e in collaborazione con Compagnia della Rancia, ha scelto di portare in scena, con una tournée nazionale nei più importanti teatri italiani, “Il Vajont di tutti, riflessi di speranza”.

Lo spettacolo, che si avvale del sostegno della Regione del Friuli, dopo essere andato in scena in anteprima proprio sulla Diga del Vajont – nell’ambito degli eventi per la celebrazione dell’anniversario-  è approdato a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli.


Recensione di Sonia Remoli