Recensione dello spettacolo TUTTI TRANNE LUI – scritto e diretto da Andrea De Rosa –

TEATRO ANFITRIONE, dal 21 al 23 Ottobre 2024 –

Con fresca naturalezza e impeccabili tempi comici, Andrea De Rosa porta in scena una commedia – da lui scritta e diretta – con la quale riesce a catturare l’attenzione dello spettatore grazie a quella dose di stimolante leggerezza, che gli consente di poter veicolare anche contenuti di interessante profondità.

De Rosa parte dalla classica situazione di un’uscita a quattro per giocare con i concetti di “accettabile uniformità” e di “diversità da tenere ai margini”. 

E così, in un clima intrigante ed ironico, va in scena cosa siamo disposti a fare pur di risultare graditi agli occhi degli altri. E come chi, tendenzialmente escluso perché di una sincerità imbarazzante – e quindi sconveniente per la stabilità della messa in scena sociale che gli altri intendono portare avanti – risulti in verità il più sveglio, il più creativo. E quindi il meno falso. Insomma, quello di cui ci si può fidare di più.

Sarà lui, infatti, con la sua brillante acutezza senza filtri, ad intuire gli intrighi e a far cadere i finti ruoli dietro ai quali gli altri si nascondono, rivelando come ciascuno di loro, in realtà, oltre ad ingannare se stesso, inganni anche colui che definisce “amico”.

Senza mai giudicare ma anzi ponendosi sempre in amichevole comprensione verso la natura umana, la commedia è un invito ad osare essere se stessi e quindi ad esprimere la propria autentica natura creativa. Liberi da tutte quelle sovrastrutture, apparentemente necessarie per essere accolti nella società di massa, ma che in verità alla lunga si rivelano sempre fallimentari. 

La commedia altresì è un’esortazione a resistere alla tentazione di rimanere bloccati nell’utopica ricerca di una sicurezza – di “un centro di gravità permanente”- perché spaventati dall’entrare in relazione con la bizzarra natura dell’altro. E di se stessi. La nostra creativa diversità – così come quella dell’altro – sono in realtà molto gratificanti!

I quattro attori in scena – Celeste Savino, Renato Solpietro, Chiara Mastalli e lo stesso Andrea De Rosa – ben accordati tra loro, trascinano il pubblico con ritmo ed efficace comicità nelle loro contorte avventure, così vicine alla nostra quotidianità. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo 1 PERSONA – scritto e diretto da Matteo Pantani

ARTEMIA CENTRO CULTURALE , dall’11 al 13 Maggio 2024

Eccomi qua
Sono venuto a vedere
Lo strano effetto che fa
La mia faccia nei vostri occhi
…”

Cosa c’è dentro la “valigia dell’attore” ?

Più precisamente, cosa tende a sfuggirci quando la valigia si apre ?

Cos’è cioè quel qualcosa che resta un po’ al buio, poco illuminato, tanto che può risultare utile una  piccola torcia per  inquadrarlo ?

Insomma, cosa fa sì che valga la pena fare l’attore ? Essere “1 persona”: perché così veniva chiamato dai latini l’attore. Che poi equivale a dire: cosa dà un sapore irresistibile alla nostra vita rendendoci unici, irripetibili, speciali ?

Elena Biagetti

Che cosa ci rapisce, ci seduce, fino a renderci prigionieri di un autentico desiderio? Che cosa sentiamo che ci manca così tanto da diventare un’esigenza vitale ? Perché questo è un autentico desiderio, non quelli che ci vengono spacciati come bisogni dalle strategie di marketing dei social o dei media.

Che cosa ci affascina dell’Arte intesa in tutte le sue espressioni – in particolare nell’arte teatrale – se non la stupefacente sensazione di farci sentire liberi ? E quindi vivi, realizzati? Al di là dei soldi.

Questo accattivante spettacolo scritto e diretto da Matteo Pantani e interpretato dalla caleidoscopica Elena Biagetti  è una sagace applicazione del metodo socratico della maieutica. Una forma di comunicazione  –  nello specifico un dialogo – che ci porta ad essere consapevoli delle nostre capacità, così da indirizzarle verso la nostra “vocazione” di vita. Sentendo il piacere di dedicare il tempo che ci è concesso a conoscere davvero noi stessi. Conoscenza che ci rende liberi. Una sensazione dall’effetto stupefacente: l’unica dipendenza che ci rende longevi.

Elena Biagetti

Lo spettacolo si apre infatti con un momento di  profonda insicurezza da  parte dell’attrice sulle sue capacità di riuscire ad interpretare efficacemente il testo tagliato su misura su di lei come un abito – anzi come una seconda pelle – dal suo autore e regista.

Dubbi, quelli dell’attrice – ma in generale quelli che capita di vivere per i più svariati motivi a ciascuno di noi in alcuni momenti della nostra vita – da non mettere a tacere perché in realtà preziosissimi per conoscere noi stessi  e vivere con il piacere di sentirci davvero realizzati. 

Interrogandoci, appunto, e verificando se quello che abbiamo il dubbio di fare è una direzione che non ci appartiene ma che subiamo perché condizionata da altri o invece è solo un timore che vela un grande desiderio tutto da scoprire. Un desiderio così solleticante, così vivo e vibrante da averne quasi paura.

Perché l’attore ha il dono di riuscire a vestirsi e a svestirsi della pelle di volta in volta diversa di ciascun personaggio. Come la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto è sempre disposto a mettersi a nudo di se stesso per poter indossare tutti i vestiti (stracci) dei vari personaggi che gli si chiederà di far propri, per un periodo. E che scoprirà non essere mai così lontani da se stesso.

Elena Biagetti

E anche tutti noi ogni giorno, senza esserne consapevoli come un attore, mettiamo sulla scena della nostra vita tutti i vari personaggi (identità) che danno forma alla nostra personalità.

Nel corso dello spettacolo sarà l’autore-regista  a far “partorire” nell’attrice la consapevolezza di aver scelto – e di continuare ancora a voler scegliere – la voglia di desiderare: quel senso di vuoto, propedeutico alla ricerca di qualcosa che può colmarlo, almeno in parte.

Uno spettacolo accuratissimo in ogni dettaglio: dal testo, alla direzione attoriale, al sapiente uso delle luci e delle ombre, ai sottotesti scenografici. 

Uno spettacolo che rende divertente per lo spettatore muoversi tra i vari significati che rendono la nostra vita così complessa ma anche così maledettamente viva. Interessante. Libera.

Una vera opera d’arte.

Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto

“…E allora eccoci, siamo qua
Siamo venuti per poco
Perché per poco si va
E c’inchiniamo ripetutamente
E ringraziamo infinitamente
…”


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PASOLINI A VILLA ADA da Giorgio Manacorda – di e con Ivan Festa

AR.MA TEATRO, dal 15 al 17 Marzo 2024 –

Ha il respiro di un dialogo maieutico e il fascino di un colloquio psicoanalitico l’avvincente testo di Giorgio ManacordaPasolini a Villa Ada”.

Un testo che lo vede protagonista, insieme a Renzo Paris, di una vicenda avvenuta nel marzo del 1964.

Mentre, come tutte le mattine, alle ore 7 si trovava a correre a Villa Ada, quel 20 settembre del 2008 lo chiama al telefono il suo amico Renzo per dirgli che su Repubblica è stata pubblicata una lettera del marzo del 1964 dove Pasolini scrivendo a Pietro Nenni parla di Giorgio Manacorda come presenza fondamentale per la lavorazione della pellicola Il Vangelo secondo Matteo.

Enrique Irazoqui e Pier PaoloPasolini sul set de “Il Vangelo secondo Matteo”

Fu infatti Giorgio Manacorda “colui che fece incontrare Cristo a Pasolini” presentandogli  Enrique Irazoqui.

Ma soprattutto nella lettera del ’64 Pasolini parla della loro amicizia, delle “aspettative” che Pier Paolo nutriva in lui, giovane poeta ventenne.

Una notizia che riattiva in Manacorda un evento della bellezza sublime di un trauma: che dovrebbe farlo gioire e invece lo fa piangere. Ma il pianto, si sa, è contiguo al riso.

Giorgio Manacorda – ph Dino Ignani

Il testo “Pasolini a Villa Ada” è quindi il racconto della conversazione telefonica che si apre intorno a questo trauma e che – grazie alle domande e ai dubbi acutamente seminati “senza mollare mai l’osso” da Renzo Paris – induce in Giorgio Manacorda una sorta di travaglio, che finirà per “dare alla luce” una potente consapevolezza.

L’adattamento di Ivan Festa predilige il respiro del racconto a quello del dialogo: all’affanno della corsa e alla sorpresa della notizia – nonché delle conseguenti domande – la pacatezza di chi è riuscito nello sforzo di cercare di mettere insieme tutti gli elementi traumatici dell’evento degli eventi.  

Un racconto, il suo, ricco di intime e raffinate sfumature espressive, dove l’emozione del racconto sembra la risultante di un processo di metabolizzazione precedentemente avvenuto.

Una consapevolezza, la sua, esito dell’ostinato processo di succussione, di scuotimento emotivo ripetuto – proprio di un dialogo intimamente esplorativo – dalla quale scaturisce come per distillazione il monologo propostoci ieri sera, nella suggestiva sala dell’Ar.ma Teatro.

Ecco così allora che la luce sbocciante delle 7 del mattino, che apre il testo di Manacorda, lascia il posto qui a una luce crepuscolare, vagamente gotica, propria del percorso di fioritura finale della giornata.  Propria dello stato della sua psiche.

Ivan Festa

Festa non è in tenuta da runner, come Manacorda.

E’ nudo ai piedi. E nell’animo.

E’ vestito di ombre.

La luce ne disegna profili, ne bagna piccole parti del volto. 

A volte si concede l’ebrezza di calpestare quelle foglie secche che lo proteggono, quasi come un confine. A volte sceglie di venire ad abitare questo confine. Una volta l’oltrepassa, spingendosi tra noi. Per un attimo. Finalmente libero.

Ivan Festa

Inizialmente vive in simbiosi con una panchina del parco di Villa Ada. Un po’ come con il senso di colpa che Giorgio Manacorda si è portato dietro per così tanti anni: quello di aver deluso “le aspettative” di Pasolini, di non essere stato più di suo gusto. Di non essere riuscito ad abnegarsi alla poesia.

Un padre spirituale Pasolini, che contrariamente a ciò che rende tale una figura paterna – l’introduzione di un limite, di una regola che permetta al desiderio di poter zampillare – lo invita all’estremo sacrificio in nome della poesia: all’aprirsi ad una crocefissione in suo nome. Ma così il desiderio – se non degenera in ossessione – si blocca: l’apertura totale non lo stimola.

E Manacorda è risucchiato nel blocco di un lutto, prima ancora che Pasolini muoia. Un lutto che inaspettatamente inizierà ad elaborare  proprio grazie a questa conversazione con Renzo Paris nel Parco di Villa Ada.

“Carta” dipinto di Giorgio Manacorda

Proprio grazie al potere magico del raccontare, del raccontarsi. Finalmente al di là del suo “io non ricordo niente. Io dimentico”.

“… Ma se non ho mai raccontato a nessuno neanche l’episodio di Cristo. Cioè no, non è vero, qualche volta mi sono lasciato andare ad una battutaccia: Cristo a Pasolini gliel’ho presentato io! Poche volte però, e in genere con giovani sconosciuti che mi parlavano di Pier Paolo, e allora per noia ed esibizionismo…

E tornare a ricordare, come il linguaggio psicoanalitico gli aveva già insegnato guarendolo dall’asma, che la paternità autentica è una responsabilità senza pretese di proprietà: che non esige che i figli diventino ciò che “le aspettative” narcisistiche di certi “padri” vorrebbero che fossero.

Ivan Festa rende omaggio a questo appassionato testo di Giorgio Manacorda cesellando un piccolo gioiello: potente e delicato.

Ivan Festa

Recensione dello spettacolo PUPA & ORLANDO – da Giuseppe Fava

TEATRO LO SPAZIO, 1 e 2 Febbraio 2024 –

– Tratto dai testi di GIUSEPPE FAVA –

Dov’è la verità ?

E’ notte: Pupa va in strada per fare “carezze d’amore” . Spaventata, sussurra di Nino Rota Canzone arrabbiata. Ma una struggente malinconia domina sulla rabbia.

Canto per chi non ha fortuna

Canto per me

Canto per rabbia a questa luna

Contro di te…

Contro chi e ricco e non lo sa…

Chi sporcherà la verità

Penso all’illusioni dell’umanità

Tutte le parole che ripeterà…

Dipinto di Giuseppe Fava

Gli avventori le dicono che lei è una cosa inutile; si dimenticano il suo nome. Ma lei non perde la consapevolezza della sua identità.

Perchè si racconta a noi. E così grazie al potere del racconto può continuare a tenere insieme tutti i ricordi che le danno la prova di esistere. 

Pupa s’innammora: riesce sempre a trovare qualcosa di cui innammorarsi. E ne è felice. Scopre di diventare madre ma prima che nasca suo figlio muore il suo Michele. Allora il bambino si chiamerà come suo padre e oltre al nome ne erediterà il destino.

Marco Aiello (Orlando) e Claudio Pomponi (Pupa)

L’amore poi prende il nome di Orlando ma lui la fa esibire nelle piazze: è il suo amore e il suo pappone. Sono storie d’amore e di morte. Pupa lo sa: basta chiudere gli occhi e immaginare che quelle carni siano del suo Orlando.

Ma le narrazioni di Pupa e di Orlando differiscono: dove sarà la verità?

Dipinto di Giuseppe Fava

Pupa si strugge per i suoi figli, per le contraddizioni dell’essere madre: desiderare di spingere fuori – alla vita – il proprio figlio ma poi desiderare anche farlo rientrare nel proprio grembo. Proggerlo dal crescere, dall’allontanarsi, dall’essere indipendente. Dal morire.

Quanto vale la vita di un uomo ?

Claudio Pomponi (Pupa) e Marco Aiello (Orlando)

In un’epica del sopravvivere dolce-amaro, Marco Aiello (Orlando) e Claudio Pomponi (Pupa) – a scena quasi nuda – riescono a “riempirci gli occhi di parole e la gola di sospiri per amore”.

La Pupa di Pomponi brilla di un femminile in purezza: candido e sordido; delicato e prorompente. E di una vocalità sinuosa e suadente. Un femminile trasversale all’ontologia del genere.

Di Marco Aiello emerge la versatilità, nella quale si muove attraversando le pluripartiture che in lui prendono vita: dall’avventore al musicista (di lacerante bellezza i suoi interventi contaminanti con l’armonica a bocca); dall’avvocato al pappone. Sostiene con efficacia e credibilità un dialetto siciliano parlato con un ritmo vorticoso eppure chiarissimo, netto, opportunamente articolato.

Entrambi ricordano un po’ i guitti della commedia dell’arte ma il riferimento più esplicito e ai cantastorie erranti siciliani. 

Uno spettacolo che brucia il cuore.

È il teatro di Giuseppe Fava: il teatro che punta la luce sulla “normalita”, sullo stile popolare dal linguaggio denso e marcato. Sull’ “antica ed eterna contraddizione di vivere tra infelicità e speranza”. Un teatro come esercizio del potere investigativo verso la ricerca di quella libertà, che non è un dono di natura ma ardita e consapevole conquista.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo QUESTA NON E’ CASA MIA di e con Giulia Trippetta

TEATRO BASILICA, dal 7 al 10 Dicembre 2023 –

Quando si diventa adulti ?

Che tipo di rito di formazione hanno attraversato i Millennial ? Su quale “terreno” sociale e politico sono cresciuti ?

Su queste domande ci interroga e ci invita a riflettere il graffiante monologo – scritto, diretto e interpretato dalla caleidoscopica Giulia Trippetta – fino a ieri in scena al Teatro Basilica.

Una generazione, la sua, apparentemente con il massimo delle opportunità. Ma vista più da vicino, che generazione è ? Di quali dubbi e di quali certezze si è nutrita?

Che futuro siamo stati in grado di offrire come Paese e cosa sono diventati i rappresentanti di questa generazione? Perché sono loro il nostro futuro più prossimo.

Giulia Trippetta

Con carismatica duttilità Giulia Trippetta dà forma ad una sua personalissima “narrazione di formazione” dove, parlando del proprio microcosmo, ci rimanda il riflesso del macrocosmo nel quale affondano le sue radici.

Un macrocosmo che ha perso la riconoscenza verso il valore sacro dell’unicità, della diversità irripetibile di ciascuna persona. Il paese di fantasia che tra finzione e realtà le dà i natali si chiama Fossoperduto: un “nome omen” dove “i fossi”, e quindi i confini personali, sono andati persi. Dove tutti si permettono di giudicare tutto, quasi fosse un nuovo perverso “cogito” : giudico quindi sono. 

Giulia Trippetta

E lei crede, e convive, con quello che le dicono le amiche e le sue parti interiori. Assediata, si lascia sabotare: lascia che gli altri, ma anche lei stessa, minino le sue mura. Ma l’autostima si sa: è un dono sociale; gli altri possono nutrirla.

Un giorno arriva la svolta: la recisione dei ponti. Seguiranno avventure e sventure, come avviene ad ogni “eroe” in formazione. Ma qualcosa non va: non ne nasce un’evoluzione, una vera formazione. Essere libera è ancora più difficile che essere sottomessa al giudizio degli altri. Cerca, ma non trova, quella capacità di desiderare sufficientemente solida per dare frutto. Oltre che per resistere.

Gioia Trippetta

Fino a che prepotentemente inizia a farsi spazio quell’insensibilità ai morsi di qualsiasi passione: “piuttosto che fare una cosa bene, meglio farne tante male “. Ma ciò che fa tanta paura fino a paralizzare può raggiungere anche la potenza improvvisa di un’energia soffocante. Nonostante tutto la protagonista non si arrende: non ha ancora capito in che direzione cercare quella che può essere “la sua casa” ma continua a cercare.

Soprattutto se stessa: chi è davvero, nel bene e nel male. E a regalarsi comunque rispetto: per il proprio corpo e per la propria interiorità. Consapevole, ora, che fuori di sé l’attende una società “liquida”: che non riesce più a trattenere e a dare densità e corpo a degli autentici valori. Se non quelli legati alla rivoluzione digitale: che avanza veloce senza curarsi delle difficoltà di adattamento delle menti umane.

Il risultato è che i 30enni di oggi sono i 18enni di un tempo: impantanati nel “dovrei”. E che non riuscendo ad orientarsi per capire “come si vive”, rischiano di marcire.

Così, protetti e avvolti nel limbo di una pellicola di domopak, in attesa di essere presi in considerazione, rischiano di fare muffa.

Teatro Basilica

Ma la muffa – come ricorda programmaticamente questa stagione del Teatro Basilica – è uno dei microorganismi più resistenti, in grado di sopravvivere anche nelle situazioni più avverse. È un fungo microscopico che aiuta la natura a decomporre ciò che è morto, per ridargli vita. In un passaggio dall’ordinario, allo straordinario.

Una prova attoriale, quella della 34enne Giulia Trippetta, davvero piena di “spezie”. Preziose. Più della “giada”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GUARDIANO di Harold Pinter – regia di Duccio Camerini

TEATRO LO SPAZIO, dal 16 al 19 Novembre 2023 –

Se l’acutezza di spirito di Harold Pinter è riuscita a provocarci ad immaginare negli ipotetici panni di un “guardiano” un ladro; il mordace sguardo registico di Duccio Camerini riesce a solleticarci a riflettere su come i panni del “ladro” possano essere vestiti da Mick – una delle vittime del furto – “lasciando in mutande” il ladro.

Ed è vero, è proprio così: per natura l’istinto alla sopraffazione ci unisce tutti. È ciò che più profondamente costituisce un essere umano. Sì, l’odio viene prima dell’amore: ci fonda.

L’ amore no. L’ amore – e quindi l’accoglienza, la condivisione, la misericordia, l’amicizia, l’altruismo – è tutto da imparare. Così come il concetto del “custodire”: dello sviluppare la fiducia a lasciare in custodia qualcosa di nostro ad un altro. 

Ma cosa c’è da custodire in una stanza dove regna la fatiscenza e il caos ?

L’interno.

Qui, nel penetrante sguardo registico di Duccio Camerini, “il territorio da segnare” è un teatro abbandonato, roccaforte su un “esterno” minaccioso.

Ma cosa c’è di più accogliente di uno spazio teatrale? Uno spazio dove “deve” esserci qualcun altro che viene dall’esterno, per poter dar vita all’epifania del teatro?

In un’allucinata metateatralità, qui il living dei personaggi è un “territorio segnato” da un quadrato impermeabile. Ma un teatro non resta mai davvero asettico, abbandonato: per sua natura è permeabile, osmoticamente comunque visitato da presenze, da “fantocci” continuamente nuovi – spesso fedeli – che desiderano guardare, assistere, condividere, proteggere. Custodire.

Lo sguardo registico di Camerini non manca di valorizzare anche l’altra forma – oltre quella territoriale – in cui si esprime l’esigenza dei personaggi pinteriani di “segnare il territorio”: quella linguistica. Quella dei significanti: lo spazio nascosto e sottostante il significato delle parole. Uno spazio “interno” autentico e sofferto. Così lacerante che nessuno dei personaggi può e vuole sostenerne il peso: né il mittente riesce a tradurlo in una comunicazione intima e sincera; né il destinatario riesce ad accoglierlo ascoltando davvero la confessione dell’altro. Laddove l’ascolto è la condizione base per permettere ai sintomi della sofferenza di trasformarsi in parole. Non appena uno dei tre pare tentare di raccontarsi, l’altro si distrae a fare altro oppure parla contemporaneamente anche lui. Evitando che si lasci spazio al silenzio, presupposto che onora la parola dell’altro. “Guardiano” è quindi ciascuno dei tre protagonisti, nell’accezione riflessiva che ciascuno “si guarda” dall’Altro.

La vita, sembra dirci lo spazio teatrale, è una partita, dove le squadre avversarie, o i contendenti, sono realmente divisi. La separazione infatti è il presupposto di ogni partita. Non a caso Mick, il fratello di Aston, presentandosi all’ospite inatteso Davies (il ladro) lo accoglie con la provocazione: “A che gioco giochiamo?”. E a quante partite scoprirà di dover giocare Davies, in una metateatralità del gioco della vita !

In una visione registica che riesce a far coabitare ritmo ed eloquenti silenzi, fedeltà ed opportuni tradimenti, Duccio Camerini scende anche in scena vestendo i panni di un Davies carismatico e scoppiettante, che sottovaluta l’altruismo rappresentato da Aston (un Leonardo Zarra credibile nella sua vellutata e ossessiva sofferenza) e la diffidenza del fratello Mick, resa con efficace isterica violenza da Lorenzo Mastrangeli.

Uno spettacolo che – nell’apparente freddezza – brucia di passione.  

Uno spettacolo che cela e rivela verità esistenziali.

Perché il Teatro ci salva. Sempre. È la nostra roccaforte da dove “guardare” la Vita.

Come nel Teatro così nella Vita, infatti, ci “deve” essere l’altro per esserci un noi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL TUO NOME BRUCIA SULLE MIE LABBRA – regia Alessandro Sena –

TEATRO BELLI, dal 26 settembre al 1 Ottobre 2023

Che cos’è l’amore se non un incontro speciale che riesce a interrompere il nostro normale scorrere del tempo, il nostro precedente modo di stare al mondo ?

Anche su questo ci invita a riflettere l’appassionante spettacolo di Alessandro Sena “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”, andato in scena ieri sera in prima nazionale nell’avvolgente intimità del Teatro Belli, nel cuore di Trastevere.

L’amore ci fa fare esperienza della nostra massima apertura verso l’altro. Ma non sempre si riesce a fare un buon uso di questa nostra incondizionata apertura. E allora l’amore può trasformarsi nel luogo della chiusura, della prigionia, dell’ossessione, della ripetizione. Dell’assedio.

Alessandro Sena

Questa è la condizione in cui si trova la protagonista del libro “Un corp en trop” della scrittrice francese Marie-Victoire Rouillier, libro caso letterario in Francia negli anni ’80 per gli straordinari contenuti e la bellezza del testo, di cui Alessandro Sena ha curato la traduzione italiana e dalla quale ha tratto lo spettacolo “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”.

Non un adattamento ma un’autentica messa in scena di 20 lettere selezionate ed estrapolate dal libro, che ne raccoglie nella totalità 40: quelle che una giovane donna scrive e indirizza alla sua amata, ritiratasi in convento.

Lettere che – forse lette e poi accartocciate dalla destinataria o invece cestinati tentativi di seduzione, ritenuti non soddisfacenti dallo stesso mittente – giacciono a terra, ricoprendo quasi interamente il palco. Come un corpo che si offre e che ripetutamente viene rifiutato. Tocco scenografico potentissimo. 

In una realtà come quella attuale in cui si tende spesso a irridere l’amore ritenendo che ogni amore nasca portando con sé la propria morte e quindi nasca con una breve data di scadenza, questo testo recuperato e addirittura tradotto in italiano da Alessandro Sena ha il valore di riportare appassionatamente l’attenzione sull’immensità alla quale l’amore ci apre e ci consegna. Anche se qui si tratta di un amore che non ce la fa a tollerare questa apertura incondizionata. 

Attraverso una messa in scena ferocemente tenera, la regia della parola di Alessandro Sena trova la chiave per farci riflettere – sequestrandoci l’attenzione dell’anima – su che cos’ è il desiderio. Su come si nutra di tatto ma anche di segni di attenzione e di mancanze. E sul potere plasmante della parola dell’altro.

Ma la regia di Alessandro Sena non manca di sottolineare efficacemente anche quella tentazione tutta narcisistica che comunque può abitarci e che ci vorrebbe auto-fondanti. Nel dare corpo a queste due spinte contrastanti, il regista sceglie di scommettere su giovani promettenti interpreti: otto, tante quante le ombre che – come inquiline – abitano il condominio dell’inconscio dell’amante.

Le otto interpreti in scena – Angela Di Domenico, Erika Fusini, Chiara Iannacone, Francesca Mele, Sara Morassut, Marta Porfiri, Micaela Iago e Sania Ricchi – rapiscono il pubblico, che inconsapevolmente si lascia andare immedesimandosi a specchio con ciò che accade sulla scena. E sentiamo insistentemente queste ombre rotolarsi anche nelle nostre pance. La partecipazione è tale che un sublime silenzio ci lega tutti e solo momentaneamente ci libera in sospiri.

Sono ombre che acquistano corpo attraverso la densità delle voci, tutte diversamente e lacerantemente affamate d’amore. Ogni ombra fa di tutto per farsi ascoltare ma quanta struggente bellezza quando le ombre si compongono coreograficamente! I loro rituali ossessivamente circolari; la potente simbologia dell’amore simbiotico rappresentato attraverso l’insana sacralizzazione del rito della comunione (il peccato originale dell’amante); la loro rabbia vendicativa da Erinni; la loro ebrezza da Baccanti; la splendida liturgia di un Alleluja illuminato dalla sinistre luci delle candele, poste sotto i loro volti. E poi la brama finale: quella del tatto con la terra, con il suolo.

Ombre incapaci di amare davvero, cioè pur non essendo corrisposte. Non a caso, forse, il nome dell’amata non è mai pronunciato. E perciò brucia sulle labbra dell’amante che non c’è la fa a chiamarla per nome assegnandole un’autentica identità. Perché qui l’altra, l’amata, è una proiezione del sé dell’amante: non c’è nell’amante una vera apertura all’affascinante diversità dell’amata. C’è brama del suo corpo, delle sue attenzioni ma non decolla mai “un vero incontro” che, solo, può produrre una nuova nascita di se stessi e quindi una riconfigurazione del mondo esterno.

Non riesce l’amante descritta nel conturbante testo della Rouillier – ma non possiamo fare a meno di amarla anche per questo – a provare una sana curiosità per l’irriducibile diversità dell’amata. Una diversità che, anche se non corrisponde, non necessariamente deve portare a reazioni violente. Anche verso se stessi. E la regia di Sena non a caso non regala un corpo all’amata. Né all’amante: quelle in scena sono solo le sue ombre inconsce. Quelle che hanno finito, purtroppo, per “cibarsi” del suo corpo. 

Accuratissima l’attenzione alla resa delle ombre. Un abito, identico per ciascuna, che esteticamente e registicamente è anche un habitus: un esuberanza castrata. Una seconda morbida pelle di stoffa nera, allora, si lascia stringere sul ventre da un’ambigua guaina contenitiva che ammicca alla seduzione di un reggi giarrettiera. Castrante però: ricco in ulteriori lacci velati, che ne suggellano la costrizione.

Uno spettacolo e un libro che ci parlano della difficoltà di amare e di amarsi. Ferite di cui Alessandro Sena riesce a fare lancinante poesia.


Recensione di Sonia Remoli

DAIMON – L’ultimo canto di John Keats

TEATROLOSPAZIO, dal 2 al 5 Febbraio 2023 –

Prendendo posto in sala, lo troviamo seduto sul palco. Di spalle, su un cubo di marmo. Legge un’iscrizione: la “sente”. Non parla, così sembra. Ma le parole più belle sono quelle che naufragano nel silenzio. Si sta lasciando guidare dal suo “daimon”: lui sa cosa è più fertile per “fare anima” . Di Gianni De Feo fin da subito ci arriva la fascinazione della sua “percezione”. La sentiamo.

Gianni De Feo nell’intro allo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Poi si alza, si volta e dà inizio alla sua seducente narrazione: un ripercorrere a ritroso i momenti del palesarsi, subdolo o manifesto, di un singolare “daimon”. 

In perfetta corrispondenza con il “fare anima ” di James Hillman, De Feo, che oltre ad interpretare l’appassionante testo di Paolo Vanacore ne ha curato anche la regia, dà vita ad un meraviglioso montaggio pluri-disciplinare collegando ed enfatizzando il potere della narrazione a contributi artistici di varia natura: dalla musica alla pittura; dal canto alla danza.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

La musica è quella che si immagina esca da una radio degli anni ’20 e viene scelta per fare “da tappeto” alla narrazione, seguendone simbolicamente i diversi climi. Per la pittura, De Feo sceglie di proiettare delle tele del pittore Roberto Rinaldi: davvero di forte espressività. Il canto e l’accenno a degli eleganti passi di danza arrivano con l’entusiasmo di un’amabilissima sorpresa: De Feo rivela dei colori vocali molto interessanti e dà prova di un’intensissima interpretazione avvalendosi di un accattivante uso delle mani che, in alcuni momenti, ricorda la magia delle “mudra”.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Come nelle poesie di Keats, De Feo riesce ad evocare gli oggetti nelle sue molteplici qualità mediante l’accostamento di diverse sfere sensoriali. In questo modo le immagini risultano così vivide che non solo se ne immagina la fisicità ma si riesce a partecipare della loro vita intima.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

Il testo di Paolo Vanacore immagina di ripercorrere il riappropriarsi della vocazione, “dono dei guardiani della nostra nascita”, da parte di un bambino che nasce dall’ondivago fluttuare delle onde di “un hotel di passaggio” di Atlantic City e che lascerà un’indelebile traccia di bellezza sulla Terra.

Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”

È un teatro di narrazione colmo di intima poesia, quello in cui s’immerge Gianni De Feo. Rompendo continuamente i piani, quasi fossero onde da fendere. E ci trascina con lui. Ne “sentiamo” il carisma, ne apprezziamo il ritmo, il “farsi anima” dei gesti. Dei silenzi. Della parola. Non si può non percepire infatti la bellezza con la quale De Feo riesce a riprodurre le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici) che abbondano nei versi di Keats e che donano musicalità e grande freschezza espressiva. Particolare attenzione pone De Feo all’utilizzo delle vocali che, così come amava Keats, sono impiegate alla stregua di note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. E, così sedotti da tale bellezza, non possiamo non “lasciarci andare”. Naufragando. Paghi del nostro esserci venuti a cercare. 

Siamo tutte Frida

TEATRO ARCILIUTO, dal 18 al 23 Ottobre 2022 –

Arriva con la pioggia: lei stessa si fa pioggia. Una melodia al pianoforte ne riproduce il ritmo e il peso. La vediamo scendere dietro una finestra illuminata e poi entrare in sala, catturata dal mistero di una tela bianca. La fissa, poi prende in mano il pennello. E, liberando le emozioni che la invadono, le traduce in canto: sarà la voce a guidare la mano, dal tratto davvero molto interessante.

Rosanna Fedele interpreta una Frida Kalho (i testi infuocati dello spettacolo sono tratti dal libro di Pino Cacucci “Viva la vida!“) quotidiana nella sua eccezionalità, vestita in tuta sportiva, a sottolineare ancor più che “Siamo tutte Frida”. Può capitare a chiunque di vivere un amore che è “un lento avvelenamento” e tardare ad allontanarsene, perché è insieme “arsura e pioggia”. E poi disprezzarsi per come ci si è lasciate martoriare. 

Attraverso un uso ammaliantemente icastico della voce, che Rosanna Fedele modula in simbiotico accordo al corpo e allo sguardo, la sua Frida inizia a confidarci il primo incontro con la morte, efficacemente riprodotta dall’inventiva di Alessandro Baronio. Accetta di “danzare” con lei quel giorno dell’incidente in autobus: ne esce in brandelli e il suo corpo risulta “un rompicapo per chirurghi senza fretta”. Le dicono che non si sarebbe più alzata da quel letto. E invece lei riprende a camminare.

Ma non fu un miracolo: solo un diverso passo di danza con la Morte che, poco dopo, riprendendo lei a guidare la danza, le sottrae tutti e quattro i figli. Un dolore immenso, il più grande. Ora, rivivendolo, cerca di incanalarne la potenza dilaniante nel disegnarne i loro quattro ritratti. Immaginandoli, non avendoli mai conosciuti. Ma non è sufficiente: il dolore sfugge agli argini. E allora li canta (i testi delle canzoni sono di Rosanna Fedele, musicati da Paolo Bernardi).

Ritorna poi al suo Diego, al loro primo incontro mentre lui dipinge “eterni murales” e lei gli propone di visionare “senza inutili complimenti” i suoi dipinti. Ma qualcosa torna ad eccedere in Rosanna/Frida: un dolce e straziante ricordo la spinge a lasciare un segno dell’amore che la pervade sul murales di scena. Ma è inutile: è troppo invadente e lei non oppone più resistenza.

Si lega allora a lui, anche fisicamente grazie al guizzo registico di Andrés Rafael Zabala, e si fonde al mascherone di Diego Rivera, creato per l’occasione sempre da Alessandro Baronio. L’elefante e la colomba: così scrivono i giornali il giorno successivo al loro matrimonio. Ma lei non ha dubbi: è la sua personale rivoluzione. È la sua ossessione: “Diego nelle mie urine; nella punta della matita; nell’immaginazione; nella malattia…”. Un legame che “stringe” fino alla lacrime: “io ho avuto tutto, malgrado me”. Torna a rifugiarsi nel canto ma la sua è ora una preghiera, un’invocazione disperata: “ma che diritto ho io di volerti diverso!”. La stanchezza la invade: non sente più la forza di attaccarsi alla vita come una sanguisuga. Si scioglie. In pioggia.

Uno spettacolo incantevole in un luogo incantevole: per non dimenticare Frida Kahlo. Per non dimenticare le donne.  


Lo spettacolo è fruibile anche sulla piattaforma a pagamento CHILI TV


I PROTAGONISTI

Rosanna Fedele

Una vita all’insegna dell’eclettismo. Disegnatrice, stilista, pittrice, cantante e attrice. Si dedica con successo al doppiaggio e alla recitazione. E’ protagonista di diversi cortometraggi e pubblicità e nel 2015 è protagonista del film “A Dark Rome” di A. R. Zabala che ottiene riconoscimenti e premi a livello internazionale (MFF di New York, Marbella International Film Festival per citarne alcuni). L’amore per la musica e il canto restano una costante sin dall’infanzia. Il trasporto, in gioventù, per i film “musicali” si tramuta in passione per il jazz. Nel 2010 si dedica alla realizzazione del suo primo album “What is it For?”, titolo del brano originale contenuto nel disco distribuito dalla Philology Records per la Revelation Series. Il desiderio di espressione personale si fa sempre più forte. “Sogni Diversi”, un album in uscita a dicembre 2015, in collaborazione con il Paolo Bernardi Quartet, è il risultato di questo percorso nel quale la cantautrice mette in musica i propri sentimenti, dove le sonorità jazz sono di sostegno alla complessità e alla bellezza della lingua italiana: un omaggio alle proprie radici, alla propria terra.

Il pianista Paolo Bernardi

Nato a Roma, ha compiuto studi musicali classici, diplomandosi in pianoforte presso il conservatorio “Respighi” di Latina; successivamente, ha affrontato lo studio della musica jazz sotto la guida di validi maestri, quali Cinzia Gizzi, Riccardo Biseo, Rita Marcotulli e della composizione con Luigi Verdi, Alfredo Santoloci e Javier Girotto. Si diploma in Musica Jazz e successivamente consegue la laurea di II livello in Jazz presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma, sotto la guida del M. Paolo Damiani col massimo dei voti e la lode. Ha, all’attivo, numerose registrazioni pubblicate da DODICILUNE, PHILOLOGY, ISMA RECORDS,SINFONICA JAZZ–NUOVA CARISH,SIFARE,collana L’ESPRESSOREPUBBLICA con un progetto di Massimo Nunzi. Nel 2008 nasce il PAOLO BERNARDI QUARTET. Con tale formazione si esibisce in prestigiosi locali romani e in rassegne nazionali significative, ottenendo un consistente riscontro positivo di critica. Laureato, con lode, presso l’università “La Sapienza” di Roma in Lettere moderne con indirizzo musicale, è giornalista pubblicista freelance.

Lo scenografo Alessandro Baronio

Alessandro Baronio, artista romano, umanista, animalista, sognatore, emozionato, “viaggiatore di sogni deragliati”, Alessandro Baronio è stato scenografo teatrale e ha lavorato per Xfactor, per Elisa nel suo tour, per Marco Mengoni, Nina Zilli, Anna Oxa, Angela Finocchiaro solo per citarne alcuni. E’ designer, ceramista, fotografo, restauratore e si occupa, tra le altre cose, di laboratori didattici con materiali di recupero per ragazzi delle scuole. Attento alla forma, attento al valore artistico del progetto cerca di coniugare sempre qualità e sostenibilità.

Il regista Andrés Rafael Zabala

Andrés Rafael Zabala, nato in Argentina e cresciuto fra l’Austria e l’Italia, è laureato in Cinema e Tv e diplomato operatore di ripresa. Nella sua carriera ha curato la regia di spot pubblicitari, video aziendali, documentari,e reality show per Canale 5, RAI 2, Studio Universal, Tele+ e Sky. In qualità di filmmaker, ha all’attivo nove cortometraggi che si sono aggiudicati importanti riconoscimenti. Il suo primo lungometraggio indipendente “A Dark Rome”, oltre ad essere stato selezionato in dieci festival nazionali e internazionali, ha vinto il premio “Best Thriller on 2015” al Macabre Faire Film Festival di New York. Andrés Rafael Zabala svolge da alcuni anni, parallelamente alla sua attività di regista, l’attività di docente di Regia e Cinematografia. Nel 2020 è uscito il suo libro “Registi disobbedienti – La cinematografia di ieri e di oggi oltre le regole”. (Edizioni Efesto – 2020). Dopo la “La prima notte” scritta e diretta da lui stesso, “Siamo tutte Frida” è la sua seconda regia teatrale. L’ultimo lavoro cinematografico “Malleus” sarà presentato a Febbraio 2023 al Festival di Londra.

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