Recensione dello spettacolo L’ULTIMO VIAGGIO DI SINDBAD – libretto di Fabrizio Sinisi liberamente ispirato ai testi di Erri De Luca – Musica di Silvia Colasanti – Direttore Enrico Pagano – Regia Luca Micheletti

TEATRO NAZIONALE, dal 16 al 23 Ottobre 2024

E’ un invito a non dimenticare il valore dell’ospitalità, questo Racconto Musicale in 7 quadri di sublime bellezza, anche iconografica.

Un lavoro che nasce dalla fertile sinergia di autori che hanno scelto di “navigare insieme al protagonista sfidando le correnti”. Sono l’autrice della Musica Silvia Colasanti, il Direttore Enrico Pagano, l’autore del Libretto Fabrizio Sinisi, che si è ispirato liberamente a testi di Erri De Luca, il Regista Luca Micheletti.

Enrico Pagano, Luca Micheletti, Silvia Colasanti

Un invito, il loro, a ricontattare quell’ospitalità che delle differenze – di colori, di odori, di culture – sa fare occasioni d’incontro. Orientamento che la compositrice Colasanti fa suo, ad esempio, scegliendo di far dialogare con l’orchestra strumenti tradizionali di culture diverse. E aprendo la scrittura vocale alla comunicazione tra forme di origine operistica e inflessioni e risonanze popolari.

Un po’ come puntando a ripercorrere quel confine osmotico da cui tutti deriviamo: quello sul quale iniziano ad incontrarsi una madre e un figlio, corpo estraneo che la natura non combatte ma lascia che occupi una parte del corpo ospitante.

Quel confine osmotico che risulta antropologicamente così impegnativo continuare a lasciare aperto a nuovi scambi nel momento di ogni necessario distacco. Come quello che si trova a vivere la madre di Salvatore, che dal porto saluta con un grido disperato suo figlio appena imbarcato, alla ricerca di un destino migliore. Un destino iniziato con lei e che, per potersi evolvere, richiede un allontanamento da lei, sua Terra d’Origine.

Di questo ci parla, anche, il concetto di “confine”: di un donare un’identità per poi lasciare che quell’identità si arricchisca attraverso il dialogo con l’altro. 

Il baritono Roberto Frontali è Sindbad

Un progressivo prender forma della capacità trasformativa ad entrare in dialogo con gli altri e con se stessi coinvolge il personaggio di Sindbad (interpretato dal baritono Roberto Frontali). Una figura del mito – anzi “il risultato della somma potenzialmente infinita delle sue varianti” – attraverso la quale gli autori di questo Racconto Musicale ci invitano a leggere la realtà. Perché volgere lo sguardo e tornare a porsi in ascolto di quella che è un’esperienza collettiva che ci costituisce nel nostro stare al mondo – il rituale archetipico del viaggio – può essere utile per affrontare con slancio il presente.

Sindbad nel corso del racconto vive un’evoluzione: dapprima si scopre incline a farsi feroce confine contro le contrastanti richieste dei migranti; successivamente riconosce un insolito piacere nel condividere con loro la malinconia delle comuni nostalgie umane; fino a che non arriva ad individuare nella potenza relazionale del racconto un antidoto al rancore: un canale di scambio, una salvezza.

Ed è così che Sindbad “fonda una comunità sull’acqua” intorno ad una Legge che riconosce ospitalità anche alla pietà. Perché lui crede nel potere della parola e quindi nel potere della relazione. Quest’ultimo lo ha appreso attraverso l’amore per sua moglie: una donna e, in quanto tale, il più straniero dei Paesi per un uomo. Sul confine tra se stesso e l’amata, Sindbad apprende allora quelle che Socrate nel “Simposio” di Platone definisce “le cose dell’amore”, di cui la donna, per natura, ha maggiore dimestichezza. Perché anche l’amore è un viaggio (interiore), in cui si incontrano tempeste che chiedono ospitalità: un po’ di quell’ ”intenerimento” che – come confida Sindbad al Nostromo (interpretato dal tenore Paolo Antognetti) – “sarebbe un giusto motivo per restare” a bordo.

Anche la scenografia (curata da Leila Fteita) è un invito all’inclusività, alla condivisione, al non restare indifferenti. Magnifico il suo gioco di pieni e di vuoti, dove raggi di luminosa speranza sfidano muri e riescono a filtrare fino a riscaldare le ombre degli animi (il disegno luci è di Marco Giusti). Una scenografia che, con la generosa precarietà dei suoi piani inclinati, è un pò come se chiamasse anche noi della platea a salire a bordo. Offrendo solidarietà.

Il soprano Alice Rossi è la seconda sorella (quella vedente)

Il soprano Elisa Balbo è la prima sorella (quella non vedente)

Con slancio. Un pò come avviene tra le due sorelle a bordo: quella vedente infatti (interpretata dal soprano Alice Rossi) sceglie di offrire la sua vista alla sorella divenuta non vedente (interpretata dal soprano Elisa Balbo) a seguito di una violenza subita in clima di guerra in patria. Lei, in stiva, ha paura del buio del mare e avverte il bisogno di salire sul ponte a sentire le stelle: “Io sono i suoi occhi, vedo al posto suo”- dichiara sua sorella. Solidale ospitalità difronte alla quale il rigore del capitano Sindbad si arrotonda in misericordia, concedendo loro di salire sul ponte solo per la notte, trasgredendo eccezionalmente una delle regole da lui fissate.

Il baritono Roberto Frontali è Sindbad

E poi ci sono i bambini: così numerosi, così innocenti, eppure così capaci di tramutare nel linguaggio del gioco anche le situazioni più avverse.

Commovente e insieme energizzante il loro racconto musicale di Ionà, in una coreografia in cui l’individualità del gioco della campana dona ospitalità alla coralità di un girotondo (è di Fabrizio Angelini la cura dei movimenti mimici delle coreografie). 

Epico il loro saluto musicale – che la Colasanti sceglie acutamente di articolare su un ritmo rap – per ricordare un nuovo amico ormai perduto che, “passando da un’acqua all’altra, già tutto ha vissuto”: il figlio nato morto della donna che si era imbarcata già gravida (ad interpretare la Madre è il soprano Daniela Cappiello).

Il soprano Daniela Cappiello è la Madre

E’ il futuro che stenta a farsi strada e il passato che resiste a vivere: ora è Sindbad a chiedere perdono a nome di tutti gli adulti “per il piccolo che scompare nelle onde e il vecchio che avanza”.

Ma dolcissima, e ancora così piena di speranza, è l’ultima ninna nanna della Madre. Lei, che invita il suo piccolino morto a dimenticare l’orrore per poter sognare “seduti insieme, il lupo e l’agnello come fratelli, presso un ruscello”. L’orchestra, tramutata dalla Colasanti in una grande tiorba, avvolge la luminosa umanità di questo momento in una nuvola di densa speranza.

La mezzosoprano Annunziata Vestri è la Memoria

Una speranza che trova accoglienza nella Memoria (interpretata dal mezzosoprano Annunziata Vestri): è lei “l’angelo della storia”, colei che tiene insieme passato e presente, attraverso il potere del ricordo consapevole. Così ben descritto dal pulsare argomentato a cui dà forma la Colasanti attraverso un clima intimo di percussioni, arpa e coro di bambini.

Perché è il ricordo consapevole a rendere possibile un’altra Storia.

Ed è così che “l’acqua diventa cielo”.

Al coro dei bambini – “figli dell’orizzonte” pieni di fiera e tragica consapevolezza – è affidata una chiusura che prelude a un nuovo possibile inizio: quello edificabile sulle “tracce” di una riflessione consapevole, “tra ragione ed emozione”, intorno ad un fenomeno che ci oltrepassa, qual è quello del rituale archetipico del viaggio.

Ed è così che – con la complicità dei codici del Teatro e della Musica – i confini tra attori e spettatori vengono in contatto osmotico tra loro e lo spazio teatrale diventa esso stesso nave.

Un momento di intensa bellezza.

Un invito “a sentire”, oltre che a capire.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL MISANTROPO di Molière – regia di Andrée Ruth Shammah –

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Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2024per un Teatro, un’ Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior attore protagonista).

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TEATRO FRANCO PARENTI, dall’8 Novembre al 3 Dicembre 2023 – Milano –

Cosa ci rende uomini?

Il rigore, che ci assicura “specchiata lealtà”

o il perdono, che nel “mutuo rispetto” tutela la nostra unicità ?

Il progetto di traduzione registica e filologica che ha portato a questa messa in scena è di portentosa bellezza. Tanta meraviglia nasce da un lavoro a sei mani tra Andrée Ruth Shammah, Luca Micheletti e Valerio Magrelli: un lavoro incentrato sull’elogio semantico della parola e della sua musicalità. 

Andrée Ruth Shammah

Dal desiderio della Shammah – che da decenni si nutre della passione per Molière – di rendere ancor più consapevole lo spettatore della travolgente modernità di questo testo, nasce l’idea di alleggerirlo puntando dritto alla resa della sua essenza. Ecco allora che con accorta intelligenza la Shammah affida la traduzione de “Il misantropo” allo sguardo poetico del fine francesista Valerio Magrelli che – centrando l’obiettivo – ritraduce il testo portandolo in settenari incrociati. 

Valerio Magrelli

Allo spettatore che si siede in sala, seppur ignaro di questo complesso progetto, arriva immediatamente la seducente delicata freschezza dell’ascolto. Ed è un incanto di spontaneità. 

Spontaneità che è la cifra del Teatro che tanto ama la Shammah: quello del rituale delle prove. Del qui ed ora si sta svolgendo una prova: qui si sta mettendo in scena il teatro stesso. Quella magica e sacra tensione di ricerca propria del continuo sperimentare, del continuo mettere “alla prova”. 

Ed è con questa tensione che si apre lo spettacolo: con i rituali di controllo che sia tutto in ordine sulla scena e con gli attori che entrano e stanno sul palco con quella tensione di fertile attesa di quando sono dietro le quinte. Un’atmosfera magica: pura e insieme disponibile a contaminarsi di tutto, che ricorda tanto quella che abita la nostra psiche, il nostro inconscio.

Lo stesso spazio scenico – le cui scene sono state costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e curate da Margherita Palli – rimanda a un condominio psichico dove interessi e scopi differenti cercano di accordarsi, sovente scontrandosi, per coabitare.

Tra gli inquilini del mondo interiore vi è anche una spinta ideale, una tensione ad essere secondo un modello virtuoso, positivo, realizzato (che Freud ha chiamato Super-io) nella quale si è depositata una grammatica delle nostre aspirazioni: ciò che abbiamo imparato a considerare etico, migliore, auspicabile. Un imperativo che ci indirizza ad essere leali, generosi, affermati, competenti, perfetti, coerenti. 

Tensione che è un po’ la spinta iper protettiva che domina Alceste e che lo porta a non riuscire ad entrare in una vera relazione di reciproco scambio con gli altri, con la società nella quale è immerso.

Luca Micheletti è Alceste il misantropo

Riflesso di questo macrocosmo sociale, il microcosmo dei personaggi in scena. La specificità che contraddistingue ciascuno di loro allude alle varie spinte della psiche di Alceste, con le quali lui non riesce ad entrare in relazione. La sua ferrea integrità ha il sapore di un’epurazione: un’ossessione a separare, a purificare, a lavare ogni macchia, ogni colore che può sporcare la sua visione utopisticamente pura dell’essere umano. 

L’estro della regista riesce a veicolare questo messaggio nell’orecchio e nell’occhio dello spettatore: ciascun personaggio ha infatti una sua cromaticità vocale ben riconoscibile. Anche rinunciando al conforto dell’immagine. La sublime succulenza dei colori degli abiti (seconda pelle) degli altri personaggi, non c’è in lui, che veste in nero. E dall’umor nero è pervaso. Un colore (e un habitus) ‘introverso’, che non riesce a riflettere luce: quella che sgorga dalle nostre ombre interiori. Tutti i magnifici costumi sono curati da Giovanna Buzzi e realizzati da LowCostume in collaborazione con la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dondoni.

Luca Micheletti (Alceste) e Marina Occhionero (Célimène)

Il microcosmo di Alceste – come un urlo muto – parla del suo immenso e irrinunciabile bisogno ad essere riconosciuto nell’unicità della propria identità. Bisogno non lontano dal vissuto personale in cui si trova a scrivere l’autore, del quale la regista – con delicata sensibilità – tiene attenta considerazione. E che si può rinvenire, ad esempio, in certe reazioni di tenera e disperata collera dal sapore infantile, che Alceste rivela in alcune occasioni.

E che forse possono leggersi anche nel suo ritrovarsi, alla nascita del fratello minore, privato del nome proprio. Tanto che a 22 anni rinuncia al nome di Jean, al quale solo successivamente i suoi aggiunsero quello di Baptiste per differenziarlo dal secondogenito Jean. Sceglie allora Molière, in omaggio ad un suo amato scrittore.

Ma nessuno di noi, come ci ricorda il noto psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, può darsi un nome da sé. Non funziona. Il nostro essere al mondo è inscindibilmente legato agli altri: sono gli altri a sceglierlo per noi. Noi però possiamo fare qualcosa di autenticamente nostro di quello che ci hanno dato gli altri. Questo è lo spazio in cui può muoversi la nostra libertà. E questo è il dissidio dell’autore che trova riflessi nel microcosmo di Alceste, che sua volta traspone nel macrocosmo sociale in cui è immerso ma dal quale prende risolutamente le distanze. La sua prossemica è eloquentissima. E tremenda.

Ma come è irresistibile, invece, la vicinanza che comanda il sentimento amoroso ! Soprattutto se ci si innamora della donna più irresistibilmente ribelle alle manipolazioni. Che ha un modo tutto “suo” di riconoscergli quell’unicità che lui tanto reclama. Un’unicità che non esclude la relazione vitalizzante con il tutto. Una corte (quella per lui) che non esclude l’appartenenza ad una corte sociale. Un’innocenza, che non esclude l’indecenza.

Mentre lui per la sua bella non si farebbe tentare nemmeno dall’avere in cambio Parigi. Ma quanti sottotesti si celano dentro dentro “la speranza” ! E quanto queste contraddizioni ci sono vicine anche oggi ! Quanto ci fa bene riportarle in scena, assecondate e contrastate dalla sinergia del contrappunto della drammaturgia musicale ( di Michele Tadini) e della drammaturgia delle luci ( di Fabrizio Ballini) ! 

Di grande bellezza l’uso delle tende che, come disponibili quinte – anche della nostra interiorità – creano magnifici primi piani o suggestivi campi lunghi. 

Andrea Soffiantini (Basco), Marina Occhionero, Luca Micheletti, Matteo Delespaul (Secondo servitore)

Ma di sublime poesia è l’attenzione alle aree più misteriose: quelle dove si muovono soprattutto i due servitori (Andrea Soffiantini e Matteo Delespaul) . Lì la luce delle ombre, regalata dai candelieri, disegna interni dalla raffinata malinconia, propria dei pittori della scuola danese. Rapisce la naturalezza dell’eleganza coreografica dei due servitori (la cura del movimento è di Isa Traversi), dove nel più anziano (il Basco di Andrea Soffiantini) viene spontaneo ritrovare echi del First cechoviano .

Di lacerante intensità la prova attoriale dell’Alceste di Luca Micheletti. Il nero di cui si ammanta sa raggiungere le tonalità più assolute del vantablack, lasciando trapelare la tenerezza trasparente dell’ossidiana.

Angelo di Genio (Philinte), Luca Micheletti (Alceste) e Corrado D’Elia (Oronte)

Persuasivo il Philinte di Angelo Di Genio sulle dinamiche che possono generarsi all’interno di un rapporto di amicizia che, seppur fondato sulla fiducia e sulla nitidezza intellettiva – cromaticamente espressa e riflessa dal colore grigio – sa accogliere l’opportunità di un sano tradimento. 

Interessanti i contrasti – che non escludono consonanze – sviluppati tra i rivali in amore. In primis, il carismatico Oronte di Corrado D’Elia, colmo dell’intensa energia del viola melanzana. Ma anche lo styloso Clitandro di Filippo Lai, dal crine platinato e dallo charme che si sprigiona proprio da quell’esotico “punto di rosa”. Senza dimenticare il sofisticato Lacasta di Vito Vicino : fasciato dall’eleganza dell’ambiguo ottanio.

Luca Micheletti, Filippo Lai (Clitandro) Matteo Delespaul, Vito Vicino (Lacasta), Angelo Di Genio

Illuminanti i contrasti e i cedimenti amorosi propagati dall’universo femminile, declinato nelle sue innumerevoli sfumature. La Célimène di Marina Occhionero è resa tutta nella sua miscela di volubilità e di pragmatismo. Splendidamente quindi si bea del mix esplosivo racchiuso nel verde di Scheele, che così bene la rappresenta.

Emilia Scarpati Fanetti (Orsina), Vito Vicino, Marina Occhionero (Célimène), Filippo Lai, Maria Luisa Zaltron (Eliana)

Un’avvolgente connubio di saggia pacatezza con note di euforia connota l’ Eliana di Maria Luisa Zaltron. Una lucente acquamarina che sa che amare qualcuno significa accogliere anche i suoi difetti e quindi saper perdonare.

S’ammanta di giallo orpimento l’Orsina di Emilia Scarpati Fanetti che come il colore che la rappresenta sa rendere la luce affidabile dell’oro, scevra dalla sua nobiltà.

Completano l’efficacia del cast, il Du Bois di Pietro De Pascalis: una presenza enigmatica che fin dall’inizio teniamo a mente per il suo ambiguo far capolino dalla porta finestra di scena, unica apertura verso l’esterno del condominio psichico di Alceste. E un accurato Francesco Maisetti nel ruolo della Guardia.

Una traduzione registica – quella di Andrée Ruth Shammah – appassionatamente incuriosita da tutte le manifestazioni dell’animo umano e quindi scevra da giudizi.

Perché questo è il Teatro.


Per la mirabile interpretazione del personaggio di Alceste, Luca Micheletti il 30 Agosto ha ricevuto a Sirolo il Premio Franco Enriquez 2024per un Teatro, un’Arte, una Letteratura e una Comunicazione di impegno sociale e civile – come Migliore Attore protagonista de “Il misantropo” di Molière per la regia di Andrée Ruth Shammah, con la seguente menzione di merito:

Rompere con il mondo è il desiderio di Alceste, protagonista di questo “Misantropo” di Molière che rivendica un ideale d’onestà e purezza di cuore; interpretato in modo magnifico e convincente da Luca Micheletti, che duetta con gli altri personaggi della commedia in una specie di partitura polifonica dalla quale emerge e giganteggia la sua granitica padronanza del mezzo espressivo e la sua capacità di danzare dentro il verso. Diretto magistralmente da Andrée Ruth Shammah, che ne firma una regia moderna e attuale, riconsegnandoci la modernità di questo grande classico che rispecchia il mondo di oggi, con i suoi compromessi e le sue contraddizioni“.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV – regia di Luca Micheletti

TEATRO VASCELLO, dal 10 al 22 Ottobre 2023 –

“La vera vita degli uomini e delle cose comincia soltanto dopo la loro scomparsa” (Nathalie Sarraute).

La vita di Ivan Karamazov, ancora ferma al giorno del processo per parricidio, è quella di un personaggio pirandellianamente in cerca di un autore che gli possa regalare un finale.

Ad Umberto Orsini, suo interprete dal lontano 1969, arriva pungente l’urgenza di questa esigenza. E quello allestito, con sublime poesia, sul palco del Teatro Vascello è il luogo della mente del “personaggio” Ivan, che indugia e insiste nella mente della “persona” e ora anche “autore” Umberto Orsini. Autore assieme a Luca Micheletti.

Ma cosa significa regalare un finale ? Significa regalare, o meglio “restituire”, un’identità. L’identità, infatti, è un dono che ci possono dare solo gli altri. Perché nessuno di noi “si può fare” da solo. Drammaturgicamente ed esistenzialmente. I primi a farcene dono sono i genitori, per un periodo della nostra vita anche autori della stessa.

Ma poi entrano in scena tutte quelle persone il cui “incontro” è risultato essere stato per ciascuno di noi una folgorazione. Il cui incontro – direbbe Massimo Recalcati – ha interrotto l’abituale scorrere del tempo. Come è avvenuto tra Umberto Orsini e Ivan Karamazov.

Era il 1969 quando sulla rete nazionale della Rai andava in onda lo sceneggiato televisivo di Sandro Bolchi “I fratelli Karamazov” e un giovanissimo Umberto Orsini ne interpretava l’Ivan. Ma, a seguito di questo incontro, nulla è più come prima. E negli anni a seguire Orsini non smette di sentirselo intimamente connaturato alla propria essenza. E alla propria esistenza. Tenendolo insieme a sé con lo sguardo. E con il respiro.

Umberto Orsini è Ivan nello sceneggiato televisivo di Bolchi del 1969

Ma se l’incontro ha la cifra della folgorazione, l’identità è un processo che richiede tempo. Solo ora infatti Orsini sente che è arrivato il momento: sente di averne la giusta consapevolezza. Perché Orsini, così come Ivan, è un uomo che ha sempre tollerato di “essere disturbato” dalla polifonia di voci della sua coscienza e dalle relative contraddizioni che la abitano. Uomini, loro, che resistono alla tentazione di mettere a tacere gli elementi di disturbo della psiche (come accade ai più). Ma che anzi li accolgono. E danno loro la parola.

Uomini loro, che temono, ma di più amano la vastità del mare della vita. E nonostante tutto navigano, cercano, esplorano. Si perdono. E sognano un ritorno. Un “nostos“. 

Il regista e co-autore Luca Micheletti

Ecco allora che dalla lirica regia di Luca Micheletti, quasi come a cavallo di una slitta, i percorsi della memoria di Ivan scivolano giù, seppur spazzati insistentemente dal vento. E tornano. Tornano a riaffrontare il caos che avvolge “i resti archeologici” di un luogo fisico e mentale. Labirintico. Costruito per cerchi concentrici. Avvolto nel buio. Una scena ( curata con sublime poesia da Giacomo Andrico, dove il suono è affidato a Alessandro Saviozzi e le luci a Carlo Pediani) capolavoro del suo dramma.

E un po’ come un quadro di Mark Rothko, catalizza lo spettatore ad una contemplazione più intima e raccolta, permettendo un viaggio ipnotico che apre una finestra sull’incomprensibilità dell’io più profondo. Sul suo dramma interiore. Una rappresentazione concreta della tragedia esistenziale del personaggio ma anche dell’interprete-autore.

Umberto Orsini

Un personaggio che denuncia in sommo grado l’assenza di una figura paterna che sappia stabilire confini, fissare leggi. L’assenza di un dio che limiti il più gravoso peso dell’umano vivere: la libertà. Perché la principale pulsione umana è quella alla sopraffazione. E l’amore si può solo imparare.

Dell’interprete Orsini folgora la freschezza del disperato ardore. L’elasticità nervosa dei muscoli. Il guizzo dalle mille sfumature degli occhi e della voce. Il respiro. Le mani. Lui, insieme dio e demone.

E così, immaginando un nuovo processo e con una diversa spiegazione dei fatti, quasi come al termine della elaborazione di un lutto – che qui rischiava di diventare permanente, cronico – Orsini riesce a sublimare quell’oscura mancanza melanconica che avvolgeva l’esistenza di Ivan Karamazov. Riesce cioè “a far iniziare la vera vita di Ivan”, come direbbe Nathalie Sarraute. E così ora quell’ ” inverno del nostro scontento è reso fulvida estate”. Da Umberto Orsini. Assieme a Luca Micheletti.

Umberto Orsini e Luca Micheletti