Recensione dello spettacolo SEE PRIMARK & DIE ! – di Claire Dowie – regia di Dafne Rubini

TEATRO LE MASCHERE, dal 25 al 27 Giugno 20224

Quanto è difficile essere liberi ? 

Quanto ci angoscia poter scegliere ? 

Anzi, dover scegliere: anche scegliere di non scegliere è comunque una scelta.

La libertà è una condanna: siamo obbligati ad essere liberi – sosteneva Jean-Paul Sartre.

Meno male che c’è l’economia capitalistica. 

Lei sì che ci legge nel pensiero: lei ci solleva dall’usare il cervello e quindi ci libera dalla libertà. E quanto ci piace ?! 

Lei si assume tutte le responsabilità e noi ubbidiamo. Senza pensieri, senza dover usare con libero spirito critico la nostra capacità di pensare.

Come recita la filosofia del franchising dei negozi Primark: costa tutto così poco che non devi pensare a cosa scegliere. Puoi comprare tutto, ingordamente. Fino alla nausea. Fino alla morte. 

Martina Gatto

Da qui prende avvio lo spettacolo, che ammicca alla stand-up comedy, diretto con sapiente minimalismo da Dafne Rubini e interpretato da un’esplosiva e penetrante Martina Gatto. La drammaturgia è di Claire Dowie, anche attrice e poetessa: sicuramente uno dei personaggi più divertenti, anticonformisti ed iconoclasti della scena teatrale inglese contemporanea.

Con provocante ingenuità Martina Gatto ci racconta di quel giorno in cui si accorge di non stare bene: non sente più l’istinto di andare a comprare qualcosa di nuovo, sintomo di una “sana e robusta costituzione” nella società consumistico-capitalistica in cui viviamo. 

E sebbene, in verità, non avvesse bisogno di nulla, come si poteva resistere a non andare da Primark a comprare almeno una T-shirt, che generosamente avevano scontato a 2euro e 50 centesimi ? 

Pur non avvertendo più la seduzione di questa opportunità, si sforza di andare comunque. Ma quelle luci così attraenti ora hanno perso il loro potere euforizzante, così irresistibilmente trendy. Quella scioglievolezza che normalmente le si iniziava a generare in bocca varcando le porte d’ingresso, ora le provoca terrore. E più entra all’interno più si sente morire, tanto il consueto piacere ha lasciato il posto a un disagio sempre più invadente. 

Persa la dipendenza all’istinto compulsivo ad acquistare, tagliata fuori dallo spazio incantato del Primark, in quale altro modo sarebbe stata al mondo ?

In realtà, al di là dei confini del tempio del consumismo, lei farà esperienza di una nuova speciale sensazione: quella della mancanza, unica porta d’ingresso ad un autentico desiderare. Non a caso i genitori del dio Eros – ci racconta Platone ne “Il Simposio” – erano Penia (che significa “mancanza”) e Soros (“la via”). La via della mancanza genera eros: il desiderio.

Ed è qualcosa di diverso dall’istinto meccanico a fare qualcosa che fanno tutti per essere accettati e inclusi in quel particolare modo di vivere. Che non è l’unico. 

Ecco allora che con ironica sapienza la protagonista ci racconta di aver scoperto di tornare ad avvertire una mancanza, un senso di vuoto, che inaspettatamente la rende incline a prestare attenzione anche alle piccole cose. Incluse quelle che nel modo di vivere precedente andavano a finire nel cassonetto, solo perché così aveva senso per il sistema economico: continuare incessantemente a produrre per poi indurre il consumatore a continuare a comprare ancora cose, perché sempre “più nuove”.

Uno spettacolo che sa far uso dei toni più scoppiettanti e provocatori per veicolare l’urgenza di riscoprire nuovi modi di vivere, diversi rispetto a quello in cui si siamo impantanati.

Assaporando la fertile tensione delle spinte di cui si compone la nostra possibilità di essere liberi: la spinta a lasciarci guidare e l’ebrezza a dare noi una direzione al nostro sentire. Perchè assecondarne solo una, rischia di essere troppo limitante, fino a diventare distruttiva.

Dafne Rubini (regista) e Martina Gatto (interprete)


Recensione di Sonia Remoli

Il Caso Tandoy

TEATRO QUIRINO, dall’11 al 16 Ottobre 2022 –

Nell’elegante e raffinato spazio del Teatro Quirino, ieri sera il sipario si è aperto per presentare al pubblico, attento ed esigente, una rievocazione meta teatrale del “caso Tandoy”, errore giudiziario degli anni ’60, tra i più macroscopici. Lo spettacolo è scritto e diretto da una delle più prestigiose firme della televisione italiana, Michele Guardì, che qui lasciandosi guidare da un afflato pirandelliano riesce a dare vita ad una commedia “civile” capace di suscitare nello spettatore sia quel fastidio che si declina fino alla rabbia più accesa, che inaspettati momenti di comica leggerezza.

Michele Guardì

Desiderio degli “autori”, l’uno demiurgo “dello” spettacolo (Guardì) e l’altro protagonista meta teatrale “nello” spettacolo (Gianluca Guidi) è quello di regalare una nuova e finalmente autentica immagine dei protagonisti coinvolti nella vicenda, “violentati” dagli errori della giustizia e dall’accanimento dei giornali di gossip. In risposta alla “perversione” con cui è stato condotto a suo tempo il caso di cronaca, sulla scena domina una recitazione “spudoratamente” frontale. I flashback storici sono affidati ad un sipario nel sipario, quasi campi lunghi dalla suggestione cinematografica.

Stilosa ed efficace la scenografia del rinomato Carlo De Marino che sagacemente, nel costruire quasi tutto il mobilio della scena con cataste di quotidiani (dalle cassettiere, agli armadi, fino all’appendiabiti), fa del mezzo di comunicazione del quotidiano l’unità di misura dell’ “analisi” che fu fatta, a suo tempo, del caso Tandoy. Mattatori della scena sono Gianluca Guidi (l’autore sul palco) e Giuseppe Manfridi (il procuratore incaricato delle indagini). Geniale, la scelta di affidare alla straordinaria peculiarità di questi due interpreti la conduzione delle fila della narrazione, che s’inebria del compenetrarsi dello stile melodioso di Gianluca Guidi alla metrica cantilenante e poi ossessiva fino al parossismo di Giuseppe Manfridi.

Gianluca Guidi – Giuseppe Manfridi

Carismatica la loro presenza scenica: fertilmente accogliente quella di Gianluca Guidi, autore che sollecitato dalla “fantasia” sente il bisogno “civile” di scrivere una commedia che restituisca autenticità alle persone coinvolte nel caso; efficacemente ostinata ed ottusa la presenza scenica del procuratore incaricato delle indagini Giuseppe Manfridi, bloccato sulla pista passionale, “fondata” sul continuo fiorire di lettere anonime e altri improbabili indizi. Atteggiamento maliziosamente condensato nel “corruscante” intercalare “cherchez la femme”. Insomma un binomio attoriale davvero ferace; integrato, con diverso entusiasmo, da un cast composto da: Noemi Esposito, Marcella Lattuca, Marco Landola, Antonio Rampino. Con la partecipazione di Gaetano Aronica, con Caterina Milicchio e con Roberto M. Iannone (nel ruolo di Tandoy).

Uno spettacolo che è un prezioso esempio di teatro civile, perché il Teatro anche questo è e deve essere: l’incontro e il confronto con gli avvenimenti che attraversano la nostra società e che non devono essere dimenticati. Né abbandonati a spiegazioni superficiali e tendenziose. Come avvenne per il “caso Tandoy”, presentato nella prima nota giornalistica come “un duplice omicidio che non trova precedenti negli annali della cronaca”. Ma non era vero. Nel 1960 altri due episodi resero Agrigento protagonista di eventi sconcertanti: il “convegno internazionale” promosso da un gruppo di intellettuali ( tra cui Jean-Paul Sartre, Leonardo Sciascia e Giorgio Napolitano) sulle condizioni igieniche da Terzo Mondo di Palma di Montechiaro e la dichiarazione di Indro Montanelli a “Le Figaro” sul gravoso obbligo “di accordare ai Siciliani la qualità di italiani”. Questo lo scenario in cui avvenne l’uccisione del Commissario Cataldo Tandoy: tra Terzo Mondo e sicilianità offesa. E questo spettacolo è un invito a ricordare e ad approfondire. Sempre.