Recensione dello spettacolo LA VEGETARIANA – regia Daria Deflorian –

TEATRO VASCELLO, dal 29 Ottobre al 3 Novembre 2024 –

La fine regia della Deflorian – già dal prendere posto in sala – ci invita ad entrare in confidenza con un insolito spazio.

Una scena che è anche un luogo della mente: uno spazio del teatro dell’inconscio, dove non trovano ospitalità i principi della logica. 

Uno spazio vuoto: necessario per potersi riempire di tutto. 

Uno spazio senza sostegni – senza mobilio – senza legami, senza nette identità. Così, ogni cosa è libera di poter essere anche altro.

Uno spazio “sporco”, “imbrattato”: uno spazio che si lascia vivere, che si apre alle contaminazioni.  Dove bene e male possono essere limitrofi.

Uno spazio totalmente libero. E quindi anche inquietante.

Gabriele Portoghese (il marito) e Monica Piseddu (Yeong-hye la vegetariana)

Fin dalle prime battute prende corpo uno dei temi portanti della regia, così come dell’omonimo testo di Han Kang (Premio Nobel per la Letteratura 2024): la nostra incredibile difficoltà ad entrare in relazione con l’altro. Autenticamente: senza farne qualcosa di “confortevole”. Piuttosto provando a rendersi disponibili ad apprezzarne la sua irriducibile differenza da noi.

Quella “eccezionalità”, quella “straordinarietà”, che tanto ci affascinano ma che risultano così difficili da gestire quando proviamo a farle entrare in relazione con le nostre fragilità. Diversità così difficili da tollerare, perché occasioni di ricerca di nuovi equilibri. E quindi di necessarie crisi.

Monica Piseddu è Yeong-hye (la vegetariana)

Conseguentemente ad un trauma, la protagonista crede di poter risolvere l’inquietudine che il trauma le ha provocato smettendo di cibarsi di carne. 

Una decisione fuori dall’ordinario, ricca di quell’eccezionalità che dicevamo essere così difficile da accogliere nella nostra presunta normalità. E infatti i suoi familiari non riescono ad entrare in relazione con questo atteggiamento così estraneo alla logica razionale. Ma prossimo alla logica enigmatica del linguaggio onirico.

Familiari che in questo contesto onirico rappresentano le diverse tensioni che abitano il nostro condominio psichico.  In questo senso, quindi, tutta la messa in scena è la rappresentazione di un forte dissidio interiore.

Daria Deflorian (la sorella), Gabriele Portoghese (il marito), Monica Piseddu (la vegetariana)

Smettere di mangiare carne diventa qui un sintomo legato ad un forte disagio con la tattilità, anche ferina, che ci abita. Un disgusto per il nostro odore carnale, sensuale, tendente alla sopraffazione. Una nausea per quella totale libertà della carne che in noi umani non si dà in maniera lineare – e quindi istintiva come negli animali – ma può assumere la forma di infinite per-versioni.

Paolo Musio (il cognato), Monica Piseddu (la vegetariana)

Lo spettacolo ci porta a riflettere, quindi, anche su che cosa significhi davvero per noi essere liberi: su come può diventare talmente inebriante da provocarci angoscia. La libertà è qualcosa che eccede la nostra finitudine. E per questa difficoltà ad entrarci in relazione siamo tentati a rinunciavi. 

Ed è un po’ quello che avviene alla protagonista, che in un continuo crescendo angoscioso arriva a provare disagio anche per la linearità dell’istinto. Preferendo ad esso la quiete rassicurante del “vegetare”, del vivere senza l’impellenza della tensione a desiderare. 

Paolo Musio (il cognato), Daria Deflorian (la sorella)

Uno spettacolo che necessariamente provoca un’azione di “disturbo” nell’attenzione e nel coinvolgimento dello spettatore, che viene solleticato proprio su quelle corde che generalmente preferiamo non vengano “pizzicate”: quelle che, avvicinandoci allo stra-ordinario, sono motivo di fertili disagi. Piccole-grandi crisi, propedeutiche alla conquista di nuovi equilibri esistenziali.

E il Teatro anche questo deve saper fare e poter fare.

Di sublime bellezza – anche iconografica – il quadro finale raffigurante una sorta di deposizione dalla croce, priva di verticalità e di frontalità diretta. Una meravigliosa sintesi. Graffiante.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PROCESSO GALILEO – di Angela Dematté e Fabrizio Sinisi – regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici

TEATRO VASCELLO, dal 19 al 27 Gennaio 2024 –

Quanti racconti si possono fare intorno ad un argomento ? C’è davvero qualcosa di certo e sicuro a cui possiamo ancorare i nostri racconti – sospesi nello sforzo di comunicare – e annodarli come corde a un mantegno ?

Quanto bisogno abbiamo noi esseri umani di sentirci al sicuro, confinando idee e nozioni in leggi e costruendoci intorno scienze?

Ruota al centro di questi “massimi sistemi” il “dialogo” proposto dallo spettacolo “Processo Galileo”, interessante esempio di sperimentazione teatrale. E’ infatti la risultante di un lavoro fertilmente sinergico che vede registi Andrea De Rosa e Carmelo Rifici; autori Angela Demattè e Fabrizio Sinisi, dramaturg Simona Gonella; attori di grande esperienza Milvia Marigliano e Luca Lazzareschi; giovani e talentuosi attori Chaterine Bertoni De Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi e Isacco Venturini. E poi raffinati artigiani quali: Daniele Spanò per le scene, Margherita Baldoni per i costumi, Pasquale Mari per le luci e GUP Alcaro per il progetto sonoro.

Uno degli oggetti d’indagine di questo lavoro accende l’attenzione sul nostro modo di reagire di fronte ad un trauma: a quel tipo di evento inaspettato nei confronti del quale ci troviamo senza i mezzi adeguati per affrontarlo. Traumatico sulla Chiesa fu l’effetto della rottura dei cieli aristotelici da parte delle teorie galileiane ma traumatico fu anche l’effetto provocato, sulla giovane divulgatrice scientifica in scena, dal lutto per la perdita della madre. E qualcosa di simile abbiamo vissuto noi tutti in occasione della pandemia da Covid 19.

Nello specifico, idee che andranno a dare forma a questa corale sperimentazione furono alimentate negli autori proprio dal trauma provocato dall’estremo smarrimento in cui ci gettarono i periodi di quarantena.

La stessa scienza medica subì “ una rottura del proprio cielo” ma, diversamente da quello che accadde a Galileo, non le fu ingiunto di uscire di scena. Tutt’altro: si é rimasti in balia delle varie teorie sostenute dai virologi, in attesa di conferma.

In che cosa consiste allora davvero “un processo” – ovvero un progredire – per noi esseri umani ? Raggiungere nuove scoperte basterà a farci sentire al sicuro ? E se sì, per quanto tempo ?

Quanto incide, nell’ontologia del concetto di scienza, il desiderio – sano e ingannevole – dell’uomo ad avanzare faustianamente nel sapere? Si possono arginare le derive narcisistiche del desiderio di sapere ?

A questo riguardo lo spettacolo mette in scena un acuto dialogo tra la tensione quasi ossessiva ad avanzare nel sapere e la più consapevole tensione contadina ad inserirsi all’interno dei ritmi e dei traumi (ad es.metereogici) della terra.

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Devi sapere che il verme

non dice niente alla terra su cui striscia

e la nuvola ignora

di essere la madre della pioggia.

Dovremmo congedarci subito

dalle nostre futili arroganze.

Siamo tutti povere ignoranze.

(da Canti della gratitudine, Franco Arminio)

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Ma allora, desiderare ci rende liberi o ci spinge verso un “cattivo infinito” ? Un infinito cioè molto vicino al subdolo desiderare proprio dell’ imperativo capitalista al “sempre nuovo”, che in verità – lungi dall’essere libero – è manipolato da un dictat egemonico? 

Tra conservatorismo e scientismo il dialogo può essere integrato con il recupero della sacralità del sapere ancestrale legato alla terra.

La componente razionale non è la sola a costituirci: anche quella irrazionale va ascoltata e nutrita. È la disperata consapevolezza a cui giunge la divulgatrice scientifica in scena, che di fronte al trauma della morte della propria madre si scopre indifesa. Tradita e abbandonata dai suoi riferimenti iper razionalistici.

La scena si offre nella forma di un’enigmatica istallazione razionalistico-visionaria che lascia lo spettatore libero di immaginare più habitat: ad esempio una porzione del globo terrestre in cui le terre emerse si avvicendano alle acque. Oppure lo stare al mondo in uno spazio iper controllato, iper confinato e saldamente ancorato ad un perimetro di mantegni. O ancora una sorta di serra di orti dove si coltivano prodotti agricoli grazie alla complicità dell’ illuminazione artificiale e della bellezza matematica della musica di J. S. Bach. Uno spazio che pare abbia rinunciato alla fertile magia del mistero.

Resta la poesia di una candela dal sapore macbettiano, a memento mori.

Intriganti le scelte prossemiche che regalano magnifici effetti cinematografici ed iconografici. Complici le scelte di Margherita Baldoni, relative ai costumi: efficacissimi anche cromaticamente.

Potentissima l’interpretazione di Galileo Galilei fatta propria da Luca Lazzareschi : il corpo della sua voce si declina tra la veemente inquietudine dello scienziato e la tenue vocazione al rispetto della legge propria di un padre. 

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Tremendamente passionale, austera e solenne ma anche provocatoriamente comica Milva Marigliano nella sua doppia partitura di personificazione del Sant’Uffizio e di madre di Angela.

Dalla grazia tenace di madonna quattrocentesca, l’interpretazione di Roberta Ricciardi in qualità di figlia di Galileo. 

Intimamente raffinata e spudoratamente sensibile il personaggio di Angela, la divulgatrice scientifica interpretato da Chaterine Bertoni De Laet.

Interessanti ed efficaci anche gli interpreti Giovanni Drago, allievo di Galileo e Alberto Venturini , Alberto il figlio di Angela.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali

Un intreccio di trame narrative, fluttuanti tra storia e visionarietá, coinvolgono il microcosmo di ciascuno spettatore. E’ un invito a non dimenticare. Ma soprattutto a non smettere mai di avere uno sguardo critico su ciò che ci accade.

Ad avere cioè un nostro racconto da legare e da mettere a cimento con quello di altri. Anche perchè se qualcosa ci è rimasto dentro del periodo della pandemia è che nessuno di noi si salva da solo.

E questa polifonica rappresentazione ne è uno splendido esempio.

PROCESSO GALILEO foto © Masiar Pasquali