Recensione dello spettacolo INTERNO ABBADO – scritto e diretto da Andrea Baracco –

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 5 all’ 8 Dicembre 2024

Desiderare epidermicamente aderire. 

Fino a fondersi.

Un desiderio erotico? 

Una possibile definizione di amore?

Un peccare nel desiderare tanto l’altro?

Sicuramente qualcosa che ci racconta visceralmente del nostro essere misteriosamente umani. Qualcosa che ha l’irresistibile afrore dell’arcaico sopraffare. Ma anche qualcosa della simbiotica tensione alla completezza, propria di una dimensione mitica. Quell’unità platonica che rendeva gli uomini simili a dei. 

Ma quanto, di divino, noi umani siamo capaci a esprimere, a godere, a tollerare?

Quanto il nostro corpo finito riesce ad arginare quella scintilla divina, che tutti ci abita?

Qual è il nostro desiderio più profondo, più viscerale, più erotico ?

Quello di essere guardati, forse.

Perché essere guardati, con continua curiosità, ci fa esistere.

Perché guardare è intrigante non meno dell’essere guardati.

Perché ciò che davvero appaga costantemente la nostra folle scintilla divina, costretta a bruciare dentro i confini di un corpo, è il cimentarsi nell’apprendere l’arte di intessere una partitura di vuoti e di pieni epidermici. E’ l’arte di entrare in relazione con l’altro.

Andrea Baracco

Anche di questo ci parla la bellezza spietata di “Interno Abbado”, un testo di Andrea Baracco sul mistero di essere umani.  Un testo che, oltre ad essere cucito sartorialmente come un noir, ci parla hegelianamente di come non ci sia niente di più profondo di quello che appare in superficie.

La cute in superficie e l’Io in profondità raccontano la stessa storia di assorbimento e di termoregolazione.  

La cute in superficie e l’Io in profondità rappresentano un complesso àmbito di separazione-unione-comunicazione: con se stessi e con il resto del mondo.

La cute in superficie e l’Io in profondità rivelano i segreti l’una dell’altro: quei segreti sprofondati nel nostro inconscio, spesso propri del vissuto di un organismo, che soffre da così tanto tempo da non poterlo più nascondere. 

Baracco cura callidamente anche la regia dello spettacolo e individua in Giandomenico Cupaiuolo l’interprete capace di incarnare e, a qualche livello, sublimare “la summa” delle esistenze interne ed esterne, che abitano questo racconto. Così come il nostro essere gettati al mondo.

Giandomenico Cupaiuolo

Il regista con elegante e tagliente acutezza si avvale poi di un’estensione fisica e metafisica alla “summa” delle esistenze del racconto: il suono di un particolare strumento musicale e la presenza scenica del suo interprete Edoardo Petretti.

Edoardo Petretti

Uno strumento musicale, la fisarmonica, che accende e infiamma l’anima. Ma che da sempre è considerato un pò troppo “pop” e quindi scarsamente preso in considerazione dai compositori classici (fatta eccezione per Čajkovskij , Verdi e pochi altri). 

 In verità, la fisarmonica è “uno strumento-orchestra” pieno di imprevedibili possibilità. Perfetto, anzi speciale, per questo testo di Baracco che è, tra le altre mille cose, anche un racconto sull’imprevedibilità umana. 

Imprevedibilità resa con sapiente follia da un Giandomenico Cupaiuolo che si fa lui stesso “strumento musicale”. Il suo apparato respiratorio, quasi come un mantice, cerca e trova un respiro che riesce a far vibrare la scala delle “voci” delle sue esistenze. 

Un respiro che si origina da una sorta di gocciolio: un suono indecifrabile, arcaico, magicamente animalesco ma non lontano da uno schioccare di lingua umano. E che poi si sviluppa attraverso la ricerca di una contrazione e di una apertura estensiva, necessari ad estrarre il potenziale sonoro dalle voci esistenziali che abitano “la summa” dei suoi personaggi.  Ne parlano visivamente le sue spalle: “mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste…” per dirlo alla G. G.Marquez.

L’ampiezza di registro e di voci utilizzabili, unita ad una grande duttilità nelle dinamiche, nei modi di attacco e di articolazione del suono, fanno delle sue spalle un fulcro di sublime espressività timbrica e ritmica.

L’estro registico di Andrea Baracco è tale da rendere “strumento musicale” un corpo umano e “corpo umano” uno strumento musicale. Lo spettatore ne riceve in dono un incredibile senso di avventura, riccamente denso del brivido della scoperta.

Che cosa sappiamo in fondo di noi?

Siamo più o meno consapevoli di impiegare spesso tutta una vita a tenere a bada certi nostri inquieti slanci “interni”, attraverso “rassicuranti” rituali tra il sacro e il profano (come argutamente suggerisce la messa in scena del regista Baracco). Ma il lavoro di contenimento di una vita può rompere gli argini senza preavviso. E rivelare racconti stupefacenti di noi stessi. 

Quel “the dark side of the moon” che può manifestarsi epifanicamente, ad esempio, quando quel certo nostro amore scompare come spuma tra le onde. E, di quello che è stato, non resta nulla nell’aria a ricordarci che siamo amabili perché siamo stati amati.

Quel “the dark side of the moon” che denuda un “interno”, fisico e psichico, imprevedibile. Sguardi e attenzioni, mancati o subiti, che qui ci si illude follemente di recuperare attraverso i mille occhi della pelle dell’altro.

“Mentre la luna di lassù sta a guardare”.



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Dopo essere stata il 31 ottobre u.s. alla seconda delle 10 serate “Omaggio a Glauco Mauri”, nate dal desiderio di Andrea Baracco – direttore della Compagnia Mauri Sturno – di celebrare il ricordo del caro Maestro a un mese dalla sua morte, ho sentito l’esigenza di tornare ieri sera, alla settima serata. 

L’interprete del “De Profundis” di Oscar Wilde – ultimo lavoro a cui si appassionò il Maestro Mauri – ieri sera era lei: Federica Fracassi, un’attrice che non si dimentica, una donna dalla bellezza botticelliana. 

Federica Fracassi

Ma lei, come per incanto, per riuscire a farsi vivere da questa occasione, oscura ogni femminile seduzione, dandosi nel suo più fulgente maschile. Trattiene il suo corpo, incluse le mani. E se qualche ciocca si ribella uscendo sul viso, la riordina senza alcuna malizia femminile.

Si concede una densa dolcezza fatta di pause e di sguardi ricchi in compassione. Quasi sorpresi. La voce è bella: senza essere femmina, senza essere virile. E’ pulita, depurata. Buca l’attenzione. 

Di femminile resta in lei quell’innata inclinazione all’entrare in relazione con l’altro.Ed è proprio questa predisposizione alla relazione a caratterizzare la sua traduzione interpretativa dello Wilde del “De Profundis”. 

Oscar Wilde

In questo senso va letta la dolcezza con la quale si rapporta alla metabolizzazione degli errori del suo Bosie – passati in rassegna anche qui, nella lettera a lui indirizzata, oltre che nella sua mente. Un dolore nel ricordarli che può tradursi in compassione, solo dopo aver capito e sentito che negli errori di Bosie si specchia anche una parte di se stesso, a lui prima ignota. 

E se la sua autorealizzazione – che Wilde raggiunge grazie ad un’elaborazione introspettiva fornita proprio dall’occasione del carcere – si dà ora in quella compassionevole gratitudine che gli permette di dire – con la straziante, complice dolcezza della Fracassi: “Stavo bene quando eri via”; nella rievocazione della cronaca dei fatti fin nelle minuzie, invece, la Fracassi rintraccia e restituisce una particolare volontà a rifuggire la tentazione all’indugio. Un affascinante contrasto del ritmo del sentire, davvero umanissimo. 

Così come, a volte, l’espressività della Fracassi sembra  farsi “coltello”, per continuare – ancora nel racconto – a disegnare più precisamente alcuni suoi errori. Fino quasi a tatuarne un segno, una traccia indelebile.

Si fanno, invece, sussuro d’indulgente vergogna i momenti di confessione per aver trascurato l’inclinazione artistica a favore del rapimento amoroso. Ma sbagliando – o facendo solo il bene dell’altro – e quindi provando ed elaborando la sofferenza che ne deriva, si diventa coscienti di se stessi. Una sorta di cogito, questo di Wilde: “soffro dunque sono”.

E forse è così. C’è qualcosa di speciale che si attiva anche nello spettatore, nel partecipare alla rievocazione dell’esperienza esistenziale dell’ultimo Wilde. 

Andrea Baracco

Complice la progettualità di Andrea Baracco, che ha individuato questa modalità di rituale che di sera in sera, d’interprete in interprete, riesce a restituire quella “sinfonia del dolore” che Wilde mirabilmente compone, anche tra le lacrime. 

Quelle che continuano a farci commuovere – trattenute in un tremore all’apertura della lettera e poi sciolte per un attimo nel congedo – nell’indimenticabile interpretazione di Glauco Mauri.

Avvenuta  epifanicamente per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e rievocata ogni sera in questo straordinario rituale.

Mimmo Benassi e Glauco Mauri

Recensione dello spettacolo OMAGGIO A GLAUCO MAURI – Lettura del “De Profundis” di Oscar Wilde – progetto a cura di Andrea Baracco –

INTERPRETE della serata di Giovedì 31 Ottobre 2024: GABRIELE GASCO

TEATRO TORDINONA, dal 30 Ottobre al 9 Novembre 2024

Lì dove dal XV secolo avevano sede le principali prigioni di Roma (e dove vennero reclusi – tra gli altri – Benvenuto Cellini, Giordano Bruno e lo stesso Caravaggio); lì dove nel 1670 le carceri lasciarono il posto al Teatro Tordinona; ebbene proprio questo luogo così potentemente simbolico Andrea Baracco, direttore della Compagnia Mauri Sturno, ha scelto per accogliere l’essenza del testo del “De Profundis”: la lettera che Oscar Wilde scrisse in tre mesi – nel secondo anno di prigionia – non appena gli diedero la possibilità di avere in cella carta e inchiostro.

Una lettera che custodisce la testimonianza di una straordinaria evoluzione esistenziale: quella che Oscar Wilde realizzò grazie alla sua capacità di accogliere il dolore, quale preziosa opportunità per una fertile trasformazione vitale. Quel dolore che lo pervase all’indomani della condanna a due anni di lavori forzati e dal quale sarebbe stato annientato se non fosse scattata – proprio nel momento di massima umiliazione – la consapevolezza del potere insito nel nostro essere gettati al mondo nella sofferenza. 

Glauco Mauri al Teatro Rossini di Pesaro

Un passaggio esistenziale di cui si è reso interprete il caro Maestro Glauco Mauri: per una sera al Teatro Rossini di Pesaro e – per almeno altre 10 sere qui – ancora con noi – al Teatro Tordinona. Luogo eletto da Andrea Baracco per celebrare il rito del ricordo del Maestro, a un mese dalla sua morte. 

Un omaggio all’indimenticabile attore e al meraviglioso uomo di teatro che fece della sua arte la sua vita e della sua vita la sua arte. Una profonda riconoscenza che qui assume la forma di una rievocazione, proprio di quelle che sono state le sue ultime parole pronunciate in teatro. 

Una rievocazione che si ripete per 10 sere ma con sempre nuove “variazioni interpretative” (quelle di attori diversi ogni sera) del testo del “De Profundis”. Testo del quale Glauco Mauri suggella qui – in una perfetta e quindi infinità circolarità – l’alpha e l’omega. Un Mauri profondamente commosso e di una fulgente dignità tale da far vibrare le corde più intime dello spettatore. 

Gabriele Gasco

Una dignità di cui l’interprete ieri sera in scena si è fatto splendido erede. Gabriele Gasco ha 27 anni e quando varca la scena buia lo fa con quella capacità speciale del mantenersi sul confine tra il mondo della fisica e quello della metafisica.

Indossa qualcosa di simile a una divisa da carcere ma non appena alza lo sguardo capisci che in verità è profondamente libero. Di quella libertà di cui si possono fregiare solo coloro, che come Oscar Wilde, hanno saputo usare il buio per fare luce dentro se stessi. Fino a riuscire a trasformare il veleno della vendetta e del rancore nell’elisir della gratitudine.

Il Wilde di Gasco conserva tracce della postura da dandy. Ma il corpo – abito della sua rinnovata anima – non “posa”: “è”. L’indiscutibile stile che modella i suoi gesti è il risultato dell’autentica consapevolezza di cui si dispone dopo essere stato costretto a una “remise en forme” esistenziale.

Oscar Wilde

Ora sa dove e perché ha sbagliato e come mai si è ritrovato a scontare questo tipo di sofferenza. Toccato il fondo più abissale dell’umiliazione, ha scoperto che proprio da lì può sprigionarsi un’energia che dà un senso alla sofferenza per cui siamo stati creati. E’ un ‘energia che per alcuni istanti la regia di Baracco materializza in un abbraccio musicale al suo Wilde più in difficoltà: un abbraccio intimo, lieve, magico.

Un Wilde il suo che, con quel suo stare che rompe il piano della frontalità e con quel suo protendersi costante e lieve indietro per poi slanciarsi pungente in avanti, rende il proprio corpo disponibile come un arco, dal quale vengono scagliate frecce di audace saggezza. Verso il suo amore: sì, nonostante tutto – nonostante i tradimenti, gli atteggiamenti da subdolo narcisista manipolatore e l’indifferente silenzio durante questi due anni di carcere – lui resta il suo amato Bosie. 

Andrea Baracco

Amato ora in maniera differente – dopo aver passato in rassegna tutta la tossicità dei suoi atteggiamenti – ma comunque amato. Perché l’amore può essere più forte dell’odio ma soprattutto perché l’amore è infinitamente generativo. Siamo fatti per soffrire – ci confida Wilde – e per amare. Poco importa l’essere ricambiati: “amare ci permette di rimanere fedeli al nostro desiderio” direbbe Massimo Recalcati. Questa è la potente forza vitale di cui siamo dotati, noi nati per soffrire. 

Il suo raccontare è fascinosamente irregolare. Ma costante. Uno stile sul confine tra disponibilità e seduzione; tra musicalità e assedio. Un ritmo che apre e chiude, continuamente, i confini del racconto. Un Wilde, quello di Gasco, fiero di tutto quello che gli è accaduto, perché tutto quello che gli è accaduto è servito a condurlo a questo tipo di consapevole libertà.

Gabriele Gasco

Una fierezza che si coniuga con la disponibilità all’ascolto e alla tolleranza, propria di quel suo inclinare il capo. Come Cristo sulla croce: perché “Cristo è il precursore romantico dell’artista”: “un contadino di Galilea che tiene sulle sue spalle il male di tutti” per trasformarlo, grazie alla bellezza del proprio dolore. 

Un dolore che non chiude, ma che anzi può aprire a nuovi inizi. “Un giorno dovrai vergognarti di te stesso … – dice Wilde al suo amato – per questo ti ho scritto così a lungo: per farti capire cosa sei stato tu per me”. Prima e durante questa occasione di sofferenza “terapeutica” in carcere.

Ora – prosegue Wilde – “vengo ad insegnarti il significato e la bellezza del dolore”.

Non è facile da spiegare. Ma qualcosa di “sacro” avviene durante la conclusione di questo intimo rituale.

Glauco Mauri


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INTERPRETE della serata di Mercoledì 6 Novembre 2024: FEDERICA FRACASSI

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo INTERNO BERNHARD: Il riformatore del mondo e Minetti, ritratto di un artista da vecchio – regia di Andrea Baracco –

TEATRO ARGENTINA, dal 17 al 29 Gennaio 2023 –


Interno Bernhard

IL RIFORMATORE DEL MONDO
MINETTI Ritratto di un artista da vecchio

Di Thomas Bernhard


Con GLAUCO MAURI, ROBERTO STURNO
E con: FEDERICO BRUGNONE, STEFANIA MICHELI, ZOE ZOLFERINO, GIULIANO BRUZZESE


Regia Andrea Baracco
Musiche Giacomo Vezzani , Vanja Sturno
Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta
Luci Umile Vainieri 
Foto di scena Manuela Giusto
Produzione Compagnia Mauri-Sturno


Il poliedrico regista Andrea Baracco, sempre così interessato all’umanità che si nasconde dentro quei personaggi che sembrano meno predisposti ad accoglierla, è il curatore di questo interessantissimo progetto della Compagnia Mauri-Sturno “Interno Bernhard. Qui, lo spettatore, pur rischiando di essere fagocitato da insoliti esempi di umanità, coglie l’occasione di entrare a conoscere i loro “ambienti vitali”.

Andrea Baracco, il regista dello spettacolo “Interno Bernhard”

Nel primo dei due testi di Thomas Bernhard, immenso e irrinunciabile autore del Novecento non solo tedesco, ci troviamo al cospetto di un duplice paradosso umano: un intellettuale sceglie di ricevere in casa propria, rinunciando al plauso ufficiale, coloro che lo insigniranno della laurea honoris causa per aver scritto un Trattato su come poter salvare il mondo: eliminandone l’umanità.

Roberto Sturno e Stefania Micheli in una scena di “Interno Bernhard”

L’autore del Trattato (un efficacissimo Roberto Sturno), pur consapevole che l’insigne premio gli verrà conferito da chi in realtà non ha letto l’opera o non l’ha compresa (vista la paradossale soluzione proposta e teorizzata in essa) non rinuncia al piacere, e quindi a quella parvenza di calore, comunque insito nell’attesa di un’insolita cerimonia privata.

Per poi trasformarla in una pubblica denuncia della perdita di confidenza degli umani con gli elementi della natura. Nessuno “vive”: ci si limita a trovare bello “esistere”. Tirare avanti. Per questa tragicomica consapevolezza, “il riformatore” preferisce isolarsi nel suo microcosmo mentale, oltre che fisico: un asfittico e opprimente ambiente plumbeo, quasi una cappellina cimiteriale sul cui trono/sepolcro campeggia un uomo vivo e morto, profondamente sensibile e solitario. Dove non è più tollerata aria “nuova” ed è ritenuto avvilente dover sprecare di prima mattina la parola “fuori”.

Qui, anche il tempo sembra aver trovato una misurazione autonoma: sono scritte parietali dove lo spostarsi di un raggio di luce fa da lancetta digitale. “Il riformatore” del caos non vive-sepolto in solitaria: viene accudito da una donna, con la quale è in continua opposizione: quasi un’urgenza per poter accendere una qualche scintilla vitale. Per fare entrare calore: oltre che con i soliti pediluvi.

Perché tutto gli rovina lo stomaco: la cucina, la filosofia e la politica. È un’ossessione di assoluto quella che sovrasta l’ineluttabile imperfezione dell’esistenza, per Thomas Bernhard. E che tramuta la commedia in tragedia. E viceversa. Non resta, quindi, che concepire la vita come un acrobatico esercizio di resistenza artistica.  

Roberto Sturno e Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”

Suonando “all’interno Minetti””, lo spettatore viene apparentemente accolto nella apparentemente calda hall di un hotel. Dove, Minetti (un trascendentale Glauco Mauri), ormai attore vecchio e disincantato, arriva in un 31 dicembre. Da trent’anni viaggia per teatri con la sua inseparabile valigia, dove custodisce la maschera di Re Lear. Anche nella hall di questo hotel, Minetti si confronterà con due giovani donne che ricordano in qualche modo le due figlie di Re Lear.

Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”

Ma in verità la hall è (anche) il foyer di un teatro dove Minetti attende di essere convocato, anche questa sera del 31, per andare in scena con il suo personaggio. Il direttore del teatro non arriverà ma l’occasione dell’attesa sarà colmata da un racconto ammaliato e ammaliante sull’arte dell’attore. Una sorta di insolita lectio magistralis, dove “l’interno” fisico lascia penetrare quello mentale in un gioco di scambi, dove i personaggi del teatro osmoticamente passano nel foyer/hall e gli ospiti dell’hotel penetrano sul palco. Perché questa è l’arte di vivere: un’arte mai disgiunta dalla paura. Dove si va sempre cauti nella direzione opposta alla meta.

“Siamo venuti per niente, perché per niente si va -direbbe De Gregori- e il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è, che ricorda il colore di certe lenzuola di certi hotel”. Lo spettatore pretende di essere divertito e l’attore è tentato di assecondarlo. E invece no: va turbato. L’attore è inquietudine. L’attore deve terrificare.

Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”

E intanto il direttore del teatro non arriva. Ma “più aspetti, più diventi bello” – dice Minetti. Qualcosa accadrà. Qualcosa di terrificante ma indubbiamente necessario. Che collega spettacolarmente e narrativamente le due facce (“Il riformatore del mondo” e “Minetti”) dello stesso “interno”.

Andrea Baracco, Glauco Mauri e Roberto Sturno

“Il direttore del teatro” arriverà: agli applausi. Lunghissimi. E, così come gli attori, sembra dirci: “Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa. La mia faccia nei vostri occhi…”.

Il meraviglioso cast di “Interno Bernhard”


Recensione di Sonia Remoli